John Fante
Full of Life Introduzione di Paolo Giordano Traduzione di Alessandra Osti
Einaudi
Dello stesso autore nel catalogo Einaudi A ovest di Roma Aspetta primavera, Bandini Chiedi alla polvere Dago Red La confraternita dell’uva La grande fame La strada per Los Angeles Le storie di Arturo Bandini Sogni di Bunker Hill 1933. Un anno terribile
Titolo originale Full of Life © 1952, 1988 by John Fante All rights reserved. Published by Harper Collins Publishers Inc., New York, USA © 2009 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Le opere di John Fante in Einaudi Stile libero sono a cura di Emanuele Trevi In copertina: Foto Keystone / Olycom. Progetto grafico di Fabrizio Farina. Questo e-book contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo libro elettronico non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale libro elettronico non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858400418
Dalla parte di Joyce di Paolo Giordano
– Non puoi piú dormire con me, – disse. – Mai piú. – Nemmeno dopo che è nato? – È una femmina – Perché continui a insistere che sia una femmina? – I maschi non mi piacciono. Sono cattivi. Sono loro a creare tutti i problemi del mondo. – Anche le femmine creano problemi. – Non quel tipo di problemi. – Amerai moltissimo tuo figlio. – Si chiama Victoria. – Si chiama Nick. – Mi piace di piú Victoria. – Vorresti dire Victor? – Voglio dire Victoria.
La gravidanza, quel segmento di vita in cui l’abbraccio della coppia dovrebbe serrarsi a proteggere il delicato organismo nascente, può rivelarsi a sorpresa un periodo di profonda solitudine, per la donna come per l’uomo. Il «pancione» stesso, scrigno della meraviglia, impone una distanza fisica tra i futuri genitori, per la prima volta impediti ad aderire del tutto con i propri corpi, costretti a goffe manovre di intimità e a sonni distanziati. Certo, il pancione infine si sgonfierà, ma parte dell’impedimento resterà vivo, sottoforma del bambino che dorme «di là», del bambino per il quale «bisogna fare piano», del bambino verso cui gli sguardi dei due adulti convergeranno, trovandosi sempre piú di rado paralleli fra loro. La donna incinta paga senz’altro il prezzo piú alto, in balia di nausee, di mal di schiena, delle tanto misteriose voglie, di catastrofiche inondazioni ormonali e, soprattutto, di un mutamento repentino del corpo che la rende, sí, aggraziata e «interessante», ma anche volubile e appesantita. «La sua bocca che era stata calda e dolce ora aveva quell’odore da sono-incinta, non spiacevole ma neppure piacevole». La quasi-mamma si trova d’un tratto circondata da persone che salutano prima il suo ventre e poi lei, che le domandano prima «come sta?» di «come stai?», che la trattano con accondiscendenza e malcelato sospetto, come se la sua concentrazione non potesse che rivolgersi costantemente a quello. Tale condizione, che fa scaturire in molte una rabbia crudele e inconfessabile (sí, c’è questo bambino, c’è questa pancia abnorme, ma dietro ci sono anch’io!) rischia di perpetuarsi anche dopo la nascita e di cristallizzarsi nella tanto ingiusta/odiosa/naturale/prodigiosa/retrograda – comunque la pensiate – condizione della donna-mamma. Ma la gestazione è spesso un momento cruciale anche per l’uomo, che subito dopo il calcio d’inizio viene richiamato in panchina e assiste inerme al resto del match, improvvisamente subalterno eppure intrappolato lí, una volta per tutte, da qualcosa che arriverà e resterà, angosciato da un mutamento che lo riguarda ma non gli appartiene, partecipe di un processo in atto rischiosissimo che egli non può controllare in alcun modo. «Toccai in quel punto; era grande quanto una palla da baseball. Sentii quello
che mi parvero essere le mani, i piedi. Poi trasalii [...] C’erano due palle da baseball laggiú, c’erano due teste!» Gli uomini, o almeno un sottogruppo di essi, sperimentano durante la gravidanza della compagna un trauma simile a quello del primogenito che assiste trepidante all’arrivo di un fratellino: la dolorosa e irreparabile perdita della centralità e l’incombere di un ruolo responsabile cui non potranno piú sottrarsi. Le reazioni possibili sono molte: un’intensificazione del ritmo lavorativo (con il bambino, sai quante spese in vista?) una frenetica ristrutturazione self-made dell’alloggio, piccoli auto-regali quali un’automobile nuova (ci servirà piú spazio, no?) una ricognizione nel mondo delle donne nonincinte, una sparizione improvvisa. La piú frequente e, forse, innocua fra tutte è l’adesione allo stereotipo dell’uomo-in-dolce-attesa, mellifluo e iper-premuroso, che accosta l’orecchio alla pancia della consorte e resta per intere mezz’ore in attesa di un «calcetto» o di un «glu-glu», pronto a commentarli con una carezza e un estatico «oooh, senti come si muove!» Full of Life è il racconto di una gravidanza e della solitudine che l’accompagna. Full of Life: pieno di vita. O forse, piena di vita? Oppure sazio di vita? Non saprei individuare la traduzione piú azzeccata, ma ho il sospetto che, in ognuno dei casi, vi sia un’intenzione ironica nel titolo scelto da John Fante. Perché il protagonista del libro non sembra affatto cosí full of life. Al contrario, si trova a un crocevia dell’esistenza, vacuo e insicuro, in preda ad ansie incontrollabili e istinti di fuga. Mentre è sicuramente full sua moglie Joyce, con la «sporgenza» – Fante preferisce questo vocabolo sinistro al piú tenero «pancione» – dalla quale irradia un senso di pacificazione e di distacco dal contingente, che la fa apparire fluttuante a mezza spanna dal pavimento. Ma c’è anche una stanca sazietà rispetto alla vita: quella dell’anziano padre del protagonista, Nick, ormai saturo piú di ricordi che di pensieri, immerso in una quotidianità senza inizio e senza fine, la stessa che sembra minacciare il protagonista dall’interno della «sporgenza». Giusto, il protagonista: si chiama John Fante e di mestiere fa lo scrittore. «Il [suo] primo [libro] aveva venduto 2300 copie. Il secondo 4800. Il terzo 2100». Nelle intenzioni di Fante-autore, Full of Life doveva essere un ulteriore episodio della saga di Arturo Bandini, suo alter-ego per eccellenza (La strada per Los Angeles; Aspetta primavera, Bandini; Chiedi alla polvere; Sogni di Bunker Hill). Fu l’editore a consigliare a Fante-autore di utilizzare il proprio vero nome, e non solo il suo, anche quello di Joyce, di Nick e degli altri personaggi. Le ragioni di questo bizzarro consiglio e dell’accettazione di Fante sono imperscrutabili, ma possiamo azzardare un’ipotesi: benché la sua produzione fosse fin dall’inizio legata all’esperienza personale e a tutti gli effetti autobiografica, è possibile che l’editore avesse trovato in Full of Life qualcosa di cosí esageratamente intimo e autoindulgente, al limite dell’imbarazzo, da sentire il bisogno di una giustificazione. E, se di ragioni intrinseche non ve n’erano, che altro si poteva fare se non cercarne una esteriore, ossia la svergognata palesazione degli intenti di Fante-autore? La storia è semplice quanto può esserlo la vita ordinaria. John-Fante-protagonista ha trent’anni. Sua moglie Joyce è incinta e sembra sperimentare per la prima volta una inquietante completezza, che la aliena gradualmente dal mondo del marito. Proprio lei, che è stata la sua musa e la sua prima editor, che raccoglieva i fogli appallottolati dell’insicuro scrittore e li metteva in ordine – «la mia prosa, cosí come era, derivava da lei» – appare ora noncurante, persa nei trattati di pedagogia di Arnold Gesell, inspiegabilmente attratta dalla religione che prima aveva sempre ignorato, dedita a lavoretti di bricolage che il suo stato non le permetterebbe, come caricare palate di sabbia in una betoniera. John la sta perdendo e, sotto sotto, non la desidera piú, sformata com’è, incontinente e vorace: «ebbene sí, ero molto contento di dormire da solo». La frattura che la «sporgenza» ha creato fra loro è simboleggiata da una crepa che si apre nel pavimento della cucina, mangiucchiato dal tempo e dalle tarme. Joyce ci cade dentro e John, incapace anche di trovare i soldi necessari alla riparazione, parte alla ricerca di suo padre, burbero muratore abruzzese che vive nella Sacramento Valley. John si reimmerge per poche ore nel mondo antico dei genitori emigranti, per poi tornare a Los Angeles con Nick, che, nella speranza di
vedere nascere il proprio discendente maschio, si dimostra solerte nella riparazione del pavimento. Fante-autore non rimedia a tanta ordinarietà con un’approfondita analisi introspettiva, né con la scelta di un lessico forbito o di costruzioni virtuose. Il fascino del suo linguaggio non risiede mai nella manipolazione del singolo periodo, quanto piuttosto nella concatenazione delle frasi, nell’alternanza fra sequenze medie brevi e brevissime, fra calma ed enfasi – «Che meraviglia il mondo! Che vastità il cielo!» – e in una suspence, fittizia e giocosa, che egli infonde all’inizio di ogni capoverso e poi puntualmente demistifica: «Parole sinistre». «E fu cosí che la sorpresi un’altra volta». «Uscii cupo». «Il tempo passava». «La notte che successe stavamo giocando a scacchi». In questa continua ricarica di tensione, Fante può permettersi alcune snobberie da grande scrittore, quali l’uso scriteriato del termine «cosa» o la descrizione della propria villetta come «grande» e «carina». Ma in Full of Life sono i dialoghi ad assicurare il gusto e la piccantezza, soprattutto quelli tra Fanteprotagonista e Joyce. Litigi trattenuti, venati di umorismo e di nonsense, che gravitano intorno a un pretesto tipico della comicità: il sipario trasparente e sottile che divide il pensiero dell’uomo e quello della donna. – Non mi importa piú, – dissi. – Maschio o femmina, mi va bene comunque. Silenzio. Scansò il libro. Si tolse gli occhiali e mi fissò con un’aria strana. – Se dovessi morire, tu non potresti comunque sposare mia sorella. – Non voglio sposare tua sorella. – È molto carina. Ma non potrai mai averla. Mai. È la legge della Chiesa. – Ma io non sono interessato a tua sorella. – Anche se lo fossi, non servirebbe a nulla. – Non lo sono. – È un’ottima legge. Molto saggia. – Cosa ti fa pensare che morirai? – Non morirò. Ho detto, se dovessi morire.
«Maschio o femmina». E maschio contro femmina. L’intero romanzo è attraversato da tale contrapposizione, catalizzata dal sesso ancora ignoto del nascituro, attorno al quale si accendono discussioni agguerrite. È questa, mi pare, l’idea piú forte all’origine di Full of Life, nonché l’aspetto piú interessante nel risultato. Nel pragmatico gergo librario si parla spesso di «romanzo femminile» e l’attributo «femminile», pur se utilizzato senza disprezzo, appare sempre sottrattivo rispetto alla parola «romanzo» che accompagna. Sottolinea una visione della vita e una prospettiva parziali, affette sistematicamente dal sesso dell’autrice. Può trattarsi anche di grandi romanzi, ma il fatto di definirli «femminili» nega loro un completo raggiungimento dell’universalità alla quale – cosí si dice – la letteratura dovrebbe tendere. È strano, tuttavia, che non si senta con altrettanta frequenza parlare di «romanzi maschili». Sarei un kamikaze se provassi io, qui e ora, a cercare cause o giustificazioni di tale asimmetria. E neppure mi addentrerò nel riflettere piú a fondo sull’apparente contraddizione insita nell’espressione «letteratura femminile/maschile»: è probabile che mi attirerei addosso una pioggia di illustri controesempi che ho mancato di considerare e la mia visione verrebbe senz’altro bollata come maschilista/femminista, a seconda (ho come l’impressione che il fatto stesso di assumere come postulati alcune differenze tra maschio e femmina, al di là di quelle corporee ovvie e innegabili, conduca necessariamente a formulare sentenze maschiliste/femministe). Mi limiterò a supporre che le due categorie siano davvero ammissibili e in qualche modo riconciliabili con l’appartenenza alla Letteratura con la L grande, per affermare che Full of Life è, a mio parere, un esempio brillante di «romanzo maschile». È maschile innanzitutto il pensiero di Fanteprotagonista, che segue il proprio percorso tortuoso e
raramente contempla le ragioni di Joyce. È maschile il senso di impotenza e alienazione, e di vera e propria paura, di fronte alla nascita. È maschile l’attaccamento di Fante-protagonista ai genitori: un trentenne che, in preda alle ansie, corre a rifugiarsi da mamma e papà. È maschile la sua necessità costante di cura, unita alla sostanziale incapacità di prendersi cura, se non con il tramite rassicurante degli oggetti (è questa che ho appena pronunciato, forse, una frase maschilista/femminista?) Ed è maschile, soprattutto, l’autocommiserazione di cui il racconto è intriso, non sempre scongiurata da uno strato sottile – sottilissimo – di autoironia. Fante-protagonista si sente vittima degli eventi: viene messo da parte dalla moglie, è angustiato dai suoi cattivi odori, tormentato dal padre gretto che da bambino l’ha picchiato con la cazzuola, costretto a sobbarcarsi il sostentamento della famiglia, inesorabilmente braccato… povero Fante, insomma! La congiura contro di lui è cosí diabolica che anche la piú disinteressata infermiera ce la mette tutta per ostacolarlo, proprio nel momento topico della corsa all’ospedale. Se fossi una donna intransigente, durante la lettura avrei probabilmente scostato il libro da sotto gli occhi diverse volte, infastidita da questa unilateralità di visione. Da maschio, invece, sono arrivato di un fiato alla fine, trainato dai turbamenti del non-piú-cosí-giovane Fante, vigliaccamente partecipe delle sue frustrazioni. Ma una sensazione si è fatta via via largo nella mia testa: forse, nel tourbillon di Full of Life, alcune domande cruciali vengono coperte dalla polvere sollevata; forse, Full of Life è proprio il tentativo di Fante-protagonista (in complotto con Fante-autore?) di eludere tali domande; forse, si tratta delle stesse domande sottese alle inquietudini di molti uomini che si apprestano a diventare genitori: «Ma io desidero veramente questo? Io amo davvero Joyce? Sono cosí convinto che la vita con lei e con il bambino che ci terrà imprigionati sarà la mia felicità? Insomma, la amo oppure no?» Fante-protagonista-autore non risponde con l’acquisto di una station-wagon di grossa cilindrata, né adagia mollemente la testa sul ventre della moglie, nella speranza che i gorgoglii uterini sovrastino i suoi cupi pensieri. Non reagisce da «vero uomo» ma da uomo vero: un maschio trentenne allo sbaraglio, inetto e disorientato come la maggior parte di noi. Le sue risposte, implicite almeno quanto le domande, si trovano nell’epilogo della storia e ovviamente non sarò io a svelarle. Mi preme soltanto dire che, fin dalle prime pagine, io sto dalla parte di Joyce.
