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SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO»
SABATO 22 DICEMBRE 2012 ANNO 15 N. 50
EFFETTO ANNA Immagine da «A proposito degli effetti speciali» di Alberto Grifi (2001)
FUORI CAMPO
Il segreto degli spezzoni mancanti: la verità del cinema contro
Sconosciuto fuori dall’Italia, «Anna» di Grifi e Sarchielli racchiude ogni seme e componente segreta di un periodo mitico e espolsivo, l’Italia degli anni 70. Dopo Londra lo riscopre Artforum e l’America di ALESSANDRA VANZI
●●●Anna. È un paese strano il nostro, un paese cattolico, pieno di sensi di colpa, addirittura quello, dal peso insopportabile, del peccato originale, quello che , secondo i cattolici, ci portiamo appresso fin dalla nascita. Sarà per questo che, soprattutto nel mondo dell'arte, per poter riconoscere fino in fondo la grandezza di un artista tendiamo a rendergli la vita impossibile, vogliamo toccare con mano il sacrificio, come fossimo un accolita di medici sadici, perchè solo dopo la
sofferenza estrema si giunge alla redenzione cioè, nella nostra contemporaneità, alla fama, al riconoscimento, al successo. Purtroppo spesso e volentieri qui da noi, escludendo favoritismi e nepotismi, solo due sono le strade per l'affermazione della propria arte: l'emigrazione, con curiosità ed interesse viene accolto chi torna dall'estero con un nome già rodato dai mercati oltre confine (meglio ancora se oltreoceano); o la morte, un'artista defunto vale molto più di un vivente e, soprattutto, lascia la possibilità a chi gli sopravvive
(generalmente critici e mercanti) di libera interpretazione e valutazione e, naturalmente, tradimento. È una regola quasi sempre valida. Alberto Grifi la conosceva e cercò con tutte le sue forze di sfuggirne l'inesorabilità. Quando, alla fine della sua vita un mese esatto prima di morire, gli diedero, per mano di Goffredo Bettini all'Auditorium di Roma, un premio alla carriera io non sapevo se ridere o piangere. Per fortuna Alberto ne fu contento. Adesso, a cinque anni dalla sua morte, assisto al suo riconoscimento internazionale,
adesso Anna, primo film girato con uno dei primi esemplari di video registratore, ha intrapreso il suo viaggio nel mondo accolto con meraviglia ed interesse grazie ai sottotitoli che la Viennale ha provveduto a far mettere, al restauro fatto dalla Cineteca Nazionale con il Laboratorio La camera ottica di Gorizia e alla collaborazione dell'associazione AlbertoGrifi che ha messo a disposizione tutto il materiale. Il lavoro di restauro comprenderà il salvataggio (ancora in corso) di tutte le 11 ore di girato, anche i pezzi non
montati quindi, che man mano che saranno pronti accompagneranno in «tournée» il film. Così dal 2011 ad adesso Anna è passata per Rotterdam, Montreal, Londra (alla Tate Modern), New York, Marsiglia, Parigi e Vienna, dove sono stati proiettati altri nove lavori di Grifi insieme a Anna. Finalmente ho potuto vedere alcuni spezzoni che mi erano sconosciuti e capire meglio. Proprio la visione di questo girato che era stato eliminato dal montaggio definitivo mi ha spinto a SEGUE A PAGINA 4
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ALIAS 22 DICEMBRE 2012
UNDERGROUND
COME FARE A PEZZI HOLLYWOOD
LA VERIFICA INCERTA ●●●Nel 1964 Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi strapparono al macero 150.000 metri di film hollywoodiani, dopo i 5 anni di sfruttamento legali (per 15 mila lire). Rimontarono con scienza dadà il tutto (finendolo in spider verso Parigi, dove Duchamp presenziava all’anteprima) e produssero un capolavoro d’avanguardia che inebriò anche John Cage, con cast e ritmica dell’avventura ineguagliabile. Così nacque il film dei film, «La verifica incerta», alle scaturigini di Blob, raccontata in un libro del 2004 a cura di Carla Subrizi (DeriveApprodi) con scritti di Aprà, Baruchello, Eco, Ghezzi, Grifi, Pivano, Paolozzi.
1972-2012
di RACHEL KUSHNER * Traduzione e cura di Gianluca Pulsoni
●●●«Ospedali, prigioni, e caserme sono così. Una volta che sei dentro, sei fregato… sei malato perché non capisci la loro medicina», dice Vincenzo Mazza, al momento in cui incontra e diagnostica con sorprendente chiarezza la natura repressiva della vita in Italia per un proletario come lui nell’anno 1972. Lui è un personaggio secondario e reale di un film che ha soprattutto come protagonista una ragazza di nome Anna, il cui cognome nessuno sembra ricordare, o che è possibile nessuno abbia mai saputo – senza contare il fatto che si caratterizza come centro di gravità e stella di questo film di quasi quattro ore, che porta il suo nome e nel quale lei, come Mazza, recitano solo se stessi. Nel febbraio 1972, Massimo Sarchielli, un attore professionista che vive a Roma, raccoglie Anna – sedici anni, senza casa, tossicodipendente, e incinta di otto mesi – e la lascia stare nel suo appartamento. Gli viene in mente di fare un film su di lei e chiama Alberto Grifi, ormai una figura importante nel cinema sperimentale (il suo film stile Bruce Conner, La verifica incerta, realizzato con Gianfranco Baruchello nel 1964, è considerato un esperimento innovativo con il foundfootage). Grifi filma le ricostruzioni del passato di Anna e gli incontri iniziali di Sarchielli con lei. «Da dove vieni?», Sarchielli le domanda in una di queste ricostruzioni di scena, essendosi avvicinato a un tavolo all’esterno di un bar nel quale lei è seduta. «Cagliari», lei dice, una risposta che Sarchielli le domanda di ripetere, suggerendo quasi che quell’impoverita Sardegna, della quale Cagliari è il capoluogo, sia un tantino fuori dal suo orizzonte. Queste scene hanno luogo dove Anna incontrò Sarchielli, a piazza Navona – ritrovo di fannulloni, chiassosi, capelloni, tutte quelle persone facenti parte del proletariato romano che Pasolini aveva in un primo tempo celebrato e feticizzato ma che dal 1972 iniziò a condannare. Anna, sebbene facente parte del genere sbagliato per incarnare l’archetipo perduto di Pasolini, rifiuta nonostante tutto la teoria del cineasta che vuole che la classe sottoproletaria italiana avesse subito una «mutazione antropologica», una degenerazione fisiognomica portata dalle abitudini consumistiche. Lei possiede invece la beatitudine di una madonna rinascimentale, come la mdp riconosce, fissandola con una dilatata persistenza warholiana. Con Anna è capitato come con certi soggetti di Warhol, non ne sentiamo più notizia, come il Patrick Tilden-Close di Imitation of Christ (1967), dove l’elettrizzante presenza di una bellezza filmata e di uno sguardo stesso ossessivo formano un vivido e misterioso documento storico: di «stelle» che esistono puramente come stelle, lasciando nessuna traccia delle loro vite fuori dallo schermo, fuori dal loro momento di celebrità di celluloide. Il loro unico ricordo è quello su pellicola. Quasi sconosciuto per i successivi trentasei anni fuori dal Paese dove è stato realizzato, come se fosse sottochiave, Anna racchiude apparentemente ogni seme e componente segreta di quel periodo mitico ed espolsivo, l’Italia degli
anni settanta. Recentemente restaurata dalla Cineteca Nazionale e dalla Cineteca di Bologna, la copia è stata vista l’anno scorso al Festival di Rotterdam e nel 2011 a Venezia, dove il film era stato proiettato originariamente nel 1975. Inoltre, è stata vista questa primavera scorsa alla Tate Modern, in simultanea con la retrospettiva dedicata ad Alighiero Boetti, il cui stesso lavoro negli anni settanta guarda alle agitazioni politiche italiane di quegli anni. Questo restauro e rinascita sono in linea con il crescente interesse nei confronti del complesso maggio italiano. Anna, infatti, illumina con unicità un momento storico che riguarda fenomeni contemporanei come Occupy, i movimenti europei di anti-austerity, e forse persino la primavera araba, che è ancora poco compresa. Dovremmo quindi essere grati alle contingenze della sorte, che, per molti anni parevano oscillare tra il riportare Anna a una luce pubblica e il lasciare il film nel bidone della spazzatura. Dopo aver viaggiato nel circuito dei festival degli anni settanta, da Berlino a Venezia a Cannes, il film è caduto nel dimenticatoio per ragioni poco chiare (c’è persino una speculazione che fosse stato tolto dalla circolazione a causa delle potenziali complicazioni legali derivanti dallo status di minore della ragazza). Estrapolato da undici ore di girato, Anna è stato il primo film in Italia ad essere realizzato su registratore video a bobina aperta (più tardi trasferito su 16 millimetri con l’uso di una macchina, il vidigrafo, inventata da Grifi), e il formato si dimostrò cruciale nello svolgimento del film. Come Grifi spiega in una sequenza introduttiva (curiosamente assente dalla versione restaurata), il video ha modificato la sua relazione col tempo e la sua rappresentazione di questo. Il tempo non era più denaro, come per i film costosi, ma qualcos’altro: era diventato un matrix attraverso cui un cineasta poteva in ultimo muoversi senza limitazioni, catturando non solo i momenti della vita più quieti e apparentemente insignificanti, ma anche interi tratti non consequenziali. Nella sua relazione coi cineasti, vengono concessi ad Anna tempo e comodità, perché non era più sulla strada. E la mdp aveva così altrettanto tempo e comodità per osservarla, grazie al basso costo del video. Ma come gli antropologi hanno insegnato, osservare è contaminare, e in questo caso, Grifi e Sarchielli non furono
Sedici anni, tossicodipendente senza fissa dimora, incinta di otto mesi, nell’occhio rivoluzionario del cinema sperimentale semplicemente osservatori. Si presentarono come i salvatori del loro soggetto. La storia – il «soccorso» di Anna – fu originariamente concepito da Grifi e Sarchielli nello spirito del cinema diretto, lungo le tracce dei lavori di Jean Rouch, Cronaca di una estate (1961), del Chris Marker di Le jolie mai (1963), e del concetto neorealista di «pedimentamento» come lo aveva sviluppato lo sceneggiatore Cesare Zavattini, che Grifi considerava un mentore spirituale. Ma i cineasti abbandonarono rapidamente la loro stessa sceneggiatura e lasciarono che le loro interazioni con Anna guidassero a cosa sarebbe stato il film, cioè un esperimento sociale vicino al lavoro di Marker, co-diretto con Mario Marret, À bientôt, j’espére
(1968), che documentava la formazione della coscienza di classe negli scioperi degli operai del tessile a Besançon, Francia. Anna racconta la gravidanza del personaggio del titolo e le relative circostanze e, di riflesso, la sua stessa gestazione. La maggior parte della durata del film è data alle interviste documentaristiche a diverse persone in piazza Navona, ognuna delle quali giudica con una propria opinione la situazione di Anna. Una giovane spiega che i sindacati e il partito comunista non aiuteranno Anna perché non è propriamente una proletaria – non è né pulita, né sposata, né può lavorare. I giovani invece dicono che è una puttana ribelle. «Ha bisogno di rompersi la testa», dice il ragazzo che lei identifica come il suo ragazzo. La sola persona borghese intervistata nel film, un avvocato, dice con aria divertita che è contro la legge «raccogliere» una minorenne e che sarebbe stata meglio in un istituto (anche se lui stesso non nasconde di preferire i fucili da caccia alle istituzioni). O forse – suggerisce – potrebbero battezzare il bambino proprio lì, nella piazza, alla fontana del Bernini, scatenando le risate di tutti gli astanti. Attraverso queste voci, si ascolta l’Italia in fermento di allora. Anna viene realizzato sulla scia dell’ «autunno caldo» del 1969 e 1970, con i suoi continui scioperi nelle grandi fabbriche al nord e l’attentato mortale dei fascisti a Pizza Fontana. Per questo crimine è erroneamente
La sparizione di una donna in rivolta
In pagina immagini da «Anna»: a sinistra con Massimo Sarchielli, a destra con Alberto Grifi
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OLTRE LE REGOLE DEL CINEMA ●●●È il titolo di un libro del 2008 dedicato a Alberto Grifi, il terzo uscito dopo il pionieristico quaderno del festival di Bellaria del 1993. Il titolo completo è «Oltre le regole del cinema - Rainbows & Shining Stars Beyond the Windows» ed curato da Manuela Tempesta in collaborazione con Elisa Baldini. È una pubblicazione dei Quaderni di Cinemasud, Edizioni Laceno. Tra i contributi scritti di Tonino De Bernardi, Raffaele Meale, Paolo lapponi, Irene Pantaleo, Gianfranco Pannone, Giacomo Ioannisci, Federico Cuccari, Paolo Speranza, Miko Meloni, Davide Zanza, Monica Dall’Asta Silvana Silvestri, Alberto Castellano e Bruno Di Marino. Le interviste sono a Alessandra Vanzi, Paolo Lapponi, Roberto Perpignani, Romano Scavolini, Michele Schiavino e Giordana Meyer.
GERENZA Il Manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri vicedirettore: Angelo Mastrandrea
A trentasei anni dalla sua realizzazione il film, restaurato da poco, rappresenta stile, voci e presenze delle lotte degli anni ’70
incolpato un anarchico, Pietro Valpreda, la cui detenzione è discussa dalle persone che bighellonano a piazza Navona, quasi tutte con un passato in prigione, per accuse che dicono essere indirettamente politiche (persino Grifi era stato da poco dentro). I primi mandati di cattura connessi ai militanti di sinistra delle brigate rosse, una organizzazione nata alla Pirelli impianti pneumatici, hanno luogo un anno prima, nel 1971. Col 1972, il clima in Italia
diviene repressivo, tanto che le persone in Piazza Navona iniziano a far battute del tipo «su dieci di noi, ci sono otto poliziotti o spie». Tutti loro sono o di Roma oppure vengono dal sud d’Italia e incarnano una cultura che non ha alcuna relazione storica reale col lavoro industriale, col nord e le sue fabbriche. Sono una precoce iterazione della corrente critica italiana, dalle lotte di fabbrica ad un largo rifiuto controculturale, non solo dei sindacati e dei partiti
tradizionali della sinistra, ma anche del lavoro. Col 1977 questa attitudine verrà a esprimersi come l’impulso allo stare insieme – l’unirsi e il costruire una nuova vita, operando contro la riproduzione della struttura di classe e cercando l’appagamento dei desideri e bisogni che non potevano essere soddisfatti dentro un tale dato stato di cose («L’erba che voglio, come dice lo slogan, non cresce nel giardino del re»). La gente della piazza si pavoneggia come artisti. «Fai un quadro, e Agnelli lo comprerà per un milione!» una giovane scherza. Parlano una lingua confusa, ai limiti della coerenza ma alla fine, dentro lo specifico e nero contesto, logica: è una lingua che parla di rivoluzione, violenza, disperazione.
