EUGENIO BARBA FABRIZIO FERRARO THE CLONE WARS PALESTRA POPOLARE SAN LORENZO TRUFFE ROCK WOODY GUTHRIE, SCRITTORE INEDITO MUTAZ ELEMAM MUSICA » ARTI » OZIO
SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO»
SABATO 16 FEBBRAIO 2013 ANNO 16 N. 7
PITTORE, PARTIGIANO, MILITANTE DELL’ARTE REALISTA, ARMANDO PIZZINATO NELLE SUE OPERE RACCONTA LA TERRA DEL LAVORO, LA SUA GENTE E INDICA L’ARTE COME BISOGNO DI LIBERTÀ
UN FANTASMA PERCORRE L’EUROPA Armando Pizzinato, «Un fantasma percorre l’Europa» (1949)
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NORD EST
PORDENONE TERRA DI LAVORO
PIZZINATO
di LUCIANO DEL SETTE
●●●La Terra di Lavoro è a qualche centinaio di chilometri, più giù. Porzione geografica un tempo della Campania soltanto, adesso spartita con Lazio e Molise. Ma, togliendo alle due parole le iniziali maiuscole, salendo qualche centinaio di chilometri più su, fino al Nord Est, si incontra un’altra terra di lavoro. È un fazzoletto di Friuli Venezia Giulia, ha la dimensione di una cittadina e dei suoi dintorni. Pordenone. Prima, molto prima, i campi, i boschi, le vigne soltanto. Poi i mulini, le cartiere, le fornaci per le ceramiche, i pastifici, le fabbriche di birra, i filatoi della seta, le officine meccaniche, i cotonifici, le industrie giganti di elettrodomestici. Scrivono Flavio Crippa e Ivo Mattozzi in Archeologia industriale di Pordenone (Del Bianco Editore) «... Nel raggio di due chilometri da piazza Cavour (la piazza centrale, ndr) si trovano nel territorio comunale di Pordenone le sopravvivenze, i resti o gli indizi (infrastrutture ed edifici) di un processo plurisecolare di consolidamento del rapporto tra uomini e ambienti, della sua evoluzione, delle attività manifatturiere o industriali intraprese e continuate lungo i secoli, dal XVI alla metà del secolo XX, prima della grande trasformazione ambientale degli anni ’60 e ’70». L’antica Portus Naonis, cinquantamila abitanti, legata indissolubilmente al suo fiume, il Noncello, comunica oggi una sensazione di tranquillità. Nulla a che vedere, però, con le dimensioni assonnate e inerti di tanti posti di provincia. Qui c’è un teatro, il Verdi, capace di ottocento posti e frequentato da compagnie di importanza nazionale; qui si danno il turno Pordenonelegge, il Silent Film Festival dedicato al cinema muto, il Pordenone Blues Festival; qui è nato il punk musicale dei Prozac+ e dei Tre Allegri Ragazzi Morti; qui ci sono un museo d’arte e una biblioteca multimediale. Qui, da sette secoli, si cammina sulla spina dorsale di Corso Vittorio Emanuele: linea dritta e leggero saliscendi in un continuo di antichi palazzi appoggiati su solidi portici. Furono costruiti dopo l’incendio del 1318 che distrusse le case in legno, e le loro facciate vennero dipinte ad affresco. Il Dominio della Serenissima, dalla metà del ’400, esaltò ulteriormente la bellezza della Urbs Pincta. Non la diresti terra di lavoro, Pordenone. Almeno a vederla e viverla così, da pigro viandante tra il Duomo, il Palazzo Comunale, Corso Garibaldi, i bar uno in fila all’altro, i negozi in franchising e quelli che vantano un passato. Ma se appena ti discosti, pochi minuti a piedi, eccola la terra del lavoro. O meglio, le sue memorie, dimenticate nel lento corrodersi di muri e macchinari. Testimonianze di archeologia industriale che, dopo l’abbandono, rischiano l’estinzione. Oppure, è il caso del setificio a vapore di Giuseppe Brunetta in largo San Giovanni, diventate citazioni da scovare in un archivio. Il setificio, attivo dal 1898 al primo dopoguerra, aveva la sua sede a breve distanza da via Grigoletti. Nel 1921, un bambino undicenne di nome Armando, cognome Pizzinato, guarda con stupore e curiosità il portone al numero 11 della via. Con lui ci sono la madre Andremonda, il padre Giovanni Battista e il fratello Dante. Arrivano da Maniago, 26 chilometri
In movimento con falce e pennello IN MOSTRA ●Armando Pizzinato (1910 – 2004) Nel segno dell’uomo Galleria di Arte Moderna e Contemporanea Armando Pizzinato fino al 9 giugno, ingresso 5 euro, chiusa lunedì. Informazioni e prenotazioni tel. 0434/523780
[email protected], artemodernapordenone.it ●Armando Pizzinato Il contesto pordenonese (1925 – 1940) Galleria Sagittaria del Centro Culturale Casa A. Zanussi fino al 9 giugno, ingresso gratuito, chiusa lunedì. Informazioni tel. 0434/365387, centroculturapordenone.it In pagina immagini di Pordenone, sotto un’opera di Pizzinato «Mondine» (1951)
di viaggio. Giovanni Battista, già titolare del Caffè dell’Unità Italiana, in piazza Maggiore a Maniago, vuole aprire un locale nel centro di Pordenone. La bella casa induce a un sogno di serenità, spezzato quasi subito. Ottobre è un mese che Armando ricorderà tutta la vita, a cominciare dal 7, giorno della sua nascita. In ottobre guarda, stupito e curioso, il portone di via Grigoletti. Il primo ottobre del 1922 il padre si suicida gettandosi nelle acque della Dogana, porto fluviale di Pordenone. Le voci sussurrano di debiti contratti a Milano per aprire il nuovo caffè, altre di perdite al gioco e di truffe che portano Giovanni Battista alla vergogna insopportabile del debito con le banche. Andremonda rimane da sola, due figli sulle spalle. Nel 1925 Armando termina la scuola complementare, dove Pio Rossi era
«Io servo non sono nato, chinare la schiena non ero capace...», la vicenda umana e politica del pittore del mondo operaio, «scomunicato» dal Pci, e i suoi rapporti con Pordenone
stato suo maestro di disegno. La passione per la pittura è talmente forte in lui, da convincere la madre a lasciarlo entrare come garzone nella bottega artistica di Tiburzio Donadon. Ne uscirà, giocoforza, per entrare, fattorino e poi impiegato, in una banca locale. Il ragazzo con l’estro del dipingere viene notato dal direttore della banca. A incuriosirlo è il fatto che il giovanissimo Pizzinato, appena trova un momento libero, si tuffi nella lettura delle Vite del Vasari, edite a dispense dalla Sonzogno. Così, il consiglio di amministrazione paga ad Armando un ciclo di lezioni presso lo studio di Pio Rossi, che gli permetteranno, nel 1930, di iscriversi all’Accademia delle Belle Arti di Venezia. Pendolare tra le due città, Pizzinato si diploma 4 anni dopo, portando con sé un bagaglio culturale fatto di nuove e importanti frequentazioni (Giulio Turcato e Afro, tra gli altri); di letture dei Cahiers d’Art che gli fanno conoscere Picasso, Braque, Matisse, Derain; di confronti che maturano le sue idee non solo artistiche. Il 1934 segna, tuttavia, il ritorno al lavoro per guadagnarsi il pane. Scriverà Armando: «A Pordenone esisteva la Ceramica Galvani e riuscii ad avere un posto lì come disegnatore progettista... La fabbrica era appunto di Galvani, come di Galvani erano le cartiere, come di Galvani erano altre proprietà, e prima l’esperienza della banca e poi l’esperienza di questa fabbrica fu una lezione che mi portò sulla strada del socialismo. Io servo non sono nato, chinare la schiena non ero capace, mia madre continuava a suggerirmi di essere ossequiente ai padroni, di essere obbediente di qua e di là, e io ero solo disposto a lavorare per quello che mi pagavano...». Pordenone, in quegli anni, stava perdendo il suo patrimonio economico più prezioso: i cotonifici di Roraigrande, Torre e Borgomeduna, capaci, nei tempi migliori, di dare lavoro a oltre 12 mila addetti, in netta prevalenza donne. E proprio dalle donne dei cotonifici erano nati il movimento sindacale, la rivendicazione e la difesa dei diritti dei lavoratori. L’era del tessile durò poco meno di un secolo, dal 1840 alla
grande crisi del 1929 che spazzò via tutto. Intanto, lontano ma non troppo da Corso Vittorio Emanuele, Antonio Zanussi aveva aperto, dal 1916, una piccola fabbrica che portava il suo cognome e produceva cucine alimentate a legna. Pizzinato se ne va da Pordenone alla volta di Roma nel 1936, grazie a una borsa di studio. Negli ambienti artistici della capitale conosce e frequenta il gruppo della Cometa: Mafai, Cagli, Mirko, Capogrossi e Guttuso. Torna a Venezia nel 1940, e l’anno seguente incontra la futura moglie, Zaira Candiani. Dal loro matrimonio nascerà Patrizia, unica figlia. L’autunno del 1943 è stagione di una maturità che vedrà Armando, di lì in poi, unire strettamente arte e politica. Durante la Resistenza conosce il carcere fascista fino alla Liberazione. «In quei due anni di Resistenza ho sospeso la mia attività artistica, ho smesso di dipingere. L’ho fatto senza fatica perché l’impegno era immediato, sull’uomo». Torna alla pittura aderendo al Fronte Nuovo delle Arti e poi, con Renato Guttuso, al Realismo Italiano, negli anni ’50. Del secondo, fondamentale, periodo dà conto una delle tre sezioni che compongono la mostra «Armando Pizzinato (1910 – 2004). Nel segno dell’uomo» alla Galleria di arte
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MANGIARE & DORMIRE ●●●Pordenone vale senz’altro un week end. Ecco dunque qualche consiglio in tema di buon cibo e buon sonno. Per quanto riguarda aperitivi e bicchieri della staffa, la città vanta un primato: un bar ogni 186 abitanti. A voi l’imbarazzo della scelta. MANGIARE Antico burchiello Corso Garibaldi 11/d, tel. 0434/524886, chiuso martedì Cristiana in cucina, Franco in sala. Arredi in legno chiaro, grandi foto in bianco e nero alle pareti, ingresso con bancone, due sale per pranzare e cenare. Menu limitato per scelta, ma di grande qualità e rivolto alla cucina del territorio. Vini a calice o in bottiglia. Sui 25 euro. Caldamente consigliato. La vecia osteria del moro Via Castello 2, tel. 0434/28658, chiuso domenica In una traversa di Corso Vittorio Emanuele, un locale antico e molto bello. Menu di tradizione (prosciutto di San Daniele, pasta e fagioli, musetto con polenta e brovada, trippa con polenta, dolci della casa), buoni vini. Si spendono una trentina di euro. DORMIRE Hotel Damodoro Via Montereale 20, tel. 0434/361803 La doppia 65 • con prima colazione a buffet Un tre stelle nel cuore di Pordenone, accogliente e decisamente vantaggioso per rapporto qualità/prezzo. Camere molto curate, wi fi gratuito. Hotel Moderno Viale Martelli 1, tel. 0434/28215 La doppia 150 • con prima colazione a buffet. Un hotel anni ’30 in pieno centro. Stanze spaziose e ben accessoriate, ambienti comuni d’epoca, personale di estrema gentilezza.
In alto: il logo della manifestazione «Pordenonelegge»
moderna e contemporanea di Pordenone fino al 9 giugno. Sui muri di una delle sale della sezione, spicca una frase di Pizzinato «Sono sempre convissuti in me, senza alcun compromesso, l’impegno politico e l’interesse per l’arte. Tutti i critici e i letterati che si sono interessati alla mia opera di pittore, in sostegno o contro, hanno sempre dovuto tirare in ballo anche il cittadino Pizzinato». È l’artista, ma anche il cittadino e l’uomo con un credo politico, a realizzare, tra il 1950 e il 1962, tele potenti ispirate al lavoro: i muratori arrampicati sulle impalcature, i saldatori avvolti dalle scintille, lo spaccapietre, gli scaricatori di carbone, gli operai durante la pausa per il pranzo, le mondine, il pescatore, i contadini, la trebbiatura. Sono figure e situazioni figlie di quel quadro, Un fantasma percorre l’Europa, esposto alla XXV Biennale di Venezia, 1950, nello spazio dedicato al Realismo, cui seguirà Tutti i popoli vogliono la pace. Nella sezione della mostra spiccano alcuni enormi bozzetti realizzati per la Sala Consigliare della Provincia di Parma. Pizzinato, vincitore del bando nel 1953, continua a raffigurare i mestieri del popolo urbano e agricolo, ma con maggior definizione, guardandoli più
da vicino. Come farà, negli stessi anni, fissando sulla tela i partigiani di Liberazione di Venezia e della Fucilazione di patrioti, gli sfollati dell’alluvione in Salvataggio nel Polesine. Ma gli strali della Commissione Culturale del Pci, che già in precedenza si erano abbattuti sull’astrattismo, colpiscono anche il Realismo, sconfessato brutalmente. Pizzinato si ritira in solitudine, artista militante disorientato e amareggiato. La morte improvvisa di Zaira, nel 1962, accelera la sua crisi e lo porta a estinguere l’esperienza realista. Il pennello, paralizzato dal dolore, si ferma per molti mesi. Riprenderà a scorrere con la serie Dal giardino di Zaira, seppure su fronti espressivi diversi, e grazie all’incontro di Armando con Clari, la seconda moglie. Intanto, nella terra del lavoro, le cose stanno cambiando. La piccola fabbrica, è il 1951, conta adesso 300 operai. Il suo pilastro produttivo sono le cucine a gas, seguite, a distanza di tre anni, dal primo frigorifero italiano e, nel 1958, dalla Rex, la prima lavatrice nazionale. Da poco è stato aperto un nuovo stabilimento a Porcia; un altro, la Grandi Impianti, a Vallenoncello, si specializza in apparecchiature per le collettività.
Lino prende il posto del padre fino al 1968, quando morirà in un incidente aereo in Spagna. Le sue strategie creano la Zanussi Elettronica per la produzione di televisori con il marchio Seleco. Il boom economico porta all’azienda il 25% del mercato nazionale e il primato europeo nel settore degli elettrodomestici. Dopo la scomparsa di Lino, il gruppo cresce con l’acquisizione di Becchi, Castor, Triplex, Zoppas. Ma compie anche operazioni sbagliate e dubbie, portandosi in casa aziende decotte: Ducati Motori e Sole (edilizia), per citare due nomi. Così, un’azienda produttivamente sana finisce con i libri in tribunale e sull’orlo del fallimento. È il 1985, arriva il colosso svedese Electrolux, l’asso pigliatutto. Bel colpo, visto che la Zanussi, seconda per dimensione industriale soltanto alla Fiat, conta circa 35mila dipendenti. A Pordenone, in quegli anni, Pizzinato ogni tanto fa ritorno, il suo legame con la città è profondo, la lontananza non lo ha affievolito. Dalla terra di lavoro è lecito pensare che avesse tratto ispirazione per dipingere la dura quotidianità della campagna. Non ci sono, invece, nelle opere del periodo realista, gli operai delle ceramiche Galvani e quelli della Zanussi, i cotonifici assediati dall’abbandono, le rovine dei mulini, le officine meccaniche dismesse. La terra di lavoro, per Armando, era un altrove senza geografie precise. Pordenone, forse, rimaneva per lui il posto dell’infanzia, delle ambizioni da realizzare contro la volontà della madre Andremonda, dei viaggi quotidiani a Venezia. Il posto da cui andarsene, ma da non dimenticare. Chissà se oggi che la Electrolux taglia centinaia e centinaia di posti in nome della crisi, e se Pizzinato non avesse concluso la sua esistenza, potrebbe nascere una tela intitolata a quella Urbs Pincta dove, a un passo da piazza Cavour, i rumori e gli odori delle fabbriche coprivano il sussurro e i profumi del Noncello. «Se per comunismo si intendesse solo l’aspirazione all’uguaglianza sociale, con conseguente senso di rivolta verso le ingiustizie sociali, potrei dire che comunista lo sono sempre stato, vissuto da giovane in una cittadina del Friuli dove ho imparato in modo diretto il significato di certe parole, servo, padrone, sfruttamento, privilegi e gerarchismi».
A destra il logo delle Giornate del cinema muto, la sala, una locandina
SILENT FILM FESTIVAL
GERENZA
Le Giornate del Muto, non solo Chaplin
Il manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri
di SILVANA SILVESTRI
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Silent Film festival, le Giornate del cinema muto di Pordenone, conosciuto forse più a livello internazionale che nazionale, è il festival che coinvolge gli archivi di tutto il mondo e studiosi e storici del cinema, ma anche più recentemente un folto pubblico di giovani. Nel lungo periodo dalla fondazione ad oggi (quest’anno si terrà la trentesima edizione) ha svelato una nuova visione del cinema, percorso teorico di cui non si aveva più alcuna traccia. La chiusura dei cineclub aveva cancellato alla visione la programmazione di alcune delle opere canoniche, da Dziga Vertov a Lubitsch, la televisione non ha mai dato spazio alla storia del cinema delle origini. Le rarità e la rilettura di interi periodi sono emersi non a caso da questo festival nato dell’esperienza dei cineclub, promosso da Cinemazero. La prima edizione delle Giornate del Cinema Muto si tenne nel settembre 1982, quando Cinemazero presentò presso l'Aula Magna del Centro Studi di Pordenone la collezione di film di Max Linder della Cineteca del Friuli, titolo: «Le roi du rire: alle origini del cinema comico». Doveva trattarsi di un singolo appuntamento, ma Davide Turconi, autorevole storico del cinema (classe 1911) suggerì che l’appuntamento successivo poteva essere con Mack Sennett e da quel momento nacque il festival. Turconi diresse il festival dall’89, attualmente dal ’97 a dirigerlo è lo studioso inglese David Robinson. Le prime personali dopo Mack Sennett furono dedicate a Thomas H. Ince il profeta del western, il maestro di tutti Griffith, Buster Keaton, l’unico, Dreyer, poi Cecil De Mille, la divina Garbo, il magico Mauritz Stiller. E naturalmente la versione restaurata del Voyage dans la lune di Melès (nel 2011), Chaplin e Disney, tutti nomi presenti più volte nel corso delle successive edizioni, come sono stati gli appuntamenti periodici con Griffith fino a The Struggle del ’31, durissima e inaspetatta rappresentazione dell’America. Il festival ha saputo mettere in evidenza anche il rimosso del cinema, le presenze dimenticate (una, recentemente è stata quella di W. C. Fields, l’irascibile, cinico grassone comico), le opere ritrovate, gli effetti speciali, i cinegiornali del
secolo scorso. Incursioni nel cinema muto indiano, nella terra dei soviet, la scoperta dell’avanguardia belga. Un grande lavoro non di ordinata «composizione» dentro schemi cronologici, ma di viva attualità per la rilettura che provoca la visione di interi periodi occultati, come è stato nel cinema americano la Grande Crisi, con tutto il lato oscuro che le majors cancellavano, autori come Augusto Genina, tra gli altri, per quanto riguarda il nostro cinema, le radici delle cinematografie europee sconosciute al pubblico per quanto riguarda i film recenti, figurarsi i prototipi. E si tratta di vedere più di 150 film, con in più un ricco mercato di libri e rarità. L’edizione 2013 si terrà, a dispetto della scure della finanziaria, dal 5 al 12 ottobre (a rischio sono anche tutte le numerose manifestazioni del Friuli Venezia Giulia: le risorse che la Regione potrà dedicare alla cultura ammontano all’1%). Le Giornate godranno di un accordo con l’Irca Spa di San Vendemiano (Treviso) del gruppo Zoppas che ha deciso di sponsorizzare la rassegna messicana in programma, con numerosi documentari che testimoniano in particolare gli anni della rivoluzione, protagonisti Emiliano Zapata e Pancho Villa, film con Dolores Del Rio, Lupe Velez e Ramón Novarro oltre a un omaggio a Ejzenstejn con Que Viva México! e Lampi sul Messico.