Storia di «Full of Life» di Emanuele Trevi
«Full of Life è stato scritto per soldi. Non è un romanzo molto bello». Scrivendo al vecchio amico Carey McWilliams nel marzo del 1972, Fante non mostra grande riguardo per il libro che gli aveva dato piú successo e piú guadagni di qualunque altro. Impegnato nella stesura della Confraternita dell’uva, definitivo «regolamento dei conti» con la figura paterna, l’ormai anziano scrittore probabilmente vedeva nel libro di vent’anni prima un prodotto troppo so del suo talento comico, addomesticato e smussato delle punte nichilistiche e grottesche delle origini, tanto da rendersi accetto al pubblico (specialmente femminile) dei benpensanti anni cinquanta. Eppure Full of Life, all’interno di questi limiti facilmente riconoscibili, ha conservato intatta per piú di mezzo secolo la sua leggibilità, grazie al ritmo leggero e trasognato, alla brillante fattura dei dialoghi, alla perizia con la quale si alternano episodi comici e sentimentali. Efficacissimo, inoltre, risulta l’inserimento di un terzo personaggio, il padre del protagonista, all’interno di una cronaca coniugale: una specie di originale «triangolo» del quale fante sfrutta a pieno le potenzialità narrative. Converrà allora rivolgersi, lasciando da parte il consuntivo della sua carriera confidato a McWilliams nel 1972, alle testimonianze dello scrittore che risalgono ai tempi della stesura e della pubblicazione di Full of Life. Ricordando prima di ogni altra circostanza che quando il romanzo esce per la Little, Brown & Co. nel 1952, sono ormai passati ben dodici anni dall’ultimo libro di Fante, la raccolta di racconti Dago Red pubblicata dalla Viking Press di New York nel 1940. Durante questo lungo intervallo, Fante si è imbarcato in molti progetti narrativi senza portarne a termine nemmeno uno, ha lavorato per il cinema – ed ha affrontato piú di una volta l’esperienza della paternità. È in una lettera ai genitori del marzo 1950 che viene menzionato «un nuovo libro» che risulta terminato a giugno dello stesso anno, quando lo scrittore annuncia alla madre di avere ricevuto un’offerta molto allettante dal «Woman’s Home Companion», rivista di grande tiratura in grado di elargire compensi molto generosi. «È il racconto della nascita di Nick», spiega Fante, riferendosi esplicitamente al suo primogenito. «Ovviamente, molte cose sono inventate, ma è una storia molto bella su un marito e una moglie, e di come diventano i genitori di un bel bambino». (John Fante, Lettere (1932-1981), pp. 286–87). Anche se in quel periodo la realtà della vita familiare dei Fante (come ha testimoniato la moglie Joyce) è decisamente meno idillica di come appare nel romanzo, molti, come di consueto, sono i prelievi della scrittura narrativa dalle esperienze realmente vissute. Anche del problema delle termiti, che tanta importanza riveste nella trama del libro, essendo all’origine della richiesta d’aiuto del narratore a suo padre, si è conservata una traccia nell’epistolario, per la precisione in una lettera del 1945 dove appare la stessa identica situazione, compreso il desiderio di far causa al negligente ispettore o al venditore della casa (Lettere, cit., p. 281). L’indirizzo, al 625 di South Van Ness, è lo stesso che farà da scenario al romanzo. Ma le testimonianze piú interessanti su Full of Life provengono dalla corrispondenza di Fante con Henry Louis Mencken, il grande critico che lo aveva scoperto nei primi anni trenta, ospitandolo sulle pagine dell’«American Mercury». Ebbene Fante, non immemore di quell’incoraggiamento cosí prezioso all’inizio della sua carriera di scrittore, dopo tanti anni dedica Full of Life a Mencken, «con ammirazione immutata». E torna a scrivergli, nel giugno del 1951, per annunciargli sia l’uscita del libro («il mio nuovo
romanzo, il primo da dieci anni, e di gran lunga il migliore») che la dedica. Qualche mese piú tardi (marzo 1952), Fante può finalmente mandare una copia fresca di stampa del libro al vecchio maestro, accludendo una nuova lettera in cui riassume la «storia spirituale e finanziaria di questo volumetto ribaldo», che gli fruttò cinquantamila dollari ancora prima di arrivare in libreria. Molto interessanti anche le notizie riguardo a quello che Fante definisce «un compromesso» con l’editore, che gli aveva proposto di battezzare con il suo vero nome il protagonista del libro (e di conseguenza, anche sua moglie Joyce). Da questo punto di vista Full of Life rappresenta un caso unico nella storia creativa di Fante. Nella versione originale, l’avventura era attribuita ad Arturo Bandini, un Bandini trentenne che sta mettendo su famiglia, ben diverso dallo scapestrato personaggio che difficilmente i lettori di Fante riescono a immaginare nei panni di marito e padre affettuoso. «In virtú di questo assurdo cambio dei nomi», commenta Fante nella lettera a Mencken, «il libro non è piú narrativa, ma fatti». Interpretazione fin troppo ingenua perché, come è facile accorgersi, il delicato equilibrio tra autobiografia e invenzione, cosí tipico dell’arte dello scrittore, rimane invariato, che il suo protagonista si chiami volta a volta Bandini, Molise, o infine, come in quest’unico caso, Fante. (John Fante, Sto sulla riva dell’acqua e sogno. Lettere a Mencken 1930-1952, pp. 126–128). Facendo a Menken il rendiconto dei guadagni che gli aveva fruttato il nuovo libro, Fante non mancava di menzionare l’industria cinematografica. E alla grande fortuna di Full of Life contribuí di sicuro anche il film uscito nel 1956, diretto da Richard Quine e interpretato da Judy Holliday e Richard Conte (la difficile parte del padre del protagonista venne affidata con successo a Salvatore Baccaloni, un famoso cantante d’opera). Fante stesso, assoldato dalla Columbia Pictures, firmò la sceneggiatura del film. Nel 1957 usciva anche, nella «Medusa» di Mondadori, la traduzione italiana del romanzo, firmata da Liliana Bonini e intitolata In tre ad attenderlo. Dopo piú di un decennio di silenzio, in definitiva, il ritorno alla letteratura di Fante non avrebbe potuto essere coronato da un esito migliore. Di solito, un tale successo incoraggia a lavorare con maggiore continuità, aumentando il numero dei libri pubblicati. E invece, Fante tornò alle vecchie abitudini, ripiombando nell’insicurezza e nell’insoddisfazione di sempre. Altri quindici anni dovettero trascorrere dalla pubblicazione di Full of Life a quella del romanzo successivo, La confraternita dell’uva, nel 1977.
Full of Life
Uno
Era una casa grande perché eravamo gente con progetti grandiosi. Il primo era già lí, una sporgenza all’altezza del suo punto vita, una cosa dai movimenti sinuosi, striscianti e contorti come un groviglio di serpi. Nelle tranquille ore prima di mezzanotte appoggiavo il mio orecchio su quella zona e sentivo un gocciolio come da una sorgente, dei gorgoglii, dei risucchi e degli sciabordii. Dicevo: – Si comporta proprio come il maschio della specie. – Non necessariamente. – Nessuna femmina scalcia cosí tanto. Ma non discuteva la mia Joyce. Quella cosa era dentro di lei, e lei era remota, sdegnosa e beata. Eppure, a me non importava ancora nulla di quella sporgenza. – È poco estetica, – e le suggerivo di indossare qualcosa per nasconderla. – E ucciderlo? – Ci sono delle cose adatte. Le ho viste. Mi guardava con freddezza – ero l’ignorante, il balordo che passa nella notte, non piú una persona, diventavo malefico, assurdo. La casa aveva quattro camere da letto. Era carina. Intorno c’era uno steccato. Aveva un tetto alto e a punta. Un corridoio di rose andava dalla strada all’ingresso principale. Un ampio arco di terracotta si alzava sopra a questo. C’era un batacchio di ottone massiccio sulla porta. C’era un 37 nel numero civico, ovvero il mio numero fortunato. A volte attraversavo la strada e guardavo tutto ciò con la bocca spalancata. La mia casa! Quattro camere da letto. Spazio. Due di noi ci vivevano già, e uno era in arrivo. Ce ne sarebbero stati sette. A trent’anni un uomo aveva ancora tempo per tirarne su sette. Joyce aveva ventiquattro anni. Uno ogni due anni. Uno in arrivo, sei ancora da fare. Che meraviglia il mondo! Che vastità il cielo! Come era ricco il sognatore! Avremmo naturalmente dovuto aggiungere una stanza o due. – Hai delle voglie? Gusti particolari? So che succede. Ho letto alcune cose sull’argomento. – Certo che no. Leggeva anche lei: Gesell, Arnold: Infant and Child in the Culture of Today. – Com’è? – Molto informativo. Guardò fuori nella strada attraverso le porte finestre. Era una via trafficata, vicina alla Wilshire, dove ruggivano gli autobus, dove il traffico faceva lo stesso rumore del muggito del bestiame, ed era come un rombo continuo rotto soltanto dallo stridere delle sirene, eppure distante, lontano, a duecento piedi di distanza. – Non potremmo prendere delle tende nuove? Dobbiamo proprio avere tende gialle e mantovane verdi? – Mantovana? Cos’è una mantovana, mamma? – Per l’amor di Dio, non chiamarmi cosí. – Scusa.
Tornò a Gesell, Arnold: Infant and Child in the Culture of Today. Durante la gravidanza leggere le dava un autentico conforto. La sporgenza era un posto superbo per appoggiare i libri, quasi all’altezza del mento, girare le pagine era facile. Lei era molto graziosa, i suoi occhi grigi erano incredibilmente luminosi. C’era qualcosa di nuovo che si era aggiunto a quegli occhi. L’assenza della paura. Era sorprendente. Ti costringeva a distoglierne lo sguardo. Guardai le finestre e capii quali fossero le mantovane perché erano l’unica cosa verde, erano quelle fasce in alto, increspate. – Che tipo di mantovana vuoi, tesoro? – E per favore, non chiamarmi tesoro. Non mi piace. La lasciai lí a sedere, con i suoi occhi grigi lucenti e minacciosi, con la bocca serrata attorno a un bocchino, e le lunghe dita bianche che tenevano stretto Gesell. Uscii nel giardino davanti alla casa, mi fermai fra le rose e la guardai con soddisfazione. La ricompensa dell’autore. Io, l’autore, John Fante, scrittore di tre libri. Il primo aveva venduto 2300 copie. Il secondo 4800. Il terzo 2100. Ma nel mondo del cinema non prestano attenzione all’andamento delle vendite. Se hai quello che loro vogliono al momento, ti pagano, e ti pagano bene. In quel momento io avevo quello che volevano, e ogni giovedí arrivava un consistente assegno. Per le mantovane si presentò un gentiluomo. Era strano, con unghie traslucide e una sciarpa Paisley sotto al suo soprabito chiuso. Serrava le sue dita affusolate e c’era una intimità fra lui e Joyce che io non potevo condividere. Risero e chiacchierarono davanti al tè e ai pasticcini e lei era deliziata dall’avere la compagnia di un gallo senza speroni. Egli rabbrividí di fronte alle mantovane verdi, emise dei gridolini di trionfo mentre le abbatteva e le rimpiazzava con altre blu. Chiese che venisse mandato un camion, e i mobili vennero portati via per essere rivestiti in modo da accompagnarsi alle mantovane. Il blu rasserenava Joyce. Ora era veramente felice. Si mise a pulire le finestre. Diede la cera ai pavimenti. Non amava la lavatrice e fece il bucato a mano. Due volte alla settimana avevamo una donna per fare i lavori piú pesanti, ma poi Joyce la licenziò. – Lo faccio da sola. Non ho bisogno di aiuto. Divenne molto stanca a causa di tanto lavoro. C’erano dieci camicie messe una sull’altra, ben stirate. C’era un segno rosso sul suo pollice, una bruciatura. Ma la protuberanza era immobile, proprio là, per nulla stanca. – Non posso andare avanti cosí ancora a lungo, – gemette lei. – Questa casa enorme, e tutto il resto. – Ma perché lo fai? Sai che non dovresti. – A te piace vivere in mezzo al sudicio? – Chiama qualcuno. Ora possiamo permettercelo. Ah, come mi detestava, stringeva i denti, e si buttava indietro i capelli sfatti. Raccolse un cencio per spolverare e caracollò in camera da pranzo, per lucidare il tavolo, a colpi lunghi e disperati, assolutamente esausta, appoggiata ai gomiti, annaspando senza piú fiato. – Lascia che ti aiuti. – Non mi toccare. Non azzardarti! Sprofondò in una poltrona, con i capelli giú, il pollice bruciato dolorante, ma con una medaglia per la sua nobiltà, i suoi occhi splendenti e stanchissimi che avevano uno sguardo fisso e pericoloso, il cencio che le penzolava dalla mano, un sorriso triste sulle labbra, un’espressione che denotava nostalgia, che mi informava di come il suo pensiero fosse rivolto a un tempo piú felice, probabilmente a San Francisco nell’estate del 1940, quando il suo corpo era sottile, quando non vi era tutto quel da fare che spezzava la schiena, quando era libera e non sposata, quando si arrampicava su Telegraph Hill con il suo cavalletto e i suoi colori, a scrivere sonetti su tragici amori guardando il Golden Gate. – Dovresti avere una donna di servizio per tutto il giorno.
Quelli infatti erano i giorni grassi e carnali per lo scribacchino, quando una volta alla settimana, ogni giovedí, il denaro si ammassava, portato dal mio agente pieno di arguzie, cameratismo e di quello che restava dopo che lui e il governo avevano fatto a pezzi il mio assegno della Paramount. E nonostante ciò ne restava sempre in abbondanza per noi tutti. – Vai a fare spese, cara. Comprati qualcosa. Dio, salvami. Avevo dimenticato la sporgenza, e invano tentai di risucchiare dentro alla bocca le parole. Ma lei non l’aveva dimenticata e io dovetti fare finta di guardare da un’altra parte quando scese di corsa le scale, un pallone bianco di moglie, pronta per esplodere che camminava avanti e indietro come un prigioniero. Disse: – Smetti di fissarmi. Disse: – Immagino che tu passi l’intera giornata a guardare snelle attrici. Disse: – Ma che cosa pensi? Disse: – Mai piú. Questo è il primo e l’ultimo. Alle volte la guardavo e la trovavo intenta a fissarmi scuotendo la testa. – In nome di Dio, ma perché mai ti ho sposato? Non dicevo nulla, sorridendo scioccamente, perché nemmeno io lo sapevo, ma ero molto felice e orgoglioso che l’avesse fatto. La sua follia per le faccende passò e la domestica venne assunta nuovamente. Ora si occupava di giardinaggio. Comprò dei libri e l’attrezzatura. Un giorno tornai a casa e trovai dieci sacchi di concime di cavallo in garage. Aveva estirpato le rose su entrambi i lati del vialetto, dodici cespugli, sei da ciascuna parte; con una vanga, li aveva estratti dalla terra e li aveva trascinati sul retro del giardino. Con un’accetta ne aveva tagliato le radici, Si infilava dei guanti e passava le giornate carponi sotto alle siepi, mettendo a dimora bulbi, ricoprendoli di concime e muschio, con le ginocchia piene di segni rosso scuro, e le braccia graffiate. Sviluppò una passione per tenere il terreno pulito. Faceva ispezioni tutti i giorni, persino sul viale, aggirandosi con un sacco di iuta, raccogliendo resti di ogni genere. Si diede a bruciare qualsiasi cosa intorno a lei che non fosse ben piantata – la potatura delle siepi, foglie, pezzi di legno. Scavò una fossa nel giardino dietro casa per farci la concimaia, ammassandoci l’erba tagliata, aggiungendoci il concime, annaffiandola e mescolandola di tanto in tanto con un arnese munito di punte. La trovavo là fuori nel tardo pomeriggio quando parcheggiavo la macchina in garage. Lei stava davanti all’inceneritore, era una figura spettrale con una sciarpa bianca intorno alla testa, che faceva cadere delle cose nel fuoco, dei pezzi di cartone impilati, pronti per bruciare, e Joyce lí a fissare le fiamme, rivoltando il fuoco ogni tanto con un bastone. Era ossessionata dalla pulizia e dall’ordine intorno all’inceneritore, infilava con attenzione le scatole vuote di latta una nell’altra, poi le metteva in contenitori fatti apposta, e infine prendeva scatole speciali per le bottiglie vuote. La spazzatura di ogni giorno veniva ridotta da lei in pacchetti puliti, avvolta in carta di giornale e legata con degli spaghi. Durante la notte sentivo che si aggirava per la casa, sbatteva lo sportello del frigorifero, tirava lo sciacquone, accendeva la radio al piano di sotto, camminava per il giardino dietro casa. Dalla finestra la guardavo muoversi al chiaro di luna, era come un’apparizione gonfia e avvolta in spugna, con la sua sporgenza rotonda che la precedeva con maestoso aplomb, portando un libro sotto il braccio, di solito, Gesell, Arnold: Infant and Child in the Culture of Today. – Non puoi piú dormire con me, – disse. – Mai piú. – Nemmeno dopo che è nato? – È una femmina.