A differenza di tali «ruffiani», gli operai di Besançon nel film di Marker À bientôt, j’espére hanno opportunamente desideri proletari: andare a casa e pranzare con le proprie mogli, avere delle vite fuori dalla fabbrica. Tali operai avevano persino preso il controllo dell’apparato filmico attraverso il collettivo cinematografico Slon («Société pour le Lancement des Oeuvres Nouvelles»), cofondato da Marker nel 1967, passando a tutti gli effetti dall’essere oggetto allo stato di soggetto e alla fine condividendo l’onere della stessa produzione con Marker. Anna, di contro, non è propriamente soggettivizzabile. Non solo è sottoproletaria, ma è anche una ragazza che ha problemi persino nel voler vivere. Una oscura e iperbolica figura anticipatoria di un movimento di lì per esplodere, è qualcuna che manda a quel paese tutti. Prova a far telefonate con la cornetta sotto sopra. Alle volte è catatonica. Non partecipa quando la mdp registra la marcia delle donne a Campo de’ Fiori, dove Jane Fonda attraversa fugacemente l’inquadratura (nello stesso anno – sicuramente non una coincidenza – la stessa «appare» nei film del gruppo Dziga Vertov, Tutto va bene e Lettera a Jane). Le donne cantano che la moglie è la proletaria della famiglia – un problema privilegiato che ha poco a che fare con le preoccupazioni di qualcuno come Anna che, per parafrasare la formula usata dalle donne in marcia, sarebbe qualcosa come la proletaria dell’orfanotrofio. E in effetti lei è questo. Gli orfanotrofi sono stati la sua prima introduzione alle istituzioni extra-familiari, e le istituzioni sono ciò da cui Anna, che porta sui polsi i segni dei numerosi tentativi di suicidio, è da poco fuggita. Ha speso la sua vita dentro e fuori di questi e conosce intimamente ciò che l’avvocato che «preferisce i fucili» finge di chiamare, nel suggerirle di tornarci, come aiuto. Le suore le strofinavano la senape su tutto il corpo per bagnarle il letto quando aveva cinque anni – spiega – e frustavano le ragazze «di uno o due anni». In Anna, le istituzioni – manicomio, reparto maternità, galera – demarcano orizzonti e limiti, simbolici e attuali, in modo totalizzante. Il film, la sua continguità col mondo che raffigura, presenta se stesso in un senso ugualmente totalizzante, sia per il suo soggetto che per i suoi realizzatori, le cui vite vi sono incorporate e non separate dal campo delimitato dall’opera. E per Anna, il film diventa la sola opzione praticabile. È fortunata a stare da Sarchielli, uno scapigliato tardo trentenne che si prende cura di lei, sebbene con sollecitudine sospetta, toccandola occasionalmente e in un punto «deliziandosi» nel latte che lei gli spreme dai seni. Ma dato che la sua sola altra opzione è la strada, ha poca scelta pratica: stare con lui e tollerare la realizzazione del film, la cui forma di verità fa affidamento sulla sua vitalità e, in egual misura, sulla sua dissoluzione come polarità attrattiva. Grifi e Sarchielli non stavano provando a politicizzarla. Non sembrano dare alcuna speranza di valorizzare Anna attraverso l’atto di filmarla. Alla fine di À bientôt, j’espére di Marker un processo dialettico di auto-iscrizione ha avuto luogo così da permettere a Marker, come cineasta, di scomparire. Gli operai di Besançon formano il loro proprio collettivo cinematografico, il gruppo SEGUE A PAGINA 4
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LA RIVOLTA DI VINCENZO
SEGUE DA PAGINA 3 Medvedkin, e con gli scioperi azzardati del maggio del 1968 si ritrovano dietro la camera, a filmare. Anna, al contrario, è solo un esemplare, una «cavia», come Grifi si riferirà a lei vent’anni più tardi, in una intervista nella quale ha ammesso «il sadismo malamente nascosto» del film. Ma da certi punti di vista Anna è più un fantasma che una cavia, un sintomo del cambiamento nella composizione della sinistra italiana, dalle condizioni materiali della classe operaia al mondo degli hippies, degli studenti, dei lavoratori precari, dei tossicodipendenti, e degli altri emarginati che sarebbero andati a costituire il movimento del 1977. Il primo atto di rivincita di Anna come cavia: contagia coi pidocchi tutta la troupe. Ma questo provoca solo umiliazione e paternalismo, in quanto Sarchielli la forza a denudarsi e far la doccia, rimproverandola per avere i piedi sporchi: ad un certo momento, la mdp punta sulle sue dita che giocano distrattamente con i suoi peli publici, come se fosse un gorilla allo zoo. Mentre la troupe è alle prese col problema dei pidocchi, l’elettricista del film «lascia il suo ruolo ed entra in campo», come una didascalia annuncia. L’elettricista – viene fuori – è Vincenzo Mazza, le cui proprie idee sulle istituzioni sono state citate all’inizio. Un ventunenne ex dipendente della Pirelli che aveva partecipato ai famosi scioperi a Bicocca fa un passo verso l’obiettivo e dichiara il suo amore per Anna. Questo momento, e la romantica relazione che ne seguì, più tardi venne definito da Grifi come un atto di rivolta da parte tanto di Anna che di Vincenzo. Anna, ha detto Grifi, «voleva amore, non pietà» (sebbene non sia chiaro che era pietà ciò che i cineasti le stavano offrendo, salvo poi trattarsi di una pietà crudele, nietzschiana). Nell’ultimo posto della gerarchia cinematografica, Vincenzo – secondo Grifi – stava prendendo il controllo dell’apparato coll’andare di fronte alla mdp, agendo non fuori dalle condizioni del suo rolo ma mosso dal desierio. Come il movimento autonomista che era sul punto di rivelarsi – gioioso e incredibile, ma assalito dalle depredazioni dell’eroina e della prigione – la dichiarazione di Vincenzo è tanto emozionante quanto infausta. Si intuisce che potrebbe finire male. A confermare che la logica del film è perfettamente avvolta intorno alle condizioni storiche del suo soggetto, Anna ha il proprio bambino il giorno dello sciopero generale e in quello che potrebbe essere essere definito il suo secondo atto di rivincita: rifiuta ai cineasti l’accesso all’ospedale. Se fino a questo punto l’instancabile registratore video è stato uno strumento del potere dei cineasti, ora questo e loro sono improvvisamente bloccati. E noi non la vedremo più nel film. «Questa ragazza ci ha fatto sudare», dice uno della cerchia dei frequentatori abituali di Piazza Navona. Grifi osserva: «è chiaro che lei ci ha fregato, dal punto di vista del regista del film.» Segue una discussione riguardo l’utilizzo di Anna. «L’avete usata a pieno fino alla fine», una donna dice, «e ora siete arrabbiati.» Grifi e Sarchielli intervistano Vincenzo fuori dall’ospedale, di fronte a un muro con slogan politici inneggianti scioperi. Racconta loro, sorridendo, che il bebé è una bambina. «Quali sono i tuoi piani?», domanda Grifi. «Non lo so», dice sognante lui. «È primavera, poi verrà l’estate.» Il film torna ancora su Vincenzo, ore più tardi; il pediatra ha preso il bebé perché
Anna è una minore e ha ancora i pidocchi. Con nessun tutore o marito, lei non può legalmente reclamare la bambina. Vincenzo, sconvolto, pronuncia una concisa, poetica, e sinistra analisi della situazione, di una bambina nata dove «insegnano solo la sofferenza… violenza e tutto il resto», in un sistema di lavoratori d’ospedale che «finiscono a non conoscersi o a lasciare da soli gli altri.» Alla fine del film c’è un’altra intervista con Vincenzo, un anno dopo. È da solo con la bambina, con Anna che ha abbandonato entrambi. Dice che una donna lo ha castigato per aver richiesto aiuto a guardare la bambina mentre si trovava a lavoro, dicendogli che i bambini sono una responsabilità dell’uomo, e che Anna ha fatto la cosa giusta a lasciarlo. Mentre il movimento delle donne è stato sicuramente il cambiamento più duraturo e di successo dell’Italia convulsa degli anni settanta, l’importanza del rifiuto di Anna, il suo allontanamento, sconcerta Vincenzo, anche se sente che la donna che lo ha rimproverato ha ragione. Il no di Anna, dice, dovrebbe essere un rivoluzionario no. Invece, dice, è rassegnazione e morte, «un rifiuto di vita e amore». Vincenzo ha fatto esperienza diretta di un aspetto della particolare «emancipazione» di Anna – lei non è mentalmente adatta a essere subordinata a nessuno, men che meno a essere una moglie – ma non è in grado di vedere che il no rivoluzionario e di sì alla vita non ha molto senso per lei come non l’avrebbe il marciare con Jane Fonda in piazza. Anna è un avatar di un tutt’altro femminismo, una forma di no che viene anche a costo di tutto, anche della sua stessa bambina. Lui invece è scoraggiato, una situazione difficile da testimoniare. Ma nessun problema per il povero Vincenzo Mazza: lo ritroviamo comunque, ucciso quattro anni più tardi, in Campo de’ Fiori, come scoperto per caso leggendo vecchie copie di Lotta Continua. Interviene in una lotta violenta tra un uomo e una donna e viene pugnalato. Il suo assassino è il fratello di Gian Maria Volonté, e venne poi detenuto nella stessa prigione romana dove Grifi fu carcerato, Regina Coeli. E Anna? Che ne è stato di lei? I cineasti, entrambi morti, non l’avrebbero mai detto. L’ultima volta che la sentirono – racconta più tardi Grifi – fu mentre stavano montando il film. Lei chiamò, piangendo, da un manicomio romano. Li pregò di salvarla e inoltre li minacciò di farli arrestare per aver filmato una minore. «E tutto quello che avemmo saputo fare», dice Grifi, «fu registrare la telefonata». Negli anni intercorsi tra la realizzazione di Anna e la sua morte nel 2007, Grifi è stato di volta in volta riflessivo e sulla difensiva, incolpando il pubblico del 1975 di Venezia per tenere di più all’Anna sullo schermo che a quella in manicomio, e persino dichiarando che questo stesso spettatore aveva
trasformato il pubblico in polizia – quando potrebbe essere sostenuto che la forma del film fatto da lui e Sarchielli, con il suo coro di estranei giudicanti, la scena del bagno, ha indotto proprio questo effetto. Sarchielli fu più ambivalente riguardo al fatto se lui e Grifi avessero strumentalizzato Anna, sebbene entrambi si divisero non sopra disaccordi etici ma sopra il solito, banale problema: la paternità autoriale (la stampa italiana considerò il film come fatto dal solo Grifi). Gli anni settanta italiani continuano a ritornare – sembra – a più di dieci anni dal culmine del movimento antiglobalizzazione e dalla pubblicazione di Impero di Hardt e Negri (nonostante gli sforzi di quel libro per cancellare i suoi legami con l’Italia), ognuno dei quali ha provocato uno scavo delle strategie autonomiste nei circoli degli intellettuali e degli attivisti. Negli ultimi cinque anni, Semiotext(e) ha ripubblicato una esaustiva raccolta dei documenti del periodo, Autonomia: Post-political Politics (2007), oltre a This Is Not a Program (2011) di Tiqqun, che offre una propria versione dell’autunno caldo e del movimento del ’77, secondo le analisi e la critica di quello stesso collettivo, mentre VersoBooks ha appena ripubblicato il freddo e splendido Gli invisibili di Balestrini, che molti considerano essere il romanzo del movimento. Gli invisibili non sarebbe potuto essere stato scritto, così si racconta, senza i resoconti di prima mano di Sergio Bianchi, che visse le strazianti esperienze che Balestrini descrive. Se l’autonomia si riferiva inizialmente a una rinuncia di tutte le forme di politica organizzata di sinistra, e in particolare di quella del partito comunista, verrebbe inoltre a implicare un soggetto autonomo, qualcosa il cui pensiero e azioni traspaiono senza l’influenza determinante dello Stato. Qualsiasi movimento o azione chiamata autonomista è in realtà una trama complessa senza fine e un flusso di diversi individui che si uniscono in diversi punti e per diverse ragioni. Riassumere l’autonomia, allora, significherebbe banalizzarla. In questo senso, le testimonianze degli individui coinvolti diventano cruciali per analizzare e ricostruire questo irripetibile periodo di rivolta, e Anna ne fornisce in una singolare abbondanza, in tutta la loro codificata e passata acutezza. Anche i precetti formali dello stesso film – le sue drammatizzazioni degli eventi della vita vera, e l’effetto spettrale del suo riversamento da video a film in 16 millimetri, che comunica una qualità una volta rimossa – diventano aspetti involontari della singolarità di Anna, ora visto più come curioso memorabilia temporale, in parte cimitero, in parte zoo di vetro. Il film non si conforma né al riconoscimento riflessivo dei momenti catturabili del cinema verità, né alle pretese di neutralità del cinema diretto. I realizzatori di Anna sembrano pensare di occuparsi del problema di Anna, non delle anticipazioni di rivolta che sono così palpabili nel film oppure dei problemi stessi dei cineasti col nichilismo che si nasconde dietro i confini del lavoro, in un vacillare tra una possibile rabbia produttiva ed esiti più cupi: alcuni soggetti di Anna sarebbero sicuramente divenuti militanti di autonomia operaia a Roma, mentre altri avrebbero ceduto all’eroina, e così si può supporre che con la fine degli anni settanta la maggior parte dei personaggi passati di fronte alla mdp vennero portati allo stato di fuggitivi, oppure imprigionati, oppure morirono – in eventi e luoghi dove nessuno li avrebbe filmati. Nei crediti originali forniti per la proiezione di Anna a Venezia, ogni persona che parla in campo – persino i camei di Louis Waldon e Fonda, che è vista per meno di dieci secondi – è menzionata pienamente. Ma Anna, sulla quale la macchina da presa sta per la maggior parte dei 225 minuti del film? Di lei, solo il nome. Null’altro. Se questa omissione si legge come una indicazione della sua fuga dalle istituzioni (o un tentativo del genere), ciò si aggiunge, in maniera notevole, al mistero del suo destino. E se però una questione del genere, la sua sorte, è un poco ingenua e immatura, il film è ciò nonostante strutturato intorno proprio a questa – purché la domanda rimanga irrispondibile. L’oggetto di fascino del film – ciò che appena dissolve una voce disperata al telefono – è il suo stesso sacrificio. Ma poi ancora, la domanda irrispondibile è il terzo e finale atto di rivincita di Anna: una fuga nell’invisibilità e nell’anonimato, un tipo di rinuncia che non può essere recuperata, compresa con la pietà, oggettivizzata, fissata, oppure sostenuta come un angelico Foto in alto: Alberto Grifi al (o almeno formalmente innovativo) centro e alla sua destra lavoro di altri. La sparizione, Cesare Zavattini (foto dei perfetta – nessuno sembra avere primi anni ’70) alcuna idea di cosa le sia successo, o della bambina che ha tenuto fuori In basso Alessandra Vanzi nella sequenza di «A dal film – è lei stessa. proposito degli effetti speciali» (2001) *Si presenta di seguito la versione italiana del saggio della scrittrice statunintese, Rachel Kushner – il suo primo romanzo, Telex da Cuba, è uscito nel 2010 da noi, per Mondadori – dedicato all’importante opera di Grifi e Sarchielli. Lo scritto in inglese è apparso sul numero cartaceo di Artforum, novembre 2012. Nella traduzione e successiva cura, si è cercata la massima fedeltà, rimaneggiando solo quei riferimenti che da noi possono, ragionevolmente, venire dati per scontati. Si ringrazia la rivista statunintese, in particolar modo Annie Ochmanek, per aver concesso la riproduzione. Oltre, ovviamente, l’autrice del pezzo: per la fiducia concessa, e la stima. (G.P.)
SEGUE DALLA PRIMA riflettere su questa nostra cultura cattolica così intrisa di senso di colpa, è nelle pieghe di quelle registrazioni rubate e sgradite che si rivela la mistificazione della pretesa verità e si capisce bene quel che Alberto ribadiva sempre cioè che ogni intervento selettivo, nel montaggio così come nelle riprese, modificherà, quindi falsificherà, la «realtà» filmata come tale, la semplice presenza di uno «spettatore-regista» protetto, anche fisicamente, dalla macchina che registra ciò che avviene è già di per sè un intervento esterno, che coscientemente o meno, condiziona e mistifica i fatti. Anna è un film bello e tremendamente inquietante che rivela un'umanità che ondeggia tra utopie e squallore, Anna è una ragazzina di 16 anni incinta e drogata che si presta controvoglia a diventare attrice della propria storia in cambio di un letto caldo e qualche piatto di minestra. Massimo Sarchielli, che con Grifi firma la regia oltre ad essere attore, la ospita a casa sua dopo averla studiata e osservata ben bene sui marciapiedi di piazza Navona dove la ragazza passa il suo tempo e sperpera il suo destino, gli deve essere sembrata un soggetto molto interessante e magari più «addomesticabile» data la condizione di totale indigenza in cui si trova, e così coinvolge Grifi, da poco uscito dall'incubo di un ingiusto arresto per una chiamata di correo, e gli sottopone un trattamento scritto, un po’ di pellicola e una cinepresa 16 millimetri, che dopo poco verrà sostituita dal videoregistratore strumento di verità. Dove sia il confine tra bene e male in tutto ciò non si capisce e neanche chi usa chi è chiaro, perchè se nel montato ci assale un senso di sgradevolezza profonda nel rapporto che si crea tra Anna e gli altri, tranne Vincenzo l'elettricista che verso la fine del film entra in campo e dichiara il suo amore per lei, negli spezzoni di materiali extra appena restaurati tutto è più chiaro. Ci sono alcune scene, che sembrano veramente spontanee che vediamo invece ripetere varie volte come nel cinema tradizionale tra cui l'arrivo di due poliziotti in borghese che infastidiscono Anna o il dialogo sulle scarpe adatte alla fuga tra due ladri, o il primo incontro tra Sarchielli e Anna in piazza e c'è una parte girata un anno, o forse più d'uno, dopo l'uscita del film in cui Vincenzo si rivede e commenta la propria spontaneità e sincerità nel tentativo di salvare Anna dalla propria disperazione con l'amore come fossero sentimenti lontani anni luce, e racconta della sconfitta totale, di non essere riuscito a impedirle un tentativo di suicidio né a salvarla dall'essere rinchiusa in manicomio e ammette di non aver saputo o potuto tenere con sé quella bambina neanche sua che chissà dove sarà finita, e cerca comprensione da Sarchielli e Grifi e dice «eravamo diversi...era tutto diverso» ma Grifi fuori campo lo contraddice con la crudele consapevolezza di chi ha sempre saputo che anche per raccontare la verità ci vuole qualcuno che la ricostruisca e che la reinventi. Questo film causò rotture e litigi tra i due autori per molti anni, si riappacificarono solo in occasione del premio a Grifi, ma credo fosse inevitabile uno strascico doloroso dovuto proprio ai sensi di colpa nei confronti di questa ragazza, usata e lasciata andare al proprio destino, Anna sparisce, volontariamente, proprio in quello che doveva essere il momento clou del film la nascita della bambina, rifiutando, come racconta Vincenzo, l'amore, la maternità, la vita stessa vera o filmata che fosse.
ALIAS 22 DICEMBRE 2012
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IN-VULNERABILITÀ DI ACHILLE
Non sono mai esistiti i giorni delle rose Carmelo Bene e il frontespizio del dvd. Sotto, Riccardo Cucciolla
di GIANCARLO MANCINI
Carmelo Bene. Da Heinrich Von Kleist, Omero e Post-Omerica nella versione di CB. L’ultima che coincide con l’ultimo spettacolo di Bene è In-vulnerabilità d’Achille Impossibile Suite tra Ilio e Sciro, andato in scena al teatro Argentina di Roma dal 24 al 30 novembre 2000. «Questa In-vulnerabilità d’Achille disse in occasione di un incontro con il pubblico all’Argentina - mi elimina del tutto: una volta di più, ma - come in un testamento - davvero una volta per tutte… le altre volte. C’è dentro tutto quanto in me dissente dalla rappresentazione, cioè da tutto quello che si fa nel pianeta e si continua a chiamare teatro, da tutto quello che ha un senso o che torna nel senso, in balia dei significati…». CB è solo, in una scena completamente bianca, dove su ampi drappeggi si adagiano membra scomposte di manichini, mani gigantesche, un fuso di lana grezza. Mentre cerca di ricomporre senza
RITRATTO
di ALBERTO CASTELLANO
Riccardo Cucciolla: la sua voce aveva dentro il sud, il suo calore
Pentesilea di amarsi. Achille è l’eroe privato della sua invulnerabilità, il semidio beffato dagli dei, colui che indossa le armi formidabili forgiate da Vulcano ma è costretto a convivere con la sua difettosità, da «umano», per via di quel «tallone d’acciaio». «Se a me è benigna la sorte/ Oh figlio ha accordato le nozze/ quello che prometteva/ avesse/ tu saresti grande/ una stella tra le mie braccia/ sarei madre d’una stirpe divina/ di là dalla paura sotterranea delle/ Parche e del Fato terrestre/ Figlio tu sei un bastardo/ Vulnerabile/ solo in questa apprensione di madre». Gettati via gli arti che non conducevano a nessuna forma o apparenza, ecco svelarsi finalmente Pentesilea, regina delle Amazzoni. Adagiata su un letto, dietro di lei un abito nuziale che Bene le getta in grembo quasi a volerla obbligare a indossarlo e a dare il via a qualcosa. Ma anche lei è un fantoccio, si alza al
comando di un pedale, nient’altro che una macchineria. I due terribili guerrieri-amanti si scontrano mortalmente nei testi classici, qui permane qualche lacerto, il tremendo duello tra i due, il fiero corpo della regina riverso in terra, Achille che la smaschera dell’elmo scoprendone i «riccioli scomposti» e innamorandosene subito. La scomparsa dell’eroe e quella dell’attore si sovrappongono, entrambi sono stati fagocitati dalla macchina attoriale che testardamente si concentra sulla loro
umana imperfezione, sulla ridicola condizione di dover essere esposti e sbeffeggiati da chi li osserva, dall’alto, gli dei, dal basso, noi spettatori. «Avrei potuto essere perfetto/ integro come il marmo Salda roccia/ Così sono compresso Incatenato/ Sono groviglio incastro/ esposto all’insolenza del terrore/ Mai finito Malnato/ Io sono Lui che la Madre azzurro/ poco mancò che generasse al Padre/ Zeus». È un passo proveniente dal Macbeth, come anche, siamo poco prima della fine di uno «sconcerto» che dura una cinquantina di minuti, quello bellissimo e doloroso tratto da Emily Bronte: «Ho male Mi fa male Dove qui/ come un dolore che da risvegliati/ non si ricorda». «È morta», Pentesilea è morta sotto il tallone d’acciaio del guerriero, le rose sulla fronte sono state schiacciate dal suo passo pesante. Achille vuole svanire alla vista di ciò che il suo gesto ha prodotto. Ultime parole. Il manichino non si muove più, Pentesilea era solo un meccanico alzarsi dal suo bianco giaciglio, Achille un ineffabile sussurro abbracciato nel nulla. I giorni delle rose non sono mai esistiti. «E abbracciarle i ginocchi è una freccia/ che trapassa la voce dentro il sangue».
lungo e in largo con interventi critici, ricordi di compagni di lavoro, esaustive filmografie e un prezioso repertorio radiofonico. Ma soprattutto il libro restituisce con passione e rigore la dimensione umana e artistica, lo spessore intellettuale e l’impegno civile e politico di uno di quei rari casi (almeno per il cinema italiano) di interprete di cinema, teatro e televisione di qualità, che ha sempre scelto con coerenza ruoli impegnati(vi) e (un po’ come Volonté) al tempo stesso di attore popolare, contribuendo spesso con la sua presenza o con la sola voce a divulgare film e sceneggiati d’autore e documentari. Le testimonianze di Giuliano Montaldo («il suo volto, una garanzia di qualità», Cecilia Mangini («la sua voce aveva dentro il sud, il suo calore»), Milena Vukotic (»un compagno di gioco
ideale che mi ha aiutato con la sua discrezione») nel primo primo capitolo «L’uomo e l’attore» e gli interventi dello stesso Attolini, di Felice Laudario e Waldemaro Morgese nel secondo capitolo «Riccardo Cucciolla e il cinema» e i piccoli saggi critici dedicati ad alcuni dei film più significativi dei circa 70 da lui interpretati (Sacco e Vanzetti, I sette fratelli Cervi, Antonio Gramsci. I giorni del carcere, L’istruttoria è chiusa: dimentichi, Nella città perduta di Sarzana, La violenza: Quinto potere, Il delitto Matteotti) ribadiscono con forza e convincenti argomentazioni la statura di Cucciolla, diventato uno degli attori-simbolo del «cinema politico» italiano nel più ampio filone del cinema d’impegno civile. Gli altri saggi documentano l’intensa attività dell’attore anche nel campo della televisione, del teatro e del doppiaggio sempre nel
segno di un metodo rigoroso, di un’alta professionalità, di una invidiabile qualità recitativa. Meno conosciuta ai più ma non per questo meno importante è la produzione radiofonica di Cucciolla, ricostruita da Angela Annese nell’ultimo capitolo. Sono riportate con cast e credit le circa 300 partecipazioni dell’attore a programmi di prosa radiofonica della Rai a partire dal 1949 quando nacque un rapporto artistico mai più interrotto fino alla morte. La varietà di commedie e drammi di autori italiani e stranieri messi in scena dalla Compagnia di Prosa di Roma della Rai, di radiodrammi, sceneggiati a puntate e semplici letture dà la dimensione di un attore capace anche di rendersi invisibile, di dare contorni precisi ai personaggi più diversi con la sua sola voce calda, misurata, incisiva, convincente.