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INTERVISTA di GIUSEPPE ACCONCIA
●●●L’Odin Teatret di Eugenio Barba ritorna a Roma a partire dal 16 febbraio al teatro Studio e al Vascello. Per un mese si terranno conferenze, seminari, laboratori, firmati dalla compagnia di Holstebro in Danimarca: un’occasione unica per conoscere Barba e il suo teatro di periferia. Abbiamo incontrato il regista in occasione del laboratorio organizzato da Valerio Apice e Giulia Castellani per il Festival Finestre sull'Uomo, nei comuni di San Venanzo, Marsciano e Monte Castello di Vibio in provincia di Perugia. La cifra distintiva dell’Odin Teatret è la campagna, la periferia. «Certo lavoriamo in un villaggio di 20.000 abitanti, non si può dire che si tratta di un teatro non urbano ma periferico: questo è un vantaggio. Col tempo abbiamo stabilito relazioni sempre più vaste con i diversi ambienti istituzionali della città: chiese, caserme, polizia, associazioni sportive. All’inizio nel 1966 i politici locali erano a favore del nostro progetto ma la popolazione lo rifiutava. Per noi è stata una grande vittoria che gente molto religiosa accettasse degli stranieri come espressione della cultura teatrale. Abbiamo costruito una messa in scena in una piazza con balle di fieno e contadini che venivano ad aiutarci con i trattori, usando cavalli e pecore. Siamo entrati in relazione negli anni con decine di migliaia di contadini della regione. L’ambiente si è rivitalizzato con la reciprocità di meccanismi semplici di baratto e anche i locali hanno apprezzato la relazione individuale tra spettatore e spettacolo. Andare fuori dal centro significa prendere un rischio, obbliga a dei cambiamenti, la periferia è una zona esclusa in cui bisogna inventarsi un proprio senso di fare teatro e di creare relazioni. In Italia ci presentiamo con un’identità artistica definita ma visitiamo ambienti periferici, incontriamo universitari, entriamo nelle case degli anziani, facciamo
Barba è Potlach: teatro degli esclusi L’Odin Teatret a Roma al teatro Vascello. Il registra e l’attrice Julia Varley raccontano gli inzi a Holstebro, il lavoro con gli attori, i segreti di un teatro profondamente politico partecipare i bambini delle scuole, cerchiamo di trovare la periferia anche in città», inizia Barba. Per spiegare quale sia la differenza tra teatro tradizionale e «Potlach», Barba si rivolge agli attori con queste parole: «Come è cambiato il teatro. Mi stupisco quando entro nel Teatro reale di Copenaghen. È un luogo imponente come la Borsa e il Parlamento. Per prima cosa c’è un preambolo architettonico come quello che si trova nelle chiese. Il pubblico sale, lascia il quotidiano e entra in un altro spazio: è un luogo «Sacer», separato dalla comunità, come separato dalla comunità è il
criminale. A quel punto si registra lo stacco, l’ingresso in un foyer enorme dove gli spettatori sono ben vestiti per mettersi in mostra. Chi va a vedere un’opera ha la sensazione di quanto sia miserabile il nostro teatro. Noi facciamo un teatro dell’eccesso (Potlach), un eccesso di energie creative, che colpiscano oppure no. Dobbiamo essere consapevoli, non possiamo competere con il teatro, siamo dei briganti con due soldi e dobbiamo fare gli spettacoli lo stesso. In questo modo compensiamo questa debolezza materiale con un’aspirazione all’eccellenza. Tuttavia, il pubblico non ha gli
stessi criteri del passato, non sa valutare la qualità degli attori. Per questo non parliamo mai di pubblico ma di spettatori, ognuno con la sua storia e la sua interpretazione, non offriamo un messaggio generalizzato, ma esperienze e riflessione». Non solo un teatro dell’eccesso ma un luogo che accoglie chi non trova posto nell’industria culturale. «Accogliamo chi viene rifiutato alla scuola teatrale e permettiamo loro
di costruirsi la propria eccellenza. Facciamo un teatro di esclusi che l’attore deve pagare con le proprie tasche. Il prezzo è un lavoro continuo, duro, in cui lo spettatore deve essere preso in considerazione individualmente. Si può arrivare a questo in tanti modi. Superando lo spettacolo frontale, dove l’attore domina la scena, privilegiando spettacoli di gruppo con gli spettatori ai lati. Non si riesce a dominare la scena, è qui la simultaneità a creare la contiguità, a mettere nello stesso spazio diverse situazioni che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra. Se ci sono dei genitori contrari al teatro - dice Barba rivolgendosi agli attori - spiegate loro che si può fare alla stazione di Milano, si possono creare rapporti ritmici, questa è l’immagine che si produce quando
costruisco uno spettacolo: azioni simultanee in uno spazio laterale. Vedere solo una parte dello spettacolo obbliga lo spettatore ad una tensione cognitiva come quando si arriva in una nuova città: non c’è angoscia ma disorientamento. In questo modo il teatro crea il segno dello straniamento. E così riconosco che questo è un teatro e comincia ad apparire qualcosa che non riesco a conoscere sulla base dell’esperienza e la storia si sviluppa in maniera comprensibile». Al laboratorio prendono parte anche attori non udenti. «Uno spettatore sordo deve essere capace di astrazione, di ascoltare lo spettacolo con gli occhi. È molto utile lavorare pensando ad uno spettatore a cui manca un senso, far vedere un sordo, un cieco attraverso la musicalità. Cerco di non far dominare allo spettatore quello che avviene, quando si lavora con sé stessi e con l’altro, la parte che non riusciamo a dominare appare per casualità e fa dire qualcosa all’attore. Per questo abbiamo coinvolto attori e spettatori sordi, ciechi, muti sin dal 1974 in Barbagia e in Salento», ci racconta Barba. Molti dicono che un teatro di esclusi sia profondamente politico. «Tutto il teatro è profondamente politico, politica fatta con altri
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In basso a sinistra, Eugenio Barba (al centro) all’International School of Theatre Antropology, Polonia 2005 (foto Francesco Galli) A destra, Eugenio Barba con Jerzy Grotowsky a Hostelbro nel 1971 (foto Roald Pay) Qui accanto la locandina dell’Odin Teatret per «La vita cronica» a Roma dal 16 al 21 febbraio Auditorium Parco della musica- Teatro Studio, al Teatro Vascello dal 27 febbraio al 17 marzo
mezzi. Si identifica anche con un’ideologia: è un teatro che è sempre dalla parte delle vittime. Io in verità non mi identifico in un’ideologia. Faccio teatro adesso per la necessità di non cambiare la società ma le forze malefiche che sconvolgono la natura: una forma di educazione. Il regista per questo ha un grande potere sugli attori. È come il sacerdote, lo psicanalista, il pubblico ufficiale, ha una responsabilità che sviluppa in modo diverso, è un potere travolgente che può stimolare e far scoprire ad un attore energie, potenzialità, può imprigionarlo in una gabbia di stereotipi o ferirlo profondamente, mutilarlo oppure può aiutarlo a conquistare la propria differenza e questo è un modo di vivere. Sono incapace di dire agli attori come ragionare in modo politico, ma li spingo ad eliminare anche il voler fare. La vita non si capisce con la testa, tutti la spiegano, se fosse comprensibile si potrebbe cambiare. Forze così potentemente razionali o irrazionali sfuggono alla nostra comprensione. Arriviamo ad un linguaggio pre-espressivo, più efficace per lo spettatore. Ma una cosa è il risultato altra cosa è il processo: il lavoro che precede l’espressione. Non è involontario ma viene senza pensarci troppo: il pensiero è un moto mentale e spesso sfugge alla ragione. Pensiamo in moti emotivi che decidono le nostre scelte». Profondamente politico è anche il lavoro dell’attrice Julia Varley che prepara gli attori insieme a Barba. Ex esponente di Avanguardia operaia, viveva negli anni sessanta
in una casa occupata di Milano. Ma ad un certo punto ha deciso di portare la sua esperienza politica nel teatro, ha lavorato con Ibenag Rasmussen e Pina Baush, concentrandosi sulla differenza tra teatro e danza. «Nelle culture asiatiche gli attori sono danzatori. Dipende da come si definisce una danza, massima estensione, dando importanza alla forma del movimento, c’è un’azione dietro alla capacità di lavorare con la forma e di non rimanere prigionieri della forma. Teatro-danza è la capacità di creare immagini: una narrazione. Sono per un teatro che non sia solo un’impresa commerciale o di intrattenimento ma un modello di nuove relazioni secondo le necessità che la storia ci ha tramandato. E così siamo arrivati ad una forma di spettacolo che domina il cinema, ha generato e stimolato scoperte e nuovi orizzonti, ma il teatro dal vivo resta una forma minoritaria», assicura Julia, che ha appena messo in scena la sua Ave Maria. Come imposta il lavoro con gli attori? «L’arte dell’attore è in via di estinzione, implica la conoscenza delle proprie energie, l’attore non è consapevole di tutto quello che avviene lavorando con il teatro. Bisogna pensare per azioni, pensare con i piedi, quello che trasforma il peso in energia. L’azione vocale ha lo stesso principio dell’azione fisica ma è più difficile da descrivere. Si segue lo stesso principio: riduzione, riduzione totale del volume, lavoro con la spina dorsale, con la voce posso negare l’azione. Anche per il volume della voce i piedi sono essenziali». Sul tema interviene Barba: «L’attore lavora, non pensa, pulisce, distilla e ha sempre in mente l’ombra dello spettatore, non può fare quello che vuole. È un processo che si incorpora in due o tre anni. L’attore apprende a pensare in modo paradossale. Come diceva la danzatrice Marta Graham, ognuno di noi deve definirsi. In questo ci aiuta la danza, andiamo indietro nel tempo, anche se non balliamo, passiamo il peso da una gamba all’altra, un danzare che non corrisponde ad un codice ma è un modo di ricreare la spontaneità quotidiana, ricrearla in
maniera individuale, presupposti che hanno a che fare sul come si manifesta il corpo. Pensiamo al pavimento di una nave, oscilla verso sinistra e verso destra. La testa è in accordo o opposizione con il passo - a questo punto si rivolge agli attori - Mettete l’accento sui gomiti, cosa volete? Da chi andate via? Alzate le braccia, a coppie, rispondendo agli impulsi. Siate pesanti quando lo decidete, non accelerate diventando come degli automi, lavorate con il peso. Ricordate i movimenti di transizione, è sulle transizioni che si lavora: il segreto è il passaggio non il risultato. Siate consapevoli di quello che fa il compagno, reagendo alla qualità del ritmo. Cominciamo a pensare con i piedi e non con il cervello. La parte razionale guida lo sviluppo, riprende ciò che abbiamo fatto, come lavorare sul peso, permette alle braccia di agire quando ci si stacca dal suolo. Ogni passo deve avere un suo volto, una sua voce che obbliga lo spettatore ad essere presente. Siate eleganti nel vostro modo di disegnare statue dinamiche, discofori. Non ci identifichiamo in Tino Sehgal, questa non è contact dance, rendetevi conto che lo spazio è solido. Se faccio un passo lo spazio
A destra, l’attrice Julia Varley. Sopra, laboratorio «Isola di confine» a Perugia, Eugenio Barba al lavoro con gli attori
spinge il mio compagno nella direzione in cui ho fatto il passo. Non diventate trampolieri che lavorano solo su una gamba», continua Barba. A questo punto, chiediamo a Julia, come fa l’attore a costruire la memoria delle azioni simultanee? «Ho sempre elementi nello spazio che mi aiutano a ricordare. Quando io faccio, la mia attenzione è su che cosa provoca quello che io faccio. Questo mi aiuta a ricordare. La memoria si costruisce procedendo pezzo per pezzo». A riprova di queste parole, di fronte agli attori, Eugenio Barba le chiede di fare: «La barca dalle vele nere». Julia improvvisa in modo discontinuo, aggiungendo sempre una nuova azione per un totale di otto movimenti. Muove le braccia come le vele di una nave, avanza, fa il segno del telescopio, tira l’argano e continua l’azione. A questo punto Barba le chiede di dare un’informazione dinamica e di ricreare l’azione solo con i piedi. «È uno dei processi cognitivi che l’attore deve saper dominare, togliere la forma per trapiantarla in un’altra forma», aggiunge Barba e le chiede di fare l’equivalente con gli occhi. «Pensare con il corpo. Diventa sempre più forte il voler fare invece del fare che si produce se pensi con la testa. Ma se il corpo comincia a pensare da solo, il corpo stesso diventa una necessità. Non ricordo l’immagine astratta ma la tensione». A questo punto interviene Julia che compie il gesto di un uncino: «Mi ricordo l’opposizione della schiena che serve per fare il segno dell’uncino
con le dita». E così accenna al gesto di un uncino con la spina dorsale e non con la mano. Julia, come compie l’equivalenza tra piedi e occhi per costruire l’azione scenica? «Il concetto di equivalenza ci porta a comprendere che non è l’attore che deve essere organico o artificiale, ma a riconoscere l’anima dinamica dell’azione fisica e dell’equivalente con i piedi e gli occhi: una traduzione che è il senso di responsabilità dell’attore verso quello che ha creato. Deve riconoscere ciò che è essenziale nell’azione che sta compiendo e cercare di mantenere quello che sa che è essenziale», conclude Julia. Molti credono che l’esperienza dell’Odin Teatret, sebbene straordinaria, sia sulla via della fine. «Il mio duello è il centro del teatro. Che tipo di centro voglio essere, appartenere o trovare la forza della mia libertà e tentare di conquistare gli spettatori uno alla volta. Questa è la mia lotta, conquistarli uno dopo l’altro come abbiamo fatto con i cittadini di Holstebro che all’inizio ci scacciavano dicendo: ’Mandiamo via i parassiti’. Se è questo che deve accadere lasciate che l’Odin muoia in pace. Questa è l’unica cosa che abbiamo, l’unico risultato contro un’epoca che ci permette di stabilire una relazione con la necessità. La solitudine è il nostro compagno». Eugenio Barba e Julia Varley salutano attori e spettatori. Questi sono gli spunti per partecipare a lezioni sul teatro a Roma e alla messa in scena de La vita cronica di Ursula Andkjær Olsen e dell’Odin Teatret: il teatro dell’eccesso o degli esclusi.
IL RESISTENTE DI HOSTELBRO Eugenio Barba. Mi viene spontaneo iniziare questo pezzo con la frase c’era una volta la ricerca teatrale e aveva un certo peso nel mondo del teatro e, se non in quello degli spettacoli più commerciali che ne ignoravano beatamente l’esistenza, in quello degli esperti professori e studiosi universitari. C’erano addirittura divisioni e «faide» tra gruppi e festival che s’indirizzavano verso l’una o l’altra forma di sperimentazione. I capostipiti di quello che si chiamò teatro povero o terzo teatro erano Grotowski e Barba poi c’era la postavanguardia di cui i rappresentanti erano La gaia scienza (gruppo romano), Falso movimento (napoletani) e il Carrozzone (fiorentini) e chissà perché le due fazioni furono a lungo contrapposte e patrocinate da critici che si sfidavano in punta di penna. Ma questa è una storia vecchia che risale ai tempi in cui il teatro era ancora vivo nel nostro paese. Ora qui da noi hanno addirittura rispolverato una legge dei tempi del fascismo per negare agli artisti anche quella miserabile forma di aiuto che ci arrivava sotto l’ipocrita dicitura di «disoccupazione» con la scusa che attori e registi, e chiunque svolga un’attività artistica e non tecnica nel campo dello spettacolo, non sono dei lavoratori normali (e mi domando chissà cosa siamo), e con questo ci hanno definitivamente seppellito sotto una pesante lastra di marmo da cui non esce suono alcuno percepibile dall’esterno. Semplicemente noi non siamo. Non esistiamo, non abbiamo motivo d’essere, e quindi sarà meglio suicidarci (almeno professionalmente) tutti. Mi congratulo quindi con Eugenio Barba che ebbe la lungimiranza nei lontani anni ’60 del secolo scorso di trasferirsi dal natio Salento alla nordica Hostelbroo (piccola cittadina industriale danese che lo accolse e tuttora lo ospita e finanzia i suoi lavori), mi complimento per il suo intuito nel capire prima degli altri che volendo fare un vero lavoro di ricerca, il che comporta lunghi tempi di preparazione e studio, doveva lasciare questo paese ed emigrare altrove, in un nord freddo e protestante che ha saputo apprezzare e proteggere questo maestro meridionale che ha pazientemente mescolato la lezione grotowskiana con i ricordi ancestrali delle tarantolate, le favole di Andersen col rigido allenamento del Katakali indiano, i trampoli e le fisarmoniche, gli scambi tra culture e l’impegno politico tra le tribù sperdute nelle giungle del Sudamerica. Ha portato il suo teatro dove il teatro non l’avevano mai visto, ha barattato arte e cultura in cambio di ospitalità e conoscenza, insomma ha resistito. Bravo! Adesso lo potremo vedere col suo gruppo l’Odin Teatret, in cui lavorano ancora gli stessi attori che lo formarono all’inizio tra cui Roberta Carrero, Iben Nagel Rasmussen e Tage Larsen, oltre ad altri che si sono aggiunti nel tempo, a Roma dal 16 al 21 febbraio dove presenterà il suo ultimo lavoro La vita cronica dedicato a Anna Politovskaya e a Natalia Estemirova, uno spettacolo che si svolge in un’Europa del 2030 sopravvissuta ad un ennesima feroce guerra civile in cui un giovane sudamericano s’avventura alla ricerca del padre disperso. Tanti anni fa, credo nel 1993, incontrai Eugenio Barba al festival delle Nazioni in Cile, io ero là a rappresentare l’Italia con uno spettacolo che si chiamava Dialogo ed era una composizione di testi di Edoardo Sanguineti, lui rappresentava la Danimarca, in quel caso il nostro lavoro ebbe molto successo e noi ne eravamo molto orgogliosi, adesso pur di poter lavorare vorrei diventare un po’ danese anche io!