– Perché continui a insistere che sia una femmina? – I maschi non mi piacciono. Sono cattivi. Sono loro a creare tutti i problemi nel mondo. – Anche le femmine creano problemi. – Non quel tipo di problemi. – Amerai moltissimo tuo figlio. – Si chiama Victoria. – Si chiama Nick. – Mi piace di piú Victoria. – Vorresti dire Victor? – Voglio dire Victoria. E poi c’era quell’incredibile bisogno che avevo di lei. L’avevo avuto dalla prima volta che l’avevo vista. Se ne era andata, quella prima volta, era uscita dalla casa di sua zia dove ci eravamo incontrati per il tè, e io divenni un buono a nulla senza di lei, un incapace assoluto fino a quando non la vidi di nuovo. Se non fosse stato per lei, la mia vita avrebbe percorso strade differenti – sarei stato giornalista, muratore – qualsiasi cosa mi fosse capitato. La mia prosa, cosí come era, derivava da lei. Perché io abbandonavo sempre quello che scrivevo, lo odiavo, disperato, accartocciavo i fogli e li buttavo per la stanza. Ma lei rovistava fra tutta quella roba che io gettavo e veniva a capo delle cose, e io non sapevo mai se avevo fatto qualcosa di buono, pensavo che ogni riga che avevo scritto non fosse migliore del solito, perché non avevo modo di esserne certo. Ma lei prendeva le pagine, vi trovava quello che c’era di buono e lo serbava, poi me ne chiedeva altre, cosí che per me diventò un’abitudine, scrivevo meglio che potevo e le davo i fogli, lei vi faceva un’opera di taglia e cuci, e quando era terminato, con un inizio, una metà e una fine, ero ancora piú meravigliato di quando poi lo vedevo stampato, perché non avrei mai potuto farlo da solo. Passarono tre anni cosí, poi quattro, cinque, e cominciai ad avere qualche nozione del mestiere, ma erano le sue nozioni, e non mi preoccupavo mai molto degli altri che avrebbero potuto leggere le mie cose, scrivevo solo per lei, e se lei non fosse stata lí, avrei potuto anche non scrivere affatto. Quando rimase incinta, non le interessò piú leggere le mie cose. Le portavo parti di sceneggiature e lei non vi faceva caso. Quell’inverno durante il suo quinto mese scrissi un racconto e lei vi rovesciò sopra del caffè – una cosa inaudita, poi lo lesse sbadigliando. Prima del bambino, avrebbe preso il manoscritto, se lo sarebbe portato a letto e vi avrebbe passato ore a potarlo, sistemarlo e a farci delle note in calce. Come una pietra, il bambino si interpose fra di noi. Io ero preoccupato e mi chiedevo se le cose sarebbero mai tornate a essere come prima. Avevo nostalgia dei vecchi tempi quando potevo entrare in camera sua e raccogliere di soppiatto qualcosa che apparteneva alla sua intimità, come una sciarpa, un vestito oppure un pezzo di nastro bianco, quando solo il toccare tutto questo mi mandava in estasi, mi faceva gracchiare come una rana per la gioia di avere la mia amata. La sedia sulla quale si sedeva davanti alla toilette, lo specchio che rifletteva il suo amabile viso, il cuscino sul quale appoggiava la testa, un paio di calze gettate a lavare, la grazia disarmante delle sue mutandine di seta, le sue camicie da notte, il suo sapone, i suoi asciugamani bagnati ancora caldi dopo il bagno: avevo bisogno di quelle cose; erano parte della mia vita con lei, e cosí era anche per le tracce di rossetto, perché quel rosso proveniva dalle tiepide labbra della mia donna. Le cose erano cambiate ora. I suoi abiti erano studiati apposta, con un gran buco sul davanti dal quale usciva il rigonfio, le sue mutande erano impossibili sacchi, le sue scarpe piatte erano adatte solamente ai campi di riso, e le sue camicie erano come tende. Quale uomo avrebbe potuto prendere vestiti cosí, avvicinarli al viso e rabbrividire con la solita passione? Inoltre, tutto aveva un odore diverso. Prima usava
qualcosa di magico chiamato Fernery at Twilight. Era come respirare Chopin e Edna Millay, e quando quella fragranza emanava dai suoi capelli e dalle sue spalle, io sapevo che la sua bandiera era alzata e che lei aveva scelto di farsi inseguire. Non usava piú Fernery at Twilight: l’aveva sostituito con qualcos’altro, qualcosa tipo la colonia Gayelord Hauser, che sapeva di salute, alcool puro e sapone neutro. C’era anche odore di tavolette vitaminiche, di lievito di birra, di melassa e di un pallido balsamo che usava per lenire i suoi capezzoli inturgiditi. Quando ero a letto, la sentivo arrancare per la casa, e mi chiedevo cosa ci stesse capitando. Fumavo nel buio e gemevo convinto che lei mi volesse spingere fra le braccia di un’altra donna. No, non mi voleva piú, mi stava costringendo ad andare con un’altra donna, un’amante. Ma quale amante? Per anni avevo disertato la giungla dove si aggiravano gli scapoli. Dove potevo trovarla un’altra donna, se pure ne volevo una? Mi vidi appostato sul Santa Monica Boulevard, sudato, a sbavare dietro alle donne libere nell’oscurità di un bar un po’ strano, cercando di essere arguto, bevendo e bevendo per nascondere il nudo squallore di quelle avventure. No, non potevo essere infedele a Joyce. Non volevo neppure esserlo, e anche questo mi preoccupava. Non era infatti un’abitudine degli uomini quella di tradire le loro mogli durante la gravidanza? Al golf club succedeva sempre: ne sentivo parlare tutti i maschi. Allora cosa c’era che non andava in me? Perché non ero in città, a consumarmi in piaceri proibiti? E restavo lí steso, cercando di suscitare in me una scintilla di quella fiamma per un altro frutto. Ma non c’era nulla da fare. Eppure ero contento di dormire da solo. Ne avevo scordato le gioie. Per quattro anni avevamo giaciuto fianco a fianco ogni notte. Ero ormai condizionato, avevo accettato i calci senza protestare, avevo dormito mezzo scoperto per piú di mille e trecento notti. Ultimamente però la sua condizione l’aveva resa peggiore. In lei era svanito qualsiasi senso di lealtà. Era tornata nella giungla dove si combatte per l’esistenza. Ora mi colpiva deliberatamente, a freddo. Mi ritrovavo sveglio a qualunque ora della notte perché mi veniva sottratto il cuscino da sotto la testa, perché sentivo che masticava delle mele, o per via della raffinatissima tortura delle briciole dei biscotti fra le lenzuola. Mangiava come un profugo liberato, arrivava a letto con enormi panini e con caraffe di latte. La quantità di latte che consumava era impressionante. Sedeva appoggiata ai cuscini – i miei e i suoi – mangiando e leggendo, soprattutto Gesell, Arnold: Infant and Child in the Culture of Today. Gesell, Arnold: e Feeding Behaviour of Infants; a Pediatric Approach to the Hygene of Early Life (con ill.) Oppure Gilbert, Margaret: Biography of the Unborn. Dieci volte per notte schizzava fuori dal letto e si precipitava in bagno, tirando l’acqua con frastuono provocante, facendo gargarismi, lavandosi i denti, facendo la doccia. Poi tornava a letto con un salto, lanciandosi con un balzo, insediandosi nel luogo che era diventato una trattoria, come una dea satolla contornata da cuscini. Se mi muovevo o protestavo, non se ne curava. Ebbene sí, ero molto contento di dormire da solo, di riposare in un letto che non fosse anche una drogheria, di poter stendere le braccia e le gambe. Era un piacere fantastico, un crogiolarsi atavico, un ritorno alla Madre Terra. Ma lei avvertí la mia gioia; dovette averla percepita attraverso il muro, perché iniziò a desiderare delle cose. Un bicchiere di latte, un panino, un fiammifero, un libro. E se non era nessuna di queste, la luce sul mio comodino si accendeva all’improvviso e lei era lí, pesante, pallida e triste, a dirmi con tranquillità: – Non riesco a dormire –. Era un letto singolo, e quando si stendeva accanto a me allora proprio non c’era posto, a meno che non si mettesse sulla schiena con la sporgenza che si protendeva verso l’alto. Io mi allontanavo. Era come dormire sull’orlo di un baratro. – Mi odi, vero? – diceva. – Non ti odio per nulla. – Perché ti ritrai? C’è qualcosa che non va? – Non posso dormire sopra di te.
– Certo che puoi, se ti va. – Non mi dà nessun brivido. Mi dispiace. – È per via del mio alito? Mi soffiava in faccia. La sua bocca che era stata calda e dolce ora aveva quell’odore da sono incinta, non spiacevole, ma neppure piacevole. – È un po’ strano. Rimaneva ferma per qualche istante, a fissare il soffitto, con la sporgenza che si muoveva in su e in giú a intervalli regolari, e le mani incrociate sopra di essa. Cominciava a piangere, e le lacrime le scorrevano sulle guance in piccoli rivoli. – Amore! Ma che c’è? – Sono costipata, – singhiozzava. – Sono sempre costipata. La tenevo stretta, le accarezzavo i capelli all’indietro e baciavo la sua fronte calda. – Nessuno ama una donna incinta, – diceva fra i singulti. – Me ne accorgo ovunque vada. Per la strada, nei negozi, dappertutto. Mi fissano sempre. È terribile. – È una tua fantasia. – Quel macellaio tanto gentile. Era cosí carino. Ora mi guarda appena. – È cosí importante? – È importantissimo! Quella notte pianse a lungo, fino a quando le sue guance si gonfiarono ed ebbe scaricato tutta la tensione, fino a quando l’attività nel suo nido la distrasse. Scansò le lenzuola. – Guarda. Il bambino si agitava come un gattino intrappolato in un gomitolo. Scalciava dolorosamente e si poteva vedere quello che sembrava un piedino che colpiva le pareti della sua prigione. – Le bambine non scalciano in quella maniera. – Sí, invece. Appoggiai l’orecchio contro quella sporgenza morbida e calda e ascoltai. Era il rumore di una fabbrica di birra, tubi che sibilavano, tini di fermentazione, fumanti lavaggi di bottiglie, e lontano, sul tetto dell’edificio, qualcuno chiedeva aiuto. Mi prese la mano. – Senti la testa. Toccai in quel punto; era grande quanto una palla da baseball. Sentii quello che mi parvero essere le mani, i piedi. Poi trasalii, ma non dissi nulla per non allarmarla. C’erano due palle da baseball laggiú, c’erano due teste! Le dissi che era meraviglioso, ma la gola mi doleva dalla paura perché era proprio vero che c’erano: la mia adorata Joyce stava portando un peso terrificante. Toccai lo stesso posto un’altra volta. Non c’erano dubbi. Il bambino era un mostro. Strinsi i denti e mi stesi con il cuore in subbuglio, troppo spaventato per parlare. Non era un comportamento coraggioso quello di mettersi a piangere in un momento cosí, ma non riuscivo a trattenere il dolore, e quando lei vide le mie lacrime, riversò su di me tutta la sua tenerezza, contenta perché piangevo. – Caro! Sei cosí emotivo. Finalmente riuscii a controllarmi, ma volevo stare da solo, per riflettere, per chiamare il dottor Stanley, per vedere se si poteva fare qualcosa. La sua fame mi forní la scusa. Voleva un panino con l’avocado. Mi alzai per farglielo. Ma dovevo convincermi di essermi sbagliato, e tornai indietro. – Fammi sentire un’altra volta, – dissi. – Certo. Appoggiai il palmo su quel punto. Svenni quasi quando due protuberanze premettero contro la mia
mano. Quindi era vero: avevamo concepito un mostro. Scesi le scale barcollando. Nella piccola stanza accanto alla cucina dove tenevamo il telefono, in quel luogo angusto, rimasi fermo nel buio, con la testa contro il muro, e ricominciai a piangere. Ora mi erano chiare molte cose, il passato mi si rivelava come un secchio della spazzatura rovesciato. Perché non era colpa di Joyce. La sua vita era stata pura, senza macchia. Ma gli anni di John Fante prima del matrimonio erano stati anni scapestrati fitti di avventure senza capo né coda. C’era molto di cui arrossire; c’erano stati peccati, peccati penosi, e a un qualche punto di questo vortice di cattiveria era stata seminata la punizione, e adesso era venuto il tempo di fare il cattivo raccolto. Preparai il panino e lo portai al piano di sopra. Joyce era pronta, galleggiante sui cuscini, con le braccia tese per ricevere il cibo. Non riuscivo a sopportarlo. Scesi, spostai il telefono in cucina, chiusi le porte, e feci il numero del dottor Stanley. Era all’ospedale, aspettava un parto. – Devo vederla subito. – Come sta Joyce? – Sta bene. Sono io. È il bambino. – Lei? – Vengo lí. È molto importante. Ritornai su. Joyce aveva finito il panino. Era stesa, e guardava la sporgenza. – È splendida, – disse. – Tutto è splendido. Presto si addormentò. Mi vestii e scesi in punta di piedi, per uscire dalla porta sul retro accanto al garage. Erano le tre meno un quarto, le strade erano deserte, c’era una specie di follia nella strana calma della vasta metropoli. Dopo dieci minuti parcheggiai davanti al St James’s Hospital. In portineria mi dissero che il dottor Stanley era al dodicesimo piano. Faceva nascere cosí tanti bambini che l’ospedale gli aveva dato una camera nel reparto maternità, dove poteva fare dei sonnellini. La porta della sua stanza era aperta. Era in maniche di camicia, steso su una branda. Avevo bussato piano e immediatamente lui si svegliò, balzando in piedi. Era un uomo basso con il viso da bambino, con occhi grandi che esprimevano una costante meraviglia. Ci stringemmo la mano. – Anche lei aspetta un bambino? Gli dissi che la questione era seria. – Davvero? – Credo di essere un uomo molto malato. – A me sembra che lei stia bene. – Aspetti a dirlo. Vedrà che non è affatto divertente. – Sto aspettando. Si sieda. Mi lasciai cadere sulla sua branda e annaspai cercando da fumare. – C’è qualcosa di terribile nel bambino. – Mi pareva che avesse detto che era lei a stare male. – Ci sto arrivando. La mia malattia ha a che fare con il bambino. La mia infermità. – Di che infermità si tratta? Non riuscivo a dirglielo. Non volevo dirglielo. Disse: – Quando ha fatto l’ultima volta la Wassermann? Risposi che risaliva circa a un anno fa. – Ma non sono infallibili, dottore. L’ho letto in un articolo su una rivista. – Ha tradito sua moglie? – Sí. Cioè, no. Quello che voglio dire è che prima di sposarmi c’è stata una ragazza. Anzi, diverse
ragazze. Insomma, sono preoccupato, dottore. – Cosa le fa pensare che ci sia qualcosa che non va nel bambino? – L’ho sentito. – Sentito? Come? – Ho messo la mano sulla pancia di Joyce. – E...? – C’era qualcosa di strano. – Strano come? – Ho letto un articolo in una rivista di medicina, dottore. Alle volte la Wassermann non è affidabile. – Strano come? Improvvisamente non ebbi piú voglia di parlarne. Improvvisamente mi resi conto di essere stato un cretino, che il bambino stava bene, che non aveva due teste, che tutto ciò mi era venuto in mente a causa di un ammasso di senso di colpa non digerito, e che il mio essere lí, al dodicesimo piano del St James’s Hospital alle tre e mezza del mattino a parlare con il dottor Stanley nel reparto maternità, era assolutamente ridicolo. Volevo uscire, essere nella mia macchina, diretto a casa, per strisciare nel letto e coprirmi la testa con le lenzuola, per poi svegliarmi fresco e riposato il giorno dopo. Invece restavo lí davanti a quel dottore stanchissimo, a tormentarlo con le mie idiozie, e non restava altro che tentare un’uscita di scena dignitosa. – Dottor Stanley, credo di aver fatto un grande sbaglio. – Cosí lei ha sentito il bambino e le è parso strano. Mi parli di questa strana sensazione. La descriva. La risposta era: due teste. Meglio buttarsi dalla finestra piuttosto che dirlo. – Mi spiace, dottore. Mi sono sbagliato. Ho creduto di sentire qualcosa di strano. Mi dispiace di averla disturbata. Mi preparai ad andare, facendo marcia indietro, ma lui mi fermò, suonò un campanello sul muro, e dopo un istante arrivò un’infermiera. Lui mi ordinò di levarmi la giacca e di tirarmi su la manica della camicia, perché voleva rassicurarmi, liberare la mia mente da ogni dubbio. – Ma è assurdo, dottore. Non c’è niente che non va nel mio sangue – proprio niente. Strinse un laccio di gomma attorno al mio braccio fino a far gonfiare le vene, avvertii poi il pizzicore dell’ago e vidi il mio sangue che veniva risucchiato in una siringa. – Torni domani sera, – disse lui. – A qualsiasi ora. Sarò qui con le sue analisi. Mi tirai giú la manica e mi infilai la giacca. – Tutto ciò non ha senso, dottore. Non c’è niente che non va in me. – Vada a casa. Cerchi di dormire. Andai verso casa guidando attraverso le strade silenziose, pensando a quelle altre ragazze, alla dolce Avis e alla cara Monica, e dopo tutti quegli anni mi sentii cosí solo senza di loro, perché erano state cosí belle e piene di tenerezza, con dei corpi cosí superbi, non deformati dalla gravidanza, ragazze che volevo con un desiderio estatico e nauseante, perdute per sempre, e mi venne quasi da piangere quando capii che non avrei potuto averle mai piú. Questo era il matrimonio, la sepoltura, la spregevole prigione dove un uomo spinto dall’invincibile desiderio di essere buono, degno e integro, si riduceva allo stato dell’ebete alle tre di mattina, senza alcuna ricompensa oltre ai figli, una nidiata priva di riconoscenza. Riuscivo persino a vederli, i miei figli, che mi buttavano in mezzo alla strada quando sarei stato vecchio, cacciandomi di casa, intenti a firmare documenti per la mia pensione di anzianità e a lavarsene cosí le mani, un vecchio traballante che aveva trascorso i migliori anni della sua vita a faticare onestamente per dare loro la possibilità di godere il pieno sapore della vita. Ed ecco la mia ricompensa!