Per almeno venti anni Carmelo Bene lavorò con il progetto «Achilleide» ad una sorta di funerale del suo stesso non-stare in scena: semidio beffato dagli dei, compare da solo
●●●Di morire in scena non ne aveva mai voluto neanche parlare Carmelo Bene, nonostante le tante ferite che da anni gli avevano istoriato il corpo, occorre quantomeno «essere nati», diceva, per poter pensare alla propria scomparsa. Eppure per venti anni, dal ’79 al 2000, lavorò con il progetto Achilleide ad una sorta di funerale del suo stesso non-stare in scena, ad un punto di non ritorno di quel sottrarre al testo drammaticità, personaggi, epos, al quale aveva dato il via nei primi anni sessanta strappando via le pagine dei testi dei grandi autori. L’importanza cruciale della pubblicazione in dvd di In-vulnerabilità d’Achille (Eye division, con un libretto di 40 pagine e negli extra Una sera un libro: Carmelo Bene e l’Ulisse di Joyce, • 19,90) non ha dunque bisogno di ulteriori spiegazioni. La prima tappa di un percorso che poneva in una radicale riscrittura le versioni del mito di Pentesilea e di Achille secondo Omero, Stazio e Kleist fu allestita dal 26 al 30 luglio 1989 a Milano nel Cortile della Rocchetta del Castello Sforzesco con Pentesilea. La Macchina Attoriale – Attorialità della Macchina. Momento n˚1 del Progetto Ricerca – Achilleide di
●●●Non è mai troppo tardi per ricordare in maniera filologicamente e storicamente adeguata Riccardo Cucciolla, l’attore barese scomparso nel 1999. Ci hanno pensato i due critici Vito Attolini e Alfonso Marrese, curatori di un corposo volume che raccoglie saggi di critici e studiosi e testimonianze di registi e attori che ripercorrono il complesso, articolato e intenso itinerario artistico di Cucciolla (Riccardo Cucciolla. Ritratto di attore, Edizioni dal Sud, pp. 223, Euro 15). L’iniziativa editoriale fa parte di un più ampio omaggio all’attore organizzato a Bari per una settimana (dal 9 al 16 novembre) dall’Associazione «Attraverso lo Spettacolo» in collaborazione con l’Università di Bari e con il sostegno del Consiglio Regionale e
apparenza di congruità tutti quei pezzi sconvolti dal disfacimento, si sussurrano le vicende di quei due grandi eroi della nostra tradizione. Non per rievocarli, perché sottratta senza appello è la possibilità del ricordo di alludere ad un’atmosfera, a dei caratteri, quanto per renderli presenti una volta di meno. Nessun ricordo, la ri-scrittura dei testi che sin dagli anni ruggenti delle cantine li svuotava di teatro (personaggi da impersonare, testo da interpretare, ecc.) per renderli ancora e definitivamente soltanto poesia giunge al momento della sua stessa decostruzione. In ciò sta una possibilità di decodificare quel continuo andirivieni in scena, quel vestirsi e svestirsi ogniqualvolta si apre una possibilità al testo e all’attore di esistere, ad Achille e
l’Assessorato alla Cultura e Turismo della Regione Puglia, che comprendeva anche una mostra di manifesti dei più importanti film interpretati da Cucciolla e di foto di scena e un convegno. La poliedrica attività di un uomo di spettacolo davvero multimediale (cinema, teatro, televisione, radio, doppiaggio) viene esplorata in
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ALIAS 22 DICEMBRE 2012
DERIVE E APPRODI
VIRGINIA RYAN Nelle superfici la profondità dell’Africa
«Ho pensato di usare la mia pelle per scrivere fotograficamente il mio essere lì, in Africa, in un momento che va dal 2001 al 2006». Intervista in Costa d’Avorio all’artista australiana di MANUELA DE LEONARDIS GRAND BASSAM
●●●A due passi dalla spiaggia di Grand Bassam Virginia Ryan (nata a Melbourne nel 1956) ha preso in affitto una casa d’epoca, che quando i lavori di ristrutturazione saranno finiti, avrà oltre al suo studio uno spazio adatto per ospitare residenze d’artista. A una trentina di chilometri dalla capitale, Abidjan, Grand Bassam evoca il ricordo del suo breve passato di capitale coloniale tra il 1893 e il 1900. Oggi è patrimonio mondiale dell’Unesco. Nel suo tessuto urbano di eleganti edifici completamente decadenti si percepisce una potente vitalità, confermata dalla passeggiata sulla spiaggia di domenica pomeriggio. Lì si dimenticano gli affanni del quotidiano, lasciandosi andare alla spensieratezza: c’è l’allegria dei bambini che saltano sulle onde, le giovani coppie che si tengono per mano, le famiglie che mangiano arachidi, frutta e gelati. C’è anche chi indossa il vestito della festa e si fa immortalare dai fotografi ambulanti, mettendosi in posa come nei ritratti di Clic Clac Baby. Per il momento, però, lo suo studio di Ryan è a Abidjan, all’interno della residenza dell’Ambasciata d’Italia, in quanto épouse dell’ambasciatore Giancarlo Izzo. Già in Ghana, dove ha vissuto dal 2001 al 2008, e prima ancora ad Alessandria d’Egitto e in Serbia l’artista è sempre stata fortemente coinvolta dal contesto, realizzando lavori come l’imponente Castaways (2003-2008), installazione di duemila moduli creati dall’assemblaggio di oggetti/frammenti restituiti dal mare
e trovati sulle spiagge immense del Ghana da Pram Pram a Jamestown, Labadi, Anomabo. Ad Accra è stata fondatrice della Foundation for Contemporary Art, mentre ad Abidjan nel 2011 è stata l’ideatrice di L’Esprit de l’Eau alla Fondazione Donwahi, un progetto che ha visto il coinvolgimento di artisti africani e occidentali sul tema di Mami Wata, figura mitologica che rimanda alla sirena. Strettamente connessi con la realtà africana anche i due ultimi work in progress: Selling Dreams e Rue de Commerce. Selling Dreams è una sorta di mappatura semantica dei contrasti attraverso le immagini fotografiche dei cartelloni pubblicitari, in cui ambizioni e sogni sono sintetizzati dall’imponente figura della mamma per eccellenza - Madame Maggi sovrana del dado per il brodo che invita al sapore e al gusto più intenso corteggiando le signore con il motto «Chaque Femme est une Etoile» (ogni donna è una stella). Rue de Commerce, invece, è una serie pittorica che si sviluppa intorno alla memoria fotografica dei coloratissimi pagne (tessuti «wax printed»), esposti con una logica razionale negli eleganti negozi della via che dà il titolo a questo lavoro, come sulle bancarelle dei mercati. Una ricerca estetica della bellezza, per l’artista attraverso i significati che s’intrecciano in quello che potrebbe apparire solo ornamento. Con il tentativo di mettere ordine nella visione caotica dell’Africa, seguendo il richiamo inconscio dei segni primordiali che appartengono anche alla cultura aborigena della sua terra d’origine.
●La fotografia è il denominatore comune di Selling Dreams e Rue de Commerce. Quando hai iniziato ad usare questo linguaggio? Nel 1979 ho terminato i miei studi in Visual Communications alla National School of the Arts di Canberra. Erano orientati soprattutto verso la pubblicità, che all’epoca non mi interessava, ma si studiava anche molta fotografia. La prima mostra che feci quell’anno all’Arts Council di Canberra, insieme ad altri due artisti, è stata proprio dei miei lavori fotografici. Come assistente di studio avevo accesso alla camera oscura. Vi trascorrevo quasi ossessivamente anche otto ore al giorno, finché i medici me lo proibirono a causa degli acidi che respiravo. Anni dopo, a Trevi, ho realizzato Cento Passi, un’installazione di cento paia di scarpe accompagnata dalla documentazione fotografica. Attraverso quelle scarpe donate dalla gente del posto raccontavo la loro storia. La documentazione fotografica è stata fondamentale perché, tra un mio viaggio e l’altro, un trasportatore buttò via il sacco con le scarpe. La fotografia, perciò, è tutto ciò che resta di quel lavoro. ●Il tuo primo progetto fotografico, però, è «Exposures: A White Woman in West Africa». Come nasce? Nasce in Ghana dopo un anno che vivevo lì. All’inizio la macchina fotografica mi serviva per ricordare, come fanno i turisti. L’ho sempre portata con me. L’impatto con l’Africa è molto forte e la macchina fotografica mi serviva anche per mettere un po’ di ordine. Proprio ad Accra, benché sia una città
ALIAS 22 DICEMBRE 2012
Virginia Ryan, artista (pittrice e fotografa) australiana e «nomade» e alcuni dei suoi lavori realizzati a Abidjan, Costa d’Avorio, tra sogno consumista e miseria estrema
cosmopolita, mi sono subito resa conto che nel momento di scattare una fotografia tutti cercavano di togliere i bianchi. Come se una parte della mitologia dell’Africa è che sia abitata solo dagli africani, per cui per fare una foto dell’Africa bisognava fotografare solo la gente di pelle nera. Ma non è affatto così. Prima di partire per il Ghana, poi, avevo fatto una ricerca per provare a vedere quale sarebbe stato il mondo in cui avrei vissuto, ma ad eccezione di qualche foto dell’epoca coloniale non ho trovato alcuna foto contemporanea. Mettendo insieme questo mio desiderio di vedere una realtà che non mi apparteneva e di cui ero solo una minoranza, insieme al dato di fatto che tutti toglievano i bianchi dalle fotografie, ho pensato di usare la mia pelle per scrivere fotograficamente il mio essere lì, in Africa, in un momento che va dal 2001 al 2006. Quando avevo la sensazione di trovarmi di fronte ad una scena interessante, dal punto di
vista fotografico, aspettavo quello che succedeva intorno a me, poi uscivo dalla scena e chiedevo a chiunque fosse nei paraggi, magari un passante, di fotografarmi all’interno di quella situazione. Per cui mi rimettevo esattamente nello stesso posto in cui mi trovavo precedentemente. Ho trovato particolarmente interessante il linguaggio corporale: di fronte ad un testimone, ovvero alla macchina fotografica, chi faceva parte della scena si metteva in posa. Tutti volevano dare il meglio di sé, tanto che c’è chi, vedendo quelle foto, ha pensato che si trattasse di tableau vivent realizzati apposta per il progetto. Ma non c’era nulla di costruito. Il libro è venuto successivamente, quando insieme all’antropologo americano Steven Feld abbiamo scelto una sessantina di immagini, che sono state esposte in vari posti dopo la prima volta in Ghana. Il mio lavoro parte sempre dal luogo in cui mi trovo e la fotografia, in particolare, è sempre stato lo strumento per relazionarmi al contesto. Nelle foto di Exposures : A White Woman in West Africa mi sentivo in minoranza, questo si avverte dalle immagini. Anche se sono presente in ognuna mi sentivo sempre molto marginale. Il colore della mia pelle non mi faceva mai dimenticare questa realtà. Ricordo
che appena arrivata tutti mi chiamavano «obroni». Un tassista a cui chiesi spiegazione mi disse che voleva dire senza pelle, perché quando arrivarono i primi uomini bianchi la gente del posto pensava che fossero stati spellati. Ero stanca di essere me stessa, provavo addirittura un senso di nausea, perché non potevo nascondermi. Sicuramente in questo caso ho usato questo mio disagio anche per esternarlo, liberandomene. La fotografia è stata una forma di terapia. ●Con «Selling Dreams», invece, ci spostiamo ad Abidjan per raccontare i forti contrasti della città. Il mio lavoro nasce sempre da un’esperienza subliminale, oltre che da quella fisica di trovarmi in un certo luogo, anche attraverso l’azione del camminare. Nel dicembre 2011 ero a Dubai, dove sono dovuta rimanere per qualche giorno. Mi sentivo frustrata perché il mondo che vedevo non mi dava, a livello sensuale, alcuna soddisfazione. Ero sola e anche un po’ triste. Ho trascorso del tempo nella zona del suq a guardare la gente che mangiava e poi ho camminato, camminato, camminato. Ad un certo punto ho cominciato a notare i cartelloni pubblicitari di oggetti di lusso,
marche famose. All’inizio mi sembravano interessanti solo visualmente. Quindi, un po’ come aide-mémoire e un po’ anche come forma di protezione - perché avevo la sensazione che scattando fotografie ero impegnata in qualcosa e, quindi, meno vulnerabile - ho fotografato molti di quei cartelloni. Un mese dopo, tornando ad Abidjan, nel tratto dall’aeroporto a casa, quello che faceva parte della confusione urbana è balzato in avanti e per la prima volta ho notato i grandi e luminosissimi billboard. Mi è venuto immediatamente in mente che mi trovavo in un pantheon in cui si sovrapponevano diversi livelli di esistenza. Molta gente di Abidjan vive in strada, non ha neanche una casa, ma c’è tutto un mondo di desideri e possibilità rappresentati da questi semidei - i personaggi della pubblicità - che sono come noi comuni mortali, ma anche al di sopra di noi. Ci guardano, litigano, sorridono… hanno tutte le caratteristiche degli umani. Semidei di un pantheon, appunto, che suscitano ammirazione e anche un pizzico di invidia. In quello stesso momento ho pensato che era un modo molto interessante per raccontare questa città. In questo modo avrei anche potuto acquistare potere attraverso la coscienza del luogo. Mi sentivo quasi alla pari. Da gennaio 2012 ho scattato tantissime foto. Mi è stata subito chiara, poi, la conversazione che c’era tra le speranze della pubblicità vis-à-vis con quelle dell’architettura dei tanti edifici anni Sessanta, costruiti dopo l’indipendenza. Oggi questi palazzi possono sembrare estremamente stressati e anche tristi, sia per via del tempo cronologico che di quello atmosferico: pioggia, sole, sabbia esasperati da questo clima che crea muffe e danni. Ma, secondo me, contengono ancora molte speranze. Ho visto la pelle di questi edifici in dialogo con le pubblicità glamour che durano al massimo sei mesi, poi vengono rimosse e sostituire. ●C’è anche un altro aspetto, poi, che è quello documentaristico… Alcune delle immagini più emblematiche tra quelle che ho fotografato, a distanza di mesi sono scomparse. Sicuramente adesso sono molto cosciente di quello che mi circonda, osservo più attentamente. Ultimamente, ad esempio, sono aumentati i cartelloni pubblicitari che reclamizzano i prodotti per schiarire
la pelle, oltre che quelli per la pulizia della casa e della persona. Noto, poi, che una bevanda molto nota sta facendo una campagna sull’orgoglio africano, mentre in precedenza puntava più sul piacere personale. Modi diversi di descrivere la realtà. La pubblicità sa quello che si vuole, ma soddisfa anche i desideri. ●Il cartellone pubblicitario è l’erede delle insegne dipinte a mano che sono una caratteristica dell’Africa occidentale… Non credo che qui, in Costa d’Avorio, a differenza del Ghana, del Togo e altri paesi ci fosse una grande tradizione di «sign painting». Ho saputo che chi faceva le insegne dipinte a mano adesso produce T-Shirt. L’immediatezza della funzione, ad ogni modo, è la stessa. È sempre pubblicità. ●Oltre alla macchina fotografica hai sempre avuto con te dei taccuini. Quanto è entrata la scrittura nel tuo lavoro artistico? Dagli anni ’80 fino a meno di dieci anni fa ho sempre scritto. In Ghana, nel 2004, ho anche pubblicato un piccolo libro, Strangers in Accra con Afram Press. Ho smesso di scrivere quando ho cominciato ad usare il computer. Quando scrivevo c’era un collegamento molto forte tra la scrittura e il mio lavoro artistico. Scrivevo delle persone che incontravo, degli altri artisti, del mio lavoro: uno era l’estensione dell’altro.
moderati arabi
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●Eccoci, infine, a parlare di «Rue de Commerce», il nuovo ciclo pittorico le cui radici sono nella memoria fotografica. Anche questo lavoro che sto realizzando con la collaborazione di tre assistenti, gli artisti Yubah Sanogho con cui collaboro da tempo e Synthia Lade, a cui si è aggiunta recentemente Kettie Leandre che ha frequentato l’Università di Cocody, nasce dall’azione del camminare unita all’uso della macchina fotografica, esattamente come Selling Dreams. Passeggiando in Rue de Commerce, una via della zona Plateau di Abidjan, ho cominciato a fotografare i pagne africani esposti nei negozi. Riguardando quelle immagini sullo schermo del computer, dove l’immagine appare più piatta, ho avuto una visione separata da quella reale. Immagini autonome che ho voluto provare a trasformare in pittura sulla tela. Ho trovato quest’idea molto armoniosa con il concetto di riconciliazione che c’è in questo momento in Costa d’Avorio, soprattutto dopo la guerra dello scorso anno. Mi è venuto in mente il pensiero aristotelico del tutto che è più dell’accumulo delle varie parti. Un pensiero che è in sintonia con il negoziare le frontiere, trovare la totalità con tante unità separate. Quanto al titolo non indica solo la via di Abidjan, ma si ricollega anche ad un’idea di strada del commercio, in cui si rintraccia la storia stessa dei pagne, batik originari dell’Indonesia, portati in Olanda e da lì sulle coste dell’Africa Occidentale. Per cui c’è una storia di commercio e di desiderio della bellezza. Tra l’altro il pagne, al giorno d’oggi sta diventando oggetto del desiderio anche per i non africani e fuori dal continente africano. Anche questo è un sintomo di globalizzazione, ma in maniera molto fluida. Poi c’è un altro aspetto, piuttosto recente, che è il tentativo di imitazione di riproduzioni scadenti ed economiche che si fanno in Cina. ●Quanto alla sorta di horror vacui? Normalmente le mie superfici sono sempre piene, coperte da elementi che si ripetono. «Rue de Commerce» è una continuazione dei progetti precedenti. Non posso, poi, non connettere tutto ciò ad un’idea di sensualità, perché c’è il piacere dello sguardo che da lontano cattura la forma, ma vuole avvicinarsi per vedere il disegno estremamente elaborato. Questo, per me, è anche un modo per cercare di portare la parola meraviglia nel lavoro. Quando bellezza e meraviglia esistono contemporaneamente allora ci si trova in una zona di desiderio. Nel mio caso desiderio significa trovare la bellezza soprattutto in Africa, dove fa parte della sopravvivenza in situazioni non sempre facili. Lo stesso insieme urbano può avere un impatto di confusione, ma prestando attenzione c’è molta cura nel dettaglio, una maniera per dire «io esisto» con grande dignità.