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ALIAS 16 FEBBRAIO 2013
LA CRITICA LA LUNA CHE VORREI
CINEMA POSTUMI DI SAN VALENTINO Non sarà mai troppo tardi per godere al di là del «fuori tempo massimo» di un raro capolavoro del contrappunto sentimentale (veri postumi di San Valentino) come The Heartbreak Kid (in Italia «Il rompicuori»), firmato nel 1972 da Elaine May (È ricca, la sposo e l’ammazzo, Ishtar). I neo-sposini ebrei Charles Grodin e Jeannie Berlin si spostano in luna di miele verso Miami, in un breve lasso di tempo sufficiente allo sposo per capire quanto la sua mogliettina gli sia in realtà distante e altrettanto bastante per invaghirsi perdutamente di Cybill Shepherd, fulgida bionda del midwest che rivoluzionerà tutto il suo equilibrio esistenziale. Sulla carta una farsa di retroguardia sugli eterni equivoci riferibili alla guerra dei sessi, di fatto - grazie alla sceneggiatura di Neil Simon e alla regia di May - un fenomenale studio di caratteri salutato da Vincent Canby del New York Times come «la migliore e più originale commedia americana del 1972». Rifatto dal duo Farrelly con Ben Stiller nel 2007, collocabile nella categoria del «rispettabile fiasco»: il prototipo di Elaine May è invece oggi comodamente visibile caricato (completo e in originale) su YouTube. Il sonetto visto. Un singolare short (8 minuti) dall’ultimo Film Festival di Rotterdam, By Pain and Rhyme and Arabesques of Foraging (Usa, 2013), amorosamente e strenuamente assemblato dal cineasta radicale David Gatten. Ispirato dal naturalista del 17˚ secolo Robert Boyle, Gatten ha impiegato appena quattordici anni per mettere a punto il suo film nella forma definitiva incidendo sul leitmotiv di sperimentazioni e assimilazioni assortite riguardanti i colori e le teorie a essi ascrivibili. L’eccezionale risultato induce ad avvicinare il rigoroso e luminescente montaggio visivo ottenuto alla stregua di un sonetto petrarchesco, un lavoro di alta, solitaria erudizione che sembra provenire da tempo e spazio ignoti. Dal 1996 Gatten si muove nell’intersezione tra parola stampata e immagine in movimento, ossessionato soprattutto dalla figura di William Byrd II di Westover (1674-1744), fondatore della città di Richmond in Virginia. Ad Amburgo la polizia tace. Oltre ad aver brancolato nel buio, chiesto aiuto, incriminato mentre la legge assolveva, ringraziato ed essere stata a guardare, la polizia e il (sotto)genere cinematografico ad essa legato nei primi anni ’70 concepì in Germania anche questo esempio ampiamente misconosciuto: Fluchtweg St.Pauli («Hot Traces of St. Pauli» o «La polizia tace») di Wolfgang Staudte (1971), con Horst Frank e Christiane Kruger. Il tassinaro di Amburgo Heinz Jensen una sera si vede costretto ad accompagnare al commissariato la ricca signora Berndorf, completamente ubriaca. Nel frattempo suo fratello Willy, un poco di buono fuggito dalla galera, sequestra la moglie Vera, ora convivente di Heinz, e si macchia del delitto della medesima signora Berndorf a seguito di una rapina finita male… Presentato da Barbarella Media, un dvd da ordinare sul sito tedesco di Amazon, nella gustosa versione combo che affianca un cd con le musiche originali kraut-funk di Peter Schirmann.
●●●Un quartiere diventato alla moda, il Pigneto, più Torpignattara e Prenestino, il sesto municipio di Roma, ricco di storia e storie, personaggi, musicisti, cineasti, pittori e soprattutto di tanti giovani: è l’ultima incursione di Francesco Bernabei nel documentario con «La luna che vorrei» che sarà in programma lunedì 18 (alle ore 16) e martedì 19 (alle ore 18) al Nuovo Cinema Aquila (Roma via L’Aquila ’68). Dalla via Francigena, alla resistenza partigiana dell’ultimo conflitto mondiale, dal cinema dei grandi autori, Pasolini, Rossellini, Monicelli di cui si discutono ancora le location, alle migrazioni degli ultimi anni. Bangladesi sudamericani, cinesi, marocchini, albanesi, sono solo alcune delle nazionalità che lo vivono portando cultura e lavoro, mostrandoci come si può convivere trasformando le diversità in ricchezza. Ingresso gratuito a esaurimento posti.
QUATTRO NOTTI DI UNO STRANIERO ■ CINEMA PRIME
L’oscurità della luce, la luminosità del buio. Fabrizio Ferraro di BRUNO ROBERTI
●●●Sì, la luce stessa, così bella, così cangiante, la luce stessa è oscura…(Philippe Jaccottet) . L’Attendere e il tendere, l’attenzione e la cura, la giustezza dello sguardo, il peso specifico del silenzio, la distanza tra me e l’altro e la possibilità e necessità di misurarla con il cinema come voleva Serge Daney: questo il sentimento che persegue e fa circolare il nuovo film di Fabrizio Ferraro Quattro notti di uno straniero, come una sorta di decantazione, di lavacro del filmare, una lucidità che non ha paura del buio. Come già in altri film di Ferraro (laddove Parigi e la costellazione del moderno, come stato continuo di passage, e come lucida messa in gioco dei rapporti umani e del lavoro come pratica di redenzione, era fatta emergere), come in Je suis Simone, La condition ouvrière, dedicato a Flaherty, che faceva rivivere e respirare i quaderni di Simone Weil (incarnata dalla sensibilità tagliente e dall’anima intensa di un’attrice come Giovanna Giuliani), qui è convocata una intera costellazione, una cartografia dei gesti interiori e della disposizione dello spazio urbano (benjaminianamente della reviviscenza politica che si addensa e si dirada con il decadere, il depositarsi dell’aura, del suo disperdersi nella modernità), una condizione umana che attiene con precisione all’esserci, e al testimoniare il riflesso materiale dell’apparire sullo schermo (e tale è il retaggio straubiano del cinema di
Ferraro), e infine l’esplorazione di una topografia, quella parigina, che (appunto da Baudelaire a Benjamin) si muove tra superficie e sotterraneo, tra inabissamenti e affioramenti, tra canali fognari e gallerie ferroviarie, tra lo scorrere del lungofiume e lo snodarsi delle sue strade sotto il cielo che annotta o rischiara, tra la sortie dalle fabbriche o dagli ospedali e l’ingresso inferico oltre una soglia qualsiasi dentro una chambre clair che ri-vela il biancore delle sue pareti nel trascorrere della luce dall’apertura di una finestra (come avviene anche in Garrell). Questo nuovo film (che segue un itinerario di stringente ragione visuale e di progressiva passione per l’umano e per la necessità di un pensiero del comune, della relazione, fin dalla
iniziale «tetralogia» con il Gruppo Amatoriale, in cui il lavoro del cinema e quello umano, la concretezza esatta e insieme sospensione dell’incontro si accompagnavano a Beckett, a Brecht, a Guattari) è un ritorno sul passo, il ripercorrere un set come una città, ma rovesciandola come il diurno e il notturno di un cocteauniano guanto per tastare e rischiarare le notti infilate nelle nostre tasche. Infatti Quattro notti di uno straniero «segue» letteralmente il precedente Penultimo paesaggio, fin nel preciso ritrovare e ribaltare lo stesso appartamento, lo stesso quartiere parigino, il medesimo solcare e far scorrere verticalità e orizzontalità, lo stesso conficcare lo sguardo nella prossimità/lontananza del corpo di un uomo e di una donna (in quel film era messo in questione il loro spingere il limite, la soglia della relazione fin dentro l’economia libidinale, come insorgenza e insubordinazione dall’interno stesso dell’assoggettamento economico dei corpi e del loro abitare lo spazio, il dispositivo dei rapporti di potere e di forza nell’orizzonte di una «penultimità» del capitale, del suo tendere allo sterminio postumo del resto e del senso) ma con un movimento paradossale di arretramento/avvicinamento, di addossamento della macchina da presa allo stanziare e all’andare dell’uomo e della donna, al loro scambio di silenzi e parole, di sguardi e di attese, in modo da liberare intensità proprio dallo stesso movimento di spossessamento, di attesa, di sospensione, di sottrazione, di estraneità. Ecco se in Penultimo paesaggio si trattava di un forzare l’intimo procedere in modo da far emergere il residuo come forza insubordinante, come rimessa in circolo di ciò che non può essere ridotto a rapporto economico, qui si tratta di uno sprigionarsi dell’intimo attraverso il cammino dell’estraneo, dello straniero, la cui condizione inaugurale è appunto quello dell’«uomo del sottosuolo» dostoevskiano che enuclea con una lama di luce l’intima estraneità della sua anima, e del suo inscriversi nei corpi. Il titolo del film è certo riferimento al film di Bresson Quattro notti di un sognatore, ma qui l’ «aptico» bressoniano, il suo rendere tattile l’immagine (e fare «moneta vivente») viene spostato dallo stato sognante allo stato «straniero» e tale «estraneazione» si esplica precisamente in una sorta di «nascita della luce», in un film sulla luce,
appunto come condizione paradossale della notte «bianca», del buio, del silenzio, dell’invisibile da cui si proviene e a cui si ritorna, in cui si rinasce. E ciò viene ripreso da Ferraro nella esatta «luce delle cose», nel rendere materiale e concreta la durata di questa ripresa, nel farla dischiudere attraverso il travelling come nel persistere dell’inquadratura fissa, entro la quale tutto avviene, tutto è sorpresa nel mutare della luce con il tempo (come nello splendore di un piano sequenza che dal cielo di nubi rischiarantesi si abbassa lentamente sulla città e sul fiume). E da qui procede nel film un paradosso: l’attendere la donna, la sua uscita dalla soglia, da quell’ingresso tra la vita e la morte, entro cui sempre può avvenire un passaggio, un trapasso che è anche un incontro e un fuoriuscire, un rinascere, quella condizione di attesa che l’uomo, lo straniero (che nella sua stanza compita un lingua nuova) ri-percorre e in cui trascina e si lascia trascinare, dal ricominciare continuo dell’epifania di un rapporto, è un convertire il buio in luce, un circostanziare l’oscurità di una luce e la luminosità di un buio. Raccogliere tra le mani il silenzio, addossarsi all’ombra il paesaggio di semplici pareti bianche. Capire «come una nube di buio rischiarasse la notte» , ricordando l’ esperienza materica del buio, della «notte chiara» di S.Giovanni della Croce, come condizione appunto di una chiarificazione della stessa lingua nel suo risuonare dentro il silenzio. «Notte chiara, solitudine sonora». In un bel libro di Antonella Anedda, La luce delle cose (Feltrinelli), si legge: «Dunque esiste una notte rischiarata dal buio che stringe in sé il fulgore del giorno (…) una notte senza bagliori, di ampia nube rovesciata su se stessa
Due scene del film «Quattro notti di uno straniero» di Fabrizio Ferraro con Marco Teti e la locandina francese del film
moderati arabi
A Parigi, un uomo, una donna, un set ripercorso come una città, rovesciando il giorno e la notte eppure non solitaria. È la notte di ogni autentica confessione e conversione: quel buio che preme per salire fino a chi ascolterà, fino alle creature, fino agli alberi e alle cose, fino alla vita». Ed è proprio questa condizione creaturale, di cinema vivente, che improvvisamente diventa concreta, immanente nel film di Ferraro quando come un bagliore intimo ed estraneo insieme, avviene quella che Walter Benjamin chiamerebbe lo «shok» di una fuga delle immagini: l’uomo, lo straniero, che fino a quel punto aveva attraversato e si era attagliato al nostro sguardo, di colpo corre, si perde nelle strade, scompare, e noi, lo sguardo nostro, e quello della macchina da presa, restiamo soli, in un paradossale essere sospesi tra l’esserci e l’andare, il sottrarsi e il procedere, l’oggettivarsi e il soggettivarsi. Cominciamo allora un movimento, lento e incantato, di una ricerca, sola e comune, nelle strade, svuotate e riempite di un senso nuovo e allora, da lontano, riprendiamo e ritroviamo l’uomo, lo straniero a noi stessi che ci è diventato intimo e che non cessa di attendere e di cercare lo sguardo dell’altro. «Il momento dopo, sembrava che qualcosa esplodesse di fronte a lui; una meravigliosa luce interna illuminò la sua anima. Questa durò forse un secondo, tuttavia ricordò distintamente l’inizio di un grido, lo strano terribile lamento che gli sfuggì senza volere…» (F.Dostoievskj L’idiota).
< 209 210 211 >
«Il Tribunale militare che sta processando a Rabat 24 attivisti sahrawi del campo della protesta di Gdeim Izik, attraverso irregolarità giuridiche e contro cittadini di una terra colonizzata, mi riporta ai processi politici dell’ultimo periodo Franchista» (Antonio Masip, europarlamentare spagnolo).
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CLASSICI
STAR WARS
Alcune imagini della serie «The Clone Wars» realizzata in computer graphic e la copertina di «Sfida alla Nuova repubblica»
di FEDERICO ERCOLE
●●●Per la generazione che ha vissuto la propria infanzia e la prima adolescenza durante la seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, per quei bambini e ragazzi che hanno visto Guerre Stellari e i suoi due seguiti al cinema, la guerra dei cloni che portò agli eventi che causarono la quasi totale estinzione dei cavalieri jedi e alla nascita del malvagio impero galattico era ammantata da un alone leggendario, misterioso e mitico. Citata da Leila Organa all’inizio de Una Nuova Speranza, questa serie di feroci battaglie astrali tra la repubblica e i separatisti ha alimentato sogni e fantasie dei fan fino alla nuova trilogia, così bella quanto incompresa. Tuttavia se la guerra dei cloni inizia alla fine del secondo episodio, L’Attacco dei Cloni, già nel terzo, La Vendetta dei Sith, si può considerare conclusa. Per colmare l’enigmatico vuoto temporale e vivere le tragiche e violente cronache di questa guerra così odiata da Yoda, c’è Star Wars The Clone Wars, una serie di cartoni animati in computer graphic giunta già alla quinta stagione, almeno negli Stati Uniti. Ore e ore di guerre stellari che nessun fan, almeno quelli che hanno amato anche la seconda trilogia, dovrebbe perdere. I disegni squadrati - sembrano sculture di legno colorate - di alcuni personaggi possono inizialmente destare qualche dubbio nella psiche amorosa del fan, ma superando l’impatto iniziale con i visi di Anakim o di Obi-Wan, realizziamo di trovarci di fronte ad una scelta artistica autoriale e rivoluzionaria, così che si cominciano ad apprezzare le versioni cartoonesche di eroi e malvagi. Bisogna inoltre evitare l’ingannevole sensazione percepibile a priori che si tratti di un’opera pensata per un pubblico molto giovane. Guerre Stellari ha sempre avuto il pregio di sapere coinvolgere sia i bambini che gli adulti, dialogando con
la passione e la psiche di ciascuno in maniera diversa e operando un incanto simile a quello che avviene con i film di Hayao Miyazaki; così The Clone Wars non è da intendersi come serial realizzato esclusivamente per l’infanzia, perché vi sono momenti tragici e addirittura spaventosi. Ogni stagione è composta da 22 episodi di circa 20 minuti (tranne l’ultima in cui sono solo 20) e in Italia le prime tre sono disponibili in dvd distribuiti da Warner Home Video. Al serial andrebbe aggiunta la visione preludiante del lungometraggio omonimo uscito al cinema nel 2008, attraverso la quale si può essere introdotti gentilmente, anche in maniera un può fuorviante, allo stile e ai personaggi della serie, che nella sua lunghezza si rivela superiore al film per atmosfere, contenuti e racconto. Sebbene durante ore e ore di avventure tanti personaggi della trilogia solo intravisti al cinema
assumano talvolta il ruolo di protagonista, i due personaggi principali della serie sono Anakim e la sua padawan, Ahsoka, una fanciulla dallo straordinario carisma e talento nella forza. La domanda fatale che perseguita chi ha seguito tutte le stagioni è quale sarà il fato della fanciulla, visto che nella saga cinematografica ella non è mai nominata. Una sesta stagione è comunque prevista, e dovrebbe essere la conclusiva. Prodotta e supevisionata da George Lucas e diretta da Dave Filoni, The Clone Wars brilla per la quantità di storie ed eventi che contiene e per lo splendore iconografico e tecno-feticista della rappresentazione di astronavi, flore e faune spaziali, armi e robot. Se è vero che talvolta la commedia sostituisce l’epica, molto spesso avviene il fenomeno contrario e si può così godere di un’epopea maestosa, stupefacente e rivelatrice.
La vertigine di Clone Wars Alla scoperta di episodi memorabili con «Star Wars the Clone Wars» serie di cartoni animati prodotti da George Lucas. Le prime tre stagioni sono ora distribuite anche in Italia
Ci sono episodi memorabili in cui apprendiamo dell’amore segreto di Obi-Wan, del micidiale desiderio di vendetta del giovane Boba-Fett, in cui Yoda ci illumina con rara profondità della singolarità di ogni clone oltre il loro aspetto identico, in cui viviamo una romeriana e carpenteriana epidemia di parassiti che potrebbero diffondersi in tutto l’universo, in cui assistiamo al risveglio di un micidiale mostro distruttore o alle malefiche gesta di un cacciatore di taglie-cyborg-pistolero chiamato Cad Bane. Precipitiamo con un beato senso di vertigine in tante vicende, cadendo alla velocità della luce tra colori, suoni ed emozioni mentre puntata dopo puntata la serie diventa sempre più scura. disperata e cupa. Talvolta quindi proviamo un’inquietante brivido di paura e sgomento. D’altronde sappiamo già cosa succederà dopo e intuiamo la morte nei volti di tanti personaggi. Soprattutto vediamo il lato oscuro della forza strisciare con lentezza implacabile nell’animo di Anakim, futuro Darth Vader, così appassionato, gentile ed eroico ma nello stesso tempo ingenuo come un bambino cresciuto anzi tempo e fatalmente triste per le perdite e i dolori subiti. Attraverso romanzi, videogiochi e fumetti la galassia lontana di Guerre Stellari si è espansa a dismisura fino a diventare una proprietà disneyana, un fatto da non considerarsi negativo, considerando che J.J. Abrams di Lost e regista di quel capolavoro di un cinema latitante che è Super 8, dirigerà il settimo episodio. Ma in tanto spazio e tempo, nella cronaca di tante vite, The Clone Wars rappresenta la più riuscita invenzione tra tante altre, una magnifica deriva galattica dalla saga principale. È il sogno realizzato di una generazione cresciuta con la forza nel cuore che ha appreso da Star Wars, più che da tanti telegiornali e dagli altri media, che la guerra è una cosa orribile, sempre, anche quando è stellare.