La sera successiva ero ancora all’ospedale, ad aspettare il responso del dottor Stanley sulle mie analisi del sangue. Detestavo il fatto di essere lí. Il dottor Stanley stava facendo nascere un bambino, e l’infermiera mi disse di aspettare nella sala d’attesa per i padri. Ce n’erano due, uno addormentato in una poltrona di pelle, mentre l’altro stava leggendo una rivista. Io fumavo e passeggiavo in su e in giú. Era assurdo. Non c’entravo nulla – ancora. Ma eccomi lí, a fingere, e l’uomo con la rivista pensava che stessimo dividendo la stessa sorte. – Come sta la sua signora? – domandò. – Tutto a posto. E la sua? – Non troppo bene. I suoi occhi erano delle fessure rosse, il volto era contratto dalla preoccupazione. Aveva la barba lunga e aveva bisogno di radersi. – È in travaglio da tredici ore. – Mi spiace. – Forse le faranno un cesareo. Quello non era un posto per me. Stavo profanando un luogo dove nasceva la vita, dove le donne soffrivano e gli uomini si preoccupavano. Quella gente aveva dei problemi seri, io invece stavo solo facendo lo stupido, vittima di me stesso. Poi apparve l’infermiera. – Signor Fante… Il padre del cesareo mi dette la mano. Anche l’altro si alzò e mi porse la sua. Mi augurarono buona fortuna. Li ringraziai e mi avviai per il corridoio dietro all’infermiera diretto alla piccola stanza del dottor Stanley. Lui era lí, con un pezzo di carta in mano. – Lei è a posto. – L’ho sempre saputo. Lui sorrise. – Cosa ha mangiato ieri sera a cena? Glielo dissi: spaghetti, polpette, insalata, vino, gelato. – Perché, dottore? – Colesterolo. Le analisi mostrano che è in eccesso. Ed è spiegato da quello che ha mangiato a cena. – Colesterolo! Dio buono, dottore! Ho letto del colesterolo su una rivista. È pericoloso. Intasa le arterie e provoca attacchi di cuore. L’ho letto su «Hygeia». – Ha problemi di cuore? – Non ancora, ma… – Allora non ci pensi piú. – Colesterolo! Io, proprio io. Mi consigliò di smetterla di leggere articoli di medicina e di non preoccuparmi, ma io non potevo non pensarci, barcollando per il corridoio, brancolando per trovare il bottone dell’ascensore, con il sudore che sgorgava dai palmi delle mie mani, giú un piano dopo l’altro, bolle nello stomaco, colesterolo, attacchi di cuore, scrittore sviene e muore per un attacco improvviso, la strada, vacillai fino alla macchina, seduto dietro al volante, sentendo i battiti cardiaci, contandoli guardando l’orologio, John Fante, andato all’improvviso, carriera stroncata, settantadue battiti al minuto, mio Dio, colesterolo: dovevo andare a controllarlo, fare altre ricerche, e fare una conoscenza piú ravvicinata con questa terrificante sostanza. Quando arrivai a casa, Joyce dormiva. Era mezzanotte circa. Andai a letto con la luce accesa, misurando il polso in continuazione. Fu una notte difficile. Mi ricordo quando albeggiò, perché allora mi addormentai. A mezzogiorno mi svegliai sentendomi benissimo. Joyce era in camera sua, stava scrivendo delle lettere. – Come hai dormito? – Malissimo, – disse lei. – Sono stata sveglia tutta la notte.
– Non mangiamo piú spaghetti. Sono pieni di colesterolo. – Davvero? – Mangiamo insalata verde, carote. Verdura appena colta, fresca e buona per la salute. Andai in bagno e mi misurai il polso. Era sceso a sessantotto battiti. Quattro di meno. Un polso lento era migliore di uno veloce. Di quello ero sicuro. L’avevo letto su diverse riviste. Alle 9.27 della mattina del 18 marzo, al settimo mese della sua gravidanza, Joyce Fante sprofondò nel pavimento della cucina della nostra casa. Il suo peso – era aumentata di venticinque libbre e la bilancia ne segnava ora centoquarantaquattro – unito allo stato del legno, provocò il climax mozzafiato quando le tavole infestate dalle termiti crollarono sotto il linoleum strappato e la donna con la gran sporgenza precipitò sulla terra tre piedi piú in basso. In quel momento io ero di sopra, nella vasca, e ricordo distintamente tutti gli insignificanti particolari di prima e dopo la calamità. Prima c’era quella bella mattinata tranquilla, abbellita dalla lucentezza dorata del sole, c’era la placidità del bagno, le acque ferme misteriosamente evocative, il richiamare alla mente cose lontane, e poi, da qualche parte, da tutte le parti, l’atmosfera rabbrividí, fu come avvertire il potere sinistro della reazione a catena sui materiali fissili. Un momento piú tardi la sentii urlare. Era un urlo da teatro, Barbara Stanwyck intrappolata da uno stupratore, e quell’urlo mi pizzicò la colonna vertebrale come le dita di un gigante. Saltai fuori dalla vasca e aprii la porta. Sentivo Joyce che gridava dal basso. Il mio unico pensiero fu per il bambino – quel prezioso melone bianco. – Sto arrivando Joyce. Coraggio cara, sto arrivando. In camera avevo una pistola, ma in quel momento pensai solo al bisogno che lei aveva di me. Mentre mi precipitavo giú per le scale nudo e spaventato mi resi conto che quelli erano gli ultimi passi che avrei fatto da vivente, che saremmo morti insieme, e che saremmo potuti sopravvivere se solo fossi stato armato. Dapprima non la vidi. Poi la trovai davanti alla cucina economica, esattamente come era caduta, rannicchiata in quel grazioso cedimento, bloccata, come se fosse stata minuscola, con una fetta di prosciutto in una mano, una casseruola nell’altra, e con molte uova rotte che colavano intorno a lei. Era piú arrabbiata che ferita, c’era del burro fuso che le gocciolava dai capelli mescolandosi alle sue lacrime, mentre dai gomiti venivano giú viscide chiare d’uovo. – Tirami fuori da qui, se non ti dispiace. La liberai. Era di una calma sorprendente. Rimasi a fissare il pavimento. – Cosa è stato? Le sue dita tastarono la sporgenza, cercandovi la vita. Andò al telefono e compose un numero. – Dica al dottor Stanley di sbrigarsi. È un’emergenza –. Riattaccò e si diresse verso le scale. – Come è successo? Non rispose. Un momento dopo era a letto. Io le ronzavo attorno, cercando di esserle utile. Era pallida, ma calmissima. Poi chiuse gli occhi. Mi spaventò. La scossi. – Stai bene? – Credo di sí. Richiuse gli occhi. Io mi spaventai di nuovo. Corsi al piano di sotto e le portai un brandy. Non lo voleva. Le chiesi di non chiudere gli occhi. – Sto solo riposando. – Non credo che dovresti chiudere gli occhi.
– Mi riposo un momento prima che venga il dottore. Il dottor Stanley arrivò dopo venti minuti. Lo accompagnai di sopra e cominciò a visitarla. La caduta non aveva provocato danni né a lei né al bambino. Ripose il suo stetoscopio. Scesi con lui le scale e lo seguii fino alla porta d’ingresso. Mi pareva opportuno farci una chiacchierata da uomo a uomo su quanto era accaduto. – Posso fare qualcosa, dottore? – No. Nulla. Mi freddò con un’occhiata. Si stava cominciando a stancare di noi. Occupavamo molto del suo tempo. Tornai in cucina e mi fermai davanti al buco nel pavimento. Funghi e termiti avevano divorato il legno. Si sbriciolava fra le mie dita come soffice pane. Attraversai la stanza andando verso l’acquaio e picchiai con il tallone sul pavimento. Il colpo lasciò un segno profondo, aprendo un buco. Sembrava che tutto il pavimento fosse marcio. Nell’angolo dove era il tavolo diedi un pugno al muro. Le mie nocche affondarono nello stucco e nel legno spugnoso. Mi arrampicai sul tavolo per controllare il soffitto, ma il mio peso ne fece affondare le gambe. Andai in camera da pranzo e mi fermai davanti a un tramezzo verde pallido, appena dipinto, immacolato. Alzai il pugno, ma dentro di me sentii una profonda nausea ed ebbi paura a colpire. La mia casa! Perché era capitato questo a John Fante? Cosa avevo fatto per stravolgere il ritmo delle stelle durante il loro corso? Tornai al buco di Joyce e lo guardai attentamente. Sollevai un pezzo di legno marcio. Fu allora che le vidi, quelle piccole bestioline bianche, che strisciavano nel legno morto, il legno della mia casa, ne presi una fra le dita, con le zampette che si agitavano nell’aria – una termite, una bestia inumana, e la uccisi; io che non potevo sopportare di uccidere nulla, dovetti spegnere la sua vita, per quello che lei e la sua ignobile stirpe avevano fatto alla mia casa. Era la prima termite che avessi mai ucciso. Per molti anni le avevo viste muoversi, osservandole con curiosa ammirazione. Ero un fermo assertore della filosofia del vivi e lascia vivere, e questo era il ringraziamento che ne ricevevo, questo schifosissimo tradimento. Bene, allora c’era qualcosa di sbagliato nella mia convinzione, sarebbero dovuti subentrare dei cambiamenti nel mio rapporto con gli insetti, la dura realtà dei fatti doveva essere considerata, e cominciai in quell’istante medesimo a farle fuori, spaccando il legno, spiaccicandole, annientando le loro nefaste piccole vite mentre correvano in preda al panico fra le mie dita. Un agente immobiliare di nome J. W. Randall ci aveva venduto la casa. Era magro e affilato, un cowboy in pensione, sceso dalla sella. Venne a casa a ispezionare il danno. Stritolò il legno spappolato fra le dita, scansando il nugolo di termiti che correvano sui lunghi peli del dorso della sua mano. – Signor Randall, siamo stati imbrogliati. Farò causa. – Non può fare causa a me. – È stato lei a gestire la vendita. – È Smith l’uomo che lei cerca. Faccia causa a Smith. Smith era l’ispettore delle termiti. – Hai sentito questa, Joyce? È Smith il nostro uomo. Lo trascineremo in tribunale. Joyce disse: – Signor Randall, lei è un farabutto. Lui si eresse. – Aspetti un minuto, cara signora. Lei si allontanò. Il signor Randall era ferito e arrabbiato. Si diresse a gran passi fuori di casa. Lo inseguii. Salí in macchina, rabbuiato, e respirando pesantemente dal naso. – Faccio questo mestiere da trent’anni. Fiamme dell’inferno! Sono io che ho fatto Wilshire Boulevard!
E quella mi dà del farabutto. – È un po’ sottosopra, signor Randall. È per via del suo stato. – Lasci che le dia un consiglio, figlio mio. Sono nonno. Ho quattro nipoti. È meglio che la signora si calmi. Le donne incinte devono avere pensieri puri. È chiaro che poi c’è cosí tanta delinquenza minorile. Attenzione, ragazzo. So di cosa parlo. – E con Smith? – Gli faccia causa. Smith era introvabile. Andai nel garage che era stato il suo ufficio, una capanna di stucco dietro a un negozio di falegnameria su Temple Street. Aveva chiamato la sua compagnia Murder, Inc. Se ne era andato. Nessuno ne sapeva nulla, tranne il fatto che era un estimatore dell’angelica. Parlai con un avvocato. Mi disse che ci volevano due anni prima di riuscire a ottenere una udienza in tribunale, e senza Smith era tutto inutile. Un imprenditore venne a casa e ci fece un preventivo per ripararla. Disse che ci volevano quattromila dollari. Joyce: – Con quella cifra potremmo fare dieci bambini –. Quattromila! Era un coltello piantato nel mio cuore. Barcollai in cucina, nauseato e ferito. Il danno maggiore era proprio lí, in cucina. A quattro zampe toccai la zona sotto l’acquaio, cercando a tastoni. C’era un rumore. Appoggiai l’orecchio al pavimento. Laggiú, a pochi pollici di distanza, riuscivo a sentirle, quelle bestie ignobili, che masticavano letteralmente il mio legno. Era il ritmico triturare di migliaia di mandibole minuscole, che si nutrivano della carne e del sangue di John Fante. Poi, all’improvviso, ebbi chiaro cosa dovevo fare. Come acqua fresca, quel pensiero mi bagnò. Come le nubi che si aprivano, dopo il quietarsi della tempesta, lui mi apparve, gagliardo come la luce del sole, il piú grande muratore di tutta la California, il piú nobile costruttore di tutti! Papà! La mia carne e il mio sangue, il vecchio Nick Fante. Mi precipitai alle scale e chiamai Joyce. – Siamo proprio ciechi! E stupidi! – Perché? – Mio padre! – Fantastico! Corse giú e ci gettammo l’uno nelle braccia dell’altra. Anche lei amava papà, e lui l’adorava. – Ce lo farà e non vorrà nulla. Risparmieremo migliaia di dollari. Ma lei divenne seria, malinconica. – Promettimi una cosa. – Certo. – Che non tratterai mai nostro figlio come tuo padre ha trattato te. – È stato un buon padre, burbero ma buono. – Una volta ha colpito le tue carni nude con una cazzuola. Me l’ha detto tua sorella Stella. – Me l’ero cercata. Avevo venduto la sua betoniera per comprarmi una bicicletta. – I bambini non si picchiano piú. Ne è stata provata l’inutilità. È negargli un privilegio. – Lui mi aveva negato la bicicletta. Inoltre era l’unica betoniera che aveva. – Hai letto Wolf Child and Human Child, di Gesell? Non l’avevo fatto. – Ogni padre dovrebbe farlo. È basilare. – Lo leggerò in viaggio per il Nord.