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«La Francia è responsabile dell’occupazione marocchina del Sahara Occidentale. È alla Francia che si deve la mancata decisione dell’Onu di garantire il rispetto dei diritti dell’uomo nelle città sahrawi» (Chahid El Hafed).
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ALIAS 22 DICEMBRE 2012
COME RICICLARE LE CATTEDRALI NEL DESERTO
SPORT
GANLUIGI TOCCAFONDO ●●●A dieci anni dalla sua nascita, la galleria D406 di Modena (via Cardinal Morone 31), da pochi mesi rinnovata in «D406 fedeli alla linea» a seguito dell'unione con l’esperienza espositiva Avia Pervia, presenta una importante mostra di Gianluigi Toccafondo. Dal 22 dicembre 2012 al 12 febbraio 2013, si potranno ammirare i celebri disegni di Toccafondo dedicati alla «letteratura», frutto di oltre dieci anni di lavoro, molti dei quali sono stati realizzati e pubblicati per le copertine della nota collana di narrativa della casa editrice Fandango con cui l'artista ha stretto una collaborazione fra cinema ed editoria. Immagini ispirate dalla letteratura americana (da Melville a Cheever), alla più recente narrativa italiana, fino al mondo del calcio. Nella foto: «Il nuotatore» libro in edizione speciale e a tiratura limitata (ed. Franco Cosimo Panini)
NON NASCONDERE LA FOLLIA, BEAT Hollywood e l’arte della manutenzione del Beat. A seguire qualche antidoto, necessario medicamento per riprendersi dall’ineffabile, scolastico, fatuo servizio reso dall’enfant gaté Walter Salles ai danni della leggenda beat, nello specifico di Jack Kerouac e del suo così (in)vulnerabile On the Road. 1) Pull My Daisy di Robert Frank e Alfred Leslie (1959) in 30 minuti accoglie in un loft dell’east side di New York City il talento verbale e gestuale di un trio magico e inarrivabile per gli anni a seguire: Allen Ginsberg, Gregory Corso e Peter Orlovsky, poeti di un’esistenza «altra» dediti a un infaticabile, infinito ragionamento sul nodo sovversivo intrecciato tra arte e vita. Con Delphine Seyrig e Larry Rivers, narrato da Jack Kerouac che riprende il suo incompiuto testo teatrale The Beat Generation: irradiazione luminosa del beatnik style ma anche raro esempio compiuto di realismo urbano, soffuso dalla voce di Anita Ellis che canta The Crazy Daisy, scritta da Ginsberg e dallo stesso Kerouac.
SALISANO ■ LA PISCINA ALTERNATIVA STRAPPATA ALLA SPECULAZIONE
Il Robin Hood della Polisportiva Sherwood di PASQUALE COCCIA
●●●Un tuffo in piscina pagato a peso d'oro fino alla bancarotta. Nella Val di Sarsa, gli abitanti di un piccolo centro in provincia di Rieti, Salisano, hanno pagato a caro prezzo le manie di protagonismo di qualche assessore allo sport (in Italia se ne contano circa diecimila, un vero esercito), che voleva lasciare «il segno» del suo buongoverno. A metà degli anni novanta del secolo scorso, a Salisano è stata costruita una piscina con i soldi pubblici, frequentata da un centinaio di persone, mentre i costi della gestione e del riscaldamento salivano vertiginosamente rispetto agli esigui introiti che potevano garantire i frequentatori della piscina. I risultati di un fallimento gestionale erano largamente prevedibili, ma nonostante tutto gli amministratori di quel comune si erano intestarditi nell'edificazione dell'impianto sportivo. La piscina, dopo varie gestioni, ha finito per chiudere ed è rimasta inattiva per un anno con buona pace dei fondi pubblici, mal amministrati.
«Una cattedrale nel deserto, costruita per accogliere un'utenza minima - si indigna Sergio Barbadoro presidente della polisportiva Sherwood dell'Uisp di Rieti - il cui costo di gestione era di 7-8 mila euro al mese, un centinaio all'anno. Dopo essere passata di mano in mano attraverso varie gestioni fallimentari, l'abbiamo presa noi e grazie a un mutuo a tassi agevolati concessoci dal Credito Sportivo (la banca dello sport che si finanzia con una percentuale settimanale degli introiti del totocalcio e concede mutui agevolati a enti e associazioni per la costruzione di impianti sportivi pubblici, ndr), abbiamo fatto la scelta dell'ecosostenibilità, installando i pannelli fotovoltaici e un impianto ecosostenibile di cogenerazione, che brucia olio vegetale prodotto da semi di girasole o da altri tipi di semi, i quali hanno un buon potere calorifero e ci consentono di produrre corrente elettrica contestualmente all'acqua calda, sufficienti a produrre energia per il riscaldamento della piscina. Una soluzione alternativa rispetto agli
impianti alimentati in maniera tradizionale, che permette di recuperare tutto il calore prodotto in eccesso, il quale a differenza degli impianti alimentati a gasolio, non finisce per essere disperso, bensì viene trasformato in ulteriore energia di riserva, che vendiamo all'Enel. Abbiamo preso in gestione la piscina tre anni fa e i costi sono passati dai centomila euro annui della vecchia gestione ai sessantamila attuali, l'anno prossimo andremo in pareggio di bilancio. Nel centro-sud siamo l'unica realtà che ricorre all'energia alternativa». Una scelta ambientale e gestionale attenta, quella dell'Uisp di Salisano, guidata da Sergio Barbadoro, che di professione fa l'insegnante di chimica in un istituto superiore, e che l'esperienza della piscina l'ha portato a diventare un bravo economista, attento non solo a fare i conti, ma anche al sociale e pronto a incentivare politiche ambientali per diminuire l'emissione di anidride carbonica: coloro che raggiungono la piscina a bordo di una sola auto con un minimo di tre persone, meglio se cinque, hanno
diritto allo sconto del 20% sul costo della quota mensile. Rispondendo con la pratica al principio dell'Uisp secondo cui il primo ambiente è il nostro corpo, la società sportiva Sherwood ha aperto all'interno dell'impianto natatorio di Salisano, anche una sala spinning per il benessere del corpo, dove vengono svolte attività di fitness tre volte alla settimana. Nel locale collocato a margine della piscina sono state installate delle cyclette, come quelle dei centri fitness, alle quali sono stati applicati dei rotatori, i quali hanno la stessa funzione delle dinamo delle bici che girano sulle ruote, e grazie a un campo magnetico producono corrente elettrica di 10-15 watt, la quale viene immessa direttamente in rete e venduta, ancor prima che agisca l'energia prodotta dai pannelli fotovoltaici. La piscina di Salisano è aperta anche ai bambini delle scuole primarie del circondario, che in orario mattutino frequentano corsi di nuoto, grazie anche al contributo finanziario del comune. L'Uisp, che oltre ad avere bravi dirigenti è attenta alle politiche del territorio perché lo sport sia davvero un'occasione per tutti, stipula perfino contratti individuali per l'ingresso alla piscina: «Grazie ai risparmi di gestione che ci derivano dall'impiego di energia alternativa continua il dirigente della polisportiva Sherwood di Salisano stipuliamo contratti di particolare favore per gli operai che sono in cassa integrazione o disoccupati, a volte con meno di cento euro consentiamo di frequentare la piscina tutto l'anno. Ascoltiamo le loro storie individuali e famigliari e poi sulla base di quello che ci dicono scegliamo le soluzioni individuali migliori per loro. La piscina è diventata un punto di riferimento anche di ragazzi difficili, che ci vengono segnalati dai servizi sociali.
Gravato da costi insostenibili rispetto all’utenza, dopo la chiusura forzata l’impianto, dotato di pannelli fotovoltaici, è ora in pareggio e aperto a tutti Si tratta di adolescenti delle scuole medie di origine extracomunitaria, che hanno alle spalle storie di violenza in famiglia o padri autoritari con i quali la comunicazione è difficile o del tutto inesistente. A quei ragazzi consentiamo di entrare in piscina quando vogliono, non pagano l'entrata, altri ci danno piccole somme un po' alla volta, per noi è motivo di grande soddisfazione. I servizi sociali hanno riconosciuto il riflesso positivo che ha il nuoto su quei ragazzi e il ruolo di coesione sociale che abbiamo sul territorio. Grazie alla piscina e alla loro frequenza gratuita, iniziata a giugno con i centri estivi, dopo la fine dell'anno scolastico, i ragazzi extracomunitari oggi non sono più isolati, perché frequentano i loro coetanei che hanno conosciuto qui, ormai sono diventati amici e si vedono anche fuori dalla piscina» conclude con una punta di orgoglio Sergio Barbadoro, il Robin Hood della polisportiva Sherwood, meritevole di aver trasformato la cattedrale nel deserto di Salisano in un'isola felice, dove tutti nuotano senza acqua alla gola.
2) Bridges-Go-Round (1958) della regista d’avanguardia e jazzy Shirley Clarke punta alla ri-definizione dello spazio newyorkese dalla elevata prospettiva di ponti e grattacieli, trasfigurando il lavoro preesistente di un documento su commissione con il rosso, il giallo e il blu di filtri traslucenti, ciò che riporta la metropoli ai termini primi (e ultimi) della pura astrazione, così come avveniva con il dada di Hans Richter. 3) Stan Vanderbeek e Science Friction (1959): Vanderbeek nel corso dei suoi studi d’arte e architettura incontrò John Cage e Merce Cunningham, ma il suo opus di pittura visiva e collage «organico» risente parecchio della opposizione culturale beatnik, Science Friction in particolare, elemento di un work aperto successivamente alla composizione (e proiezione) multipla, realizzata concretamente col suo Movie Drome Theater a Stony Point, New York. 4) The End (1953) del poeta beat di San Francisco Christopher Maclaine, autore di quattro film frammentariamente strutturati ma non meno potenti della sperimentazione concettuale a provocare incisivi shock visuali all’occhio di chi guarda. The End dispone sei singole storie di persone giunte all’ultimo giorno della propria vita, all’ombra del fungo nucleare, ovvero la sintesi chimico-simbolica del «grande suicidio della razza umana»… Tutti ritrovabili nella sezione «Film & Video» del sito UbuWeb (www.ubuweb.com). Senza dimenticare comunque il Cassavetes beat-bop di Shadows, il Roger Corman di A Bucket of Blood, ovviamente Cronenberg e Naked Lunch… «Non nascondete la follia» (Allen Ginsberg).
ALIAS 22 DICEMBRE 2012
I FILM LA MIGLIORE OFFERTA GIUSEPPE TORNATORE, CON GEOFFREY RUSH, DONALD SUTHERLAND. ITALIA 2013
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Virgil Oldman (Geoffrey Rush) è un genio eccentrico, esperto d'arte, apprezzato e conosciuto in tutto il mondo. La sua vita scorre al riparo dai sentimenti, fin quando una donna misteriosa (Sylvia Hoeks) gli chiede di effettuare una valutazione. Sarà l'inizio di un rapporto che sconvolgerà per sempre la sua vita. (esce l’1 gennaio) BUON ANNO SARAJEVO DI AIDA BEGIC, CON MARIJA PIKIC, ISMIR GAGULA. BOSNIA 2012
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Rappresenta la Bosnia Erzegovina agli Oscar per i film stranieri, realizzato da una delle più interessanti registe del paese. Rahima (23) e Nedim (14) sono rimasti orfani e vivere a Sarajevo non è facile neanche nel dopoguerra. Un bel film di resistenza e di orgoglio. (esce il 3 gennaio) COLPI DI FULMINE DI NERI PARENTI, CON CHRISTIAN DE SICA E LUISA RANIERI, ITALIA 2012
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Dopo 27 anni di stretto presidio natalizio Aurelio De Laurentiis abbandona il format del cinepanettone. Riesumazione del vecchio movie-movie a due episodi, diciamo subito che dei due episodi il secondo, quello con Lillo&Greg e la strepitosa Anna Foglietta, è il più riuscito, il più nuovo e il più divertente, e anche quello più elaborato. Il primo episodio, invece, quello con Christian De Sica, sempre generosissimo, sembra soffrire di un non pieno sviluppo narrativo e di un'aggregazione di attori di provenienza televisiva che obbligano Parenti a situazioni un po' ibride. (m.g.)
SINTONIE Regalo di Natale della Sacher di Nanni Moretti. (c.pi.) GRANDI SPERANZE DI MIKE NEWELL, CON HELENA BONHAM CARTER, RALPH FIENNES. UK 2012
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In occasione del bicentenario della nascita di Charles Dickens, Mike Newell riporta al cinema il «Grandi speranze» di cui sono state fatte innumerevoli versioni cinematografiche e televisive. Bel cast pilotato verso una sintesi che porta a rassegnarsi al disastro economico : quanto è folle e dissipata l’aristocrazia, furbesca la borghesia tanto ricca di buoni sentimenti appare la classe povera. Naturalmente niente di tutto questo era in Dickens che con suprema ironia pungeva questi e quelli. Un’opera tranquillizzante per le masse europee. (s.s.) LO HOBBIT, UN VIAGGIO INASPETTATO DI PETER JACKSON, CON AIDAN TURNER, ANDY SERKIS. UK 2012
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Prima parte di una nuova incredibile trilogia che ci accompagnerà fino al 2014. Anche se non c'è molta storia da seguire a parte questi dodici nani+ Gandolf+l'hobbit, che si menano a sangue con una massa sterminata di orchi, troll, e Crosetti vari che incontrano durante il loro viaggio verso la Montagna Solitaria dove vive un drago più assatanato di soldi e potere di Berlusconi, i ragazzi di tutto il mondo cresciuti con la Trilogia degli Anelli non hanno altro desiderio che rivedere i loro eroi. E sono assolutamente strepitosi i dodici nani della compagnia, quasi tutti attori inglesi di gran classe. (m.g.) L’INNOCENZA DI CLARA
I 2 SOLITI IDIOTI DI ENRICO LANDO, CON FABRIZIO BIGGIO, FRANCESCO MANDELLI. ITALIA 2012
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Tornano i Soliti Idioti di Biggio&Mandelli, con un sequel che è proprio un sequel anche se natalizio. Pieno di parolacce e scurrilità per la gioia dei ragazzini in libera uscita da genitori, scuola, internet e calcio. Biggio&Mandelli scippano letteralmente, dopo 27 anni, il cinepanettone a De Laurentiis, che lo ha ceduto senza neanche combattere. Lo trasferiscono rimpastandolo (da pandoro?) in una Milano che scimmiotta volutamente la romanità di Christian e del Cipolla e lo risputano come prodotto «alto», colto, moderno, del tutto ringiovanito, privo di scorie televisive (nella casa di Gianluca non c'è neanche la televisione, con orrore del padre) e, soprattutto, politicamente scorretto. Al punto che al berlusconismo romanizzato di Ruggero De Ceglie si contrappone il montismo del futuro suocero di Gianluca, sobrio e antipatico come Monti. C' è un uso politico del «dai cazzo», è il trionfo dell'antibanalità televisiva. Tutto è fin troppo teorico e intelligente, in un film che si autoproclama idiota. (m.g.)
DI TONI D’ANGELO, CON CHIARA CONTI, LUCA LIONELLO. ITALIA 2012
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Tra le cave di marmo di Carrara dove fu ambientato il celebre I figli di nessuno, Toni D’Angelo elabora un giallo di freddezza scientifica, ma ispirato a una storia vera, dove la figura femminile, autentica femme noir senza saperlo, mette in moto un meccanismo di amore e morte, unico spiraglio di una società chiusa e maschile. Uno stile sicuro e originale nel panorama italiano. (s.s.) LOVE IS ALL YOU NEED DI SUSANNE BIER, CON TRINE DYRHOLM, PIERCE BROSNAN. DANIMARCA 2012
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ERNEST ET CÉLESTINE
La regista danese la definisce una «commedia romantica», ma sembra di più l'ennesima variazione sul tema familiare che le è tanto caro. Certo siamo a Sorrento, il massimo del kitsch sdolcinato, si deve celebrare un matrimoni, i parenti si danno appuntamento e ovviamente sarà un disastro orchestrato tra battutine di spirito e momenti melensi. Il punto è che il cinema di Susanne Bier non sorprende mai, e tantomeno questa volta, in cui più del solito la regista sembra appoggiarsi con sicura astuzia a un impianto collaudato e molto, molto ammiccante. (c.pi.)
DI BENJAMIN RENNER, STÉPHANE AUBIER, VINCENT PATAR. ANIMAZIONE. FRANCIA 2012
MOONRISE KINGDOM
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Ernest è un grosso orso bohemien. Célestine una topolina che vive in orfanotrofio e riempie i suoi taccuini da disegno di orsi, il che è già un sacrilegio. Topi e orsi infatti vivono rigorosamente separati, gli uni nella città sotterranea, gli altri di sopra, i loro universi sono nemici. Un’animazione lieve. col tratto dell’acquerello che esalta l’universo poetico della storia sceneggiata dalla penna di Daniel Pennac. A ispirare lo scrittore sono stati gli album della serie di Gabrielle Vincent, disegnatrice belga (nell'edizione italiana le voci sono di Claudio Bisio e di Alba Rohrwacher).