LA TRILOGIA DI TRAWN
Incontro con la magia sconosciuta dell’Impero stella per stella di FRANCESCO MAZZETTA
●●●Torna in libreria la Trilogia di Trawn di Timothy Zahn grazie a Multiplayer.it edizioni che ha già pubblicato sul finire dello scorso anno il primo volume L'erede dell'Impero ed è in libreria in questi giorni col secondo, Sfida alla Nuova Repubblica. La prima edizione di questa trilogia è stata pubblicata in Italia tra il 1993 e il 1994 da Sperling & Kupfer (negli Usa nel 1991, 1992 e 1994) e narra le vicende dell'universo di Star Wars circa cinque anni dopo gli eventi di Il ritorno dello Jedi. L'occasione per la ripubblicazione viene dalla ricorrenza del ventennale dalla prima edizione, che viene festeggiato non solo con la ripubblicazione e con una nuova traduzione ma con una versione «annotata» dall'autore. L'effetto del libro, con le note più o meno corpose a margine, è quello di una sorta di dvd di carta dove, proprio come nell'opera cinematografica presente sul supporto elettronico, si affianca come bonus extra il commento degli autori, attivabile in sincrono agli eventi che scorrono sullo schermo. È del resto tipico della strategia artistico commerciale di George Lucas non solo ampliare il suo universo fantastico, ma soprattutto «implementarlo», migliorarlo, rilasciandone versioni aggiornate e potenziate. Già la trilogia originale è stata oggetto di un restyling, in particolare con l'aggiunta di effetti speciali migliorati
digitalmente e con la rilavorazione di girati non inclusi nella prima edizione delle pellicole ed ora, facendo seguito a La minaccia fantasma, tutta la saga rivedrà la luce cinematografica in veste 3D. Timothy Zahn è un autore statunitense specializzato in «spin-off» da saghe fantascientifiche come Terminator e soprattutto Guerre Stellari. Se l'iniziativa potrebbe sembrare eccessiva per il livello artistico del prodotto, occorre considerare che se da noi la prima edizione della trilogia di Zahn non ha commosso critica e pubblico, negli Stati Uniti si è trattato di un successo editoriale di certo non indifferente: arrivato primo nella classifica dei best-seller del New York Times, l'Erede ha avuto numerose ristampe sia in edizione rilegata sia in paperback, e insieme al resto della trilogia ha visto una piacevole versione a fumetti adattata dallo sceneggiatore americano Mike Baron (in Italia pubblicata nel 1999 da Magic Press). Ecco allora pienamente giustificata questa ripubblicazione arricchita della storia di alcuni dei personaggi più interessanti all'interno della saga di Star Wars non partoriti dalla mente di George Lucas: il Grand Ammiraglio Thrawn, uno dei pochi alieni giunto ai vertici della potenza militare dell'Impero, che conta di distruggere l'ancora instabile Repubblica mediante non solo i sistemi rimasti fedeli all'Impero, ma anche grazie alle armi e ai progetti segreti dell'Imperatore; l'agente speciale dell'Imperatore Mara Jade, personalmente addestrata da Palpatine e a lui legata da un ambiguo ma profondo sentimento di devozione, tanto da giurare di vendicare la morte del suo mentore uccidendo Luke Skywalker. A far fronte ai piani di tali nemici troviamo un'ancora insicura Repubblica in cui Luke Skywalker cerca potenziali Jedi per rifondare i Cavalieri, mentre i coniugi Han e Leia devono prepararsi all'imminente arrivo di due gemelli. Per quanto testi annotati non siano certo una novità (vedere ad esempio la recente splendida edizione della Divina Commedia pubblicata da Olschki), tale libro, proprio per l'accostamento ad analoghi prodotti digitali della saga, fa pensare a quali potenzialità potrebbe avere l'ebook se slegato dai (per altro fastidiosi ed inutili) vincoli del Drm. Addirittura si potrebbe pensare a ritornare - con mezzi adeguati - alla narrativa interattiva ipertestuale che aveva fatto parlare di sé alla fine degli anni '80, grazie soprattutto all'opera di Michael Joyce, Afternoon. Non che l'Erede, per ora almeno, sia disponibile in ebook. Ma almeno Multiplayer.it prevede, oltre alla ripubblicazione di tutta la saga di Thrawn, la presentazione della nuova trilogia in cui Zahn riprende i suoi fortunati personaggi.
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ALIAS 16 FEBBRAIO 2013
INTERVISTA
SPORT
di PASQUALE COCCIA
Popolare è un termine che non si usa più, è stato cancellato innanzitutto dal linguaggio della politica. I politici negli studi televisivi, sostituiti da tempo alle piazze, ormai non parlano più di masse popolari, e neppure di iniziative popolari o di manifestazioni popolari, eppure la crisi economica ci ha uniti per farci sprofondare nella povertà, una condizione comune a una moltitudine di persone, una condizione popolare, che ci rende tutti vittime dello spread, delle bolle e delle speculazioni. A rievocare il termine popolare e a unirlo allo sport ci hanno pensato i giovani di tanti centri sociali sparsi in varie parti d'Italia, in particolare nel centro-nord, per nulla preoccupati che quel termine fosse d'antan. Una decina di anni fa, presi dalla passione per lo sport, hanno dato vita alle palestre popolari, non solo nella definizione, ma anche nella politica sportiva attiva di tutti i giorni. Si era all'inizio del nuovo secolo, quando alcuni giovani dei centri sociali di varie parti d'Italia dettero vita ai corsi autogestiti, tendenti principalmente alla difesa personale, alle arti marziali, riservati esclusivamente ai militanti di quei centri. Un'iniziativa che ha avuto nel corso degli anni un certo successo, perciò a Roma nel quartiere popolare di San Lorenzo, in via dei Volsci, una strada alquanto famosa negli anni Settanta del secolo scorso per essere stata la sede politica di Autonomia Operaia, è nata la polisportiva popolare, anche se qualche centinaio di metri più avanti rispetto a quella storica sede. La polisportiva si definisce popolare, perché è andata ben oltre la ristretta cerchia dei militanti dei centri sociali e si è aperta al territorio, ai comitati per la casa, agli anziani e alle
ANTIFA BOXE La palestra popolare Antifa Boxe nasce nel 2001 presso il centro sociale Askatasuna di Torino con un corso di pugilato, recuperando materiale di seconda mano da altre palestre, un'occasione per avvicinare i giovani del quartiere a questo sport. È un’esperienza di autogestione in cui nessuno guadagna soldi e dove le conoscenze tecniche vengono messe a disposizione di tutti «con l’obiettivo di crescere allenamento dopo allenamento». Antifa Boxe coinvolge persone di ogni età, dai quindicenni all’ex operaio Fiat Giovanni di 60 anni, che ha scoperto la passione per il pugilato che non aveva mai potuto coltivare. «La nostra scelta è di consentire a tutti di apprendere le tecniche pugilistiche e raggiungere un livello atletico accettabile per confrontarsi in combattimento, sempre nell’ambito della palestra». Info: antifaboxe.blogspot.com
STORIE ■ INTERVISTA AL COORDINATORE STEFANO SALLUSTI
Politica per il corpo. A San Lorenzo la palestra è popolare L’esperienza romana si è via via allargata a molte altre città italiane, da Torino a Lecce, da Perugia a Cagliari
In grande l’interno della palestra popolare di San Lorenzo a Roma. A destra un momento di un incontro di boxe all’interno della struttura capitolina
casalinghe, ai bambini, insomma al popolo, anche se con numeri non molto grandi, ma nel significato politico sì. «Oggi a Roma esistono dodici palestre popolari, nate sul modello di quella di via dei Volsci a San Lorenzo - dice Simone Sallusti, istruttore di pugilato della federazione pugilistica del Coni e anima di una delle prime palestre popolari sorte in Italia -. Gli spazi dove si svolgevano i primi corsi non erano stati progettati per le attività sportive, ma si trattava di capannoni abbandonati, locali a destinazione commerciale di proprietà del comune di Roma vuoti da anni, case sfitte di enti pubblici rimaste inutilizzate, da noi occupati a seguito delle lotte politiche per la casa. Inizialmente le palestre popolari avevano una forte connotazione politica, poi con il passare del tempo abbiamo aperto i corsi ai territori e la gente che partecipava ci ha chiesto di variare l'offerta. Abbiamo seguito i corsi di formazione, che riguardavano
principalmente le tecniche della ginnastica dolce, come lo shiatsu e lo yoga, per i corsi di queste discipline abbiamo utilizzato anche spazi a dimensione umana, come, ad esempio, le case occupate di 150-200 metri quadri». Cambia, rispetto a un tempo, la prospettiva politica dei comitati di quartiere per la lotta alla casa, spazi non più concepiti quali luoghi esclusivi della discussione politica, dell'organizzazione dei cineforum e i
conseguenti dibattiti, ma anche come spazi per l'organizzazione di corsi per il benessere del corpo. Sotto questo aspetto la nascita delle palestre popolari a opera dei centri sociali, rappresenta una svolta «politica» per il corpo, alcuni luoghi occupati per vivere e pensare diventano anche spazio per il benessere fisico, per la promozione della ginnastica dolce. «La logica che ci spinge a promuovere queste iniziative per il benessere fisico è in netta contrapposizione con i centri fitness continua l'istruttore di pugilato della polisportiva San Lorenzo di Roma -, che sono organizzati all'insegna del profitto e della speculazione, i nostri corsi sono popolari anche nel prezzo, i partecipanti pagano una quota simbolica, accessibile a tutti, una quota popolare». Sui territori dove sorgono le palestre popolari, gli organizzatori hanno conquistato la fiducia degli abitanti dei quartieri, dai nonni alle casalinghe, che hanno apprezzato l'impegno e i corsi proposti dagli istruttori, e nella politica delle palestre popolari da qualche tempo hanno fatto capolino anche i bambini, infatti quei giovani organizzano corsi per i più piccoli in collaborazione con le scuole e gli enti locali. A frequentare le palestre popolari, però, sono anche degli adolescenti che nulla hanno a che fare con i centri sociali, e neppure con la lotta per la casa portata avanti dagli animatori di quei luoghi di aggregazione giovanile, perché solo negli spazi autogestiti trovano accoglienza e attenzione alle loro esigenze motorie. «Negli ultimi anni ai corsi di shiatsu e yoga, se ne sono aggiunti di nuovi. Su richiesta dei ragazzi dei quartieri dove siamo presenti, organizziamo corsi di parkour, giocoleria e acrobatica aerea.
Tutto quello che si muove in periferia, riguardo alle mode sportive dei ragazzi e rappresenta il nuovo, passa prima qui da noi e poi raggiunge i circuiti ufficiali», conclude con una punta di orgoglio il coordinatore delle palestre popolari. L'esperienza della polisportiva popolare di San Lorenzo non solo ha fatto da apripista alle altre di Roma, ma negli ultimi dieci anni sono progressivamente nate, su quel modello, palestre popolari anche in altre città italiane come Milano, Perugia, Bergamo, Torino, Livorno, Lecce, Taranto, Cagliari e altri centri minori, tanto che oggi sono operative sul territorio più di sessanta palestre, e i promotori stanno pensando di federarsi in un organismo nazionale. Una rete, quella delle palestre popolari, che dal momento della fondazione a oggi ha consentito a circa diecimila persone di frequentare corsi per il proprio benessere fisico e a due passi da casa, ma soprattutto a prezzi, è il caso di dirlo, davvero popolari.
ALIAS 16 FEBBRAIO 2013
I FILM
SINTONIE
A PEZZI - UNDEAD MEN
LINCOLN
DI ALESSIA DI GIOVANNI, DANIELE STATELLA, CON ELENA DI CIOCCIO, MARCO SILVESTRI. ITALIA 2013
DI STEVEN SPIELBERG, CON DANIEL DAY-LEWIS, SALLY FIELD. USA 2013
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La ricostruzione di un corpo è per due amiche il punto di partenza di un viaggio nel deserto del vecchio west, rivisitazione del western in chiave di commedia. Statella è un disegnatore di Diabolik, Stivaletti agli effetti speciali, le musiche sono di Manuel De Sica, la canzone di titoli di coda è composta dagli Extrema, band metal. BEAUTIFUL CREATURES - LA SEDICESIMA LUNA DI RICHARD LAGRAVENESE, CON ALICE ENGLERT E ALDEN EHRENREICH. USA 2013
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Ethan, un ragazzo che abita in una cittadina del Sud Carolina incontra la nuova ragazza in città, Lena Duchannes. È la ragazza dei suoi sogni e tra i due si instaura subito un fortissimo legame, connessi tra loro con il Metapensiero così che ognuno sente i pensieri dell’altro. Ben presto Ethan scoprirà che la famiglia di Lena è tormentata da una terribile maledizione e che lui è l’unico in grado di proteggerla. GANGSTER SQUAD DI RUBEN FLEISCHER, CON RYAN GOSLING, SEAN PENN. USA 2013
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Los Angeles, 1949. Lo spietato gangster Mickey Cohen (Sean Penn) domina la città, raccogliendo guadagni illeciti dalla droga, dalle armi, dalla prostituzione e dalle scommesse. E tutto questo avviene anche con l’aiuto di politici e agenti corrotti. Ma la piccola e segreta squadra guidata dal sergente John O’Mara (Josh Brolin) e dal suo braccio destro Jerry Wooters (Ryan Gosling), sono decisi a tutto per catturare Cohen. PINOCCHIO
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Sul presidente più riverito degli States Spielberg voleva fare un film da sempre, come lo fecero tra gli altri, Griffith, Clarence Brown, Ford (più volte). Ma la chiave l’ha trovata solo nel libro della storica Doris Kearns Goodwin. In realtà è un film «da camera», il set dominante è dentro alla Casa bianca, una successione di scene risolte quasi sempre con inquadrature fisse e quello che sembra il minor numero di stacchi possibile. Minimalista anche l’oggetto apparente del film: il passaggio di una legge, quel tredicesimo emendamento della costituzione americana con cui il repubblicano Lincoln si assicurò - stato di guerra o meno - che la schiavitù sarebbe stata bandita per sempre dal suo paese. (g.d.v.) LES MISÉRABLES DI TOM HOOPER, CON RUSSEL CROWE E ANNE HATHAWAY, UK 2012
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Diretto dal regista di Il discorso del re che sceglie la via dell’opera vera e propria, dove tutto è cantato dal vivo, e un cast importante in cui si fronteggiano come Jean Valjean-Javert, Hugh Jackman e Russel Crowe, che molto si sforzano di recitare e cantare alla perfezione, anche se per il secondo lo sforzo è piuttosto vano. Qui la novità, se vogliamo, è l’idea di confrontarsi con l’opera di Hugo a partire da una «rilettura», il musical appunto. Il fatto è che Hooper non è regista da respiro epico e tantomeno visionario, si adagia su scene sontuose, costumi, sull’accumulo di materiali e immagini incastonandoli uno dopo l’altro senza sfumature. I suoi bassifondi di Parigi, in cui si aggira l’umanità dolente e stracciona, non mutano di tonalità né azzardano letture politicamente aguzze o spiazzanti. (c.pi.)
DI ENZO D'ALÒ. ANIMAZIONE. ITALIA 2013
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Le avventure del burattino ideato da Collodi portate sul grande schermo dal regista italiano Enzo D'Alò dopo quattro anni di lavoro, con fondali che ricordano gli orizzonti collinari toscani e poi «i personaggi che abbiamo conosciuto nell’infanzia». Il regista lo definisce «quasi un musical».
7
Quattro storie si incrociano all'interno della comunità di recupero per la tossicodipendenza di Villa Maraini. Sullo sfondo di una Roma scarna e reale i personaggi affrontano il muro dell'abbandono sociale e gli operatori sociali, spesso ex tossicodipendenti, non possono che vegliare sulle tragedie che hanno di fronte.
Dopo il successo di Benvenuti al nord, ci si aspetta parecchio dal debutto alla regia di Alessandro Siani (anche regista), che ha scritto il film assieme a Fabio Bonifacci. Tornano i conflitti di classe, i poveri e i ricchi, i cafoni e gli eruditi, addirittura i popolani e i principi. Qui il povero napoletano (Siani) viene scelto da Anastasio, cioè Christian De Sica, ciambellano del re di un oscuro principato (il solito Trentino) come «fidanzato» della principessa Sarah Felderbaum solo per farle pubblicità. Magari il film non brilla per costruzione di racconto e esplosione di gag e battute, anzi spesso gira un po’ a vuoto, e Siani-Bisio erano una coppia più affiatata di Siani-Christian, ma alla fine è una graziosa commedia che si vede con piacere. (m.gi.)
BLUE VALENTINE
PROMISED LAND
DI DEREK CIANFRANCE, CON MICHELLE WILLIAMS, RYAN GOSLING, USA 2010
DI GUS VAN SANT, CON MATT DAMON, FRANCES MCDORMAND. USA 2012
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Matt Damon è un agente di una grande corporation del settore energetico, il suo lavoro è acquistare le concessioni dai modesti agricoltori di una cittadina rurale del Midwest. È un piazzista del fracking, cioe’ la «fratturazione idraulica» che da qualche anno permette di estrarre idrocarburi (greggio pesante e gas naturale) con conseguenze ambientali potenzialmente devastanti. Ma anche la crisi ha devastato le gia’ misere prospettive economiche dei farmer costretti a cedere. Il film di Gus Van Sant è un classico di denuncia sociale, il ricco filone di cinema Usa che va da Furore a Norma Rae passando per Matewan di John Sayles. Van Sant si muove con facilità sia nel cinema degli ampi consensi come Will Hunting e Milk, che in progetti di sensibilità artistica
VIETATO MORIRE DI TEO TAKAHASHI, CON ARIANNA DI CORI, PATRICK RAMHALHO. ITALIA 2013
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CAPTIVE DI BRILLANTE MENDOZA, CON ISABELLE HUPPERT, KATHERINE MULVILLE, MARC ZANETTA, RUSTICA CARPIO, TIMOTHY MABALOT, MARIA ISABEL LOPEZ . FILIPPINE 2013
QUARTET
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OPERAZIONE ZERO DARK THIRTY DI KATHRYN BIGELOW, CON JESSICA CHASTAIN, JOEL EDGERTON. USA 2013
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Zero Dark Thirty, in gergo militare, è il il cuore della notte. È anche l'ora (le 24.30) in cui i Navy Seals di Team Six, il primo maggio 2011, misero piede nel cortile delle residenza fortificata di Osama Bin Laden. Il film apre su un'oscurità ancora più profonda e vertiginosa. La mise en scène classica e precisissima di Bigelow non ci risparmia niente, e non cerca scorciatoie: quello che si vede è una combinazione di metodicità scientifica e macelleria medioevale. I rituali e gli attrezzi di scena svelati al mondo dalle micidiali foto di Abu Ghraib ci sono tutti - cappio, cappuccio, collare da cane, waterboarding, le umiliazioni sessuali, l'heavy metal a volume assordante... È un film che non prevede «zone di conforto» per lo spetattore. (g.d.v.)