Due
Mia madre e mio padre vivevano a San Juan, nella Sacramento Valley, a una dozzina di miglia dalla capitale dello stato. Vivevano in paradiso, ritiravano le loro pensioni statali, e stavano fluttuando attraverso il periodo piú placido della loro vita. Abitavano in una casetta di legno rosso della California, di quattro stanze, con un vasto albero di fico che ombreggiava il giardino retrostante. Una dozzina di galline chiocciavano fuori davanti alla cucina, erano degli animali ben pasciuti, si ingozzavano di fichi caduti e di ricca uva tokay che proveniva dalle viti che minacciavano lo steccato sul retro. Quelle galline deponevano uova enormi e calde che la mamma amava tenere fra le palme delle mani con ironica nostalgia, perché c’era stato un periodo nella sua vita, tanto tempo prima, in cui il numero dei bambini superava quello delle uova. Su una botte sotto il fico dormivano i quattro gatti di papà, risplendenti divinità egizie, resi floridi dai cuori di bue, dai cervelli di vitello e dal latte. Quei quattro gatti avevano preso il posto dei quattro bambini che erano cresciuti e avevano lasciato la Valley per sposarsi, indebolirsi la vista e rovinarsi i denti, perché durante i primi tempi il lavoro era scarso e papà non guadagnava mai abbastanza per poter nutrire regolarmente i propri figli con cuori di bue, cervelli di vitello e latte. Vivevano in un sereno isolamento, mio padre e mia madre, leggevano il «Sacramento Bee» e ascoltavano la radio, raccoglievano le uova e rastrellavano le grandi foglie verdi di fico, erano due persone vicine ai settant’anni, in trepidante attesa del postino che non li terrorizzava piú con i conti, e che arrivava sempre troppo in ritardo con le lettere dei figli che se ne erano andati. Stella non doveva scrivere. Lei e suo marito vivevano in una fattoria fuori San Juan e due volte alla settimana portavano cassette di zucchine, pomodori, pesche, arance e burro. Stella arrivava con le sue due bambine, e nei caldi pomeriggi papà sedeva con loro sotto il fico, dandogli di nascosto dei sorsi di vino fresco, raccontandogli storie, e domandandosi perché, nel nome di Nostra Signora del Monte Carmelo, lui non avesse nipoti maschi. Perché papà aveva sessantasette anni, e sebbene ammirasse le ragazze non italiane che i suoi figli avevano sposato, tuttavia le sospettava di usare qualche imbroglio nella procreazione, di non saperci fare. Una volta alla settimana Joe Muto arrivava con il suo camioncino Ford per portare due galloni di chiaretto a cinquanta cent ciascuno. Portava volentieri con sé i quattro nipoti, bambini con gli occhi neri che gli assomigliavano, papà allora li guardava di traverso perché non erano suoi. La vita senza nipoti maschi non era vita. Seduto sotto il fico, papà inclinava la brocca di chiaretto, dava una sorsata al vino fresco e rimuginava. Nel tardo pomeriggio arrivava il postino, e la mamma era al cancello vicino alla cassetta, in attesa, facendo finta di strappare erbacce qui e là. Se non c’era posta, strappava un’altra erbaccia o due, dava nervosamente un’occhiata alla strada verso Sacramento, e tornava a casa, traballando sui suoi piedi con l’artrosi. Papà guardava tutto ciò giorno dopo giorno. Alla fine perdeva la pazienza. – Porta penna e inchiostro! La mamma obbediente usciva dalla casa con una tavola e l’occorrente per scrivere, sistemava il tutto sulla botte sotto il fico, e si disponeva a buttare giú un’altra lettera di papà ai suoi tre figli: uno a Seattle,
un altro a Susanville e il terzo al Sud. Quelle erano lettere che lei non spediva mai, erano solo un gesto di pacificazione, perché papà traeva molta soddisfazione dal dettare, si placava camminando su e giú sulle foglie che frusciavano, e fermandosi di tanto in tanto per inghiottire pensierosi sorsi di chiaretto. – Mandala a tutti quanti. Scrivi chiaro. Scrivi esattamente quello che ti dico. Non cambiare nemmeno una parola. Allora lei immergeva la penna, con le ginocchia contro la botte, seduta scomodissima su una cassetta di mele. Cari Figli: Vostra madre sta bene. Anch’io. Non abbiamo piú bisogno di voi ragazzi. Quindi divertitevi, ridete e scherzate, e scordatevi di vostro padre. Ma non di vostra madre. Non vi preoccupate di vostro padre. È per vostra madre. Vostro padre ha lavorato sodo per comprarvi le scarpe e farvi andare a scuola. Non rimpiange niente di niente. Non ha bisogno di niente. Quindi divertitevi, ragazzi, ridete e scherzate, ma qualche volta pensate a vostra madre. Scrivetele una lettera. Non scrivete a vostro padre perché non ne ha bisogno, ma vostra madre sta invecchiando, ragazzi. Sapete com’è quando invecchiano. Quindi divertitevi finché siete giovani. Ridete e scherzate e qualche volta pensate a vostra madre. Per vostro padre non importa. Non ha mai avuto bisogno del vostro aiuto. Ma vostra madre si sente sola. Divertitevi. Ridete e scherzate. Il vostro affezionato Nick Fante
E quando la mamma aveva terminato, lui dava un sorso alla brocca, schioccava le labbra, e aggiungeva: «Mandala via aerea». Arrivai a San Juan a mezzogiorno, con l’aereo da Burbank e con l’autobus da Sacramento. I miei vivevano fuori città, dove l’asfalto finiva e l’ultimo lampione era lontano cento piedi. Camminando per la strada, vidi papà, oltre il vecchio steccato, seduto sotto il fico. La sua tavola per disegnare era appoggiata sopra la botte; e su di essa vi erano matite, righelli, una squadra. I gatti dormivano sull’altalena, uno sull’altro confondendo, nel caldo, le pellicce. Sentendo il cigolio del cancello, papà si girò, con i suoi occhi flemmatici che si strizzavano per vederci meglio attraverso le onde quasi trasparenti di calore. Era la mia prima visita dopo sei mesi. Nonostante la vista indebolita, era gagliardissimo. Aveva delle mani spesse, simili a mattoni, e il collo era cotto dal sole, bello come un tubo di scarico. Quando gli fui a cinquanta piedi di distanza mi riconobbe. Lasciai cadere la mia ventiquattrore e gli tesi la mano. – Ciao, papà. Aveva le mani di Belzebú, dure e callose, con le dita nodose e tronche del muratore. Guardò in basso, verso la mia valigia. – Cosa c’è là dentro? – Camicie e cose del genere. Mi ispezionò con attenzione. – Nuovo, il vestito? – Abbastanza. – Quanto? Glielo dissi. – Troppo. L’emozione stava aumentando dentro di lui. Era felice che io fossi a casa, ma cercava di non darlo a vedere, con il mento che gli tremava. – Senti i peperoni? La mamma li sta friggendo. E dalla veranda giunse un fiume di olezzo di ambrosia, erano dei peperoni verdi freschi che scoppiettavano nell’olio d’oliva dorato, ravvivato dalla fragranza dell’aglio e dal rosmarino balsamico, il
tutto mischiato con il profumo della magnolia e con la verde e intensa ricchezza delle viti nella campagna retrostante. – Che buon odore. Come stai, papà? Si stava rimpiccolendo. Ogni anno un po’, o almeno cosí pareva. Né io né lui eravamo alti, ma ora, nella sua vecchiaia avevo la sensazione di essere piú alto di lui. Anche il giardino era piú piccolo, e mi meravigliai nel guardare il fico. Non si avvicinava nemmeno alla grandezza che immaginavo. – Il piccolo. Come sta il bambino? – Ancora sei settimane, piú o meno. – E la signorina Joyce? – Lui la venerava. Non riusciva a chiamarla solo per nome. – Sta bene. – È alta? – si toccò il torace. – O bassa? – la sua mano scese sull’addome. – Alta. Altissima, papà. – Bene. Significa maschietto. – Non saprei. – Che significa, non saprei? – Non si può mai essere sicuri di queste cose. – Sí che si può, se si fanno le cose giuste. Aggrottò le ciglia, guardandomi fisso negli occhi. – Hai mangiato tante uova come ti ho detto? – Non mi piacciono le uova, papà. Sospirò e scosse la testa. – Ti ricordi che ti avevo detto? Mangia molte uova. Tre, quattro al giorno. Se no, è una bambina –. Fece una smorfia e aggiunse: – Vuoi una bambina? – Un maschio mi piacerebbe, papà. Ma bisogna accettare quello che viene. Ciò lo preoccupò. Andava avanti e indietro sulle foglie di fico. – Non è modo di parlare, questo. Non va bene. – Ma papà… Si girò. – Non mi dire ma. Non mi chiamare papà! Ve l’ho detto e ridetto, a tutti quanti: Jim, Tony, tu. Ho detto: uova. Molte uova. E guardali. Jim: niente. Sposato da due anni. Tony: niente. Sposato da tre anni. E tu. Cosa hai tu? Niente –. Mi si avvicinò, con la sua faccia contro la mia, colpendomi con il suo fiato al chiaretto. – Ti ricordi cosa ti avevo detto delle ostriche? Ora i soldi ce li hai. Ti puoi permettere le ostriche. Ricordavo una cartolina dettata alla mamma e spedita a Joyce e a me durante la nostra luna di miele al Lake Tahoe. Vi era scritto che avrei dovuto mangiare ostriche due volte la settimana per aumentare la fertilità e per concepire figli maschi. Ma non avevo seguito quel consiglio perché le ostriche non mi piacevano. Non avevo nessuna personale animosità verso le ostriche. Era solo che non mi piaceva il loro sapore. – Non vado pazzo per le ostriche, papà. Questo lo colpí. Con il collo piegato e la mandibola spalancata, si gettò contro l’altalena e si asciugò la fronte. I gatti si svegliarono, e sbadigliarono con le loro lingue rosa e affilate. – Santa Madre di Dio! Questa è la fine della stirpe dei Fante. – Penso che sia maschio, papà. – Tu pensi! – Mi maledisse, con un caustico balenio di italiano pirotecnico. Sputò ai miei piedi, disprezzando il mio gabardine e i miei mocassini sportivi. Estrasse un mozzicone di Toscanello dalla
camicia e se lo ficcò fra i denti. Accese, e gettò lontano il fiammifero. – Tu pensi! E chi ti ha chiesto di pensare? Io ti ho detto: ostriche. Uova. Ci sono passato. Sono i consigli dell’esperienza. Cosa hai mangiato – caramelle, gelato? Scrittore! Bah! Puzzi come un appestato. Quello era proprio mio padre. Non si era rimpiccolito, dopo tutto. E il fico era grande come era sempre stato. – Vai da tua madre –. C’era del sarcasmo nel suo tono di voce. – Vai a dirle che bel pezzo di figliolo che ha. Salutare la mamma era sempre l’impresa piú difficile quando si tornava a casa. Mia madre era del tipo di quelle che svengono, specialmente se eravamo stati via per piú di tre mesi. Entro i tre mesi c’era sempre un minimo di controllo della situazione. In quel caso infatti lei pareva solo vacillare pericolosamente e sul punto di cadere, dandoci il tempo di prenderla prima del crollo. L’assenza di un mese non comportava nessun problema. Piangeva solo per qualche momento prima del solito fuoco di domande. Ma quello era stato un intervallo di sei mesi e l’esperienza mi aveva insegnato che non dovevo piombarle addosso. La tecnica era invece di entrare in punta di piedi, abbracciarla da dietro, annunciarsi con calma, e aspettare che le ginocchia le cedessero. Altrimenti avrebbe ansimato: «Oh, grazie a Dio!» e sarebbe crollata sul pavimento come un sasso. Una volta per terra aveva un suo modo di rendere molli tutte le giunture come una massa di mercurio, ed era impossibile sollevarla. Dopo che il figlio ritornato aveva annaspato e mugolato inutilmente, si alzava in piedi con le sue sole forze e immediatamente cominciava a preparare grandi cene. La mamma amava svenire. Lo faceva con grande maestria. Tutto ciò di cui aveva bisogno era un’imbeccata. La mamma amava anche morire. Una volta o due l’anno, in special modo a Natale, arrivavano i telegrammi, annunciando che la mamma stava di nuovo morendo. Ma noi non potevamo rischiare che per una volta fosse vero. Da tutto il lontano ovest ci precipitavamo a San Juan per essere al suo capezzale. Moriva per un paio d’ore, producendo con la gola un frastuono come di casseruole, mostrando il bianco degli occhi, e chiamandoci per nome mentre entrava nella valle delle ombre. Poi improvvisamente si sentiva meglio, si levava dal suo letto di morte, e preparava per cena una enorme quantità di ravioli. Era davanti ai fornelli, e mi dava la schiena, quando entrai in cucina e mi avvicinai in silenzio a lei. A metà strada, avvertí la mia presenza, e si girò lentamente, con un mestolo in mano. Sembrò sopraffatta da un senso di nausea, l’anima che abbandonava il corpo, l’ascensore che precipitava senza piú controllo, il momento di capogiro subito prima della caduta da una grande altezza; i suoi occhi si rovesciarono, il sangue abbandonò il suo viso subito pallido, le sue dita rimasero prive di forza e il mestolo finí per terra. – Johnny! Oh, grazie a Dio! Le corsi accanto e lei mi cadde fra le braccia, con i capelli del colore delle nuvole bianche vicino alla mia spalla e le mani intorno al mio collo. Ma non perse conoscenza. Sembrava avere un attacco di cuore. Me ne accorsi dal suo ansimare roco, dal tremito del suo corpo minuto. Con cautela la misi a sedere accanto al tavolo. Si appoggiò all’indietro, con la bocca aperta, un sorriso coraggioso sulle labbra, il braccio sinistro immoto lungo il fianco, vedevo che cercava di sollevarlo, ma non aveva abbastanza forza. – Acqua. Acqua... per favore. Le portai un bicchiere e glielo avvicinai alle labbra. Lo sorseggiò con fatica, ormai troppo distante, troppo svuotata, ormai a pochi secondi dall’altra sponda. – Il mio braccio… non sento nulla… il mio petto… dolore… il mio bambino… il piccolino… non vivrò abbastanza per vedere… Svenne a faccia all’ingiú sulla tovaglia di incerata a quadretti bianchi e rossi. Io ero quasi certo che
stesse bene, ma quando le girai piano piano la faccia e vidi che le sue guance erano diventate di un cupo viola grigiastro sentii che quella volta mi ero sbagliato, e chiamai papà urlando. – Chiama un dottore! Presto. Ciò le restituí forza. Lentamente sollevò la testa. – Sto meglio. È stato solo un piccolo attacco. Adesso era il mio turno di mostrare debolezza, mi sentivo sollevato, improvvisamente esausto. Mi gettai in una poltrona e cercai di sbrogliarmi le dita mentre a tastoni cercavo da fumare. Entrò papà. – Che succede? Mia madre sorrideva con coraggio. Era cosí contenta di vedermi angosciato. Ora non aveva piú dubbi sul mio amore. Si sentí di nuovo forte. – Non è nulla. Proprio nulla. Era felicissima. Faceva le fusa. Si alzò e venne dove ero seduto, mi prese la testa fra le braccia e carezzò i miei capelli. – È stanco per il viaggio. Portagli un bicchiere di vino. Papà e io capimmo. Delle bestemmie tuonarono nella sua gola, a stento udibili, mentre apriva il frigorifero e ne estraeva una caraffa di vino. Prese un bicchiere dalla credenza e lo riempí. La mamma guardava sorridendo. Lui la guardò, furioso. – E tu piantala. I verdi occhi della mamma si spalancarono. – Io? – Piantala con questa storia. Bevvi il vino. Era buono, venuto dalla terra calda di quelle pianure, delicatamente rinfrescato dal ghiaccio. La mamma era contenta di avermi in cucina. Vedevo che la sua colonna vertebrale si raddrizzava, che le spalle le si sollevavano. Mi prese il bicchiere di vino dalla mano e lo vuotò. Poi mi guardò attentamente. – Che bella camicia. Te la lavo e te la stiro prima che tu vada via. Mangiammo peperoni con formaggio di capra, mele salate, pane e vino. La lingua della mamma frullava senza tregua, una tarma finalmente libera. Normalmente papà l’avrebbe fatta tacere, ma suo figlio era a casa, e quello era un motivo per allentare le regole. Altrimenti dopo poco il suo chiacchiericcio lo avrebbe esasperato, e lei sarebbe ricaduta nel suo bozzolo di rispettoso silenzio. Noi mangiavamo, la mamma parlava e si aggirava per la cucina, riempiendo la stanza con frammenti di pensiero. Un ventilatore elettrico ronzava sul frigorifero, girandosi verso destra, verso sinistra e daccapo un’altra volta. Sembrava seguisse la mamma per la stanza, come un volto che la fissava attonito. La mamma diceva: L’inverno è stato freddo e umido. Le bambine di Stella erano bellissime. C’erano tarme nell’armadio dei vestiti. Aveva sognato sua sorella morta Katie. Il prezzo del mangime per i polli era troppo alto. Mio fratello Jim quando era piccolo piccolo mangiava la terra. Alle volte aveva dei dolori lancinanti alle gambe. Portava sfortuna lavare i pannolini al chiaro di luna. Quando si perdeva qualcosa, bisognava pregare sant’Antonio. I gatti stavano uccidendo i corvi. La pancetta non doveva essere tenuta in ghiaccio. Aveva paura dei serpenti. Il tetto perdeva. C’era un nuovo postino. Sua madre era morta di avvelenamento da cancrena. Il ghiaccio faceva male allo stomaco. Le donne incinte non dovevano guardare le rane né le lucertole. L’amore era piú importante dei soldi. Si sentiva sola. Mi appoggiò le mani sulle spalle.