DI WES ANDERSON, CON EDWARD NORTON, BRUCE WILLIS, BILL MURRAY, TILDA SWINTON, FRANCES MCDORMAND, HARVEY KEITEL. USA 2012
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Isoletta del New England, set Rhode Island, la storia è una «striscia» di Peanuts, mescolata alle avventure di James Mathew Barrie con una Wendy intenta a leggere fiabe istruttive ai «ragazzi perduti». Anderson disegna il primo film d'animazione con attori in carne e ossa, figurette stagliate nei fondali verdi, a dimensione geometrica dove il regista di Fantastic Mister Fox, esercita la sua poetica su musica di Benjamin Britten. Una galleria
A CURA DI SILVANA SILVESTRI CON MARIUCCIA CIOTTA, GIULIA D’AGNOLO VALLAN, ARIANNA DI GENOVA, MARCO GIUSTI, CRISTINA PICCINO, ROBERTO SILVESTRI
IL FILM LA BOTTEGA DEI SUICIDI
di ritratti magnifici, Bill Murray e Frances McDormand, i genitori male assortiti di Suzy, Bruce Willis, il poliziotto solitario, afflitto da un passato d'amore non corrisposto, Tilda Swinton in tenuta blu da aguzzina per giovani «devianti», Edward Norton, tenero e incapace di mantenere la disciplina a Camp Lebanon, e un Harvey Keitel comandante Pierce, generalissimo scout.(m.c.) LA PARTE DEGLI ANGELI DI KEN LOACH, CON PAUL BRANNIGAN E JAMES CASEY, UK 2012
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Loach ridimensiona il macho di periferia in questa commedia dal ritmo rockettaro, dialoghi scoppiettanti e una storia finalmente non apologetica del «povero cristo». Glasgow, il prologo è una esilarante galleria di tipetti fuorilegge, piccoli bastardi disoccupati che sfilano davanti a un giudice con parrucca d'ordinanza e cuore d'oro. Ladruncoli, teppisti, vandali, fuori di testa e Robbie (Paul Brannigan), nato male, un tipo mingherlino e violento che sta per diventare papà e merita una «seconda vita». La Scozia, dice Loach, è «una terra di solidarietà». Saranno tutti destinati ai «lavori socialmente utili». Poi il film si scatena in un rocambolesco furto di whisky dal prezzo «inestimabile», un milione di sterline per una botticella conservata nel «sacrario» di una cantina esclusiva. Una serie di gag, equivoci, incidenti si trasforma da film sugli emarginati no-future in una screwball comedy. (a.t.) LA REGOLA DEL SILENZIO THE COMPANY YOU KEEP DI ROBERT REDFORD, CON ROBERT REDFORD, SHIA LABEOUF, JULIE CHRISTIE, STANLEY TUCCI, NICK NOLTE, SUSAN SARANDON. USA 2012
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Avevano dei buoni motivi» i Weathermen per rispondere al fuoco dei massacri in Vietnam e sulle strade e sui campus del Movement, all'eliminazione capillare dei militanti della Students for a Democratic Society e delle Black Panthers. Indagine trent'anni dopo sui «clandestini» che colpivano stazioni di polizia, basi dell'esercito, uffici del Pentagono con ordigni destinati a non fare vittime. Jim Grant (Redford), avvocato a difesa dei diritti civili, combattente nel passato e nel presente dalla parte della «brava gente», scovato dal reporter di provincia, collega indizi su indizi, e non molla la presa anche se il direttore del giornale di Albany (Stanley Tucci) teme la reazione rabbiosa dell'Fbi. (a.t.) VITA DI PI (3D) DI ANG LEE, CON SURAJ SHARMA, GÉRARD DEPARDIEU. USA 2012
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East e ovest, Taiwan (dove sono state realizzate le riprese) e Hollywood (che paga), Esopo (tra)vestito da Kipling e in 3D, un Dio buono per tutte le stagioni, un messaggio edificante, Gérard Depardieu, il magnifico direttore della fotografia di David Fincher, Giobbe e un tocco di National Geographic, sono gli ingredienti dell’ultimo pot pourrie di Ang Lee, tratto dal celebre romanzo di Yann Martel. Presentato al New York Film Festival, l’ottobre scorso, il film del regista di Brokeback Mountain era uno dei titoli più quotati per la corsa agli Oscar, ma è stato un buco nell’acqua e risulta più irritante del solito. Mette in scena il cocciuto tête a tête tra un ragazzo indiano e una tigre, persi nel Pacifico su una scialuppa di salvataggio miracolosamente sopravvissuta al naufragio che ha inghiottito la nave giapponese su cui il ragazzo viaggiava insieme alla famiglia e allo zoo di cui erano proprietari. Ang Lee ha bisogno di un prologo e di un epilogo, parlatissimi, il che, paradossalmente, fa di La vita di Pi un film che non ha fiducia nella fantasia e, ancor peggio, nel potere del suo racconto. (g.d.v.)
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DI PATRICE LECONTE. ANIMAZIONE. FRANCIA 2012
LA VERTIGINE DEI SEGNI YEAH YEAH Uk, 2012, 2’50”, musica: Willy Moon, regia: autore ignoto, fonte: DeeJay Television
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Sotto osservazione da psichiatri e psicanalisti, Willy Moon – come in un film anni ’50-’60 comincia a delirare o ad avere visioni oniriche, un po’ alla Hitchcock di Spellbound. Il video si basa soprattutto su giochi grafici e sul compositing con la figura intera o la testa del cantante inglese ritagliata e incollata su altri sfondi. Il risultato non è male, tra surrealismo e pop. DISCO LABIRINTO
Italia, 2000, 4’, musica: Subsonica e i Bluvertigo, regia: Luca Pastore, fonte: youtube
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I Subsonica e i Bluvertigo suonano insieme a bordo di un camion che cammina per le strade della città. Disco Labirinto è il primo tentativo di visualizzare la musica nel senso letterale del termine, realizzando un videoclip appositamente per sordomuti, con l’aiuto di luci e di gesti che agevolano la fruizione musicale e la comprensione del testo - tradotto nel linguaggio dei segni (in versione leggermente diversa dalle parole cantate) - che scorre in sovrimpressione. Gli autori di questo particolare esperimento sono gli architetti dello Studio Elastico di Torino, mentre la regia è affidata a Luca Pastore, documentarista e videoartista che ha firmato - a volte insieme ad Alessandro Cocito - alcuni tra i migliori clip italiani. I WOULDN’T NORMALLY DO THIS KIND OF THING
Uk, 1993, 4’40”, musica: Pet Shop Boys, regia: Howard Greenhalgh, fonte: youtube
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La cultura visuale pop e optical aggiornate nell’era della computer animation da Greenhalgh. Lowe e Tennant con parrucche a caschetto molto sixties e gilet rosa confetto, si esibiscono intarsiati e sovrapposti su sfondi a scacchiera bianchi e neri, vortici geometrici, mentre i loro alter-ego bambini suonano la tromba e alcune ballerine, moltiplicate fino a diventare una schiera, si dimenano intorno a loro. Volutamente ridicoli come se scimmiotassero gli stereotipi da dance clip, si muovono un po’ robotici come su texture vagamente psichedeliche. I Wouldn’t Normally… fa parte della serie di lavori ideati dal regista inglese per l’album Disco 2, Remixes. LOSING MY RELIGION
Usa, 1991, 4’53”, musica: R.E.M., regia: Tarsem, fonte: MTV Classic
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Leonardo da Vinci alle prese con Icaro, la luce dei quadri di Caravaggio, L’incredulità di San Tommaso e La deposizione, San Sebastiano e l’iconografia indiana, il tutto mentre la band si trova all’interno di una stanza, con Stipe che ogni tanto è ripreso in playback, anche se - come accade spesso nei video dei R.E.M. - il brano è cantato anche da altri personaggi. Il sincretismo visivo di Tarsem nel clip di Losing my Religion esplode fragorosamente, articolandosi in una sequela di coloratissimi tableaux vivants che si rifanno a capolavori dell’arte sacra del passato, ma ricomposti in una trama di associazioni senza una precisa narrazione.
MAGICO
A 37 anni dall'esordio cinematografico con Il cadavere era già morto, commedia nera tratta da un fumetto di Gotlib, per Leconte è quasi un doppio ritorno alle origini. Del resto prima del cinema, nella prima metà degli anni '70, realizzava fumetti per la rivista Pilote. Tratto da un racconto di Jean Teulé, è un gustoso musical animato che si colloca agevolmente fra le trame di humour noir de La famiglia Addams e dei pupazzi di Tim Burton. Il quadro depressivo mortifero che caratterizza la non-vita della metropoli parigina o di qualunque altra grande città, stressante e disumana, è purtroppo ben riconoscibile nella realtà. Leconte pare affidare la scintilla di cambiamento alle nuove generazioni, ai ragazzi che sappiano ritrovare il sorriso a dispetto di tutto. Così il piccolo sorridente Alan è la pecora bianca della famiglia Tuvache, la cui redditizia attività è un negozio specializzato in tutto quanto possa servire per morire bene e presto. Corde di tutte le misure per impiccarsi, veleni per tutti i gusti efficaci all'istante senza dolore né tracce, dispositivi vari dai design particolari per defunti prossimi venturi: la bottega della morte ricercata ha una gamma completa per ogni tipo di esigenza. Gli affari vanno a gonfie vele, e come non potrebbero con le tante persone afflitte da sindrome suicida fra disoccupati, sfrattati, delusi in amore, solitari, scontenti e arrabbiati? Il nuovo arrivato in famiglia nasce ridendo. Alan ha sempre una parola positiva, ama i colori, il gioco all'aperto, la musica. Cambiare si può. (th.m.)
LA RIVISTA 8½ MENSILE, DICEMBRE 2012
Esce il primo numero di «8 ½» il mensile diretto da Gianni Canova, critico e preside della Facoltà di Comunicazione Iulm di Milano. Si presenta non come una rivista di critica né di colore né organo di Cinecittà che lo produce: curata dalla redazione di CinecittàNews è realizzata infatti da Istituto Luce-Cinecittà in collaborazione con Anica e Direzione Generale Cinema-MiBac. Il suo scopo, si dice nella presentazione, è suscitare discussioni e polemiche offrendo un contributo significativo ponendo al centro dell’interesse il cinema italiano, come suggerisce anche il titolo che si è voluto dare alla rivista. Nel primo numero la vena polemica si esprime con un’inchiesta: «Siamo un paese di analfabeti filmici?». Tra gli altri argomenti viene dato spazio alle realtà innovative come la new wave dell’animazione italiana e un focus sulla condizione del cinema in aree geopolitiche e culturali diverse dalla nostra: prima tappa la Romania. Non mancano i numeri, con il dossier sul Tax Credit elaborato dall’Osservatorio della Direzione Generale Cinema-MiBac e l’approfondimento sui nuovi mercati esteri per i film italiani a cura dell’Ufficio Studi di Anica. Da febbraio la rivista sarà in vendita nelle più importanti librerie delle principali città. (s.s.)
LA STRENNA BIGLIETTO PALAZZO FIRENZE, PALAZZO STROZZI, 20 EURO
«Regala un anno di mostre!» è la strenna di Palazzo Strozzi a Firenze, uno speciale abbonamento valido un anno (da dicembre 2012 a gennaio 2013) un pacchetto straordinario che la Fondazione Palazzo Strozzi offre agli appassionati al costo super scontato di 20 euro. Le mostre in programma sono: «Anni Trenta. Arti in Italia oltre il Fascismo» (22 settembre 2012 - 27 gennaio 2013), con Sironi, de Chirico, Savinio, Soffici, Carrà, Donghi (foto) tra gli altri, «La primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400-1460» (23 marzo - 18 agosto 2013), «Fuoco e ghiaccio. L'Avanguardia russa, la Siberia e l'Est» (21 settembre 2013-19 gennaio 2014). Programma mostre Centro di Cultura Contemporanea Strozzina: «Francis Bacon e la condizione esistenziale nell'arte contemporanea» «5 ottobre 2012-27 gennaio 2013), «Un’idea di bellezza» (29 marzo-28 luglio 2013), «Mostra autunnale» (settembre 2013-gennaio 2014). Le mostre di Palazzo Strozzi resteranno aperte durante le festività. Il Biglietto Palazzo è disponibile alla biglietteria di Palazzo Strozzi e può anche essere acquistato on-line collegandosi al sito www.palazzostrozzi.org. (s.s.)
LA TELEVISIONE ICONOTV SU CUBOVISION
L’arte racchiusa nel piccolo schermo e su internet, così da poter visitare le maggiori mostre internazionali e andare alla scoperta del nostro patrimonio, comodamente seduti sul divano di casa. Su Cubovision di Telecom Italia, arriva il canale tematico dedicato alla creatività contemporanea e non solo. Il nuovo canale, gratuito nella sezione Web Tv consente di conoscere le opere proposte dalle più importanti esposizioni invitando a tour virtuali. L’esperienza da vivere sarà puramente visuale, senza fuori campo narrativi né accompagnamenti musicali. Il progetto di Elizabeth Markevitch, fondatrice e presidente di ikono, affonda le sue radici nel 2006 a Berlino con l’obiettivo di diffondere la cultura della bellezza, sperando così che le nuove generazioni possano abituarsi a intrecciare memoria e futuro, entrando nella Storia con l’ausilio di master del pennello e i loro capolavori. Tre i differenti programmi: la parte dedicata alle «Mostre temporanee» (con trailer di rassegne in corso in Italia e all’estero), la sezione «Patrimoni riscoperti» in omaggio a preziosi tesori spesso misconosciuti dal grande pubblico e infine, i «Musei del mondo», con video che ripercorrono le «biografie» delle collezioni permanenti. Si può vedere anche su www.cubovision.it, tramite App Cubovision TvFree /Sapere/Arte-Archittettura sezione Free/In Evidenza e sui social Cubovision Facebook e Twitter. (a. di ge.)
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ALIAS 22 DICEMBRE 2012
di LUCA GRICINELLA
A voler eleggere un esponente dei cantautori brasiliani venuti alla ribalta nell’ultimo decennio che più ha colpito il pubblico europeo, questi di certo è Seu Jorge. Nonostante i pregiudizi del vecchio continente verso i suoni considerati «esotici», il musicista classe 1970 e originario di una favela dello stato di Rio, ha conquistato senza riserve un suo pubblico anche da queste parti. E non solo il pubblico del cosiddetto calderone «world music», etichetta sempre più frutto di un punto di vista tanto etnocentrico quanto anacronistico. Anche un pubblico sia esigente e aggiornato sia attento alle nuove tendenze del mercato musicale. Senza dubbio i suoi ruoli d’attore in film di successo come City of God (2002) e Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e le sue interpretazioni di classici di David Bowie, Serge Gainsbourg, Kraftwerk, Roy Ayers e Michael Jackson, gli hanno dato una grossa mano. Non proprio dettagli. Resta il fatto che Jorge ha in dote una voce calda e profonda e una capacità invidiabile di avvicinarsi a brani di mostri sacri del pop-rock mondiale per arrangiarli in maniera originale e credibile. Seu Jorge and Almaz (Now Again), il suo album del 2010, testimonia bene queste doti, con la supervisione artistica di Mario Caldato Jr - già al fianco dei Beastie Boys - a dare un tocco cool e d'autore al suono. Più che mai nell’ultimo anno il talento carioca pare una volta per tutte in felice compagnia. Altri artisti brasiliani della sua generazione, a cavallo tra i trenta e i quarant’anni, si stanno infatti affacciando dalla nostre parti. Uno su tutti Criolo, nome d’arte di Kleber Gomes, passato la scorsa estate per la prima volta in Europa per proporre la sua musica dal vivo. Italia compresa, dove ha fatto due date, a Milano e Roma. Criolo con Seu Jorge non condivide solo l'origine in una favela ma anche gli incroci professionali con membri e produttori di una storica band, i Nação Zumbi, pionieri del movimento mangrove bit (o mangue beat), crossover brasiliano che fonde i ritmi della tradizione maracatu a elementi hip hop e funk. Criolo viene da Sao Paolo e si è appassionato alla musica da giovanissimo grazie all’immediatezza del rap, genere che anche in Brasile è capace di muovere grandi folle. Il suo secondo e ultimo album, Nó Na Orelha (Sterns Records), in patria ha avuto e continua a ottenere un successo più che buono, e non si tratta tout court di un album rap. L’exploit non riguarda semplicemente le vendite, per quanto buone (si parla di almeno 400mila download ufficiali dell'album), ma anche i riconoscimenti del pubblico e i premi musicali degni di nota, i tanti live e le lodi pubbliche di un artista del calibro di Caetano Veloso. In Brasile il bacino dei potenziali ascoltatori di musica è così ampio che le cifre di vendita, considerando artisti con pari popolarità, se paragonate a quelle di un qualsiasi paese europeo, hanno dimensioni importanti. Fatto sta che l’eco di questo successo è arrivata appunto in Europa, dove Criolo continua a suonare anche ora che l’estate è passata, calcando i palchi dei paesi latini ma anche di quelli più freddi. In patria il trentasettenne ha avuto una buona esposizione mediatica anche perché con Veloso ha avuto l’onore di duettare dal vivo. Quasi un passaggio di consegne. Si parla sempre di un esponente di una scena alternativa a quella mainstream, ma il fatto davvero positivo è che Criolo non rappresenta un caso isolato. Anche Lucas Santtana (1970), pupillo di un altro grande nome della musica
FENOMENI ■ DA SEU JORGE A LUCAS SANTTANA E CURUMIN
Brasile hip pop Sale l’onda «urban style» Mescolano rap, jazz, breakbeat. Vengono dai quattro angoli del paese e hanno individuato una via originale alle classifiche. Il segreto è mantenere ottimi rapporti con la tradizione brasiliana, Gilberto Gil, è un cantautore brasiliano che sta girando l’Europa. Considerato uno dei suoi scopritori, Gil per un periodo ha anche voluto Santtana nella sua band come flautista. Dopo che la critica internazionale nel 2009 ha ben accolto Sem Nostaglia, il polistrumentista di Salvador de Bahia ha pubblicato di recente su Mais Um Discos, The God Who Devastates also Cures (O Deus que devatsa mas também cura). Si tratta del suo quinto album, non siamo quindi di fronte alla fulminea impresa di un novello. Bassi e echi dub, atmosfere jazz, i breakbeat e gli influssi bossa nova costituiscono l’ossatura sonora del disco. Ma sia musica sia testi sono ispirati all’esperienza personale, nello specifico la fine di una relazione. Così le canzoni pop di Lucas Santtana derivano da una miscela contemporanea che sa essere raffinata e meditativa e un istante dopo dominata da ritmiche trascinanti e spensierate. A questa piccola schiera di artisti va aggiunto Curumin (vero nome Luciano Nakata Albuquerque), cantante, compositore e polistrumentista di Sao Paolo classe 1976 che il New York Times ha definito un «prodotto dell'incontro tra il funk brasiliano e la musica nera statunitense degli anni ’70». E proprio negli Usa, Curumin è molto stimato e seguito, anche grazie alla sponsorizzazione del duo hip hop californiano Blackalicious. Anche nel suo caso non mancano gli incroci con l’hip hop e le radici della musica brasiliana. L’affermazione è arrivata nel 2008 con il suo secondo album, JapanPopShow. A questo è seguito solo di recente Arrocha, in cui le canzoni possono svilupparsi su ritmiche dub e avere accenti soul ma in cui a intervalli regolari si affacciano melodie dal sapore tropicalista. La lunga pausa tra l’uno e l’altro disco è dipesa dalle tante date dal vivo in giro per il mondo ma anche - a sentire il diretto interessato - dalla ricerca di un’ispirazione non mossa dall’euforia delle attenzioni, specie internazionali. Con le dovute differenze, siamo di fronte a cantautori dal suono urbano e contemporaneo che non ignorano affatto la tradizione del loro paese. Una via al pop di cui certo il Brasile non detiene il copyright, ma che riesce a esportare più di altri paesi, forte di un pubblico interno folto e con una
buona cultura musicale. Per fare un paragone immediato, la vicina Argentina fa più fatica a esportare i propri artisti contemporanei autori di suoni riconducibili a questo mix: Spagna a parte, la stessa Italia, nonostante la «parentela», di rado si interessa ai nuovi cantautori di Buenos Aires e dintorni (e ce ne sono di altrettanto validi). Non si può concludere che questa miscela sonora contemporanea - a Rio, Sao Paolo e in altre città del Brasile - sia più ispirata. Di certo in Brasile è molto comunicativa e supportata in maniera trasversale dal resto del paese - si tratti della scena undergound, dove questi artisti si sono fatti le ossa, o dei grandi nomi della musica d’autore. I più maliziosi diranno che si tratta di suoni più vicini a un’estetica europea che sudamericana, quando invece si tratta di musiche che ben descrivono le società contemporanee senza avere il timore preconcetto di suonare pop. In alcuni casi con una semplicità istintiva che, accompagnata dall’abilità musicale, in Europa le fa accogliere oltrepassando gli schemi mentali tipici dell’ambiente musicale di queste parti. Inoltre il percorso di Seu Jorge, Criolo, Santtana e Curumin racconta di artisti non costruiti a tavolino dopo ricerche di mercato. La schiera è ancora ristretta ma i traguardi raggiunti per ora non sembrano da poco.
INCONTRI ■ OMAGGIA MULATU ASTATKE E FELA
La strategia funk di Criolo. Potere alle parole, ma vanno ascoltate di L. GR.