RE DELLA TERRA SELVAGGIA DI BENH ZEITLIN, CON QUVENZHANE WALLIS E DWIGHT HENRY, USA 2012
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Zeitlin porta il suo amore per l’acqua, New Orleans e il senso di uno spiazzamento fisico/cultural/social/mentale nelle sfere del mito, della fiaba e della tragedia. L’idea di partenza era di spiegare perché, dopo il disastro di Katrina, molti avevano rifiutato di andarsene. Suoi alleati imperdibili sono una bimba di 6 anni (l’esordienteQuvenzhane Wallis, una forza della natura, nominata anche agli Oscar) e Dwight Herny, un panettiere. A cavallo tra mitologia, realismo fantastico e news, il film buca il tetto di timidezza e grigiore che spesso opprime il cinema indipendente Usa, di cui è una delle avventure più affascinanti degli ultimi anni. (g.d.v.) VIVA LA LIBERTÀ
In una cittadina della Pennsylvania, isolati nell’ambiente familiare e sociale che resta sullo sfondo pur caratterizzato precisamente, Dean (Ryan Gosling, ora in Gangster Squad)) e Cindy (Michelle Williams, la Marylin di Simon Curtis) si offrono al pubblico nel percorso inverso dell’happy end con un andamento di lieve sadismo. L’immagine appassionata del «come eravamo» interviene a spezzare il livore dei due. Cinema indipendente assai apprezzato al Sundance e a Cannes, con occhio esperto da documentarista ma forse ancor più da esperto d’avanguardia (allievo di Stan Brakhage), tanto da far riferimento non casualmente al film di famiglia in chiave «arty». E Non scivola sulle chine pericolose della narrazione. (s.s.)
IL FILM
DI DUSTIN HOFFMAN, CON MAGGIE SMITH, TOM COURTENAY, UK 2012
IL PRINCIPE ABUSIVO DI ALESSANDRO SIANI, CON ALESSANDRO SIANI, CHRISTIAN DE SICA. ITALIA 2013
A CURA DI SILVANA SILVESTRI CON ANTONELLO CATACCHIO, ARIANNA DI GENOVA, GIULIA D’AGNOLO VALLAN, MARCO GIUSTI, CRISTINA PICCINO
come Elephant e Last Days. Qui adotta il registro classico del genere «sociale» hollywoodiano, una formula non senza al sua quota di melò ma pur sempre importante. (l.ce.)
All’origine della storia c’è qualcosa che ci riguarda: la casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi di Milano, spostata in Inghilterra, a rischio di chiusura, bisogna quindi trovare il modo di racimolare quattrini freschi. Nel frattempo sta per arrivare una nuova ospite: l’odiosa Jean che sta per ritrovare lì l’ex marito. Suona magnifico vedere i personaggi passare dal suggestivo eloquio raffinato al colorito turpiloquio in un crescendo da grandi interpreti che Dustin Hoffman in questo suo esordio a 75 anni ha non solo lasciato lavorare al meglio ma ha saputo valorizzare al massimo. (a.ca.)
DI ROBERTO ANDÒ, CON TONI SERVILLO E ANNA BONAIUTO, ITALIA 2013
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A parte il titolo, che ci riporta un po’ al Rene Clair di A nous la liberté, un po’ a Roberto Rossellini di Dov’è la libertà, con Viva la libertà di Roberto Andò per una volta il cinema italiano quasi ci piglia. A neanche dieci giorni dalle elezioni più incasinate che si siano svolte in questi ultimi anni, ci arriva una vera bomba comico-politico. Pure parecchio divertente grazie a un Toni Servillo che sembra rifare il Totò sdoppiato, anzi triplicato di Totò terzo uomo di Mario Mattoli. Qui Servillo si sdoppia da depresso leader bersaniano che ha ridotto il partito al 17% a un gemello pazzo, colto e allegro che, prendendo il suo posto, porterà il Pd al 66%. Ci credi? No. Infatti è solo un film. E alla fine la parte sana del marchingegno, puro slapstick alla Capra, funziona. (m.gi.)
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L’ENERGIA DELLE DONNE ALIVE Uk, 2013, 3'30'", musica: Ayah Marar con P Money, regia: Luke Biggins, fonte: Youtube
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La cantante di origini giordane, ma ormai inglese di adozione, accompagnata dal dj P Money, si esibisce in questo Alive (tratto dall’album The Real) filmata in un claustrofobico interno illuminato da tubi al neon e decolorato nella fotografia. La camera di Biggins si muove nervosamente sul corpo della Marar e degli altri performer, sagome nella penombra. Stacchi e piani ravvicinati rendono caotico e angosciante il visual, raddoppiando l’effetto di soffocamento dato dal martellante sound elettronico. Un modo come un altro per neutralizzare l’eventuale (e rischioso) glamour. STAY
Usa, 2013, 4',,musica: Rihanno con Mikky Ekko, regia: Sophie Muller, fonte: Youtube
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Il volto gonfio di pianto (o di botte?), lo sguardo quasi sotto l’effetto di qualche droga è quello di Rihanna, il cui corpo è immerso per tutta la durata del video in una vasca da bagno avvolta nella penombra. Ekko non compare mai nello stesso ambiente, ma è ripreso a parte in altri angoli della stessa sala da bagno o su una poltrona. Ancora una volta la maestra del music video Sophie Muller riesce a fare centro con poco, quasi nulla. Il suo proverbiale minimalismo fatto di corpi e volti in primo piano crea come sempre uno strano magnetismo che ipnotizza lo spettatore, senza neppure regalargli banale eros ben confezionato I’M A WOMAN
Francia, 2002, 3’55”, musica: Cassius (con Jocelyn Brown), regia: autore ignoto, fonte: Youtube
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L’energia delle donne salverà il mondo? A quanto pare si vedendo questo ennesimo clip prodotto dalla Partizan per Cassius. Il video inizia con il volto della vocalist afro Jocelyn Browne che si apre in due, rivelandoci un immaginario cosmico dal sapore fortemente hi-tech, dominato da alcune danzatrici moltiplicate all’infinito che ballano scatenate contornate da canne di pistola lucidamente metalliche da cui vengono esplosi numerosi colpi. Ne scaturisce del sangue (violenza ma anche passione) che colora di rosso i corpi sensuali delle performer e ricopre il pianeta. I’m a Woman è un’apoteosi di raggi lumninosi e deflagrazioni, un trionfo coreografico tra il mistico e il fantascientifico, realizzato con ridondanza di effetti speciali. Nel finale il globo diventa una sorta di atomo e i vari continenti si riunificano in un solo blocco.
MAGICO
Captive si ispira a un fatto di cronaca, i rapimenti di turisti da parte di gruppi islamici e indipendentisti nelle Filippine, qui più precisamente per l’indipendenza dell’isola di Mindanao. Un’assistente sociale francese e la sua collega filippina sono anch’esse portate via per sbaglio tutti trasportati su una barca da pesca per centinaia di chilometri e poi su per le montagne con i militari sulle loro tracce. Una estenuante esperienza che dura più di un anno. Il regista, Brillante Mendoza, è uno dei nomi di punta delle nuove onde del cinema filippino che hanno conquistato mercati e platee mondiali. È interpretato da Isabelle Huppert, il suo personaggio è quello della volontaria religiosa che si trova all'improvviso catapultata tra gli altri. Per interpretarlo l’attrice dice di aver pensato a Ingrid de Betancourt, «avevo letto il suo libro un po' per caso, che rende in modo molto preciso quella sensazione di perdita di riferimenti, di essere in balia a decisioni brutali, in un movimento continuo. E la reazione alla natura che spesso è spaventosa. Ho conosciuto Brillante Mendoza al festival di Cannes, è un regista che mi è subito piaciuto molto. Fa un cinema che non somiglia a niente, totalmente libero, si muove in un caos che solo lui riesce a controllare. Anche sulla lavorazione di Captive le cose sono andate in questo modo. Avevamo una sceneggiatura ma la scommessa per lui era di trasformarla sul set». (c.pi.)
IL DOCUMENTARIO THE SUMMIT DI FRANCO FRACASSI, MASSIMO LAURIA. ITALIA 2012
Diretto dai giornalisti d'inchiesta Franco Fracassi e Massimo Lauria, getta luce, a dieci anni di distanza, su molte zone d'ombra del G8 di Genova, (19-21 luglio 2001), le speranze dei manifestanti, i meccanismi che hanno portato alla violenza indiscriminata da parte delle forze dell’ordine e di una parte dei manifestanti, gli interessi politici internazionali. The Summit è il frutto di lavoro di oltre cinquanta persone, più di cento intervistati, più di mille pagine di documenti, mille ore di registrazioni audio e oltre cento ore di video. Tra gli intervistati, oltre a numerosi manifestanti vi sono anche don Gallo, Vittorio Agnoletto, Claudio Giardullo segretario generale Silp/Cgil, il generale Fabio Mini, Vincenzo Canterini ex comandante VII nucleo sperimentale squadra mobile, Dario Rossi avvocato del Genova Social Forum. Sergio Finardi esperto di tattiche di guerre informali dice nel film: « Ci fu in Germania una dimostrazione contro i bastioni nucleari e la polizia intervenne in modo estremamente duro. Questo ha portato poi questo movimento antinucleare a essere un po’ l’espressione dei primi passi di quelli che si sarebbero chiamati black bloc perché portavano abiti e cose di difesa neri e volti mascherati. Sanno che verranno filmati».
LA SATIRA IL NUOVO MALE FEBBRAIO 2013 N. 12, EURO 2.50
È in edicola Il nuovo Male, il mensile di satira diretto da Vincenzo Sparagna, che firma in questo numero un editoriale col nome del suo storico alter ego Tersite, dal titolo «Le mani sull'Italia», sull'orribile campagna elettorale 2013. Tra gli autori della «Rassegna stampa dei Mali più diffusi», curata da Cleono Zanzara, Piefrancesco Cantarella e Pablito Morelli più «Il Malinteso». Guido Giacomo Gattai apre un nuovo capitolo con «La sporca storia di Sofia». Letteratura e satira anche nell'articolo sulle nuove religioni (assurde e reali) di Teodonio Diodato (Graziano Graziani), che racconta il «Dudeismo», ispirato allo stile di vita del Grande Lebowski. Un'intervista «postuma» al regista Mario Monicelli, brevi testi sull' «Astrofisica dell'urna». Tra i vignettisti Giuliano, che firma la copertina e l'intera pagina eroticomica, Giorgio Franzaroli, con un fumetto sulle tresche del trio Berlusconi-Alfano-Samorì, e poi Ugo Delucchi, Frago, Giulio Laurenzi, Giuseppe Del Buono, Antonio Vecchio, Malù, SS-Sunda, Cecigian, le new-entry Paolo Cammello e Stefano Tirasso, Filippo Scòzzari. Il giornale falso/vero nelle pagine centrali, è «Il Porco» fondato e diretto da Libero Suino, illustrato con le grottesche incisioni di Massimo Boccardini e una vignetta di Giuliano.
IL FESTIVAL BERGAMO FILM MEETING 9 - 17 MARZO 2013
Sarà Robert Guédiguian, il protagonista del Bergamo Film Meeting 2013: al famoso regista marsigliese è infatti dedicata la personale di quest’anno. I suoi film ambientati nei quartieri popolari, raccontano la vita dei lavoratori e la solidarietà che emerge nei momenti difficili. Saranno presentati accompagnati da un volume monografico, i diciassette film del regista tra cui Marius e Jeannette (1997), A l’attaque! e La ville est tranquille (2000), fino ai più recenti Le promeneur du champ de Mars (Le passeggiate al campo di Marte, 2005) e Les neiges du Kilimandjaro (Le nevi del Kilimangiaro, 2011) il film che racconta l’attuale stato di crisi. Il regista sarà presente alla manifestazione e terrà una master class per gli studenti di cinema. In concorso lungometraggi inediti in Italia, tra cui Chaika (Spagna, Georgia, Russia 2012) di Miguel Ángel Jiménez, opera seconda del regista spagnolo, già ospite a Bergamo Film Meeting nel 2010, Mobile Home di François Pirot (Francia, Belgio, Lussembrugo 2012), racconto di due trentenni disoccupati, Le monde nous appartient di Stephan Streker (Belgio 2013). Inoltre produzioni indipendenti, un omaggio ad Alec Guinness, sette film della recente produzione europea e la sezione «Falso d’autore» con 10 film di maestri del genere: Losey, Mankiewicz, Clément, Hawks, Orson Welles, Hitchcock. (s.s.)
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ALIAS 16 FEBBRAIO 2013
di GUIDO MARIANI
Nel pop mai nulla è come appare. Ogni canzone è una piccola finzione e ogni interprete veste anche i ruoli di un personaggio. Ma se travestitismi, trucchi scenografici e esagerazioni fanno parte della stoffa stessa con cui è cucito il grande sogno dell’immaginario musicale, in alcuni casi l’industria discografica ha prodotto dei clamorosi falsi e delle vere e proprie truffe. L’era del rock ha collezionato furbi inganni, astuti piani di marketing e autentici raggiri. A volte i protagonisti hanno subito amare conseguenze, più spesso i colpevoli si sono redenti e sono stati amati proprio per il loro inganno. Perché nel magico mondo dello spettacolo il talento è anche l’arte di mascherare la realtà. THE MONKEES Sull’onda della Beatlemania nell’autunno del 1966 negli Stati Uniti si pensò di confezionare un serial televisivo che conquistasse i teenager come aveva fatto il film A Hard Day’s Night. Nacque così lo show The Monkees in cui un quartetto musicale proponeva canzoni e situazioni divertenti esattamente sull’esempio dei Fab four nei loro film musicali. I protagonisti della serie (Davy Jones, Micky Dolenz, Peter Tork e Michael Nesmith) erano solo degli attori-musicisti, reclutati dopo diverse audizioni. Le canzoni del telefilm erano state confezionate, ideate e registrate da session men e in sala di registrazione i Monkees erano poco più di figuranti che obbedivano solo agli ordini sulle parti cantate. Il successo dello spettacolo fu clamoroso e altrettanto clamoroso fu quello dei brani dello show. All’atto, però, di vendere i dischi si pensò di veicolare l’immagine dei Monkees come quella di una band autentica, esattamente come i Beatles, senza accennare che erano in realtà un prodotto di una fiction. La scelta sorprese gli stessi membri della formazione. Ricorderà Nesmith: «Quando vidi il nostro primo album lo guardai con orrore. Non c’era nessun accenno ai musicisti. Ci presentavano come se fossimo stati una rock’n’roll band. Stavamo prendendo in giro il pubblico: noi non eravamo una gruppo rock, stavamo solo recitando!». Dal punto di vista commerciale il trucco fu un trionfo, l’lp di esordio rimase 13 settimane al numero uno della classifica di vendita Usa (un record rimasto imbattuto per più di 15 anni) e i Monkees vennero frettolosamente paragonati ai loro modelli di Liverpool. Eroi in televisione, nelle classifiche e nelle radio, i quattro protagonisti decisero di non mentire ai media e nelle interviste scelsero, sin dalla fine del ’66, a dichiarare candidamente di non essere una vera rock band ma solo di recitare. Il loro successo era però ormai assolutamente inarrestabile e Jones, Dolenz, Tork e Nesmith iniziarono quindi a prendere gli strumenti in mano, a suonare dal vivo e lottarono per interpretare completamente le canzoni della serie. Il loro terzo album, Headquarters, pubblicato nel maggio 1967, era tutta farina del loro sacco e finì ancora al primo posto in classifica. Fino al 1970 pubblicarono altri sei album usciti anche dopo la fine della serie televisiva che li aveva inventati. Collaborarono con un giovanissimo Neil Young e Jimi Hendrix andò in tour con loro. La fiction era diventata realtà. THE ARCHIES Firmarono la più grande hit del 1969, ma non sono mai esistiti. Il brano Sugar Sugar dominò le classifiche di mezzo mondo e divenne un evergreen. Gli Archies erano sulla carta formati da Archie, Reggie, Jughead, Bette e Veronica, ma di carta erano anche fatti, visto che erano una band nata da un fumetto diventato poi un cartone animato (i
Gorrilaz non hanno inventato niente). Le loro hit erano frutto di un team produttivo capitanato dal discografico Don Kirshner che era già stato tra gli ideatori del fenomeno Monkees. Voci e cori degli Archies appartenevano a due cantanti Ron Dante, lead vocalist, e Toni Wine che impersonava le parti femminili. Proprio quando Sugar Sugar dominava le classifiche, nella top ten americana arrivò anche il singolo Tracy opera dei The Cuff Links. Si trattava di un’altra band virtuale, il cui cantante era ancora Ron Dante che si trovò così leader di due band da top ten pur essendo un perfetto sconosciuto. Niente di nuovo per lui che già nel 1965 aveva avuto un successo sotto falso nome con i bizzarri Detergents («i detersivi») un gruppo parodia che aveva pubblicato la hit Leader of the Laundromat («Il capo della lavanderia a gettoni», rilettura ironica di Leader of the Pack delle Shangri-Las). In una recente intervista ha elencato il numero di gruppi, veri o finti, a cui aveva prestato la voce: «The Pearly Gate, The Eight Day, The Two Dollar Question, The Webspinners, Ronnie and The Dirt Riders. Ho inciso un disco con il nome C. G. Rose. E questi sono solo quelli che ricordo». Dante, nomen omen, per un inspiegabile gioco del destino, divenne poi l’editore della prestigiosa rivista letteraria americana Paris Review che pubblicò negli Stati Uniti anche
STORIE ■ GRUPPI INVENTATI A TAVOLINO. COSÌ BELLI, COSÌ IMPERFETTI
Le grandi truffe del rock
alcuni inediti di Italo Calvino. Il cavaliere inesistente del pop. DRIFTERS Iniziarono la carriera agli albori dell’era pop e sfornarono hit a ripetizione per vent’anni, ma furono una delle band più taroccate della storia. Gli originali Drifters, guidati da Clyde McPhatter, dopo una sfilza di successi doo-woop e R&B decisero di sciogliersi alla fine degli anni ’50 di fronte alla prepotente invasione delle band di rock’n’roll che faceva apparire il loro stile vocale un po’ datato, ma anche per le continue liti con il loro manager George Treadwell (trombettista jazz e marito di Sarah Vaughan), che sottopagava i suoi artisti. All’atto dello scioglimento del gruppo, però, Treadwell aveva già fissato alcune date al celeberrimo Apollo Theater di Harlem. Non volendo rinunciare alla prestigiosa ribalta, decise di scritturare un gruppo chiamato Five Crowns, il cui leader era uno sconosciuto chiamato Benjamin Nelson, e di spacciarli per i Drifters confidando che gli spettatori non conoscessero bene i volti degli artisti. Il manager si trovava anche in mano un contratto con l’etichetta Atlantic e decise di continuare il trucco. I nuovi Drifters andarono in tour per un anno guidati da Benjamin Nelson. In alcuni casi però gli spettatori non si dimostrarono così ingenui e riconobbero che la
Invenzioni pop che hanno fatto epoca raggirando fan e istituzioni. Tra produttori, manager e autori pronti a tutto pur di sbancare le classifiche
ALIAS 16 FEBBRAIO 2013
JOEY RAMONE, GLI OGGETTI PERSONALI ALL’ASTA di FRANCESCO ADINOLFI Ottantuno oggetti, tutti di gran culto, tutti appartenuti a Joey Ramone, il cantante dei Ramones, scomparso nel 2001. Vanno all'asta fino al prossimo 21 febbraio (si è aperta ieri) e partono da offerte contenute: $200 per i caratteristici occhiali graduati e $300 per il passaporto (foto)! Il sito online che organizza l'asta (previa registrazione) è all'indirizzo http://www.rrauction.com/preview_gallery.cfm?Category=123. Tra gli oggetti spiccano giubbotti di pelle nera, chitarre, una collezione di vinili (97 titoli con dentro Led Zeppelin, Who, T. Rex, Cream, Bob Dylan, Human League, Iggy Pop, Doors, Temptations, Ventures ecc.), magliette (New York Dolls, MC5,
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Misfits, Beavis and Butt-head ecc.), jeans, guanti di pelle borchiati, bracciali, poster, testi di canzoni ecc. Ogni articolo è meticolosamente descritto, spesso con foto dell’artista accanto all'oggetto in questione. Si apprende così che il numero di passaporto era lo 061041624 e che era stato emesso il 9 settembre 1986. La firma è di Jeff Hyman, vero nome di Joey. Solo la foto vale, con lui a 35 anni, una nuvola di capelli, il volto lattiscente. Quarantaquattro pagine colme di marche da bollo, timbri e visti da tutto il mondo. Le marche vanno dalla fine degli anni Ottanta al 1996. Il passaporto - come il resto degli oggetti - proviene dalla Joey Ramone Estate che fornisce anche un certificato di autenticità. Leggere le caratteristiche dei singoli oggetti è come immergersi nella storia e nella vita del cantante e della band. Si capiscono gusti musicali, vezzi estetici, pratiche di scrittura: il pezzo Elevator Operator appuntato su un cartoncino dell'Alka-Seltzer, Suey Chop (dal film cult dell'83 Get Crazy) su una busta da lettera ecc. Insomma un'asta che serve anche a ricostruire un pezzo di rock.