– Se solo tu scrivessi una volta alla settimana… Per mezz’ora aveva parlato senza sosta. Era un placido ronzio che noi potevamo comprendere ma che volevamo ignorare. Papà e io finimmo i peperoni. Mi riempí il bicchiere. Poi la mamma disse: – Hai piantato il seme del tuo bambino in questa casa. Proprio in questa casa. Era l’otto agosto, l’anno scorso, fu in quella notte. Furono le prime parole che andarono a segno. Smisi di mangiare e la guardai. Poi mi tornò in mente. Joyce e io eravamo stati davvero a San Juan lo scorso agosto. Avevamo dormito in tinello, sulla branda. Ricordavo molto bene quella notte. Era una branda che cigolava molto e avevamo deciso di lasciar perdere. Quella notte non c’era stato nessun concepimento. La mamma si sbagliava di grosso. – No, non si sbaglia, – disse papà. – Come fai a esserne cosí sicuro? La mamma sorrise. – Perché ho cosparso di sale il vostro letto. Anche papà sorrise. – Giusto. Sale nel letto. Ho dato io l’ordine. Era davvero seccante. Erano troppo compiaciuti, si davano il merito di ogni cosa. Gli dissi che non ricordavo il sale nel letto. E ciò fece divertire la mamma. – Certo che no. L’avevo messo sotto le lenzuola. Papà ridacchiò. – Cosí avremo un maschio. – Sale, – dissi. – Che sciocchezze! – Sciocco un bel niente, – disse papà. – Come pensi di essere nato, tu? – Nel solito modo. – Ti sbagli, di nuovo. Sale nel letto. Ce l’ho messo io. Spinsi in avanti il bicchiere, perché venisse riempito di nuovo. – Superstizioni. Ignoranza. – Non darmi dell’ignorante. Sono tuo padre. – Non ho detto che sei ignorante. – Voglio che tu rispetti tuo padre. Questa è casa di tuo padre. Qui il capo sono io. Era rosso in faccia dall’indignazione, riempí il bicchiere con le mani tremanti, versando un po’ di vino sulla tavola. Rovesciare il vino portava male. E la sfortuna veniva scacciata facendo il segno della croce con il vino caduto. Lo fece la mamma. – Tuo padre ha ragione, – disse, per placarci. Non avevamo aglio in casa quella sera, quindi papà usò il sale. – È stata una sua idea. – Aglio? – Fissai i grandi occhi verdi della mamma. – Perché aglio? – Da mettere nel buco della serratura. – E fa venire i bambini? – Non bambini e basta – bambini maschi. Ciò mi raggelò. Provocò una smorfia di trionfo da parte di papà. – Senti chi dice al padre che è ignorante! Non sa nulla, lui. Inghiottii il vino, in silenzio. – Lo stesso è stato con Tony e Jim, – disse la mamma. – Aglio nel buco della serratura quando sono stati concepiti? – Tutte e due le volte, – disse papà. – E Stella? Ma già sapevo la sua risposta:
– Niente aglio, niente sale, nulla. Avrebbe ribattuto, quindi mantenni il silenzio. Riempí nuovamente il mio bicchiere. – Sono arrivato solo fino in terza, – rifletté. – Ma tu – tu dovresti sapere tante cose, il liceo, due anni di università, invece sei ancora un ragazzino. Hai molto da imparare. Ma io non ero cosí ignorante come pensava lui. Avevo imparato molto in famiglia, sin dall’infanzia, tutti quegli insegnamenti impagabili che venivano da generazioni di progenitori abruzzesi. Ma trovavo che molte di quelle conoscenze erano di difficile applicazione. Per esempio, avevo saputo per anni che il modo di evitare le streghe era quello di indossare uno scialle a frange, perché cosí la strega che attaccava si sarebbe distratta a contarle e non avrebbe piú colpito. Sapevo anche che la pipí di mucca era semplicemente fantastica per far crescere i capelli sulle teste calve, ma fino a quel momento non avevo avuto modo di verificare quell’informazione. Sapevo, ovviamente, che il rimedio per il morbillo era una sciarpa rossa, e la cura per il mal di gola era una sciarpa nera. Da bambino, ogni volta che avevo la febbre, mia nonna mi legava sempre un pezzo di limone al polso; ogni volta abbassava la temperatura. Sapevo anche che il malocchio faceva venire il mal di testa, e mia nonna mi mandava sempre fuori a piantare un coltello in terra quando pioveva, per allontanare il fulmine dalla nostra casa. Sapevo che se si dormiva con le finestre aperte, tutte le streghe del circondario sarebbero entrate in casa, ma se si doveva proprio dormire all’aria fresca, un po’ di pepe nero sparso sul davanzale le avrebbe fatte starnutire e le avrebbe mandate via. Sapevo anche che per evitare il contagio quando si andava a trovare un amico malato bisognava sputare sulla sua porta. Tutte queste cose, e molte altre, le avevo sapute per anni, e mai dimenticate. Ma si impara vivendo, e il trattamento aglio e sale per il talamo nuziale era ancora qualcosa di nuovo. Mio padre probabilmente aveva ragione: dopo tutto non ero cosí furbo. Avevo ancora forti dubbi però sull’inizio della gravidanza di Joyce quello scorso agosto sulla branda della mamma. Il pranzo era finito. Papà scansò la sedia. – Prendi il cappello. Il cappello io non lo portavo mai. Voleva solo dire che dovevo seguirlo. Scendemmo i gradini della veranda e andammo sulla strada. Lui frugò nella cassetta della posta, ne estrasse un mozzicone di sigaro, e accese. Il fumo restava cosí fermo nell’aria immobile che lui dovette disperderlo con la mano. Il calore riempiva il cielo immenso, blu, vasto e infinito. Verso est i monti della Sierra Nevada alzavano le loro teste orgogliose, ancora coperte dalle nevi dello scorso inverno. La strada davanti alla casa era deserta. Dieci anni prima San Juan era stata una città piena di movimento, era la sede di stabilimenti per l’inscatolamento, ed era rinomata per le sue uve. Prima l’autostrada passava attraverso il centro commerciale, ma poi era venuta la guerra e aveva cambiato percorso, passando a fianco della città, la quale lentamente cominciò a morire. L’autostrada era al di là dei campi di pesche e di luppolo, i turisti ci passavano accanto senza sapere che oltre i frutteti c’era una comunità di seimila persone. – Dove stiamo andando? Senza rispondere lui si avviò per la strada. Oltrepassammo tre casette e poi non vi furono piú abitazioni, c’era solo l’asfalto malridotto con le erbacce che uscivano dalle crepe e i vigneti che si aprivano a ventaglio a nord e a sud su entrambi i lati della strada, erano migliaia di acri di moscato e tocai, un mare di silenzio verde. – Dove stiamo andando? Lui accelerò appena il passo, fino a quando arrivammo a un punto dove la strada faceva una curva e
scendeva. Era la terra di Joe Muto. Riconobbi le cime dei pali delle sue recinzioni segnate di bianco. Era il limite della vigna di Muto – non coltivata, ricoperta da una crescita confusa di querce stentate, euforbia, con i resti di quello che una volta era stata una limonaia. Là tutto cresceva selvaggiamente, erano tre o quattro acri dove, per un motivo o per un altro, Joe Muto non aveva piantato le viti. Mio padre si fermò davanti a quella massa di confusione verde e la indicò agitando il sigaro. – Eccola. Avanzò arrancando attraverso le erbacce e io lo seguii. Proprio a metà dell’appezzamento, su un promontorio da cui si poteva vedere l’intera zona, si arrestò e aprí le braccia. – Eccola. Ecco il mio sogno. Si chinò per strappare una mandata di papaveri selvatici. Vennero interamente fuori, con la terra nera e tenace attaccata alle radici. Lui le strinse nel pugno, e la terra calda, nera e bagnata prese la forma della sua mano. – Qui cresce tutto. Piantaci un manico di scopa, e crescerà anche quello. Capii quello che voleva dire. – Vorresti che fosse tuo, papà? Vuoi comprarlo? – Non per me –. Sorrise e dette un calcio alla terra. – È per il bambino. Vivrà qui. Proprio qui –. Dette un altro calcio alla terra. – Ecco quello che sogno. Tu, la signorina Joyce e il bambino. Io e la mamma piú giú sulla strada. Un gran posto. Quattro acri. Per te. Per i tuoi bambini. – Ma papà… – Niente ma. Sono tuo padre. Tutte quelle schifezze che scrivi. Hai denaro? – Qualche dollaro, papà. – Hai duemila dollari? – Sí. – Comprala. Ho parlato con Joe Muto. È paesano mio. Non la venderà a nessun altro se non a me. Cosa potevo dire a quell’uomo – mio padre? Che potevo dire a quella faccia rovinata dal lavoro, indurita dagli anni, ora ammorbidita dal sogno che camminando toccava con i suoi piedi? C’era il cielo blu e i vecchi alberi di limone, e le erbacce che mormoravano sfiorando le sue gambe come un antico amore; ed erano già lí, i suoi nipoti, che respiravano quell’aria, si rotolavano nell’erba, con le ossa nutrite da quella terra che era il suo sogno. Cosa potevo dire a quell’uomo? Potevo dirgli che avevo comprato una casa in quella perversione caotica che si chiamava Los Angeles, vicino al Wilshire Boulevard, un appezzamento di terra cinquanta per centocinquanta, brulicante di termiti? Se gliel’avessi detto, il suolo mi avrebbe inghiottito, e il cielo mi avrebbe annientato. – Fammici pensare, papà. Vedrò cosa posso fare. – Ora ti faccio vedere un’altra cosa. Lo seguii di nuovo sulla strada, chiedendomi come avrei dovuto dargli la notizia… Perché bisognava dirgli della casa a Los Angeles. Avrebbe dovuto essere stato messo al corrente già da molto tempo. Eppure non c’era stata alcuna volontà di nascondergli la cosa. Mi ero semplicemente dimenticato di informarlo, niente di piú e niente di meno. Tornammo verso casa e avvertii la sua gioia. Si accese un sigaro nuovo di zecca e mi portò alla tavola da disegno appoggiata sulla botte posta sotto il fico. C’era il progetto della casa che voleva costruire su quegli acri. Era un progetto meraviglioso. Era una casa di pietra, e le pietre si potevano prendere in un campo non molto lontano. C’erano tre camini, uno in cucina, uno in salotto, e uno fuori. Era un rancho fatto a elle, di un piano, con il tetto di tegole.