Testi narrativi, realisti e impegnati che si sviluppano su tappeti musicali funk e hip hop, afrobeat, dub e samba con qualche sprazzo di jazz. Nó Na Orelha (che il comunicato stampa definisce «un viaggio notturno attraverso la capitale brasiliana dell'hip hop») contiene suoni riconducibili a queste aree musicali ma non solo. Per il suo prossimo docu-film, Go, Brasil, Go!, Spike Lee ha intervistato l'attuale Presidente del Brasile, Lula da Silva, Pelè, Caetano Veloso, Jorge Ben ma anche Criolo. Vero nuovo fenomeno del pop d’autore brasiliano, l’artista ha risposto ad alcune domande mentre era in viaggio per l’Europa,
dove continua il suo tour, in alcune date anche affiancato dal maestro etiope Mulatu Astatke, uno dei suoi riferimenti musicali. ●Perché in «Mariô», uno dei pezzi più coinvolgenti del tuo album, citi Mulatu Astatke e Fela Kuti? Perché non solo credo nella forza del loro suono ma anche e soprattutto nella forza dei loro messaggi. Entrambi sono dei maestri. La loro musica ci tocca non solo attraverso il suono (indubbiamente sofisticato) ma anche attraverso il contenuto. ●Pensi che il tuo background hip hop ti abbia aiutato a scoprire funk e afrobeat? Ero solito ascoltare James Brown e
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A sinistra Curumin, sotto Lucas Santtana (foto Daryan Dornelles), in grande Criolo, a destra i tre Ninos du Brasil (foto Giulio Tami)
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L’ultima follia dei Ninos italiani. «Posseduti dal ritmo» di L. GR.
L’artista ha convinto anche Spike Lee che lo ha intervistato nel suo ultimo documentario dedicato allo stato lusofono tutte le icone della musica funk ai «bailes» del mio quartiere. I dj hip hop sono i responsabili del mio primo contatto con questo tipo di musica. L’afrobeat, invece, è entrato nella mia vita successivamente. I produttori del mio album mi ci hanno introdotto ed è stata un’esperienza molto speciale l’ascolto dell’afrobeat. Ho sentito subito il suo carattere ancestrale. ●Quali sono invece gli artisti brasiliani che ti hanno ispirato a fare musica? I miei genitori. ●La tua esperienza di vita in una favela, la Favela das Imbuias, ha influenzato la tua musica? Penso che l’ambiente che si ha intorno ha sempre un’influenza sulla vita delle persone. Non importa di quale ambiente si tratti. Una persona che vive di musica non può distaccare la vita di tutti i giorni dalla sua arte e questo non c’entra con il posto in cui si vive. ●Pensi che la società brasiliana sia cambiata negli ultimi anni in termini di uguaglianza? Preferisco lasciare questa risposta alle autorità del mio paese. Sono responsabili di una nazione che si sviluppa in frammenti. Come cittadino tutto quello che posso fare è continuare a credere nella bellezza delle persone. Le persone speciali che danno il loro meglio ogni giorno nel nome del mio paese.
●E secondo te i testi rap possono influenzare in maniera particolare il pensiero degli ascoltatori? Ci sono persone che leggono lo stesso libro più di una volta nella loro vita e a ogni lettura vedono quel libro in maniera differente. L’essere umano cambia costantemente. Quindi, per quanto creda nel potere della parola, tutto dipende da quanto la persona ascolti e riceva il messaggio. Credo che il rap sia una splendida maniera di esprimere un desiderio reale di contribuire al tutto. ●Non credi che nei paesi in cui l’hip hop è davvero popolare, la combinazione di rap e consapevolezza possa davvero intimorire la classe media? Ci sono molte maniere di vedere il mondo. Penso che quello che faccia paura a chiunque sia il sentimento di non avere speranza che perseguita la maggioranza del pianeta. L’hip hop non è tenuto a intimorire. È solo una legittima, sincera e molto peculiare maniera di comunicare con il resto del mondo. ●Cosa pensi quando si parla di te come di un «artista pop»? Ti trovi a tuo agio con l’etichetta «pop»? Provo un interesse verso questo bisogno di etichettare tutto. Detto ciò, la gente ha il diritto di dare le proprie opinioni e tirare le proprie conclusioni. Non posso far altro che rispettarle. Ogni persona è unica e speciale e questa individualità è ciò che ci rende interessanti. Per quanto mi riguarda sono molto sicuro delle ragioni che mi spingono a scrivere e cantare. ●Tornando alle tue origini, Sao Paolo ha influenzato il tuo sound? Ripeto, il mio habitat di certo ha un’influenza su quanto produco. Come l’habitat di un’altra persona influenza di certo ciò che questa persona produce. In alcuni casi più di altri, certo. Tutto dipende dalla prospettiva di ognuno di noi. Si può vivere nella stessa strada, uno dentro una casa e un altro per strada. È sempre la stessa città. ●Quali sono i tuoi piani per l’immediato futuro? Continuare a cantare. Se mi sarà permesso.
Italia chiama Brasile. Lo spirito brasiliano alberga anche dalle nostre parti e dove meno te lo aspetti. Di recente è arrivato nei negozi e sui digital store Muito N.D.B. (La Tempesta International) un mix di batucada e noise, samba ed elettronica che in parte tradisce la formazione punk dei tre membri del gruppo, i Ninos du Brasil. Nonostante il nome, italianissimi. Il Brasile gioca il suo ruolo, ma si tratta di un’ispirazione quasi incosciente, come racconta Nicolò Fortuni, uno dei tre membri del gruppo insieme a Nico Vascellari e Riccardo Mazza. Curioso come questa miscela musicale e culturale con origini miste brasiliane, statunitensi ed europee sia arrivata anche in Italia in una forma ben differente da quelle di cui si parla nell’articolo qui di fianco e quasi per caso. Una forma tipica di quei sotterranei europei alla ricerca di nuove strade da battere. Che, caso vuole, arriva proprio nello stesso periodo della nuova onda brasiliana. ●Perché avete scelto il Brasile e fino a dove si spingono le vostre attenzioni verso l’immenso repertorio musicale del paese? La scena baile funk, per esempio, vi interessa? La scelta del Brasile è stata piuttosto casuale. Il progetto N.D.B. si è concretizzato soltanto adesso, ma è nato all'incirca dodici anni fa, durante un tour con la nostra vecchia band. Nico Vascellari e io stavamo sul furgone e chiacchierando ci è venuta in mente l'idea di un tormentone chiamato «Nos somos ninos du Brasil, somos ninos du Brasil». L'immaginario prevedeva di ripetere questa frase all'infinito, vestiti da giovani calciatori brasiliani, con una divisa colorata e del tutto consumata e lacerata. La cosa bella del progetto è che non c'è uno studio in merito o un approfondimento sul repertorio musicale brasiliano. Tutto è suonato in maniera spontanea, senza la voglia di catalogare il tipo di musica che facciamo. N.D.B. non è un progetto finalizzato a far riflettere la gente riguardo a stile, testi più o meno impegnati o introspettivi o profondi… motivo in più per il quale non abbiamo testi veri e propri ma parole prive di significato. È un progetto liberatorio, in cui la gente agisce, si lascia coinvolgere, in maniera leggera. La scena baile funk, sulla quale mi sono appena documentato, sembra un buon avvicinamento all'ideale di N.D.B. Il fatto che sia uno stile comportamentale, piuttosto che musicale, permette di paragonarla all'attitudine dei Ninos du Brasil. ●Quanto e come cambia la vostra musica dall’ascolto casalingo all’ascolto dal vivo? Parecchio, si direbbe. L'ascolto casalingo è ovviamente più riflessivo e profondo. Non un semplice sottofondo. Dal vivo l'ascolto è più scanzonato ma confesso che ultimamente sono ben pochi i gruppi che mi piace andar a vedere live. A noi invece piace poter coinvolgere la gente il più possibile, ma con leggerezza. I migliori concerti N.D.B. sono quelli in cui chiunque (sia il pubblico sia la band) prende confidenza con se stesso e con la situazione. Ci piace fornire all'entrata vari oggetti, quali maracas, cannoni spara-coriandoli, stelle filanti, bacchette ecc… il tutto finalizzato alla partecipazione di tutti. Come una vera e propria parata carnevalesca in pieno stile brasiliano. Non ci sono testi da interpretare, non ci sono riff da seguire, bisogna solamente farsi prendere dal ritmo. E che ognuno si senta libero di farlo come meglio crede. Non c'è giudizio, non c'è un voto finale. C'è solo puro e semplice divertimento.
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Nel progetto «Transitory Life» l’artista statunitense racconta i suoi viaggi attraverso il pianeta, dal Polo Nord al Messico
RITMI INCONTRI ■ DA SEMPRE AL CUORE DELL’AVANGUARDIA NEWYORKESE
Effetto voce. Il gesto armonico di Laurie Anderson di MARIAGIOVANNA BARLETTA
Laurie Anderson verso la fine del Novecento declina a suo modo il termine «avanguardia». Fin dagli anni Settanta coniuga minimalismo, scultura, pittura, fotografia, videoarte e regia; collabora con scrittori del calibro di John Giorno e William Burroughs e partecipa alle installazioni sonore e multimediali di John Cage. Nello spettacolo Transitory Life il suo particolare approccio vocale sovente manipolato attraverso l'elettronica nobilita il recitato, perché spiega di sentirsi prima di tutto una narratrice. Laurie Anderson, come Cage, non dimentica che l'improvvisazione è anche gesto musicale ed è presente in ogni civiltà, ad ogni latitudine e in ogni epoca, approccio estetico che la conduce dalla Mongolia alla musica eurocolta. Dai compositori Terry Riley, Steve Reich e Philip Glass l'artista americana eredita il piacere di una pulsazione ritmica regolare unita alla scarnificazione
del linguaggio armonico che si apre in questo modo a soluzioni illimitate. Il panorama sonoro di Laurie Anderson sembra filtrato attraverso un modo sempre nuovo di vedere e ascoltare collegato alla tecnologia, a volte alla velocità ed alla forma canzone panetnica. Abbiamo avuto l'occasione di chiacchierare con Laurie Anderson dopo una conferenza informale aperta al pubblico e ai giornalisti, e in questa occasione ha voluto raccontare anche dei suoi incontri con gli artisti newyorkesi minimalisti. ●In che modo nasce la sua ispirazione per lo spettacolo «Transitory Life»? L'ispirazione per Transitory Life nasce da racconti di avventura e dall'aver attraversato vari luoghi. Quando viaggi in terre come il Polo Nord, il Messico o la Slovenia, avverti la sensazione di trovarti realmente in un posto diverso e forse questa suggestione mi ha spinta a realizzare le immagini tradotte in musica di Transitory Life come se
si trattasse di montare diversi cortometraggi. Inoltre il mio viaggio mi ha avvicinata a una percezione diversa del tempo: a volte l'ho sentito arretrare, altre muoversi più velocemente o addirittura fermarsi. ●Come mai per «Transitory Life», un insieme di lavori che raccolgono progetti di epoche differenti, ha scelto di utilizzare unicamente il linguaggio musicale? Per rendere Transitory Life un film. La musica scava nel profondo... come un contrappunto. Nei film, ad esempio, l'immagine di un edificio può essere modificata da un sottotesto musicale che crea un'atmosfera di tensione o tranquillità. A mio avviso la musica è un veicolo emotivo che aggiunge altre informazioni e a volte ti suggerisce come sentirti. ●Il musicologo Carl Dahlhaus, durante una discussione sul tema «Identità e musica», osservò che sarebbe stato più
appropriato sostituire la parola «identità» con il termine tedesco «wesen» (coscienza dell'essere). «Transitory Life» potrebbe abbracciare questa idea? È una domanda davvero complessa... la musica ti offre la possibilità di guardare le cose da un ulteriore punto di vista. La musica è un modo di guardare: quando sono in giardino, ad esempio, mi capita di osservare le pietre, il modo in cui sono disposte lungo il bordo, la linea che divide l'erba dalla ghiaia, e apprezzo il mondo. Nel caso
INTERVISTA ■ L’EX LEADER DEI MAU MAU
La musica popolare di oggi è meticcia per definizione, le migrazioni hanno cambiato il volto delle nostre città e reso i ritmi sudamericani o le percussioni africane parte del nostro patrimonio musicale quotidiano. Nessuno lo sa meglio di Luca Morino, classe 1962, artista torinese che ha guidato per anni i Mau Mau, un gruppo la cui world music raccoglieva i suoni del mondo dalle rive del Po. Morino si è preso una pausa dalla band e ha pubblicato, con il nome MorinoMigrante e il Combo Luminoso, un lavoro dal titolo Vox Creola. Un disco solista, ma non solitario, ricco di collaborazioni e di compartecipazioni. Un album dove una cumbia o una rumba sanno raccontare le nostre vite quotidiane, dove le storie nascono dalle periferie delle città italiane o dai viaggi della speranza dei migranti. E dove convivono una ballata dedicata a Mirafiori a racconti ambientati tanto nelle Langhe quanto in Africa. ●Ha ancora senso parlare di
contaminazione? Per me è un parola virtuale. Qualsiasi cosa faccia parte della storia dell’uomo è rimescolamento. Negli ultimi due decenni si è cominciato a capire come i connotati culturali cambino in base alle diverse influenze. Si creano occasioni di incontro, ma anche di scontro e di conflitto. Ma trovo sempre più obsoleti coloro che si battono in nome di una "purezza" perché è un concetto che nei fenomeni culturali e sociali non esiste. Vox Creola vive di questo. L’ho connotato molto a Torino, ma una Torino sempre più vissuta da gente non originaria della città che però ne fa parte. Tra i musicisti ospiti c’è ad esempio il percussionista indiano Kamod. Vive in Italia da 5 anni, ha sposato un’italiana, abita nelle Langhe e ha un accento piemontese. Ha studiato per 15 anni musica classica indiana, ma la sua cultura così come la nostra è stata contaminata. Il disco vive di queste manifestazioni e del profondo desiderio di non vedere l’Italia solo come un paese omologato attorno a pochi grandi canali preferenziali della comunicazione, in cui tutto si
●Nel suo album intitolato «Homeland» l'incipit del brano «Transitory Life» è per caso ispirato alla tecnica del canto diafonico utilizzato nella musica folk dell'Asia Centrale? Il mio museo preferito di New York è il Rubin Museum (museo di arte himalaiana) dove è allestita una bellissima collezione; un giorno, per puro
Il musicista torinese ha pubblicato «Vox Creola», il suo nuovo album solista. «La ’purezza’ è un concetto che non esiste»
Luca Morino, quell’insolito mondo meticcio sulle rive del Po di GUIDO MARIANI
specifico di Transitory Life, il mio approccio musicale ha a che fare con il prestare attenzione, non riguarda il fare qualcosa di grande, nuovo, originale.
popolo ormai sono legate ai santi, alle madonne e alle lotterie. Il brano Vajassa, ispirato allo scambio di insulti in parlamento tra la Mussolini e la Carfagna, è una scenetta in cui ci sono un lui e una lei che analizzano la fine della loro storia. I loro resoconti sono totalmente contrapposti. Così anche altri momenti del disco hanno una chiave di lettura ironica. L’amarezza è sempre condita con lo zucchero.
esaurisce tra le trasmissioni di Rai Uno o di Sky oppure nei locali della "movida". ●Nelle canzoni di «Vox Creola» ci sono umori e sensazioni diverse. C’è un senso di amarezza e disincanto… Siamo tornati a quel disagio che era la fotografia degli anni Cinquanta, quelli che abbiamo visto nei film neorealisti. Bisogna arrabattarsi per sopravvivere, adattarsi a una situazione anche molto difficile con l’aggravante che non abbiamo più la speranza che alimentava la sopravvivenza dei
nostri padri e dei nostri nonni. C’è un’amarezza di fondo. Sfido chiunque a dire che basta impegnarsi, lavorare e tutto cambierà per il meglio. Io mi sforzo di tenere anche nelle mie canzoni un approccio positivo, ma quello che vedo è molto negativo. ●Il tutto però e vissuto anche con una certa dose di ironia e con momenti di commedia. I fenomeni di costume sono spesso divertenti. Nel primo pezzo, S. Maria del deserto il protagonista si trova in una processione e si rende conto che la vita e le speranze del
●Il primo singolo dell’album è «Rumble in the Jungle», cover di «In Zaire» di Johnny Wakelin che rievocava la celebre sfida africana tra George Foreman e Muhammad Ali. Perché questa scelta? Il brano mi è sempre piaciuto. L’avevo ascoltato quando ero piccolo e poi ho scoperto essere dedicato a quell’incontro di boxe la cui storia è raccontata nel bellissimo film "Quando eravamo re". Ha assunto per me un nuovo significato. Ali è stato un personaggio che ha saputo andare oltre l’ambito sportivo. Ha rappresentato molto nella lotta per i diritti degli afroamericani. Mi
caso, mi è capitato di ascoltare un coro di mongoli cantare ogni singola nota comprensiva di armonici, come una radio sintonizzata su 26 stazioni contemporaneamente!. Ne rimasi davvero sorpresa, motivo che mi convinse a seguire un laboratorio insieme ad alcuni musicisti di New York; dicono sia un cliché che la musica sia un linguaggio internazionale, ma è così. Non avevamo bisogno di parlare, improvvisamente suonavamo all'unisono, era magico! Terminato il workshop proposi al coro di seguirmi in tour... ricordo un concerto in Portogallo: era notte e suonavamo in un castello, era un sogno suonare all'aperto, in lontananza, senza guardarsi. Terminato il concerto notai che il coro di musicisti mongoli si allontanava a piedi nell'oscurità, dopo alcune ore scoprii che il loro manager russo si era dimenticato di organizzare il trasporto e il coro aveva deciso di raggiungere la tappa successiva del tour a piedi... Una camminata di dieci ore in piena notte! Ho imparato così tanto da loro, dal modo che hanno di vivere la musica e dalla loro concezione del tempo. È un mondo completamente diverso, non che il nostro sia così orribile e il loro così perfetto, mangiano carne di yak! Non idealizzo la cultura mongola, ma ho trovato interessante accostarmi a una realtà tanto distante dalla mia. Laurie Anderson, foto di Luisa Vanzetta
piaceva quindi l’immagine di un’icona dello sport che ha dato qualcosa in più. Mi è sembrato così naturale aggiungere alla canzone alcune strofe mie che ricordassero le rivolte in Egitto e nei paesi del Nord Africa. ●Ma un disco come «Vox Creola» con che prospettive commerciali viene prodotto? Le prospettive commerciali sono nulle. Se tu non hai brani nuovi non esisti, ma se comunque pubblichi musica il sistema non ha comunque modo di accogliere, metabolizzare e supportare la novità. Tutto quindi viene lasciato all’abilità, alla capacità e all’organizzazione del singolo artista. Non c’è più chi dice: “Facciamo un disco che vendiamo un sacco di copie”. Si fanno ancora molti dischi, ma il sistema non è più in grado di sostenerli. In Italia poi è scomparso quell’apparato fatto di produttori, studi, turnisti, musicisti, sono venute a mancare quelle sinergie che in passato hanno consentito di produrre anche da noi cose eccelse. ●L’esperienza dei Mau Mau è conclusa o è solo congelata? Io non la considero conclusa e Fabio (Barovero, ndr) neanche. Volevo assolutamente fare un qualcosa che fosse separato dalla dinamica compositiva oltre che umana con cui ho sempre lavorato. Mi serviva anche per avere un nuovo punto di riferimento. Ci ho messo molte energie. È la prima vera volta che faccio un album in cui i pezzi li ho scritti tutti io, musica e parole.