A sinistra i Monkees e gli Archies, sotto Phil Spector con i soldi in bocca. Qui accanto i Milli Vanilli, in grande i Drifters, le Crystals, Spinal Tap e Andrew WK
musicali e incidendo altri due album. E risultando assai meno ridicoli di tante «autentiche» band di metallari. Nel 2009 hanno annunciato un tour «mondiale» di una sola data tenendo un unico concerto alla Wembley Arena. Ad aprire l’esibizione c’era il trio esordiente dei Folksmen, una folk band fittizia animata dagli stessi tre attori.
band sul palco non aveva nulla a che fare con quella che conoscevano. Piovvero fischi, ma l’inganno continuò. I Five Crowns divennero a tutti gli effetti i Drifters e incisero il singolo There Goes My Baby che divenne il più grande successo della formazione. Il brano, ormai un classico, fu la prima hit da classifica ad avere un arrangiamento orchestrale con i violini e consacrò i Drifters con la nuova line-up. Ma i problemi non finirono qui. Verso la fine del 1960 il leader Benjamin Nelson litigò con Treadwell per questioni di soldi e lasciò il gruppo. Da allora i Drifters hanno avuto una carriera infinita ma con formazioni sempre rinnovate. Lo stesso marchio è stato al centro di lunghe dispute legali proseguite fino ad anni recenti tra gli eredi di Treadwell (morto nel 1967) e i numerosissimi ex membri della band. Negli ultimi vent’anni sui palchi di mezzo mondo sono salite diverse incarnazioni dei Drifters con interpreti che magari avevano passato solo poche settimane nel gruppo. Ma che fine fece Benjamin Nelson? Subito dopo aver sbattuto la porta decise di cambiare nome e darsi alla carriera solista. Il suo nome d’arte divenne Ben E. King e nel 1961 pubblicò Stand by Me. THE CRYSTALS Oggi è un recluso con una condanna di omicidio, ma prima di rovinare la sua vita, Phil Spector è stato uno dei geni indiscussi e indiscutibili della musica pop. Non solo aveva il gusto delle melodie, sapeva anche come venderle. Anche ricorrendo all’inganno. Nei primi anni ’60 il produttore ascoltò un demo della canzone di Gene Pitney He’s a Rebel in una casa discografica di New York. Il brano era già stato prenotato dal produttore Snuff Garrett. Riconoscendone però il valore, Spector decise di ottenerne in segreto una copia dall’autore e portò il demo in California per inciderlo per la sua etichetta, la Philles. Avendo sotto contratto il gruppo femminile delle Crystals, ormai già conosciute, decise che il disco doveva uscire a loro nome. La formazione però era in tour e poiché l’operazione doveva essere
svolta in tempi rapidissimi, Spector non si fece problemi. Reclutò un gruppo emergente sconosciuto, le Blossoms, e fece incidere loro la canzone che fu stampata sui 45 giri a nome delle Crystals che rimasero all’oscuro di tutto fino a che il brano non divenne una hit. Spector usò le royalties del disco per comparare le quote azionarie dal suo socio alla Philles Records, Lester Sill, con l’accordo che Sill avrebbe percepito anche i diritti sui prossimi due singoli delle ormai popolarissime Crystals. Il mefistofelico produttore poi decise di ripetere ancora il trucco delle Blossoms per incidere un’altra hit a nome Crystals He's Sure the Boy I Love. In seguito, per assolvere all’obbligazione contrattuale, fece registrare alle Crystals (questa volta quelle autentiche) una altro singolo (Let's Do) The Screw, una canzoncina in cui il ritornello consisteva nella voce dell’avvocato di Spector che ripeteva Do the Screw. Spector stampò solo una copia che distribuì al suo socio. La canzone non generò ovviamente alcun profitto, ma gli obblighi contrattuali di Spector erano completamente assolti e divenne l’unico padrone della Philles Records. «Screw» in inglese significa «vite, ma in gergo vuol dire anche fottere (in tutti i sensi) qualcuno. Una vera e propria «stangata» degna del film di George Roy Hill.
SPINAL TAP Di tutti i falsari dell’epopea pop rock loro sono forse i più onesti. Gli Spinal Tap nacquero nel 1979 come sketch comico all’interno di uno show televisivo della Abc, su un’idea del regista e attore Rob Reiner. Erano la presa in giro di tutti i luoghi comuni
delle band hard rock e heavy metal. Lo show fu un fiasco e venne rapidamente cancellato, ma Reiner ci riprovò nel 1984, quando venne distribuito il documentario (anzi «rockumentario») comico This Is Spinal Tap. Nel film Reiner raccontava vita ed eccessi di questa immaginaria band inglese i cui membri principali (David St. Hubbins, Nigel Tufnel, Derek Smalls) erano gli attori Michael McKean, Christopher Guest e Harry Shearer. Il successo del film e lo stile documentaristico diedero consistenza reale alla barzelletta. Se i Blues Brothers erano attori-musicisti con pseudonimi, gli Spinal Tap recitarono il ruolo come una vera e propria band, senza ovviamente rinunciare al loro intento parodistico e ironico. Da allora sono diventati un’insolita icona nel mondo dell’hard e dell’heavy e McKean, Guest e Shearer, compatibilmente con i loro impegni di attori (sono tutti e tre caratteristi molto affermati) hanno vestito più e più volte i panni delle star del metal partecipando a festival, comparendo in diversi progetti
MILLI VANILLI Rob Pilatus e Fab Morvan si conobbero a Monaco di Baviera alla fine degli anni ’80. Afro-americani capitati per caso nella città tedesca, iniziarono a esibirsi nei locali come ballerini e cantanti utilizzando anche il nome d’arte di Rob & Fab. Il loro percorso artistico si incrociò con il produttore tedesco senza scrupoli Frank Farian che decise di scritturarli. Farian sapeva bene qual era la ricetta dei successi pop: l’immagine era tutto, la musica un accessorio. Era stato la mente del progetto Boney M. un gruppo che aveva dominato la scena disco dance negli anni ’70 e che era formato da ballerini figuranti, visto che le parti vocali erano spesso di cantanti invisibili tra cui lo stesso Farian. Il produttore decise di ripetere il trucco con le sue due nuove reclute. Scelto il nome di Milli Vanilli, Pilatus e Morvan divennero semplicemente la confezione di una vera e propria truffa musicale. I veri cantanti si chiamavano Charles Shaw e Brad Howell che però Farian giudicava non adatti a comparire nell’epoca in cui la videomusica si era ormai imposta e l’aspetto era decisivo. Cavalcando l’ondata del grande successo del genere che univa rap, r&b e pop ballabile, i Milli Vanilli ebbero un successo mondiale e al di là delle attese. La loro immagine conquistò Mtv, il loro singolo Girl You Know It's True divenne il successo dell’anno. Pilatus e Morvan vinsero il Grammy Award nel 1990 come migliori nuovi artisti. Con un album da sei milioni di copie vendute negli Stati Uniti e singoli al vertice delle classifiche di tutto il mondo, invidie e frustrazioni emersero. L’autentico cantante Charles Shaw minacciò di confessare la truffa e fu zittito con un assegno. Ma quando Pilatus e Morvan pretesero di cantare sul nuovo disco, Farian decise di smascherare il suo bluff, confessando alla stampa tutti i particolari. La casa discografica Arista, dichiarandosi ignara dell’inganno, licenziò il gruppo e cancellò il disco dal proprio catalogo. Farian cercò di protrarre la carriera della band con i veri cantanti e con il marchio «Real Milli Vanilli» ma fu un fallimento, così come disastroso fu l’album uscito a nome Rob & Fab con cui i due figuranti cercarono una loro carriera musicale. Intanto alcuni tribunali Usa sentenziarono che gli acquirenti dell’album del duo avevano diritto a un risarcimento di 2 dollari e mezzo per ogni copia. Nel 1998 Pilatus, Morvan e Farian, riconciliati dopo anni di accuse e litigi, ci riprovarono incidendo un album intitolato Back and in Attack. Ma alla vigilia della pubblicazione Rob Pilatus morì improvvisamente, vittima degli abusi e dei farmaci che aveva iniziato ad assumere quando era scoppiato lo scandalo. L’album non uscì mai. ANDREW WK Nel 2001 la scena musicale venne
scossa dalla presenza decisamente scalmanata di un ragazzetto americano chiamato Andrew WK (all’anagrafe Andrew Wilkes-Krie). Il suo disco d’esordio I Get Wet era un’esplosiva mistura di inni da stadio, hard rock radiofonico, pop ad alto volume. C’è chi definì la sua musica un capolavoro di Abba-metal, facendo riferimento alle contagiose melodie della band svedese. Andrew WK sulla copertina dell’album si presentava con una vistosa macchia di sangue che sembrava sgorgare dal naso, sul palco si dimenava come un incrocio tra Angus Young e Iggy Pop: un headbanger esagitato, autolesionista e senza freni. Dichiarò che il sangue sulla copertina se l’era procurato colpendosi violentemente in faccia con un mattone. C’è chi rimase vivamente impressionato dalla personalità di questo nuovo rocker nato in California e cresciuto a Ann Harbour in Michigan (guarda caso la città di nascita di Iggy Pop). La rivista Nme parlò del suo album come di «un’esperienza straordinaria», lo mise in copertina per due volte in poche settimane definendolo il salvatore e il nuovo messia del rock. L’album generò un singolo di successo Party Hard ma raccolse assi meno trionfi del previsto, diventando più un disco di culto che un bestseller e bazzicando in posizioni di rincalzo delle classifiche Usa e britanniche. Andrew WK ci riprovò poi nel 2003 con l’album The Wolf, mancando però la consacrazione che cercava. Nel 2005 ha così deciso di affiancare alla zoppicante carriera musicale quella di «motivational speaker», un maestro-motivatore che illustra a dirigenti d’azienda e aspiranti uomini di successo i segreti per riuscire nella vita. Durante uno di questi incontri lo stesso Andrew ha candidamente rivelato (come testimonia un video ancora reperibile su YouTube) che il suo personaggio era frutto di uno studio a tavolino creato da un gruppo di musicisti e produttori. Le incisioni erano autentiche ma quel rocker scatenato era solo il protagonista di una sceneggiatura basata su diversi stereotipi del rock. È successivamente emerso che uno dei suoi produttori dal nome Steev Mike era uno pseudonimo di fantasia che celava un musicista piuttosto affermato (c’è chi sostiene corrisponda all’ex Nirvana Dave Grohl). Andrew WK ha poi in parte ritrattato ma di fatto è diventato sempre meno rocker e sempre più personaggio televisivo e di spettacolo, presentando anche un suo reality show. Peraltro anche il sangue sulla copertina era falso. Era stato raccolto in una macelleria.
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RITMI Nella foto grande Woody Guthrie. In alto a destra il serbatoio di acqua di Okemah con la scritta «Home of Woody Guthrie»; sotto il titolo il manifesto di un festival dedicato all’artista e in basso un murales in onore di Guthrie ad Okemah
Sta per uscire negli Usa «House of Earth», romanzo inedito dell’artista ambientato nel Texas della «Grande Depressione» di GORDON POOLE
Woody Guthrie è uno spettro che s’aggira per l’America, e in particolare per la cittadina di Okemah, Oklahoma, dove nacque il 14 luglio del 1913. Per l’Fbi Guthrie era «comunista», ma in realtà il direttore dell’agenzia, J. Edgar Hoover, dava a questo termine un’accezione piuttosto ampia, seguito in questo dal senatore Joseph McCarthy. Un sito internet, Famous People from Oklahoma, elenca ventidue nomi famosi. L’unico nato a Okemah è Woody Guthrie, a cui si concedono solo tre righe in cui si ammette a denti stretti che fu un folksinger, chitarrista e compositore che pubblicò oltre mille canzoni di «social commentary». Nulla se paragonato alle dieci righe dedicate a Carrie Underwood sullo stesso sito, che «è divenuta una delle più importanti figure nella musica di questo secolo». Okemah, cittadina conservatrice, ha avuto difficoltà a riconoscere, per non dire onorare, Guthrie. Però agli inizi degli anni Settanta Earl Walker, un industriale petrolifero, come lo era stato il padre di Woody prima di finire in fallimento, riuscì a far dipingere su uno dei tre grandi serbatori d’acqua che si elevano sopra il suolo piatto, ventoso e, sì, polveroso di Okemah le parole «Home of Woody Guthrie», e anche a superare l’iniziale rifiuto della biblioteca pubblica locale a custodire una raccolta di dischi, libri e memorabilia di questo figlio degenere. Molti cittadini si opposero a qualsiasi riconoscimento perché Guthrie aveva curato una rubrica, Woody Sez («sez» per «says», cioè «dice»), su un quotidiano della costa occidentale, People’s’World, ripresa poi dal Daily Worker che usciva sulla costa est, entrambi organi del partito comunista statunitense. Nelle parole di un suo concittadino, Guthrie «era una nullità. L’ho picchiato più volte». Ma da allora qualcosa è cambiato, anche a Okemah, dove oggi campeggia un grosso murale dedicato a Guthrie. Recentemente sono stati istituiti un nuovo museo e un archivio a Tulsa, sempre in Oklahoma, con il dichiarato intento di mettere da parte il «populismo» dell’artista e concentrarsi sulla sua musica. Questo per uno che aveva scritto sulla propria chitarra «This machine kills fascists» (questa macchina uccide i fascisti)! Woody Guthrie cercava sempre di scansare la domanda se egli fosse comunista o no. Una volta rispose: «I don’t know, but I’m always in the red», cioè: «non lo so, ma i miei conti sono sempre in rosso», alludendo anche alle sue frequentazioni comuniste, e al suo sostegno ai lavoratori negli scontri con i padroni, e ai sindacati. Solo una volta, durante il maccartismo, quando molti ex comunisti cercavano di evitare la questione o di evitare le conseguenze delle proprie trascorse militanze, Guthrie sostenne, probabilmente falsamente, di essere stato iscritto al partito dal 1936. Scrisse una lettera
PAGINE ■ UN INTRECCIO DI AMORE E POVERTÀ SCRITTO NEL 1947
Woody Guthrie, l’insolito caso del libro ritrovato
aperta al procuratore generale degli Stati Uniti per confermare le proprie convinzioni socialiste. Nella stessa lettera ammise, forse mentendo, di non essere mai stato un «bravo stalinista». La destra ha delle difficoltà rispetto a Guthrie. Nato nel cuore del continente nordamericano, figlio di un imprenditore borghese, giramondo con una chitarra sulle spalle, simpatico, creativo, semplice e schietto nel linguaggio, affascinante, un po’ donnaiolo, esemplarmente nonideologico, sincero, appare come una versione di sinistra di personaggi cinematografici come James Stewart o Gary Cooper. Insomma un «all american boy». A Guthrie veniva naturale usare la propria dizione, intonazione e
grammatica middle west e west Texas, come il veicolo più adatto per i propri messaggi musicalmente trasmessi. Presso la Library of Congress sono conservate le registrazioni delle sue interviste con Alan Lomax, durante le quali Guthrie commenta e canta molte delle sue canzoni più note. Ascoltare quei due parlare col dialetto del midwest è talmente contagioso che anche a un bostoniano, per non parlare di un colto ebreo di Chicago come Bob Dylan, viene la tentazione di imitarli. Però Guthrie non era soltanto il cantante girovago: egli aveva anche la capacità di scrivere libri - come Bound for Glory (Questa terra è la mia terra) e Seeds of Man - e sketch radiofonici, raccolti in Woody Sez con una prefazione dello storico del lavoro Studs Terkel (Grosset & Dunlap, N.Y., 1975). E ora arriviamo a una sorprendente ed emozionante scoperta. Neanche la figlia Nora sapeva che Guthrie nel 1947 stava scrivendo un romanzo, House of Earth (Casa di terra), il cui manoscritto rimase abbandonato nello sgabuzzino di un appartamento a Coney Island, New York. Non ve n’è menzione nelle due biografie su Guthrie, di Ed Cray e Joe Klein. L’unica traccia che ne era rimasta è un ricordo trasmesso da Alan Lomax, al quale Woody aveva fatto leggere il primo capitolo. Lomax l’aveva trovato di straordinario interesse, un testo insieme letterario e colloquiale che era la voce di Guthrie al cento per cento, e lo aveva incoraggiato a
continuare. Infatti, Guthrie finì il romanzo. Ma nel 1947, in un clima di sempre più forte anticomunismo, era inimmaginabile far pubblicare un libro simile. Venendo a tempi più recenti, un giovane professore della Rice University, Douglas Brinkley, avuto sentore del romanzo, lo ritrovò. Verrà pubblicato quest’anno, probabilmente in corrispondenza del centesimo anniversario della nascita di Guthrie. Serendipity è, in inglese, l’intervento imprevedibilmente positivo del «caso» negli affari umani. Quello che mosse Buster Keaton, verso la fine della sua vita, a rivelare la presenza nel garage sotto casa di rullini e rullini di suoi vecchi film, le ultime copie rimaste di un patrimonio di inestimabile valore culturale, che egli stava per mandare al macero. Nel nostro caso, l’agente del «caso» è un detective culturale, il professore universitario Douglas Brinkley, che stava intervistando Bob Dylan su tutt’altro argomento. Senonché il
discorso portava inevitabilmente a Guthrie. Guthrie portava a Lomax. Lomax, fu un musicologo e raccoglitore di canti folkloristici che meriterebbe una statua, una piazza, perlomeno una viuzza a lui intestata in tante città italiane, per aver girato il paese, insieme a Diego Carpitella, allievo di Ernesto De Martino, registrando un gran numero di canti popolari nostrani, raccolti dalle labbra dei popolani e delle popolane che li cantavano, registrazioni ora presso la Library of Congress statunitense. La stessa attività musicologica che aveva già svolto negli Stati Uniti con suo padre, prima di espatriare per sfuggire al maccartismo. L’accenno di Lomax a un ignoto romanzo di Guthrie spinse Brinkley alla ricerca del testo, e lo condusse alla fine a un dattiloscritto che Guthrie aveva inviato a un cineasta, Irving Lerner, sperando che questi l’avrebbe usato come soggetto per un film. Lerner poteva forse sembrare a Guthrie una buona scelta: era stato membro della Workers Film and Photo League (Lega dei lavoratori del cinema e della fotografia) nei primi anni Trenta. Però, nel periodo in cui Guthrie gli sottopose House of Earth, era sotto accusa per spionaggio a favore dell’Unione sovietica. Le stesse ragioni che rendevano improbabile la pubblicazione del romanzo nell’epoca della guerra fredda - il comunismo di Guthrie, l’ambientazione nella depressione degli anni Trenta, scene di esplicita descrizione sessuale - avranno sconsigliato a Lerner, nella sua posizione divenuta precaria, di prenderlo in considerazione per un film - in una Hollywood messa in crescente difficoltà ideologicamente da McCarthy, culturalmente dal moralismo bacchettone del comitato
Breen e economicamente dalla concorrenza della televisione. Il dattiloscritto del romanzo, rimasto fra i documenti di Lerner, morto nel 1976, è ora archiviato a Tulsa, Oklahoma, nella McFarlin Library, dove Brinkley finì per trovarlo. Brinkley lo ha così proposto a Johnny Depp, con il quale aveva già collaborato artisticamente, e l’attore cinematografico, nonché editore, bravo chitarrista e appassionato di Guthrie, ne ha condiviso a pieno l’entusiasmo. Scontata la decisione di pubblicare il libro. Il romanzo, a dire di coloro che l’hanno letto, è inconfondibilmente la voce di Guthrie, quella dei suoi sketch radiofonici e delle sue canzoni. Brinkley e Depp hanno fatto leggere una copia pre-pubblicazione a Bob Dylan, il quale ha commentato: «It blew my mind!» (Mi ha messo il cervello in cortocircuito). House of Earth racconta di una coppia, Tike Hamlin e sua moglie Ella May, agricoltori poveri nel Texas degli anni Venti, alle prese con una di quelle tempeste di polvere che spesso figurano nei canti di Guthrie come nella storia di quelle zone. A Tike, come realmente a Guthrie, viene in mente di costruire dimore come quelle degli indiani pueblo nel New Mexico, cioè di adobe, un misto di fango e paglia, tali da resistere alle infiltrazioni della polvere, invece delle capanne di legno multistrato che allora erano tipiche degli agricoltori di quel luogo. L’idea è magari buona in sé, ma il suolo dove vive la coppia è di proprietà delle banche, che sono in combutta con le aziende del legname, con conseguenze prevedibili. Brinkley dice che Guthrie «voleva edificare una comunità di case adobe, ma questo avrebbe significato un danno economico per le aziende del legname. Woody sosteneva che agli agricoltori affittuari dovesse essere consentito di costruire le proprie case in adobe. Quindi il libro costituisce un commentario critico sul ruolo delle grandi banche e dell’agrobusiness durante la Depressione». Guthrie si sarà reso conto che un romanzo sulla «conca di polvere», sugli anni della depressione, sull’espropriazione delle terre degli agricoltori sarebbe stato difficilmente pubblicabile. I critici letterari dell’epoca della Guerra fredda non mostravano interesse per la narrativa del New Deal rooseveltiano e l’esodo dei lavoratori verso la California. La celebrazione della fertilità che si esprimeva in una torrida scena di amplesso sulla paglia avrebbe incontrato i divieti della censura. Sembra che, dopo Lerner, Guthrie non abbia mai più mostrato il romanzo a nessuno. Fra l’altro, cominciava ad avvertire i sintomi della malattia degenerativa che, dopo lunghe sofferenze, l’avrebbe ucciso. Quanto al romanzo adesso sembra arrivato il momento di pubblicarlo. Nelle parole degli editori Brinkley e Depp, «il romanzo è una meditazione su come due persone povere cercano l’amore, cercano di dare un significato alla vita in un mondo corrotto, in cui i ricchi hanno perduto la bussola morale. Sebbene raccontato sullo sfondo dei campi agricoli del Texas sfruttati fino all’esaurimento, il romanzo potrebbe essere ambientato facilmente in un accampamento di rifugiati nel Sudan o in una baraccopoli di Haiti». O forse non è necessario allontanarsi tanto dagli Usa. Quando Brinkley, in un articolo sul New York Times (luglio 2012) annunciò la progettata pubblicazione di House of Earth, egli scrisse tra l’altro che «il Texas oggi si trova nel mezzo di una prolungata siccità; il riscaldamento del globo terrestre è un fatto scientifico; incendi, tempeste di neve e tornado sempre più spesso devastano il paesaggio americano. L’incontestabile convenienza delle abitazioni in adobe è evidente ora più che mai prima. È quasi come se Guthrie avesse scritto House of Earth profeticamente pensando all’estate del 2012».