– Durerà mille anni, – disse lui. – Questi sono muri da dodici pollici, pieni di sbarre di acciaio. – Bello, papà. – La costruirò gratis. Tu mi aiuterai. Ho la pensione. Non voglio altro. – Sí. Va bene. Sí, sí e sí. Fino a quando non ebbe finito di spiegare l’ultima pietra e architrave, fino a quando non fu molto felice, succhiando il sigaro e bevendo vino. Poi la frescura del pomeriggio arrivò dai verdi mari di vite, e lui fu sazio di tanto parlare. Arrotolò i disegni, spense il sigaro, mise il mozzicone nella corteccia del fico, e si distese sul dondolo. Una pace grande e meravigliosa brillava sul suo volto. Non c’era un uomo piú felice di lui sulla terra. Chiuse gli occhi e si addormentò. Se fosse morto in quel momento, sarebbe andato dritto in paradiso. Una cosa sulla mamma: niente che possa accadere la allarma. Se fossi entrato in cucina e le avessi detto che avevo appena tagliato la gola a papà, mi avrebbe risposto: – Male – e lui dov’è? La trovai al tavolo, che sgusciava i piselli. È cosí facile parlare alla propria madre; capisce anche le cose che non capisce. Seduto là, le spiegai tutta la situazione circa la casa di Los Angeles. Nessuna recriminazione; non sospirò, non fece schioccare la lingua, né mi fece una ramanzina su come avrei dovuto comportarmi. Sgusciava i piselli e ascoltava in silenzio mentre le dicevo il motivo per cui ero venuto a San Juan, e perché, nelle attuali circostanze, avevo paura di dire a papà che ero già padrone di una casa. – Glielo dico io. Non ti preoccupare. Ma non volevo essere in zona quando glielo avrebbe detto. – Vado a fare una passeggiata in città. – Non ti preoccupare. Mi alzai per andarmene. Mi fermò. C’era qualcosa che le dava pensiero. – Tu e Joyce. Dormite come gli americani? – Voleva dire, dormivamo separati? – Ora che è incinta, dormiamo come gli americani. – Che vergogna. Il bambino non ti riconoscerà. – Ci conosceremo dopo che sarà nato. – Dormite all’italiana. Che ne puoi sapere tu di bambini. È solitario laggiú nel ventre. E lui è là, tutto solo. Ha bisogno di suo padre. Non volevo discutere la faccenda con mia madre. – Torno alle sette. Tu di’ tutto a papà appena si sveglia. Eravamo a cinque isolati di distanza dal centro. Camminavo per le strade che mi erano familiari, ombreggiate dagli olmi, e attraverso i terreni vuoti che avevo percorso da quando avevo quattordici anni. Quello era l’anno in cui ci eravamo trasferiti a San Juan, scappati dalla neve del Colorado e dai tempi duri. Incontrai tanta gente che avevo conosciuto molto tempo prima, e tutti sapevano del bambino. Mio padre nelle ultime settimane era stato dappertutto, ad annunciare la notizia. Dalle verande mi gridavano tanti auguri, mi domandavano di Joyce, perché lei era nata a San Juan, e i suoi genitori erano seppelliti nel cimitero locale. La gente mi fermava per la strada, mi stringeva la mano, mi diceva battute sdolcinate, e se ne andava ridendo. La paternità era una questione fondamentale a San Juan. Avvertivo un raro senso di importanza. Anche a Los Angeles si preoccupavano, non tanto però per la donna e per il bambino, quanto che potessi poi pagare il conto dell’ospedale. I nostri amici furono piú scioccati che compiaciuti quando seppero che Joyce era incinta. Bighellonai per due ore. Bevvi della birra al Tuscany Club, e giocai a biliardo con Reed Walker al Sylvan Oaks. Reed era il direttore delle poste; era stato il bello del liceo di Joyce. Nemmeno una delle
persone che incontrai quel pomeriggio era all’oscuro dell’arrivo del bambino, nemmeno Lou Sing, che abitava in uno degli edifici di mattoni un po’ cadenti che formavano la Chinatown di San Juan. Ci sedemmo davanti all’erboristeria di Lou e giocammo a scacchi, mentre i suoi molti figli urlavano e si divertivano per la strada. Alle sette non era ancora buio. Le luci del padiglione del San Juan eater si accesero. Improvvisamente fui permeato dallo spirito di Joyce, e mi sentii solo senza di lei. Era stata la città a suggestionarmi, il sapere che aveva giocato in quelle stesse strade da bambina, e fui pieno di un desiderio improvviso e oscuro. Andai a una stazione di servizio e la chiamai. Le dissi che la mia missione era stata un fallimento, che sarei tornato a casa il piú presto possibile. Mi domandò della città, di che aspetto aveva. – Ti ricordi l’albero del pepe della mamma nel giardino dietro la casa? – mi domandò. – È ancora lí? L’hanno tagliato? – Le dissi che sarei andato a vedere. – La mia prima bambola è seppellita sotto quell’albero. È morta per delle ferite da coltello – è stata scalpata dagli indiani. – Una morte orribile. – Aveva la testa tutta rotta. Era stato il cane. Ho pianto moltissimo. Riattaccai e andai su Lincoln Street proprio dove Joyce aveva vissuto da bambina. La casa era stata buttata giú anni prima, e la città ora usava quel terreno come parcheggio per i bulldozer, le ruspe e l’attrezzatura per riparare le strade. L’albero del pepe era sempre lí. Mi fermai sotto di esso, ne toccai il tronco. Mia moglie mi mancava moltissimo. C’erano delle formiche che avanzavano sulla corteccia. Ne presi due piccole, me le misi in bocca, le masticai e le ingoiai. Poi tornai a casa da mia madre. Papà non c’era. La tavola in cucina era apparecchiata – con i piatti per noi tre. Seduta alla finestra, la mamma recitava il rosario. Il crepuscolo oscurava la stanza. Lei sorrise senza parlare, facendo intendere che aveva parlato con papà. Aspettai che finisse. La cena era in caldo sulla cucina: fegato e pancetta, piselli cotti con le cipolle, spinaci e formaggio. Assaggiai tutto, bevvi un bicchiere di vino, e aspettai. Lei recitò l’ultima preghiera, baciò la croce, e ripose il rosario nella tasca del suo grembiule. – Cosa ha detto? – Niente. Nemmeno una parola. È solo uscito. – Dov’è? Alzò gli occhi e scosse la testa. Papà era in città, a bere per dimenticare i suoi guai. – Non gli dò nessuna colpa, mamma. – Ha preso dieci dollari. – Che differenza fa? – Berrà del brandy. Li spenderà tutti. – Bene. Peggio per lui. – Oh, non sono preoccupata. Ho detto il rosario. Starà bene. Ma spenderà dieci dollari. Tirai fuori il portafoglio e le detti cinque biglietti nuovi da venti dollari. – Non posso accettarli, – disse. – Ne avrai bisogno per il bambino –. Poi ripiegò i soldi e li infilò nella camicia. – Non dovrei proprio tenerli. Non so cosa mi sia preso –. Io sapevo bene, ovviamente, cosa sarebbe capitato a quei cento dollari. Il momento stesso che me ne fossi andato lei li avrebbe spediti per posta aerea a mio fratello Jim, che attraversava un periodo difficile a Susanville. Mi serví la cena. Eravamo soli, ero tutto per lei, e mi preparai, sentivo che sarebbe successo. Infatti cominciò a muoversi, quelle mosse delle madri dalle quali non ci si può difendere. Si mise dietro di me e
mi toccò i capelli. Mi carezzò le orecchie. Appoggiò le braccia sulle mie spalle, strusciandomi il torace con i palmi delle mani. Io continuavo a toccare gli oggetti sul tavolo, districandomi da ogni sua nuova presa. Alla fine afferrò la mia mano sinistra e cominciò a esplorarne le dita. Provai piano piano a tirarla via, ma lei non la lasciava, e baciava ogni dito. Provai pietà per lei, per tutte le donne con la loro grande e struggente passione materna. Poi trovò un piccolo segno sul collo dove un gatto mi aveva graffiato quando ero bambino, e ciò fece emergere un nuovo aspetto della sua solitudine; corse alla cassapanca in camera da letto, e io capii quello che sarebbe accaduto. Portò infatti una mia fotografia di quando avevo sei mesi, con gli occhi spalancati e nudo su un piedistallo di velluto. Saltai su. – Per piacere, mamma. Per l’amor di Dio, quello no. Lei ripose la fotografia e si mise a sparecchiare. Io bevvi del vino, guardai l’orologio sulla cucina e iniziai a leggere il «Sacramento Bee». La mamma prese lo scolapasta pieno di avanzi e si diresse nel pollaio. Tornò subito con tre uova. Ne scelse uno e me lo portò a tavola. – Senti. È caldo, è della chioccia. Non avevo voglia di sentirlo. Caldo o freddo, non volevo averci niente a che fare. – Senti com’è piacevole e caldo. Non lo feci. Mi limitai a fissarlo. Anche l’uovo mi fissava di rimando come un occhio bianco e ovale, malinconico, stupido. – Ti fanno bene. Mangiane tante. – Portalo via. Mettilo da qualche altra parte. Il tempo passava. Guardai l’orologio e mi misi in ascolto per sentire se ci fossero dei passi in giardino. Era bello rivedere i miei, ma ora volevo andarmene. Per quanto avessi la prenotazione per il volo dell’indomani, e un biglietto per papà, presi in considerazione la possibilità di andarmene quella sera stessa. Avevo reso papà infelice. Meglio andarsene e lasciare che la distanza lo ritirasse su. Quel pomeriggio la mamma aveva disfatto la mia valigia. Stava cominciando un’altra ispezione di quello che conteneva. Voleva sapere il prezzo di ogni cosa. Avevo portato un altro paio di pantaloni. Li tolse dall’armadio e li appoggiò sul tavolo. Ne esaminò i risvolti, il cavallo, la cerniera. C’era una macchia di cibo sul davanti. La scoprí e proruppe in un’esclamazione. – E questo cosa sarebbe? – Non ti preoccupare, mamma. Mettili via. Distese i pantaloni sul tavolo e fece una gran scena. Prese uno straccetto, del sapone e dell’acqua e cominciò a sfregare in quel punto. – Mi domando cosa sia. – Per piacere, mamma. Lascia stare. – Non se ne vuole andare. Continuò a fare tentativi. Saltai su dalla sedia e le levai i pantaloni di mano. – Li manderò in tintoria. – Costa denaro. – Non mi importa. – Ma Joyce non si occupa dei tuoi vestiti? – Certo che sí. – Mandarli in tintoria – ecco come fanno gli americani. Uscii sulla veranda e mi sedetti al chiaro di luna. Le stelle galleggiavano basse e fredde. A trenta miglia verso est brillavano le nevi della Sierra, come stelle anche loro, distanti e solitarie. Un aereo attraversò il cielo, con le luci verdi e rosse che si accendevano e si spegnevano. Mi mancava mia moglie, ed ero preoccupato per mio padre. Erano le dieci. C’era un volo a mezzanotte da Sacramento che andava al Sud.
Mi decisi: avrei trovato papà, lo avrei riportato a casa, e avrei preso quell’aereo. Poi sferragliando arrivò una macchina con le luci fioche. Era il vecchio Ford di Joe Muto. Joe era al volante. Si fermò davanti casa. Andai al cancello e ci salutammo. – Stai cercando tuo padre? – disse. – Lo hai visto? – È sul mio terreno. Ora. Credo che abbia bevuto troppo. Salii sul camioncino e lui fece inversione. Avanzammo a balzi sulla strada piena di buche che avevo percorso quel pomeriggio con mio padre. – L’ho sentito, – disse Joe. – Sta abbastanza male. Scendemmo giú per la collinetta dove la strada curvava a sinistra fino a quando arrivammo alla zona di terra non coltivata. Joe fermò il camioncino e io saltai giú. Era tutto illuminato dal chiaro di luna. Una comunità di rane e di grilli riempiva l’aria con i richiami per l’accoppiamento. Poi vidi mio padre. Era seduto sotto uno dei vecchi limoni, con una bottiglia in mano. Se anche mi vide, non mi prestò attenzione. Joe Muto rimase in macchina e io avanzai attraverso le erbacce fruscianti. Mio padre stava parlando da solo. – Non ti preoccupare per tuo nonno. Non è cosí vecchio come credono loro. Avrai la tua casetta, figliolo. Tuo nonno non è ancora morto. Tutti cercano di uccidere un vecchio, ma tuo nonno non è ancora finito. Strinsi i denti per ricacciare il dolore. – Papà. Mi vide davanti a lui e appoggiò la bottiglia da un lato, fra le erbacce. Poi voltò la testa verso l’albero e pianse abbandonandosi all’amarezza. Non riuscivo ad andargli vicino. Joe chiamò dal camioncino, domandando se andava tutto bene. Io arrancai attraverso le erbacce, tornando sulla strada. – Sta bene. Lo porterò a casa. – Hai litigato con il tuo vecchio? – Vai pure. Nessuna lite. Grazie. Se ne andò. Mi sedetti sul bordo della strada ad aspettare, e mi accesi una sigaretta. Ero lí, impotente. Dopo circa venti minuti mio padre arrivò avanzando a fatica attraverso l’erba alta. Sapeva che ero lí. Non fu sorpreso di vedermi. – Andiamo a casa, – disse. Era sobrio, sospirava profondamente a ogni passo. Camminammo in silenzio l’uno accanto all’altro. La notte era calda e dolce. Verso nord riluceva l’immensa cupola dorata del Campidoglio. Era avvolta in un alone rosso ed emergeva dalle luci della città. – Come ti senti, papà? – Io? Ci sono abituato. Un giorno sarai vecchio, e avrai dei figli – fra trentacinque, quaranta anni. Ricorda quello che tuo padre ti ha detto stanotte: ti feriscono sempre. – Che cosa tremenda. Per un po’ non disse altro. Ci avvicinavamo alla casa. C’era la luce accesa, nella veranda. Vedevamo la mamma, con uno scialle appoggiato sulle spalle, che veniva a cercarci. – Cosa stanno facendo le termiti a casa tua? – disse papà. – Beh – quello che fanno le termiti. – Ma non hai fatto ispezionare la casa prima di comprarla? Gli raccontai tutto: – Potresti venire, papà? Ci aiuteresti. Ho comprato un biglietto d’aereo anche per te. – Niente aereo per me. Nossignore.
– Verrai, papà? Prenderemo il treno. – Treno, sí. Aereo, no. – Bene, papà. Ottimo. Sarebbe quindi venuto a riparare la mia casa. Volevo che venisse anche la mamma, ma lei decretò che doveva rimanere a casa per badare ai gatti e ai polli. Era contentissima, perché il treno la riempiva di terrore. L’aveva preso solo una volta in vita sua. Era l’estate del 1912, per una gita di 35 miglia durante la luna di miele, da Denver a Colorado Springs. La nostra famiglia non raggiunse la California in treno. Caricammo tutto quello che fu possibile sul furgone di papà e vagammo per la statale 40 fino a quando arrivammo a San Juan. Mio padre, comunque, era un esperto viaggiatore ferroviario. Aveva fatto la sua esperienza nel 1910, da New York al Colorado, effettuando la traversata in un vagone. E non era stato il suo ultimo viaggio con quel mezzo. Tre anni dopo, da solo, si era imbarcato su un treno a scartamento ridotto da Denver a Boulder, coprendo una distanza di trenta miglia. Successivamente, aveva fatto la gita in luna di miele a Colorado Springs con la mamma. Con una tale esperienza alle spalle, dava mostra di una ammirevole confidenza con la ferrovia. Ora frequentemente – due o tre volte l’anno – saltava su un locale di Sacramento per andare alla capitale dello stato e ritorno. I treni non rappresentavano alcuna fonte d’ansia per quell’uomo. Il treno per Los Angeles – il West Coaster – partiva da Sacramento alle sei di sera. A colazione decidemmo di prendere quello successivo. Chiesi in prestito la macchina a mio cognato e andai in città per organizzare tutto. Cancellai le prenotazioni dell’aereo e presi dei posti sul West Coaster di quella sera. Il treno era quasi tutto occupato, ma riuscii a trovare delle cuccette per noi sulla carrozza di prima classe. Volevo che il mio vecchio viaggiasse comodo, e mi accertai che gli dessero una cuccetta in basso. Un’ora prima della partenza del treno ero di nuovo a San Juan. C’erano Stella con le bambine e Steve, suo marito. Papà era vestito e pronto per andare. Indossava uno strano assortimento di cose: una tuta blu con la pettorina, una camicia nera con la cravatta bianca, e una giacca a doppio petto marrone. Riconobbi la giacca come una parte del vestito che gli avevo regalato un anno prima. In realtà, aveva un guardaroba ben fornito di vestiti e di giacche dei suoi figli, perché avevamo tutti la sua stessa taglia. Aveva di sicuro almeno quattro o cinque completi, ognuno dei quali sarebbe andato bene per il viaggio. – Perché la tuta? – domandai. Si guardò. – Che c’è che non va? – Non hai anche i pantaloni di quella giacca? – Non mi piacciono. Era seduto al tavolo di cucina, con il viso rasato e incipriato, i capelli con la scriminatura ben segnata. Il suo collo taurino sotto la camicia nera sembrava gonfio a causa della cravatta bianca che stringeva. Eppure aveva quell’aspetto distinto che ha un uomo sul punto di intraprendere un lungo viaggio. Stella disse: – È testardo. Non vuole essere in ordine e pulito. – Io sono pulito. Quello che ho addosso è pulito e appena lavato. – Ma la tuta! Sul treno. – Ho viaggiato in treno da prima che tu nascessi. Quindi a tuo padre non gli puoi insegnare niente sui treni. – Non c’è bisogno di andare in giro sembrando un vecchio muratore. – Che c’è di male a posare mattoni?