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MACHINE HEAD
Deep Purple, il virus chiamato hard rock
IL PRIMO DISCO CHE MI HA CAMBIATO LA VITA
Continua la pubblicazione dei vostri scritti. Un modo per capire come suoni e stili hanno indirizzato ascolti e esistenze
PENDULUM
«Revival» ai tempi della maturità Avevo 13 o 14 anni; del ’68, per ragioni anagrafiche, mi era arrivata solo l’eco e il ’77 l’avrei incrociato ai tempi della maturità (dell’esame intendo, non la mia personale). Dei Creedence Clearwater Revival avevo sentito solo qualche pezzo prima di ascoltare per caso Pendulum (un disco del 1970), a casa di un amico. Già il pezzo d’apertura, Pagan Baby, mi aveva catturato con l’arpeggio iniziale prima di partire alla grande con la ritmica, ma davvero impressionanti erano sembrati anche l’introduzione dei fiati in Chameleon, le sottolineature vagamente soul del sassofono e dell’organo in Born to Move, l’immediatezza di Hey Tonight e Molina, le atmosfere di Have You Ever Seen the Rain? e It’s Just a Thought. Da allora dei Creedence ho acquistato di tutto e di più: dischi ufficiali e bootleg, vinile e cd, incontrando poche o zero delusioni. Negli anni sono stati molti gli album che se proprio non mi hanno cambiato la vita quantomeno me l’hanno resa più gradevole, passando dall’hard rock negli anni Settanta per arrivare al blues, la mia passione degli ultimi (tanti) anni. Tuttavia, se devo pensare al primo questo è certamente Pendulum e un disco dei Creedence al momento giusto ci sta bene ancora oggi. (Ermes Severgnini)
AREA LIVE 2012 (Up Art Records) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Dall'alto della sua nuvola rossa Demetrio Stratos probabilmente se la ride sotto i baffi. Nel 2012 della fine delle ideologie e del trionfo dell' (iper)mercato, riecco dal vivo il gruppo più rosso e imprevedibile d'Italia, i gloriosi Area. Ridotti a una triade con Tavolazzi, Tofani e Fariselli, aiutati (bene) da Maria Pia De Vito e Walter Paoli, ma tutt'altro che sessantenni nostalgici. Primo cd con i classici d'attacco, secondo cd con nuovi brani palpitanti che onorano il passato, il presente, e guardano già verso il futuro: come doveva essere. (g.fe.) BJÖRK BASTARDS (One Little Indian/Self) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Il piccolo genio d’Islanda si mette costantemente in discussione, ed è sempre alla ricerca di nuove vie, nuovi approdi. E non disdegna, anzi al contrario, di arrivare alla meta attraverso aiuti esterni. Così non è affatto raro che i suoi brani cadano nelle mani di artisti - dj e producer, ma non solo - che li vestono in modi e stili molto diversi. Bastards è una raccolta di pezzi tratti dal suo ultimo lavoro, Biophilia, remixati da gente come Matthew Herbert, Omar Souleyman, These New Puritans, Death Grips e altri. Il risultato è che, comunque la si giri, Björk è sempre un passo avanti. (r.pe.)
RICKIE LEE JONES THE DEVIL YOU KNOW (Concorde/Universal) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Sono passati più di trent'anni dagli esordi dell'intrigante biondina che conquistò l'America con le sue canzoni languide profumate di jazz, passando attraverso storie di tossicodipendenza. Ora è una cantante entrata nel mito, adorata da un manipolo di fan tra i quali Ben Harper che suona con lei in questa raccolta di cover, rigorosamente in acustico, dove la cantante pesca nel repertorio di Donovan (The Devil You Know), Robbie Robertson (The Weight) e lo stesso Harper (Masterpiece). E graffia ancora destrutturando un classico degli Stones, (Sympathy for the Devil), glissando (una vera lady...) elegantemente sui brani del perduto amore Tom Waits con il quale si lasciò non proprio amichevolmente... (s.cr.) DIANA KRALL GLAD RAG DOLL (Verve/Universal) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Si affrancano dal repertorio più popular le signore del jazz come Diana Krall che per il ritorno discografico è andata a spulciare nel grande repertorio americano degli anni Trenta e Quaranta, nella collezione dei 78 giri del padre, scovando brani bellissimi e non necessariamente noti. Ad aiutarla a trovare i suoni giusti, un vecchio marpione come T Bone Burnett. (s.cr.)
ALEX CAMBISE L'UMANA RESISTENZA (Ultrasound) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ In perfetto equilibrio tra rock, folk, blues e canzone d’autore, le tracce escono dalle casse ora roboanti di chitarre elettriche e batterie, ora sommesse e affidate ad acustiche, fisarmonica e mandolini, ora in un convincente mix di elettrico e acustico nella migliore tradizione roots rock americana. Un disco fatto con l’America nelle orecchie, l’Italia nell’anima e un futuro migliore nel cuore. Cambise torna a due anni di distanza dal debutto e dopo la «parentesi inglese» Carry On. (v.d.s.)
MACHINE HEAD 4ET FUORI DAL CHORUS (Groove Master) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Molti stili diversi, riuniti in un free bop che si nutre anche di proteine funk e spezie latin, convivono bene - e gioiosamente, verrebbe da dire - in questo gruppo che ha fatto una scelta coraggiosa: evitare l'appoggio armonico del pianoforte, lasciar decantare le note su un tappeto mai invadente e sempre ben giostrato di elettronica inchiavardato su una ritmica flessuosa. I risultati migliori arrivano quando le sequenze seguono e inseguono le sapide volate di trombone e sassofono. (g.fe.)
ELLEFFEDI FLASH (Setola di Maiale) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ L'etichetta dedita alla documentazione delle «musiche non convenzionali» ospita un bel cd che potrebbe interessare anche chi di rado frequenta l'improvvisazione radicale jazz: Elleffedi è acronimo per Lodati, Fontana e Detesta, quindi due chitarre elettriche e un basso, più abbondanti dosi di elettronica maneggiate da tutto il trio con saggia spregiudicatezza. Un flusso imprevedibile, sorprendente, una miniera di situazioni sonore nate all'impronta che, appena nascono, svaniscono e si trasformano, prima di diventare cliché: come la vita stessa, in fondo. (g.fe.)
NINOS DU BRASIL MUITO N.D.B. (La Tempesta Intl/ Venus) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Un diluvio continuo, incessante di percussioni per questo progetto che mescola batucada e noise, samba ed elettronica. Ma il risultato è intrigante e coinvolgente, come si sono accorti nelle loro rare sortite live in Belgio e alla Biennale di Venezia. Il trio composto da Nico Vascellari, Nicolò Fortuni e Riccardo Chitarrista suona praticamente tutto quanto si possa... percuotere, dagli strumenti canonici a bottiglie, lattine, pezzi di legno. Elettrizzante. (s.cr.)
MICHAEL FORMANEK SMALL PLACES (Ecm/Ducale) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Del contrabbassista di San Francisco, stilisticamente ascrivibile all’odierno avant jazz newyorkese, le otto composizioni qui presenti vanno dai cinque (Slightly Off Axis) ai diciotto minuti (Parting Ways) e quasi tutte vengono strutturate attraverso una sorta di circolarità di ritmi e di melodie: simbolo di un postmodale, a consentire sia regolari cadenze del leader e della batteria (Gerald Claver) sia variegati solismi al sax alto (Tim Berne) e al pianoforte (Craig Taborn). Le sonorità via via forti, languide, incisive, minimali, confermano l’ingresso di un «Ecm style» anche in contesti americani progressisti. (g.mic.) ANNA GOURARI CANTO OSCURO (Ecm/Ducale) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ È coraggiosa e sensata l’idea della quarantenne pianista russa di accostare quattro composizioni bachiane a due brani novecenteschi; legami e affinità esistono perché, nel caso della Ciaccona dell’ottantenne Sofia Gubaidulina è evidente il richiamo elettivo all’omonimo brano di Johann Sebastian arrangiato a fine Ottocento da Ferruccio Busoni. Alle corali bachiane s’ispira il Paul Hindemith di Mathis Del Maler, mentre qui la 1922-Suite per piano omaggia le «danze negre», ossia il jazz che negli anni del titolo inizia a far capolino tra gli intellettuali europei; in comune a tutti forse una filosofia dell’improvvisazione che però la Gourari riconduce magistralmente allo spartito. (g.mic.)
THE SOMNAMBULIST SOPHIA VERLOREN (Solaris-Acid Cobra/Broken Silence) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ La «saggezza perduta» del titolo greco-tedesco è quella che il combo italoberlinese traduce da qualche anno in un rock che sa di blues e di jazz, di lati oscuri e abissi senza fine. Violini flirtano con strumenti giocattoli, theremin e sega musicale, e una voce profonda e ruvida si staglia su esplosioni elettriche. Un virtuale incontro tra Dirty Three e Mark Lanegan. Post rock in forma canzone? (r.pe.)
Il mio «disco» è Machine Head dei Deep Purple, scoperto nel 1972, qualche mese dopo la sua uscita, a 14 anni. Il brano Highway Star, in breve, con tutto l’ellepì nell’insieme, hanno contribuito a mutare radicalmente il panorama musicale, allora mio «orizzonte»! Si intuisce facilmente come passare all’hard rock - senza alcun filtro, blues o jazz che fosse, dalla musica che la mia cocciuta sorella maggiore mi propinava e mi costringeva ad ascoltare, o dalle prime scoperte, il primo amore che non si scorda mai -, sia stato un vero shock adrenalinico e rivoluzionario, che ha influenzato per sempre e in modo definitivo i miei gusti musicali! Stiamo parlando di Sanremo (Patty Pravo la migliore ipotesi) e della musica da film di Ennio Morricone per la «trilogia del dollaro» del mio (soltanto omonimo, purtroppo) Sergio Leone. Da quel momento ho setacciato a tappeto tutto l’hard rock, baratto o acquisti, presente su piazza nella mia Napoli o in altre città, dove ero di passaggio, arrivando poi al punk e alla new wave, con dovizia di dati e conoscenza. Eppure tutto iniziò per caso quando, tra amici del ginnasio, un compagno mise sul piatto l’album famigerato: insomma l’ignoto svelato dall’Enterprise del capitano Kirk di Star Trek! (Domenico Leone, Napoli)
TUTTI MORIMMO A...
Folgorata dalla pietà, una dote per pochi Avevo 20 anni, era il 1971 e insieme a me migliaia di ragazze/i tentavano di cambiare il mondo. Sentivo musica dalla radio ma a casa di un'amica ne sentivamo un'altra di musica, noi che non avevamo il giradischi e i soldi per comprarcelo. Sentivamo i dischi di Fabrizio De André. Qui fui folgorata da Tutti morimmo a stento (album del ’68). Una canzone in particolare mi toccò cuore e cervello, il Recitativo, a me comunista sicura che l'avvento del comunismo ci avrebbe liberati dalla Dc e dalle stragi di Stato fatte dai fascisti e pagate dai padroni, come dicevamo allora. Mi si smosse qualcosa dentro sentendo questo «anarchico» che si rivolgeva ai giudici, ai banchieri, ai notai e agli uomini di legge (!), a tutti quelli cui «la pietà non convien sempre», mettendo l'accento sul concetto di pietà per un'umanità dolente e emarginata. Capii che non bastavano i miei riferimenti politici, che il «sottoproletariato» non era un popolo di straccioni, che bisognava armarsi di quella dote, la pietà, per poter essere poi diversi dai fascisti e da quelli che, arrivati al potere chiamandosi comunisti, avevano massacrato corpi, sogni e ideali. Scrivo questo oggi per ringraziare l'anarchico De André, per avermi «umanizzata». Cosa che non avevano fatto nè il mio passato cattolico nè il mio presente comunista. Grazie Fabri. (Teresa Gennari)
CAROL/I JUST WANT...
«4 successi al prezzo di 2» Ecco le Pietre Rotolanti È passato quasi mezzo secolo. Noi, a Roma, i dischi li compravamo in un negozio di viale Angelico. Non era proprio un negozio, perché non aveva insegna, non aveva vetrine. C'era una doppia porta a vetri e dentro un bancone a «elle». Alle spalle dei titolari (ragazzi poco più grandi di noi), le scaffalature, bruttissime, piene di dischi. Ecco, i dischi: non erano microsolco a 45 giri «normali»; erano quelli dismessi dai jukebox e perciò molto più convenienti. La parte centrale del disco era bianca, e le copertine... le copertine quelle di altri dischi forate al centro per poter leggere titolo e esecutore del brano. A volte la facciata B conteneva un pezzo di esecutore (generalmente un complesso) diverso da quello della facciata A: due brani di alto livello nello stesso disco! Ma a Viale Angelico si potevano trovare anche pezzi rari. Una volta, per esempio, vidi uno strano disco contenente quattro brani «4 successi al prezzo di 2»!! Erano eseguiti da un complesso inglese di cui sulla copertina originale e intatta, veniva data anche la traduzione: «Le pietre rotolanti». Il disco conteneva Carol, I Just Want..., Tell me e Route 66 (1964). Ragazzi, avevamo scoperto i Rolling Stones! (Francesco Verri, Roma)
ULTRASUONATI DA STEFANO CRIPPA VIOLA DE SOTO GUIDO FESTINESE GUIDO MICHELONE ROBERTO PECIOLA
DEMON BOX
PICTURES AT AN...
La Norvegia arde col fuoco del diavolo
Giochi innocenti nel parco della Tuileries
È una sera del 1993, io non ho ancora 18 anni. Claudio Sorge su Radio2 manda Demon Box, un mastodonte di 17 minuti dal disco omonimo dei norvegesi Motorpsycho. Un maelstrom cupo e imponente, il rock duro e nero a dilatarsi in gelide e spietate epifanie ambient; il suono del grande Nord, non solo geografico: è la scatola dei demoni, dove scavando tra questo e gli altri pezzi (tutti graziati da scrittura e feeling magistrali) troverò dilatazioni psichedeliche, strappi e urgenze punk, ferraglia noise, il candore del folk, quel sapore di alcool, legno e finestre appannate di certo rock americano e il nitore del miglior indie rock senza fuffa né spocchia. Quando al minuto 6 e spiccioli il panzer sabbathiano orchestrato dai quattro di Trondheim si ferma, si apre un mondo di suoni e finalmente i demoni appaiono. Può essere così bello ascoltare la paura. Poi sarà una questione di cuore, i concerti in acido a Rimini, gli ascolti collettivi e il viaggio in Norvegia. Da allora li ho cercati e trovati in tante altre scatole sonore, i demoni: ma la prima volta è stato con loro. (nzm)
Marzo 1981: 100 anni dopo la morte di Musorgskij ascolto mia cugina suonare al piano Quadri da un’esposizione al Conservatorio di Torino. Nonostante i miei soli 11 anni vengo rapito dalla Promenade, una passeggiata musicale che si intercala tra brani che narrano lo stupore di fronte a una mostra di quadri: alcuni allegri come i giochi dei bambini nel parco delle Tuileries, altri solenni come il progetto di una monumentale Grande Porta di Kiev. 30 anni fa non c’era Wikipedia e io passavo del tempo a sfogliare spartiti e biografie in piazza Castello da Maschio, storico negozio ora chiuso soffocato dalle assurde leggi del mercato globalizzato. La vita di questo geniale musicista mi colpì profondamente: la morte prematura causata dall'alcool e l'estasi creativa con cui compose i Quadri in sole due settimane dopo la visita alla mostra in memoria dell'amico pittore morto d'improvviso. Nel 1985, con la prima paga estiva da manovale, comprai il disco edito da Deutsche Grammophon e un libro degli spartiti dei Queen. Da allora il dolore esistenziale di Musorgskij accompagna mie passeggiate immaginarie nella desolata campagna russa. Da allora provo simpatia per gli alcolisti depressi che contaminano il mondo con visioni artistiche. (Giovanni Salierno, Torino)
STRAWBERRY FIELDS...
PICTURES AT AN...
Piccoli orizzonti color rosso fragola
Una strana cassetta incontrata al mercato
Qual è il disco che ti ha cambiato la vita? È una domanda che appassiona un po’ tutti coloro che hanno fatto della musica non solo la colonna sonora della propria vita, ma in alcuni casi una passione vera e propria. A differenza della maggior parte delle persone il disco che ha cambiato in qualche modo la mia vita non è un album, come si definiva una volta il 33 giri, ma un 45 giri o singolo, che dir si voglia, il celeberrimo Penny Lane/Strawberry Fields Forever che, grazie alla complicità della mia sorella maggiore, acquistai alla tenera età di 5 anni., era il 1967. Sembrerà strano che a quell’età si possa ascoltare qualcosa che ti possa cambiare la vita, ma l’ascolto di Stawberry Fields Forever influenzerà in maniera significativa il mio approccio al mondo musicale. Sia ben chiaro che comunque in quel periodo continuai ad ascoltare brani della Caselli o dei Rokes, ma l’arrangiamento di quel brano, la splendida voce di John Lennon che io ho sempre particolarmente amato, uniti a una melodia meravigliosa mi aprirono orizzonti affascinanti che facilitarono, intorno ai dieci anni, l’ascolto e l’apprezzamento di lavori di valore assoluto come il secondo album dei Led Zeppelin, Aqualung dei Jethro Tull e Storia di un minuto della Pfm. (Marco Cingottini, Roma)
Pictures at an Exhibition, il terzo album del gruppo progressive rock britannico Emerson Lake & Palmer, registrato dal vivo nel 1971, è il disco che mi ha cambiato la vita. Mi è capitato tra le mani in cassetta mentre spulciavo un sabato mattina al mercato, sulla bancarella di musicassette taroccate che c’erano nella piazza di Faenza. Trovai quella delle Orme, il mio gruppo preferito già a dodici anni, che mi avevano conquistato con Gioco di bimba, ma poi lì vicino trovai anche questa degli Elp e la presi con l’idea che doveva essere la stessa musica ma fatta da un gruppo straniero, e la cosa mi intrigava tantissimo. Si tratta, come è noto, della rielaborazione in chiave rock dell'omonima composizione pianistica del 1874 di Modest Musorgskij. Fu una scoperta pazzesca. Pigiavo continuamente il tasto Play del mangiacassette bianco e nero della Philips e rimanevo rapito da questi suoni così strani ma coinvolgenti che nulla c’entravano con le canzonette cher avevo sentito fino ad allora. Nel disco le partiture originali del musicista sono alternate alle composizioni del trio che aveva un’immagine potentissima con questa doppia batteria, mai vista prima... (Giordano Sangiorgi, Faenza, Ra)
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SCUOLE DI RECITAZIONE di CHIARA PAZZAGLIA
●●●Paul Newman discende le scale di un ospedale. È il film Il Verdetto di Sidney Lumet. Newman è un avvocato sul lastrico, alcolizzato e quello che ha visto in quella stanza di ospedale, cambierà la sua vita per sempre; un film di investigazione giudiziaria si trasforma nella storia di un riscatto personale. In quella camminata, un'unica sequenza, pochi secondi di un uomo sconvolto che scende le scale, c'è forse l'esatta distanza tra la riga di una sceneggiatura (di David Mamet per Il Verdetto) e l'emozione del grande schermo. In questa sequenza, probabilmente c'è anche qualcosa che ha a che fare con i migliori film e i migliori attori americani degli ultimi 50 anni e si chiama Actor's Studio. Al Pacino, Robert De Niro, Meryl Streep, solo per citarne alcuni, si sono formati all'Actor's Studio. Michael Margotta è un membro dell'Actor's Studio che da anni ha fatto dell'Italia la sua base di lavoro: è il direttore artistico dell'Actor's Center di Roma, che ora si è ampliata, con l'apertura il 3 dicembre scorso, di una nuova sede a Milano.