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ULTRASUONATI DA LUCIANO DEL SETTE GIANLUCA DIANA GUIDO FESTINESE SIMONA FRASCA MARIO GAMBA ROBERTO PECIOLA
ROCK
Cuneiform, etichetta cosmica Grande cosa, quando un disco ci lascia stupiti e convinti, anche se, a priori, sappiamo più o meno cosa attenderci. Alec K. Refearn da anni imprime un suggello di qualità a ogni uscita. Stavolta però, con Sister Death (Sorella Morte, ma nel senso francescano), il bizzarro fisarmonicista e compositore art rock statunitense approda in puro territorio dell'eccellenza. Brani che sembrano schegge lunari strappate al circo, o derive psichedeliche, o ancora riflessioni sulla eversiva carica liberatrice dei principi iterativi in musica come li affrontavano i gruppi kraut rock, una quarantina d'anni fa. Bello perdersi in queste note inclassificabili, come è bello lasciarsi andare nel sontuoso paesaggio elettronico analogico e digitale disegnato da Steve Moore in Light Echoes. Chi ha amato i dischi «cosmici» dei Tangerine Dream e di tutta la variopinta schiera dei Cosmic Jokers troverà qui nostalgici ma assai vitali riferimenti, chi invece ama le acrobazie aggressive, tra prog rock, metal, grindcore e rumorismo assortito si ascolti Heads Full of Poison degli Ahleuchatistas. Il tutto da casa Cuneiform, quasi un garanzia di qualità. (Guido Festinese)
ON THE ROAD Sigur Rós Il ritorno della band islandese, una delle più interessanti realtà della musica alternativa. Jesolo (Ve) LUNEDI' 18 FEBBRAIO (PALA ARREX)
Assago (Mi) MARTEDI' 19 FEBBRAIO (MEDIOLANUM FORUM)
Two Door Cinema Club Torna in Italia la band indie pop nordirlandese. Milano VENERDI' 22 FEBBRAIO (MAGAZZINI
ARBOURETUM COMING OUT OF THE FOG (Thrill Jockey) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Nuovamente in pista gli Arbouretum. La formazione capitanata da Dave Heumann rinchiude in otto tracce un piccolo gioiello. La loro visione psichedelica, ammantata da un retrogusto Seventies, non risulta mai posticcia né derivativa. L’apertura The Long Night apre i cuori rock di tanti, e ha ancor più valore se accostata al sapore stoner di The Promise e World Split Open. Saper tirare il freno in un disco del genere, non è cosa da poco. E loro non sbagliano: la title-track finale è languidamente poggiata su visioni americana sound, complice anche una pedal steel ebbra di Deep South. Complimenti. (g.di.)
DI GUIDO FESTINESE
SPERIMENTALE
Silvia Manco, talento a colori
Una sigaretta «dopo la quiete»
ALESSANDRO FILIPPIG QUARTET PHIL'S FEELINGS (Artesuono) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ C'è anche il pianoforte del grande Claudio Cojaniz a nobilitare il disco del batterista e compositore Filippig, dedicato al tema della libertà in ogni forma. E libertà di usare ogni forma ce n'è in tutti i brani, in questo disco palpitante: con il sax coltraniano di Clarissa Durizzotto, il basso pulsante di Franco Feruglio. Se trovate echi di Rota, del Dixieland, di Don Pullen, di Haden e di Ayler tutti assieme non meravigliatevi: fa tutto parte di un unico racconto. (g.fe.)
La sperimentazione in musica ha molte facce e qui vogliamo provare raccoglierne tre, tre album, quasi in antitesi. A partire dall’ennesimo grande lavoro degli australiani Pvt (già Pivot). Homosapien (Felte/ Audioglobe) prosegue un percorso che mette insieme digitale e analogico, elettronica e rock. A unire tecnologia e tradizione come riescono a fare i tre «aussie» sono davvero in pochissimi. Ma forse sui Pvt siamo poco obiettivi. Decisamente più estreme si fanno le cose quando si parla del giapponese Merzbow, vero guru della sperimentazione. In Cuts (RareNoise) si accompagna alla batteria del polacco Balasz Pandi e ai fiati dello svedese Mats Gustaffson, e il risultato è un muro di suono invalicabile. 71 minuti di noise-jazz senza un minimo cedimento verso qualcosa di «fruibile» all’orecchio. Per appassionati. Chiudiamo con gli esperimenti fatti da dieci artisti (da Zulus a Black Dice, da Philippe Petit a Ema) dell’album del trio psych pop italiano Father Murphy Anyway Your Children Will Deny It, in uscita per Aagoo Records. Le Remix Series danno un taglio decisamente sperimentale e «disturbato» ai brani della band nostrana, e il risultato non è niente male. (Roberto Peciola)
Tre giovani soliste italiane che confermano maturità e talento, bravura e passione, a cominciare da Federica Colangelo, pianista, compositrice, leader del quintetto multietnico Acquaphonica in Private Enemy (distribuzione propria in www.acquaphonica.com) in Germania raduna musicisti statunitensi, lituani, bulgari, olandesi per un delicato sound un po’ world jazz in stile Oregon. Meno sanguigno e più cerebrale l’approccio al jazz di Cettina Donato che, in Crescendo (Jazzy/Egea), dirige la propria orchestra, arrangiando e scrivendo sei dei sette brani in scaletta, con il finale dedicato a Duke Ellington (il suo punto di riferimento), in un turbinio di stimoli vicini anche al magma estetico di un Gil Evans. Per Silvia Manco in Casa Azul (Dodicilune) il caso è un po’ diverso trattandosi di cantante/pianista, ma anche compositrice di metà dei brani (talvolta strumentali, in trio o quartetto) che omaggiano la musica latinoamericana, come del resto avviene pure quando si trasforma in originale vocalist per standard celeberrimi come Cielito lindo o Besame mucho. (Guido Michelone)
L'indipendenza e il desiderio di fare un bel disco. A volte si può. Tre esempi italici. Partiamo con Vera e il suo Heavy Butterflies (Vera Records), in cui la cantautrice salentina dichiara amore totale per quella forma canzone figlia di gente come Zee Avi e Ingrid Michaelson. Acerba sì, ma ricca di talento. Tra i brani la title-track è la migliore del lotto. Dalla Sardegna, via atto di devozione al film di Reitman, con passione e maestria Thank U for Smoking, band che con Dopo la quiete (Tufs Records) rilasciano un lavoro in cui post rock, noise e aspetti folk di marca scandinava si confondono ottimamente. Allegato anche un interessante dvd. Scintillano Delitto e Il ponte di Einstein-Rosen. L'intero lavoro comunque merita. Finale con Arianna Antinori e il suo esordio omonimo per la Abnegat Records. Croce e delizia, avere una voce molto simile a Janis Joplin. Ci vuole una maturità notevole per scrivere una storia rock che non sia epigona di JJ. Lei ci riesce grazie alle radici blues e a una indubbia personalità che propone in una veste 2.1. Brava lei e brava la band. Brillano Freedom e Gone. (Gianluca Diana)
LOCAL NATIVES HUMMINGBIRD (Pias/Self) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ L’esordio, Gorilla Manor, risale al 2009 e ne avevamo parlato benino. E di questo facciamo ammenda, perché dopo più ascolti quel disco si rivelò a noi ben più interessante di quanto ci era sembrato. Oggi i Local Natives tornano dopo un lungo periodo passato on the road che ha lasciato qualche strascico di troppo. In Hummingbird ci sono questi tre anni, e con loro un approccio più maturo. Un lavoro più introspettivo e malinconico, a metà tra easy e indie pop, più british che Usa, ma molto ben fatto. Bello! (r.pe.)
CHARLES LLOYD/JASON MORAN HAGAR’S SONG (Ecm/Ducale) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Sonorità e pronuncia di fascino enorme, specie al sax tenore (all’alto e ai flauti si perde una bella porzione). Una strategia di lirismo intriso di carnalità blues e di magnifiche sensuali ruvidezze nel fraseggio. Lloyd esalta il suo talento in questi 14 brani (5 fanno parte della Hagar Suite, non la cosa migliore della raccolta, anzi) in fitto/rilassato dialogo col pianista Moran. Che trova spunti sontuosi,
lascia da parte il tocco lieve e opta per quello incisivo e pieno, anche lui echeggiando la spiritualità e la sensualità della musica nera. Molti standard famosi, da Mood Indigo a Rosetta, trattati con acume, dedizione e inventiva. (m.ga.)
Nardi, la voce di Lusia Cottigli, il clarinetto di Michele Marini, il caxixi e lo shaker di Ettore Bonafè. L’ascolto degli undici brani somiglia alla narrazione di altrettanti viaggi, fatta da un amico appena tornato: miscela di citazioni, rimandi, episodi. Chiudi gli occhi, e subito sai di essere il viandante a Istanbul, in Macedonia, a Praga la notte, ballerino di La valse de Pierre. Cameristico è una narrazione delicata, soppesata in ogni singola nota, leggera ma decisamente ricca di emozioni. (l.d.s.)
sperimentale. Bologna SABATO 23 FEBBRAIO (ESTRAGON)
Metz La band canadese, all'esordio, si rifà al post punk di Pixies, Pil ecc. Segrate (Mi) MERCOLEDI' 20 FEBBRAIO (MAGNOLIA)
Roma GIOVEDI' 21 FEBBRAIO (TRAFFIC) Bologna VENERDI' 22 FEBBRAIO
Offlaga Disco Pax
(MAGNOLIA)
VENERDI' 22 FEBBRAIO (BRONSON) Cavriago (Re) SABATO 23 FEBBRAIO (CALAMITA)
Julia Kent
Korpiklaani
MON AMOUR)
In Italia la violoncellista di Antony and The Johnsons. Soragna (Pr) DOMENICA 17 FEBBRAIO
Folk metal in salsa finlandese. Gualtieri (Re) SABATO 16 FEBBRAIO
(NUOVO TEATRO)
Settimo Torinese (To) DOMENICA
inglese. Segrate (Mi) GIOVEDI' 21 FEBBRAIO
(FREAKOUT)
The Raveonettes
Simone White
Roma DOMENICA 17 FEBBRAIO (CIRCOLO DEGLI ARTISTI) Milano LUNEDI' 18 FEBBRAIO (TUNNEL) Rimini MARTEDI' 19 FEBBRAIO (VELVET)
Sbarca in Italia la indie band danese.
Tamaryn
(PANIC)
Mono
Bologna LUNEDI' 18 FEBBRAIO (CHET'S)
La band dream pop statunitense. Roma SABATO 16 FEBBRAIO (CIRCOLO
U.K. Subs
L’art rock sperimentale della band giapponese. Roma SABATO 16 FEBBRAIO (TRAFFIC) Mezzago (Mb) DOMENICA 17 FEBBRAIO
DEGLI ARTISTI) Milano DOMENICA 17 FEBBRAIO (TNT)
Darkstar Arriva l'elettronica del trio inglese. Roma SABATO 16 FEBBRAIO (LANIFICIO 159)
RICCARDO TESI CAMERISTICO (Materiali Sonori) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ L’organetto diatonico di Riccardo Tesi va in giro per il mondo in nutrita compagnia. Tra gli altri, il piano di Daniele Biagini, l’oud di Elias
A CURA DI ROBERTO PECIOLA CON LUIGI ONORI ■ SEGNALAZIONI:
[email protected] ■ EVENTUALI VARIAZIONI DI DATI E LUOGHI SONO INDIPENDENTI DALLA NOSTRA VOLONTÀ
(ORION)
Ciampino (Rm) SABATO 23 FEBBRAIO
INDIE ITALIA
«Homosapien» d’Australia
NICK CAVE & THE BAD SEEDS PUSH THE SKY AWAY (Kobalt) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ «All’albero non interessa che cosa cantano gli uccellini» attacca We No Who U R, uno dei pezzi migliori di questa nuova sortita con i Bad Seeds. Cave resta l’emblema del cantore delle tragedie personali alla ricerca di redenzione. Sa far sfilare la sua natura poetica «nera», densa e ossessiva con una carica psicodrammatica lucida ed elegante come un corvo parlante investito di tutta la saggezza della follia. Questo disco racconta il tragico e il morboso, il crepuscolare e il commovente, la traccia di sempre di uno spirito maudit che spinge ogni cosa verso l’ineluttabile. (s.fr.)
La cantautrice pop folk incide per la Honest Jon's di Damon Albarn. Mantova SABATO 16 FEBBRAIO (FUZZY) Marostica (Vi) DOMENICA 17 FEBBRAIO
GENERALI)
JAZZ
Il loro primo album risale al 1979. Esperienza da vendere per la punk band londinese. Con loro Tv Smith. Milano SABATO 16 FEBBRAIO (ZAM) Bologna DOMENICA 17 FEBBRAIO (FREAKOUT)
Brad
Peter Doherty
In Italia la rock band di Seattle, side-project di Stone Gossard dei Pearl Jam e Shawn Smith dei Satchel. Milano SABATO 23 FEBBRAIO (MAGAZZINI
L'ex leader di Libertines e Babyshambles in versione solista. Brescia VENERDI' 22 FEBBRAIO (LATTE+) Monte San Savino (Ar) SABATO
GENERALI)
23 FEBBRAIO (LE MIRAGE)
Crystal Castles
Lucy Rose
Dal Canada i paladini dell’elettropop
Unica data italiana per la cantautrice
(BLOOM)
Yellowcard Una data per la band punk pop di Jacksonville, Florida. Ciampino (Rm) GIOVEDI' 21 FEBBRAIO (ORION)
Gallon Drunk L’antitesi del brit pop è racchiusa nel sound di questa band dell’underground londinese, superstite degli anni Novanta. Genova MARTEDI' 20 FEBBRAIO (TEATRO
(TEMPO ROCK) 17 FEBBRAIO (SUONERIA) Ciampino (Rm) LUNEDI' 18 FEBBRAIO (ORION) Roncade (Tv) MARTEDI' 19 FEBBRAIO (NEW AGE)
Glen Hansard + Lisa Hannigan Nella stessa serata il leader dei Frames e degli Swell Season e la raffinata cantautrice irlandese. Milano MERCOLEDI' 20 FEBBRAIO (LIMELIGHT) Roma GIOVEDI' 21 FEBBRAIO (AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA) Firenze VENERDI' 22 FEBBRAIO (VIPER)
Kendrick Lamar L'hip hop dell'artista californiano per la prima volta in Italia. Unica data. Milano MARTEDI' 19 FEBBRAIO (MAGAZZINI GENERALI)
Paolo Benvegnù
LA CLAQUE)
Il cantautore, ex Scisma e leader della band che prende il suo nome. Vigonovo (Ve) SABATO 16 FEBBRAIO
Madonna dell'ALbero (Ra)
(STUDIO 2)
Prosegue il Gioco di società del trio reggiano. Torino SABATO 23 FEBBRAIO (HIROSHIMA
Linea 77 Il crossover della band piemontese di nuovo in tour. Perugia SABATO 16 FEBBRAIO (URBAN) San Vittore di Cesena (Fc) SABATO 23 FEBBRAIO (VIDIA)
Xabier Iriondo Il chitarrista e sperimentatore, già con gli Afterhours, presenta il suo primo album solista, Irrintzi. Prato SABATO 16 FEBBRAIO (CAPANNO BLACK OUT)
Tre Allegri Ragazzi Morti Il trio indie rock friulano in tour. Roncade (Tv) SABATO 16 FEBBRAIO (NEW AGE)
Cagliari SABATO 23 FEBBRAIO (FBI)
Go Dai Fest Cinque serate, cinque mesi, cinque direttori artistici sull'idea dei cinque elementi, terra, acqua, fuoco, aria e vuoto. Il terzo appuntamento è affidato alla regia di Roberta Sammarelli, bassista dei Verdena, e ospita Verbal, Spread, Edible Woman e il dj set di Demons at Play. Roma VENERDI' 22 FEBBRAIO (ANGELO MAI)
FRASCATI DOC Si potrebbe iniziare con una citazione da Giovanna Marini, che, a richiesta di un suo commento sul fenomeno della cosiddetta «world music» rispose con understatement che poco ne sapeva, avendo lei impiegato decenni solo a decifrare Frascati e gli altri contorni sonori del territorio attorno a Roma. Affermazione con gran messe di verità, ovviamente: perché il grandangolo globale sulle musiche di tradizione orale e il microscopio locale bisogna maneggiarli (e, all'occorrenza, saperli integrare) con eguale perizia. Su quest'ultimo tema, il locale che si rivela scorcio umano, sociale, culturale di incredibile ricchezza, nella tessitura polifonica di voci da salvare prima che sia troppo tardi, e, ancora una volta, a marcare la stretta interdipendenza tra culture urbane e culture contadine ha lavorato una vita Alessandro Portelli, firma ben nota ai lettori del Manifesto. Il presidente del Circolo Gianni Bosio e docente de La Sapienza ha la curatela di un magnifico cofanetto che riunisce un libro corposo e un doppio cd, Mira la rondondella/Musica, storie e storia dei castelli romani (Squilibri edizioni, seconda edizione per la serie che recupera il glorioso marchio «I Giorni Cantati»). All'opera per il testo Ugo Mancini, Lidia Liccioni, Omerita Ranalli, per rimettere assieme i pezzi dispersi di una ricerca quarantennale che ha interessato i Castelli romani. Gramsci e Garibaldi, la Resistenza e l'anticlericalismo popolare, il povero «tempo libero» delle gite ai Castelli e un filo teso che arriva fino all'oggi dei migranti e delle lotte per l'ambiente, con apparato iconografico curato dallo stesso Portelli. Parodie, canzoni, saltarelli, stornelli, canti rituali definiscono nei cd un panorama sonoro variegato che rischiava, almeno in parte, il consueto oblio.
¶¶¶ UN ALTRO OBLIO scongiurato con le pagine, le tracce sonore e le fonti video che riempiono rispettivamente il testo, il cd e il dvd che assieme formano i Patrimoni sonori della Lombardia/ Le ricerche dell'Archivio di Etnografia e Storia Sociale (Squilibri Edizioni), a cura di Renata Meazza e Nicola Scaldaferri. Nel testo il punto su trent'anni di ricerche per una delle più significative realtà di valorizzazione del cosiddetto «patrimonio immateriale», nel cd la riproposta di un raro disco in vinile che fu curato da Roberto Leydi nel 1972, completamente inediti i materiali proposti nel dvd, distinti in Spettacolo ambulante, Carnevali, Rituali urbani, Feste religiose, Ritratti di grandi protagonisti della cultura popolare.
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ALIAS 16 FEBBRAIO 2013
INCONTRO CON L’ARTISTA SUDANESE MUTAZ ELEMAM
ALIAS 16 FEBBRAIO 2013
di VINCENZO MATTEI
●●●«African Art: così amano etichettarci gli artisti occidentali. È come dire: ’voi avete quello spazio là, diciamo un 10%, dove rimarrete sempre, per noi invece l’arte è tutto, è il 100% in assoluto dello spazio, perché siamo l’espressione della vera arte’. È veritiero questo? Che cosa differenzia un artista africano, asiatico… da uno europeo? È come se esistessero due livelli e concezioni dell’arte e della pittura, è un approccio sbagliato». Questa è una delle risposte di Mutaz Elemam, pittore sudanese di spessore che attraverso i suoi quadri estrapola il Sudan, l’Africa e qualcosa che va oltre i confini continentali per abbracciare un discorso più ampio, più umano che non conosce barriere. «Clima», «Black Touch», «Il fiume», «Co2» … sono questi alcuni dei concetti che Mutaz tratta, ma sono solo dei cliché, degli stereotipi con i quali è costretto a etichettare la sua pittura per evitare di essere tagliato fuori, per non uscire dal business. Parte da Kassala, un minuscolo paese sudanese al confine con l’Eritrea, vecchio possedimento italiano durante l’era del colonialismo. Là il clima è mite, le arance nascono senza additivi e le montagne rocciose proteggono il villaggio dalle intemperie naturali e dagli attacchi culturali. È stata una sfida quella di El Imam diventare pittore, perché in Sudan gli artisti vengono considerati persone strane, fuori dal comune. «Negli anni ’50 e ’60 - dice Mutaz Elemam - molti artisti andavano a studiare all’estero. Ritornavano in patria con un atteggiamento distaccato, parlavano un linguaggio (europeo) che nessuno comprendeva, lontano dal popolo e dalla reale condizione del paese. Parlavano con il linguaggio dell’arte occidentale, moderna, che non aveva alcuna base
«La mia Africa è intossicata e terra di faide» I miei genitori erano contenti della mia scelta di diventare pittore, poi arrivò il disprezzo del villaggio. Il loro appoggio venne meno, fino a quando capirono che parlavo del mio paese
e riferimento con il Sudan. Così furono visti come degli ’stranieri’ in patria. I miei genitori, all’inizio, erano contenti della mia scelta di diventare pittore, poi dovettero confrontarsi con il disprezzo e la diffidenza dei propri amici, dei conoscenti e dell’intero villaggio. Il loro appoggio venne meno, fino a quando capirono che il mio modo di comunicare non era distante dalla realtà che li circondava ogni giorno. Hanno compreso che io parlo del Sudan, e attraverso il Sudan affronto la condizione dell’uomo e dell’individuo». Erano pochi gli artisti che riuscivano ad andare a studiare all’estero, soprattutto quelli raccomandati e che compiacevano i governi in carica. Costituivano la cerchia di artisti sudanesi meno quotati, che vincevano borse di studio attraverso la corruzione e la vicinanza a qualche politico in carica. In questo modo si mostrava una faccia retrograda e priva di vigore della produzione «africana», perché non era l’espressione autentica dell’arte del Continente Nero. Mutaz ha viaggiato molto nell’Africa orientale. Uno dei suoi sogni era riuscire a dipingere il Nilo dalla fonte allo sfociare nel mare Mediterraneo. Attraverso le sue acque voleva parlare dei paesi e delle culture che questo fiume millenario attraversa. Poi si è imbattuto nella reale condizione che caratterizza quasi tutto il continente africano: lo sfruttamento. Ha visto le falde inquinate delle acque, l’immondizia endogena che si trova lungo il letto del fiume, le lotte fratricide per la conquista delle risorse e del controllo, appoggiate di volta in volta da potenze esterne interessate solo al depauperamento del suolo e delle risorse naturali. Quel Nilo che tanto platonicamente vedeva come fonte di contatto e di idillio è apparso svilito, svuotato della sua potenza comunicatrice, ridotto a mera fonte di faide di potere e di giochi poco interessati alla reale condizione delle genti che vi vivono intorno. Così sono nati i suoi concepts painting. Discutere di clima, inquinamento, Black touch, Co2 è solo un modo di trattare altre tematiche più profonde, che riguardano le malversazioni che devono sopportare quotidianamente le genti africane. È una storia conosciuta: le corporation approfittano delle diatribe esistenti all’interno delle diverse nazioni quali Sudan, Etiopia,
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A sinistra, grande, l’artista Mutaz Elemam nel suo studio (foto di Vincenzo Mattei); qui accanto, «Fiume» (particolare) e sotto, «Autoritratto»
Somalia, Nigeria, Ghana… per fare il propri comodi. Il political vacui abbinato alla confusione socio-economica di questi paesi porta al malaffare e le aziende internazionali trovano terreno fertile per attuare le proprie politiche economiche spregiudicate. L’eco dello smaltimento tossico dei rifiuti è conosciuto, le organizzazioni internazionali sono a conoscenza che il Ghana è diventato la pattumiera americana ed europea per lo smaltimento dei rifiuti hi-tech, che la Somalia è la discarica dei rifiuti sanitari italiani, che il Niger e il Mali sono le miniere di uranio della Francia (vedi guerra in corso nel nord del Mali)… Ciò che colpisce, e che dovrebbe fare scandalo, è la mancanza della risposta politica internazionale e dei cosiddetti «paesi civili», il vuoto giornalistico su queste tematiche così scottanti che riguardano la vita di milioni di persone nel mondo. E non è una buona giustificazione lasciar correre, pensando che si tratti di posti lontani migliaia di km, perché forse, senza saperlo, quei rifiuti tossici allontanati tanto facilmente e frettolosamente, possono ripresentarsi sulla tavola o sui mobili di casa di molte ignare famiglie occidentali. «Il Niger costituisce la miniera di uranio per la Francia ed è uno dei paesi più poveri in Africa. Le politiche di sfruttamento francesi non favoriscono il miglioramento delle condizioni di vita nel paese, favoriscono invece l’emigrazione illegale verso l’Europa. Quelli che emigrano sono persone che hanno vissuto di stenti e sotto un regime di segregazione. Quando arrivano in Francia o in Spagna, pensano solo a loro stessi, senza fare nessun tentativo per sensibilizzare l’opinione pubblica su ciò che accade nel proprio paese. Questa purtroppo è una situazione molto diffusa in Africa» Le uniche relazioni artistiche che sussistono tra il Sudan e i paesi occidentali sono legate intimamente con quelle politiche. Gli artisti che non rientrano in questa speciale categoria sponsorizzata dalle pubbliche istituzioni, si ritrovano ad essere semplicemente emigranti. «Conosco centinaia di sudanesi che vivono in Europa, Australia, America… che erano artisti bravi e quotati, ora lì fanno i meccanici, lavorano nei campi o come commessi in un negozio. È un vero peccato perché molti avevano delle ottime possibilità nel campo artistico». Per Mutaz, esistono moltissimi problemi nel suo paese d’origine, come nel resto dell’Africa, ma un artista vero è colui/colei che riesce a scardinare i propri confini personali e provinciali per poter comunicare con il mondo. «Un artista che fa arte solo per il proprio interesse, solo per farsi pubblicità a livello internazionale e poter accrescere la sua fama, non è un artista. Costui è quello che manda un messaggio ancora più forte, che racconta delle problematiche esistenti per fare in modo che siano risolte, per dare voce alla gente. Solo così l’arte può raggiungere il proprio obiettivo. Se sei intellettualmente onesto, la gente ti ricorderà anche dopo la tua morte, e si ricorderà della tua arte». «In Sudan la maggior parte degli artisti ’ufficiali’ sudanesi è classificato dentro gli schemi del governo; se si ha l’appoggio dello Stato si ha la possibilità di poter partecipare a biennali e mostre in tutto il mondo, altrimenti sei tagliato fuori». Gli schemi sono talmente rigidi che lambiscono una struttura artistica di stampo sovietico, infatti sono i regimi dittatoriali che esistono in Africa a dettare le linee guida. «Purtroppo il 90% dei governi in Africa sono il risultato delle scelte fatte fuori i confini continentali, sono i governi dei potenti e delle multinazionali che decidono i governanti delle nazioni africane, sono loro che stabiliscono la linea politica per i propri interessi corporativi, l’individuo non esiste, SEGUE A PAGINA 16
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ALIAS 16 FEBBRAIO 2013
L’IMPEGNO CIVILE È ANCHE UN FATTO CREATIVO
PENNELLI CONTRO LO SFRUTTAMENTO
Piccola, Mutaz Elemam; sopra a sinistra, «Moltitudine africana astratta; sopra a destra, «Testa di uomo». Sotto: «Gruppo di donne sudanesi»
SEGUE DA PAGINA 15 il cittadino è una parola stampata su carta che vale meno di zero. Gli artisti di Stato non servono a nessuno, tanto meno alla nazione da cui provengono, tutto l’opposto, creano antipatia nei loro confronti perché visti come alieni, che non capiscono la realtà in cui si trova il paese. Solo l’artista che lotta ed esprime l’anima del paese da cui proviene può essere chiamato artista, gli altri sono solo scarti che la società reale non riconosce» Mutaz ha studiato Belle arti a Khartum, fin da piccolo era affascinato dalla pittura, esternandola prima attraverso gli esercizi di grafica calligrafica di arabo scritto, poi attraverso i murales sparsi nel suo villaggio di Kassala, fino ad approdare negli anni all’accademia della capitale. «Il viaggio è molto importante per la maturazione individuale e inconscia dell’artista». Sono i colori che caratterizzano le pennellate e le spatolate di Elemam. «Perché provengo dal Sudan, un paese che racchiude i quattro microclimi dell’intero pianeta: il deserto, la foresta equatoriale, la steppa a ridosso del mar Rosso, le temperature temperate vicino all’Eritrea con le sue alluvioni annuali. È così che sono riuscito e ripetere la stessa gamma di colori che ci sono nel mio paese». I tratti a volte sono fermi e fluidi, altre volte gettati di scatto, in un figurativo contemporaneo che supera l’etichetta di «africano». Si ritrovano nei suoi quadri i milioni di africani incolonnati dentro una socialità collettiva di persone fuori una moschea, oppure la soggettività di una ragazza vista attraverso le sue ginocchia e il suo abito rosso. La fragilità femminile è racchiusa nelle spalle cadenti,
mentre la forza e la determinazione caratteriali sono raccontate dalla postura delle ginocchia che sembrano sfidare il mondo. La dedizione nel lavoro e la tecnica sono fondamentali nelle opere di Mutaz Elemam. A volte sono figure morbide, altre volte dure e marcate. In alcuni momenti richiama le figure piane, di una pittura primitiva, piatta, senza spessore né profondità, come l’incubo della matematica rappresentato in un dipinto autobiografico, dove l'artista stesso appare intrappolato nel letto circondato da numeri e formule incomprensibili. Eppure, anche in quella rappresentazione tanto scarna di un uomo addormentato, consunto e tormentato, traspare una tecnica che sviscera il corpo e fa trasparire tutta la sofferenza del viso e dell’animo. Altre volte le pennellate si fanno soavi, senza che il messaggio si perda, come nel caso della donna dall’abito rosso, o in un altro autoritratto (per la mostra dal titolo Co2) in cui l’immagine dell’artista sembra ingabbiata dentro una camicia di forza insanguinata. Ricorda da una parte le foto, mostrate durante
l’intervista, di un Mutaz Elemam più giovane, che impugna un kalashnikov a causa della guerra civile che ha martoriato il Sudan dal 1989, dall’altra le lacerazioni di un qualsiasi africano costretto a subire le vessazioni e le umiliazioni delle multinazionali. Molti quadri sembrano reinterpretazioni dei propri incubi e paure, altri abbracciano un concetto più ampio che supera i confini
dell’individuo e di una sola nazione. Ci si imbatte nel colossale dipinto del Fiume, lungo 8 metri, che parte dal lago Vittoria fino ad arrivare al delta del Nilo. In quegli otto metri sono racchiuse le sofferenze, le paure, l’inquinamento e lo sfruttamento di milioni di persone, di uomini e donne che reclamano il diritto a una vita decente senza doversi prostrare ai favori dei potenti.
La mancanza di supporto pubblico (e privato) in Sudan fa in modo che molti artisti emigrino per trovare l’ambiente idoneo per focalizzarsi sulla propria arte. Parafrasando l’aforisma non è la destinazione che conta, ma il viaggio, questo vale anche per Mutaz. «Andare da Kassala a Khartum è stato molto importante per migliorare il mio stile pittorico. Però trasferirmi al Cairo è stato un
ulteriore passo per sviluppare il mio inconscio artistico e il messaggio che voglio trasmettere attraverso la mia pittura. Il Cairo dà la possibilità a molti artisti di proporsi senza dover fare i lacchè a nessun governo. Quello che chiedo come artista è di poter vivere della mia arte, mi piacerebbe che ogni mio quadro fosse venduto e vissuto per il valore che ha, permettendomi di vivere decentemente. Ora sono contento perché i miei quadri si trovano in molte gallerie cairote e online presso la galleria Saatchi, è una soddisfazione personale». Recentemente, Mutaz Elemam ha partecipato alla Biennale di Pechino 2012, come unico artista sudanese. È stato ospite del AfroCam di Casoria, in Macedonia, a Berlino, a Sarajevo, e in molte altre capitali europee. Il concetto è alla base della pittura ma non solo, tra gli intrecci e i colori c’è l’Africa, ma anche lo sfruttamento e il riciclaggio dei rifiuti tossici. Mutaz racconta come l’immondizia venga raccolta e divisa per materiali, per poi essere caricata su navi cinesi, dirette verso piattaforme in mezzo all’oceano, in pieno mare internazionale, dove non vige la giurisdizione di nessuno. Lì, su piloni conficcati nelle acque, ci sono vere e proprie fabbriche cinesi che producono di tutto: sigarette, cemento, ornamenti per la casa, forchette, bottiglie di plastica … prodotti senza nessun controllo che verranno riversati dentro il mercato africano. Un mercato alla deriva, nelle mani di chi pensa solo all’ottimizzazione del profitto, costi quel che costi. Ci sono prove di tutto ciò? «Noi sappiamo che è vero. Ho attraversato l’Egitto, il Sudan, l’Etiopia, la Somalia, il Kenya, l’Uganda … tutti sono al corrente di come funzioni e tutti si accontentano di pochi spicci. Non ho prove, ho solo storie che si tramandano di bocca in bocca, che valicano i confini …». Le storie, in qualche modo, hanno sempre, amaramente, un fondo di verità. Co2, Fiume, Black touch, Clima… le figure nei quadri di Mutaz sono spesso circondate da un alone tratteggiato come le sagome dei cadaveri sulla strada di un film poliziesco, perché - qualsiasi sia il titolo della mostra o qualsiasi storia sia raccontata - un messaggio inquietante rimane sottinteso dietro i colori e le pennellate: siamo tutti vittime.