L’attore? Immaginare con metodo Gli esami non finiscono mai....Intervista a Michael Margotta, direttore dell'Actor's Center di Roma e di Milano, ovvero dell’evoluzione dell’Actor Studio di New York e Los Angeles
●Esistono gli attori naturali? C'è un aspetto molto importante della recitazione che chiamerei l'istinto a recitare un ruolo. Lo si vede nei bambini, nella loro disposizione a credere alle cose che non esistono. Einstein diceva che l'immaginazione è il più potente strumento che abbiamo in quanto esseri umani, purtroppo le società in cui viviamo non coltivano l'educazione all'immaginazione e i bambini, nella maggior parte dei casi, ne vengono privati. L'attore naturale invece è qualcuno la cui immaginazione non è stata troppo ostacolata da condizionamenti sociali, nel corpo o nella mente; è qualcuno disposto a credere fortemente in situazioni immaginarie e inventate. Quindi gli attori naturali non esistono per una qualche grazia divina o provvidenza, ma sono il risultato dell'educazione e dell'istruzione di cui hanno fatto esperienza. Mi capita di sentir parlare di talento o di carisma. «Carisma» viene dal greco e nell'antichità era una parola così potente che raramente veniva pronunciata ad alta voce; oggi invece è una parola di uso comune, che può essere impunemente accostata a un'auto, un dolce, un animale o a un vestito: ha perso il suo significato, il suo valore sacro. ●In Italia e in Europa oggi molti film sono realizzati con attori non professionisti ed è la capacità del regista di lavorare con loro che determina la qualità del film. Cosa ne pensi? Per quanto riguarda gli attori bisogna tener presente una generale distinzione fra il cinema e il teatro. Il teatro è il medium degli attori e il cinema è il medium dei registi. Molte performances vengono fatte dai registi al montaggio, per questo credo che nel cinema sia più diffuso far lavorare attori non professionisti. In Italia spesso i registi chiedono il mio aiuto perché gli attori non sono in grado di fare ciò che si chiede loro. Oppure il regista non sa proprio come ottenere ciò che gli serve. Se il regista non sa come ottenere ciò che vuole e l'attore non è preparato, l'attore si troverà in difficoltà, perché non saprà ottenere quei risultati da solo: questo può diventare una sofferenza per l'attore; né il regista né il pubblico hanno la più pallida idea dell'ansia che un attore può provare in queste situazioni. Un altro problema nel cinema è che a volte i film non sono ben scritti. Quando un attore inesperto lavora con una sceneggiatura scritta male, non sa come salvarsi. Un attore con esperienza invece sa cercare soluzioni alternative. A volte
vediamo un film e poi leggendo il copione non ci accorgiamo nemmeno quanto sia scritto male perché l'attore l'ha reso interessante. Nel mio lavoro con produttori, registi e attori ho continuamente a che fare con questo tipo di problemi. È abbastanza sorprendente. Ci sono tanti tipi differenti di registi come ci sono tanti attori diversi, eppure la mia sensazione personale è che l'attore dovrebbe essere in grado di fare tutto ciò che un regista gli chiede e questo anche per via delle forti risorse economiche e di tempo investite in un film. È noto che un attore lavora in condizioni difficili dal punto di vista produttivo. Il lavoro migliore nasce sempre da una proficua collaborazione, in cui l'attore è uno strumento nelle mani del regista: non dovrebbe verificarsi il caso che uno domini l'altro per via di una mancanza d'esperienza.
Michael Margotta, e l’Actor Center di Roma, in piena attività didattica e laboratoriale. Dal 3 dicembra è aperta anche la sede milanese della scuola
●Di che cosa ha bisogno e come dovrebbe essere costruito secondo lei il rapporto tra regista e attore? Troppi attori purtroppo tendono a diventare un peso che il regista deve portarsi al collo. Al tempo stesso la maggior parte dei registi non capisce il lavoro dell'attore, come questi ottiene i risultati, non c'è interesse. La cosa migliore secondo me è sempre una collaborazione. Tuttavia se il regista ha esperienza e l'attore no, la tendenza è che ci sia un rapporto di dominazione più che di
collaborazione reciproca. Lo stesso avviene nel caso opposto, quando l'attore con una forte esperienza tende ad imporsi sul regista alle prime armi. Molti registi parlano, parlano, parlano... uccidono la spontaneità: il linguaggio degli attori è quello delle immagini. Tuttavia gli attori devono sapersi adattare a lavorare con ogni tipo di regista, devono imparare come ottenere i risultati richiesti in qualsiasi condizione di lavoro. Questo è ciò che chiamo le basi e i fondamentali dell'attore e che si ottengono con
l'esercizio. A volte i registi non si prendono cura quanto dovrebbero dei loro attori: si preoccupano se la produzione non accetta una loro richiesta ma non se il loro attore ha un problema. Invece dovrebbero tenerne conto, perché l'attore è il loro primo strumento per raccontare una storia. Credo che i giovani registi dovrebbero studiare anche un pò di recitazione, così capirebbero meglio i problemi da affrontare. Inoltre in questo modo risparmierebbero un sacco di tempo ottenendo risultati migliori: l'Actor's
Center è nato anche per far fronte a queste esigenze. ●Quali strumenti sono necessari a chi vuole fare l'attore e investire in questo mestiere? Secondo me ci sono tre strumenti necessari all'attore che vuole aver consapevolezza del suo lavoro: l'istinto a recitare un ruolo, padroneggiare le basi e i fondamentali e la capacità di analizzare un testo. La migliore scuola di recitazione del mondo che non esiste - dedicherebbe il primo anno solo allo studio dell'attore di sé stesso, prima che questi pretenda di diventare qualcun altro. Questo perché l'attore deve prendere coscienza delle proprie abitudini, un compito difficile che comprende vari ambiti: il modo di parlare, l'uso del proprio corpo, fino alle zone dell'emozione e del pensiero; il tutto sempre confrontandosi con i condizionamenti sociali. Solo una volta presa coscienza di tutto questo, l'attore diviene uno strumento libero di esprimersi. Nessuna scuola può insegnare l'istinto a recitare ma si può lavorare per aiutare a liberare lo strumento dai condizionamenti che ognuno di noi ha subito. ●Oggi in Italia stanno nascendo molte scuole per attori, la sensazione è che spesso siano fabbriche di disoccupati. Che ne pensi? È una domanda che mi fa pensare. Non so se altri insegnanti di recitazione abbiano mai affrontato la questione e riflettuto attentamente su questo fenomeno. Io credo che oggi in Italia stia accadendo qualcosa di molto profondo e molto importante: l'idea che tutti vogliano essere delle star è solo la superficie. C'è qualcosa che viene da lontano, di antico, in questo rinnovato impulso delle persone a voler essere attori. L'attore è una persona che cambia sé stessa, che si trasforma. Trasformazione significa andare verso una forma nuova, cioè fare un cambiamento; si tratta di un processo molto misterioso. L'attore è qualcuno che ha il controllo della propria esistenza, proprio perché la può cambiare. Credo che in questo momento storico abbiamo bisogno più che mai di esercitare questo controllo. Poi per quanto riguarda nello specifico le scuole, si può dire la stessa cosa delle università: le persone che studiano recitazione poi non lavorano come attori così come le persone che studiano legge poi non fanno gli avvocati. Il mercato di scuole, seminari e corsi per attori, è aumentato in maniera esponenziale in base alla domanda. Ci sono tanti modi diversi di approcciare la recitazione: tra cinema e teatro c'è un ampio spettro di possibilità, stili e filosofie diverse. La speranza è che almeno una parte di queste scuole offra più di quanto promette, ovvero che la persona alla fine di
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L’Actor’s Studio neworkese negli anni 50, lezioni e prove con alcuni famosi attori di Hollywood, Marilyn Monroe, Paul Newman e James Dean (tra gli altri)
lavorando, o vogliono esplorarne le possibilità.
quest'esperienza abbia imparato a esprimersi e a conoscersi meglio. In questo momento gli attori hanno davanti tanti orizzonti diversi anche se la qualità dell'offerta lascia spesso a desiderare. ●Ci sono diversi attori affermati che lavorano con lei, che cosa cercano? L'Actor's Center è un'associazione di attori, registi, scrittori che ha sede a Roma e, dal 3 dicembre, anche a Milano. Il prototipo è quello dell'Actor's Studio a New York e a Los Angeles, di cui sono membro: si tratta di una struttura unica nel suo genere. L'idea alla base dell'Actor's Center è che funzioni come un
luogo di lavoro per professionisti, sia per riunirsi e lavorare in laboratori, sia per sviluppare progetti personali. Nello scambio reciproco c'è un arricchimento artistico, è una sorta di fabbrica di idee. In particolare, la maggior parte degli attori affermati con cui lavoro è alla ricerca di un terzo occhio o un terzo orecchio per capire se sono davvero dentro a quello che stanno facendo: sanno ciò che fanno ma hanno bisogno continuamente di feedback, di capire cosa della loro proposta funziona e cosa invece no. Alcuni di loro si stanno allontanando dalla zona sicura delle cose che sono abituati a fare per esplorare nuovi territori, si stanno mettendo alla
prova. Altri attori invece hanno solo bisogno di un tempo e un luogo per prepararsi, perché spesso i tempi di lavorazione di un film o una serie tv sono folli e non lo prevedono: gli attori hanno bisogno di provare le scene che devono girare, di eplorare il loro personaggio ma in cinema e in televisione manca sempre il tempo. Questo è abbastanza strano, visto che nel cinema o in tv, non si gira quasi mai seguendo la continuità di una storia e quindi l'attore dovrebbe provare molto più che in teatro, dove la storia si recita in continuità dall'inizio alla fine. Alcuni attori semplicemente cercano un altro punto di vista sulla sceneggiatura su cui stanno
●Ci sono libri di riferimento che potrebbe raccomandare a coloro che vogliono avere una maggiore consapevolezza del lavoro dell'attore? È interessante quante informazioni si possano trovare oggi su questi argomenti. Fino a trentacinque anni fa era difficile trovare un attore preparato in quello che è noto come «Il Metodo», oggi è difficile trovare un attore che non l'abbia praticato. C'è una grande quantità di libri e dvd, sulla recitazione, la regia, la scrittura. Per me è importante che l'attore studi anche cose diverse che però sono collegate. Ed è importante sapere che nessun libro può insegnare l'arte della recitazione. Il racconto che fa Lee Strasberg del suo lavoro all'Actor's Studio è una buona lettura; il suo libro Il sogno di una passione. Lo sviluppo del metodo (ed. it. Ubulibri) è interessante. Gli attori dovrebbero leggere libri su pittori, registi, biografie. La recitazione è basata sui principi della vita di ogni giorno, quindi è importante approfondire la psicologia dell'essere umano, la conoscenza della miriade di forme che assume la vita. È importante studiare per esempio la storia del genere umano o anche le influenze che la scienza e la religione hanno avuto sulle diverse culture che noi conosciamo.
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ARCHITETTURA
NIEMEYER A destra Oscar Niemeyer. Nella foto grande, l’Auditorium Ibirapuera a San Paolo. Nella sequenza al centro altri 3 famosi progetti di Niemeyer: la cattedrale di Brasilia, il Museu Niemeyer a Curitiba e la sede del Gruppo Mondadori a Segrate. Sotto, il Museo di Arte Contemporanea Niterói che si affaccia sulla Baia di Guanabara nei pressi di Rio de Janeiro
«Nel mondo restano solo due comunisti, io e Niemeyer». Così diceva Fidel Castro del grande architetto brasiliano morto a 105 e che abbiamo intervistato nel 2008
di ANTONELLA ROSCILLI * RIO DE JANIERO
●Ho letto che da piccolo amava disegnare con il dito nell’aria… È vero. Parlo un po’ di questo nel mio libro di memorie As curvas do tempo. Memórias (1999, ed. Revan) in cui racconto come il disegno mi abbia condotto all’architettura. ●Com’è stata la sua infanzia? È stata meravigliosa. I miei migliori ricordi dell’infanzia sono nella casa che si trova nel quartiere Laranjeiras di Rio de Janeiro dove vivevo con i miei cari nonni materni, Maria Eugenia e Antonio Augusto Ribeiro de Almeida. Lui era un esempio di correttezza etica e di non attaccamento al denaro che influì molto su di me.
(1987) e di un auditorium per Ravello. In «Le curve del tempo. Memorie» scrive: "Com’è bella l’Italia e come sono buoni e allegri i nostri amici italiani. Come mi piaceva conoscere le opere del Palladio, di Brunelleschi, il Palazzo dei Dogi" ecc. Può parlare un po’ del suo rapporto con l’Italia? Parlo sempre con molto affetto e entusiasmo dell’Italia , della sua gente amabile, del peso della sua cultura artistica. L’Italia….percorrere questo Paese significa incontrare dappertutto la bellezza in modo sempre sorprendente e rinnovato. Ho fatto molte amicizie che coltivo ancora oggi…insieme ai teneri ricordi che ho dei miei viaggi a Venezia…
●Nel 2007, per festeggiare i suoi 100 anni, l’ambasciata italiana organizzò a Brasilia un convegno dedicato alla sua opera. Ma i suoi collaboratori hanno sottolineato sempre anche i suoi valori umani. Chi è Oscar Niemeyer? Un essere umano come qualsiasi altro. Qualcuno che porta con sé le angustie che caratterizzano la nostra precaria condizione umana, qualcuno che ha sempre la consapevolezza che la vita è un soffio e l’uomo è insignificante davanti a questo universo che incanta e umilia. ●Il 15 settembre 1956 il presidente Kubitchek venne nella sua casa das Canoas per invitarla a collaborare alla nuova capitale che stava pensando di costruire nel centro dimenticato e inospitale del paese. Cosa rappresentò all’epoca l’invenzione di Brasilia? Cosa pensa oggi di Brasilia? Preferisco limitarmi a dire che Brasilia fu il sogno prediletto di Jucelino Kubitchek. Fu il cammino che lui trovò per trasportare il progresso all’interno del paese. E ciò è accaduto, indipendentemente dalle critiche che alcuni fecero (o fanno!) alla nuova capitale. ●●Nel 1964 lei tornò da Israele dove aveva progettato l’Università di Haifa ma il presidente João Goulart nel marzo di quell’anno venne deposto dal generale Castelo Branco. La dittatura in Brasile durò fino al 1985. Lei si autoesiliò in Francia. Cosa ha rappresentato l’esilio nella sua vita? L’esperienza dell’esilio è stata molto ricca per me perché mi ha garantito la possibilità di approfondire la mia coscienza politica. Fuori del mio Paese mi sono potuto dedicare a progetti importanti come la creazione dell’Università di Constantine (in Tunisia), l’università dei sogni, un’ esperienza pioniera nella costruzione di una università volta all’integrazione tra le varie aree della conoscenza, che potesse combattere l’iper-specializzazione riduttiva che ancora colpisce i corsi superiori scolastici in tutto il mondo. È una risposta che ha un significato politico ed educativo importante che ho spiegato nel libro pubblicato recentemente dall’Editore Revan di Rio de Janeiro ●Cosa pensa del leader comunista Luiz Carlos Prestes? È uno dei più grandi brasiliani che ho conosciuto. Ho mantenuto con lui un
●Al Convegno di Brasilia l’architetto toscano Massimo Gennai le ha portato un riconoscimento concesso dalla facoltà di architettura di Firenze. Può dirmi qualcosa su di lui? Massimo Gennari è un amico generoso, di una gentilezza fuori del comune. Gennari con competenza e affetto si è occupato del mio progetto della sede Fata-European Group a Torino alla fine degli anni ‘70.
Questo mondo è da trasformare buon rapporto di amicizia. Luiz Carlos Prestes è stato un patriota, un cittadino che ha lottato durante tutta la vita per il suo popolo, contro la miseria e le differenze sociali che, purtroppo, ancora persistono nel Brasile. ●Cosa pensa del governo Lula? È un governo che conta su un innegabile appoggio popolare e si è unito al movimento di difesa dell’America Latina, che si sta espandendo in tutto il nostro continente. ●●Come riesce ad essere sempre così coerente con il suo pensiero politico? Credo di essere giunto a questa coerenza senza alcuno sforzo. ●Fidel Castro una volta ha detto: «Nel mondo restano solo due comunisti: io e Niemeyer». Cosa pensa di Fidel Castro e di Cuba oggi? Fidel ancora è il riferimento politico
fondamentale nella lotta per la sovranità dei popoli latino-americani, contro l’imperialismo degli Stati Uniti. Cuba rappresenta secondo me un esempio grandioso di resistenza contro questo mostro infame. ●Cosa pensa della politica degli Stati Uniti nel mondo? Secondo me è uno schifo completo!...Dobbiamo comprendere che la politica globale nordamericana non è rivolta all’esterno, ma verso il suo interno sebbene il suo impatto sul resto del mondo sia stato grande e disastroso. ●La moglie di Jorge Amado, la memorialista Zélia Gattai mi ha mostrato a Salvador nella sua casa una scultura che lei ha realizzato per Amado accompagnata da una frase bellissima. Questa scultura verrà esibita nel futuro Memoriale. Cosa può raccontare sulla vostra amicizia? Jorge Amado era un compagno
●L’Istituto di Architettura e Umanità a Niteroi è un progetto a cui lei è molto interessato. Perché? La denominazione corretta è Scuola di Architettura e Umanità. Cerca di rispondere alla problematica della formazione che affligge i giovani in Brasile, specie quelli che escono dai corsi di livello superiore. In questa Scuola sarà riservato un ampio spazio per l’incentivo alla lettura – non solo di scrittori, ma anche di intellettuali che hanno dato contributi in campi diversi come la Filosofia, la Teoria Politica, la Storia, l’Economia, per affrontare le grandi questioni che formano il tessuto della nostra vita. L’obiettivo di questa istituzione è creare un corso più libero che includerà anche attività relazionate alla mia architettura e al tempo culturale in cui essa si inserisce. ●Perché lei e altri avete deciso di tenere lezioni di Filosofia nel suo studio di Copacabana? Ci ha motivato non la pretesa di ritenerci intellettuali, ma l’interesse a conoscere di più il dramma dell’essere umano e altre questioni che la Filosofia cerca di affrontare.
straordinario. Sono indimenticabili gli incontri che ho avuto con questo grande scrittore e sua moglie Zélia Gattai. Non mi ricordo con esattezza come li ho conosciuti; ma come mi è caro il ricordo dei nostri dialoghi interminabili, dell’allegria di Jorge, della simpatia di questa coppia! ●Nel 2007 ha ricevuto dal presidente Napolitano un’alta onorificenza. Cosa ha provato?
Mi sono sentito veramente molto onorato nel ricevere questo premio dall’Italia. ●Lei ha realizzato varie opere in Italia. Il Palazzo della Mondadori (1968-75), la sede della Fata-European Group a Torino (1976-81), il progetto del Congiunto architettonico di Vicenza (1978-79), del Ponte dell’Accademia a Venezia (1985), di uno stadio per Torino
●Cosa rappresenta l’architettura nella sua vita? È il mio lavoro. È l’attività a cui mi dedico con maggiore entusiasmo, pur essendo cosciente che la cosa più importante non è l’architettura. Le cose fondamentali sono la vita, gli amici, la famiglia, questo mondo ingiusto che dobbiamo trasformare. ●Qual è il suo sogno oggi? Forse il mio sogno è oggi quello di veder funzionare nella città di Niteroi la Scuola di Architettura e Umanità. * intervista del gennaio 2008