– E quel vestito grigio? – suggerii. – Potrebbe essere piú fresco sul treno. Si alzò in piedi con la faccia rossa e arrabbiata. – Vuoi che venga? Vuoi che ti aiuti con la casa? Quello era esattamente il mio desiderio. – Allora non dirmi quello che devo mettermi addosso. Non sei cosí furbo, non te lo dimenticare. Comprare una casa con le termiti! Ciò pose fine alla questione. Non volevo certo perderlo. Il suo bagaglio fu appoggiato accanto alla porta, c’erano due valigie di finta pelle macchiate di vernice legate con un filo da bucato, e una sacca di stoffa con gli attrezzi. Nel frattempo la mamma si era tenuta al di fuori dalla discussione, intenta a mettere alcune cose in uno scatolone di cartone che una volta aveva contenuto del latte condensato. Andai a vedere cosa stava facendo. Stava preparando le provviste che avrei dovuto portare a Los Angeles con me. Lo scatolone conteneva quattro conserve di pomodoro fatte in casa, ognuna di un quarto di gallone, e altrettanta di confettura di fichi. C’era anche del formaggio di capra e una torta al cioccolato appena sfornata. – A Los Angeles non fanno buone torte, – disse. Non riuscii a capire come avesse avuto quella informazione, ma non replicai. Poi mi mostrò un mazzetto di basilico dolce appena colto dall’orto, legato con un nastro rosso dal quale pendevano due medaglie di piombo della Beata Vergine Maria. – È per far nascere vivo tuo figlio. Ogni notte, appendilo ai piedi del vostro letto. Dissi che l’avrei fatto. Papà venne avanti con un rotolo di filo da bucato e cominciò a legare lo scatolone. La mamma mi condusse all’acquaio per una chiacchieratina confidenziale. Aprí un cassetto pieno di spezie e ne estrasse uno spicchio d’aglio. Con l’unghia lo sbucciò nudo e bianco. Poi lo baciò e lo infilò nel taschino della mia giacca. – Tienine sempre un po’ in tasca, giorno e notte. Non stare mai senza. – Lo so. Fa venire i maschi. Lei sorrise con condiscendenza, unendo le mani. – Per me – non me ne importa. Maschio o femmina, è sempre mio nipote. Lo amerò comunque. Ma tuo padre vuole un maschio. È per far piacere a lui, l’aglio. L’acuto effluvio che ne proveniva mi accoltellò le narici, e capii che appena possibile avrei dovuto liberarmene, altrimenti tutti i miei vestiti ne sarebbero rimasti intrisi. Era tempo di andare via. Steve e papà portarono il bagaglio in macchina. Sentii distintamente il gorgoglio delle bottiglie di vino in una delle valigie. La mamma non mi vide mentre mi levavo l’aglio dalla tasca e lo buttavo nella siepe della vite. Venne alla macchina con me. A causa delle bambine, lei e Stella non ci avrebbero accompagnato. Papà baciò le due bambine, la mamma, poi pianse un po’, dicendole di non scordare di aggiungere una manciatina di prezzemolo nel cibo dei gatti quando faceva caldo. La mamma si stava comportando in maniera coraggiosa e lottò per non svenire quando ci abbracciammo e ci baciammo per salutarci. Steve voltò la macchina, suonando il clacson mentre facevamo cenni con le mani, e allora la mamma svenne. Andò giú con grazia sulla strada accanto allo steccato quando la macchina si allontanò. Stella era vicino a lei, non sembrava particolarmente scossa, e rispondeva ai nostri cenni, mentre la mamma pareva aver perso conoscenza del tutto, con la testa sul petto, la mano che lottava per salutarci, poi finalmente si accasciò nella polvere. Avremmo dovuto fermarci per rianimarla, ma non c’era tempo, e papà era impaziente di ristabilire un contatto con il treno. – Sta benone. Andiamo. Svoltammo la curva, le gomme producevano un ronzio costante sulla bella autostrada verso
Sacramento. Tirai un sospiro di sollievo e cercai a tastoni una sigaretta. La mia mano finí su qualcosa di caldo e appiccicoso nella tasca. Tirai fuori uno spicchio d’aglio. Era lí sulla mia mano, nudo, bianco e feroce. Lo avrei buttato via, ma anche papà lo stava guardando. – Bene, – disse. – Cosí sí che mi piaci. Anch’io ho il mio. Estrasse un portamonete con molti scomparti. In uno di questi c’era uno spicchio d’aglio. Anche mio cognato lo vide. – Non funziona, – disse Steve. – Stella e io l’abbiamo provato – due volte.
Tre
Era il mio primo viaggio in treno con papà, e fu un incubo. Dal momento in cui dicemmo addio a Steve ed entrammo nella stazione, fu un susseguirsi di difficoltà. Avevamo cinque colli: la sacca degli attrezzi di papà, le sue due valigie di pessima qualità, lo scatolone legato con lo spago che conteneva le conserve fatte in casa, e la mia ventiquattrore. La sacca degli attrezzi, da sola, pesava cinquanta libbre, perché era piena di scalpelli, di martelli e di altri grossi pezzi di acciaio che si usavano nel mestiere. Tre facchini ci videro lottare sotto quell’equipaggiamento e corsero da noi per darci una mano. Io gli mostrai i nostri biglietti e uno di loro cominciò a riempire una ricevuta. Papà era attonito. – Che succede? Cosa vogliono? – Ci portano questa roba al nostro vagone. – E bisogna pagare? Quanto? Cinquanta cent sembrava ragionevole. – Sei matto? Lo faccio da solo, gratis. – Ascolta, papà. Si fa cosí. Il treno è a miglia di distanza. Non si rassegnava. Ordinò al facchino di andarsene. – In quella nera ci sono due bottiglioni di vino. Li potrebbe rompere. – Ci farò molta attenzione, signore, – disse il facchino. – Niente da fare. – Per favore, papà. Almeno fagli portare la sacca degli attrezzi. – C’è una cazzuola là dentro, ha quarant’anni. Quegli attrezzi costano duecento dollari. – Come vuole, signore, – sorrise il facchino. Lo ringraziai. – Ci arrangeremo, – dissi. – Tenga. Gli tirai un quarto di dollaro. Lui lo prese al volo, sorrise e si allontanò. Papà sbatteva gli occhi, incredulo. – Gli hai dato dei soldi? E perché? – Si deve pur mangiare. Allora rincorse il facchino, urlandogli di tornare sui suoi passi, ehi, tu, torna indietro. Il facchino obbedí, sorpreso e sorridente. Papà indicò le valigie. – Portale – tutte meno che questa –. Scosse una delle valigie legate, sentí la risata gorgogliante del vino imbottigliato, e sembrò soddisfatto. Il facchino riempí le ricevute per gli altri colli e li caricò nel carrello. Papà rimase a controllare l’operazione. – Non perdere quegli attrezzi. Là dentro c’è una livella che mi è costata venti dollari. – Starò molto attento, signore. Papà rimase dubbioso. – Quando sono arrivato da New York ho avuto dei problemi con quei tipi. Attraversammo il sottopassaggio e seguimmo la corrente formata dagli altri passeggeri che scorreva verso i treni. Era una passeggiata tranquilla, mancavano ancora dieci minuti prima della partenza del nostro West Coaster. Improvvisamente una mezza dozzina di marinai arrivarono precipitandosi per il sottopassaggio, correndo forte per prendere il San Francisco Limited. La loro agitazione fu contagiosa e
molti che stavano camminando, si misero a correre anche loro. Uno di questi era papà. Con la valigia che oscillava, avanzava a piccoli passi per il corridoio, dicendomi di muovermi, di sbrigarmi. Mi misi al suo passo, ma non era abbastanza veloce per lui. Ormai distanziato, lo vidi raggiungere il treno e cercare di salire dal primo sportello aperto. Un ferroviere glielo impedí. Stavano discutendo animatamente quando arrivai, l’impiegato stava insistendo per sapere il nostro numero di carrozza e papà con altrettanta enfasi gli diceva che non faceva alcuna differenza. Il nostro era il vagone 21, lontano verso il fondo. Per tutto il tragitto papà continuò a brontolare a causa della stupidità dei ferrovieri, e di come le cose fossero cambiate dal suo viaggio a New York, cambiate in peggio. – Vagone 21. Vagone 81. Che differenza fa? C’è solo un treno, e va tutto a Los Angeles.Provai a spiegargli, ma mi interruppe. – Figlio, ho viaggiato in treno da prima che tu nascessi. Perfino da prima di incontrare tua madre. E tu vuoi insegnare a me qualcosa sui treni? Salimmo sulla carrozza 21. Il facchino arrivò nello stesso momento, con il sudore che grondava dalla sua faccia scura mentre lottava con la sacca degli attrezzi. Papà si sedette e si accese un sigaro. Immediatamente l’addetto alla carrozza 21 arrivò e gli disse che non si poteva fumare tranne che nel bagno degli uomini. Accigliandosi, papà spense il sigaro con il tacco. – Ma che razza di treno è questo? – Bagno degli uomini in fondo al vagone, – disse l’addetto. Aveva quasi settant’anni, i capelli bianchi e molte rughe intorno agli occhi. Il facchino intanto era tornato con il resto dei bagagli. Si asciugò il sudore dalla fronte, e tirò fuori la lingua. – Hai bisogno di bere qualcosa, – disse papà. – Un bicchiere non si rifiuta mai, – rise il facchino. In un attimo papà slegò la valigia nera e la aprí. C’erano due bottiglioni di chiaretto da un gallone ciascuno avvolti dentro degli asciugamani. C’era una terza sacca, piena da scoppiare. Vi guardai dentro. Conteneva due pagnotte tonde di pane casereccio e un formaggio di capra della grandezza di un pallone da calcio. In fondo alla sacca c’era un salame lungo un piede e una gran quantità di mele e di arance. – E questo a che serve? – Si deve pur mangiare, – rispose secco. Il facchino si sbellicava dalle risate. – Giusto. Bisogna pur mangiare sul treno. Questo piacque a papà. Il facchino non era poi cosí male, dopo tutto. Sorrise, con la faccia che diventava rossa mentre provava a stappare il bottiglione di vino. – Ti ho già visto da qualche parte, – disse. – Non hai mai portato lo sparviero a Denver, Colorado, nel 1922, ’23? Il facchino era deliziato. – No, io no – nossignore! Sono capace solo di portare i bagagli. Papà levò il tappo dal bottiglione. Mentre lo porgeva al facchino, l’asciugamano cadde, e il bottiglione apparve improvvisamente, rosso scuro e scioccante, come una bomba. Il facchino era attonito. – Forse faremmo meglio a tornare dove si può fumare. Papà lo seguí fino alla fine della carrozza, con il bottiglione in braccio come se fosse stato un bebè, e si infilarono come frecce nel bagno. Il vagone 21 si stava rapidamente riempiendo. La gente nel corridoio guardava accigliata le valigie aperte, lo scatolone legato, la sacca degli attrezzi sporca di calcina. Non c’erano dubbi: tutta quell’attrezzatura levava molta della classe al vagone 21 e c’erano buoni motivi per la disapprovazione degli altri. Dal bagno sentivo il facchino che si torceva dalle risate. Chiusi la valigia e decisi di andarci anch’io. Il facchino lo stava presentando al nostro inserviente.
– Voi due signori starete molto insieme. Signor Randolph, mi permetta di presentarle il mio buon amico, il signor Fante. Si dettero la mano. – Randolph? – disse. – Randolph? Ha mai portato uno sparviero, signor Randolph? Su a Boulder, Colorado, 1916, 1917? – Novecentosedici? No, signore. Avevo un cugino, però. E lui portava lo sparviero. Giú a Montgomery, Alabama. Molto tempo fa. – Ecco, è lui, – disse papà. – Mi pareva. Il facchino si stava di nuovo sganasciando. Il signor Randolph beveva a lunghe ed esperte sorsate dal bottiglione, inclinandolo con il gomito sollevato. Schioccò le labbra e lo porse a papà, che vi si attaccò con amore. Poi lo passò al facchino. – Signor Randolph, – cominciò papà. – Il problema con i bianchi in questo paese… Ma non andò oltre, perché improvvisamente ne ebbi abbastanza delle sue stramberie. Non c’era nulla di male nel bere con degli altri esseri umani, ma c’era un tempo e un luogo per ogni cosa, e lo spettacolo di quel vecchio in tuta che se la spassava avanti e indietro su un vagone ferroviario con un gallone di vino e che nutriva mani mercenarie sembrava passare il limite. Inoltre, non era obbligato a indossare la tuta. Lo riportai nel nostro scompartimento mentre il treno usciva da Sacramento. Era umiliato e taciturno. Ripose uno dei bottiglioni nella valigia, ma l’altro lo tenne pronto sotto il sedile. A quel punto tutti quelli che erano nel vagone, uomini e donne ben vestiti, sapevano del bottiglione rosso che balzava alla vista ogni volta che lui gli dava una sorsata. – Figli – bah, – borbottò. – Odiano il loro padre… – Si vergognano della propria carne e del proprio sangue… – Meglio morire. Ti seppelliscono. Ti dimenticano… – Ho lavorato duramente tutta la vita. Ingiuriato dalla mia carne e dal mio sangue… – Pronto ad andarmene in qualsiasi momento. Ho fatto il mio dovere… – Quando sei vecchio, ti buttano fuori… La sua voce si spargeva. Il suo tono era abbastanza alto da raggiungere molte orecchie. Intorno a me avvertii gli altri che covavano qualcosa, le teste che si giravano, gli sguardi scioccati, la pietà per il mio vecchio. Il signor Randolph non aiutò la situazione. Con toccante sollecitudine portò a papà un cuscino, sorrise con tenerezza, gli domandò come si sentiva. – Si rilassi, ora, signor Fante. Le auguro un buon viaggio. Qualsiasi cosa voglia, deve solo suonare il campanello. Ha degli amici su questo treno. Moltissimi amici. Delle lacrime bruciarono gli occhi di papà. – Cerco di andare avanti, signor Randolph. Non voglio dare noia a nessuno. C’è molta gente per bene su questo treno. Delle signore raffinate e dei gentiluomini. Faccio del mio meglio. Io mi morsi le unghie e rimasi immobile. Un cameriere attraversò il vagone suonando il campanello per la cena. Fu un sollievo. Detti una pacca sulle spalle di papà. – Andiamo, papà. Una buona cena è quel che ci vuole. – Sto bene, figlio mio. Vai tu. Non voglio darti altra noia. Ho qui il mio mangiare. Cerco di farti risparmiare qualche soldo, figliolo. Una cosa era certa: io non volevo salame, formaggio di capra, pane e vino per cena. Prima il mio pensiero era volato a un paio di Martini secchi, a una bistecca e a una buona insalata. Ora tutto quello che volevo era una tazza di caffè nero e la possibilità di andarmene per un po’. Una dozzina di occhi
gelidi mi osservarono mentre barcollando mi avviavo per il corridoio verso il vagone ristorante, a quattro carrozze di distanza. La lontananza operò la magia. Il mio appetito tornò. Presi due Manhattan e una bistecca piccola. Quando il treno lasciò Stockton mi sentii di nuovo bene, e rimasi a trastullarmi in attesa di una seconda tazza di caffè. Era buio, ora. Una dopo l’altra le cittadine della San Joaquin Valley sfrecciarono via, l’una simile all’altra, ingioiellate dai lampioni. Il maître della carrozza ristorante mi portò il conto. Misi una mano in tasca e insieme alle monete tirai fuori un oggetto bianco e tenero. Era un altro spicchio d’aglio. Emanava un odore forte e selvaggio, pulito e caustico. Lo feci cadere in un bicchier d’acqua. Mentre mi alzavo per andarmene, arrivò un controllore a vedere i biglietti. Esaminò il mio. – Oh, – disse. – Lei è il figlio del vecchio. – Non ha voluto cenare, – sbottai. – Voglio dire, si era portato la cena con sé. Lui strinse le labbra, vago. Strappò i talloncini e mi rese i biglietti. Aveva gli occhi freddi come ostriche. – Onora il padre e la madre, – disse. – Non mi piace il formaggio di capra. Arricciò le labbra. Mi odiava. Nel vagone 21, papà stava spezzando dei cuori. Lo trovai che consumava un semplice pasto di pane, formaggio e salame, il tutto accompagnato da occasionali sorsate di vino. Mangiava sbocconcellando il cibo, era un gentiluomo a tavola. Il suo coltello da tasca giaceva aperto sulle sue ginocchia, e il suo cibo era disteso sul sedile davanti a lui. Il signor Randolph aveva fornito un tovagliolo, ed era rimasto nel corridoio, ad ascoltare con occhi inteneriti papà che parlava. Stava raccontando dei tempi difficili e duri della sua giovinezza negli Abruzzi; di come aveva cominciato a lavorare a dieci anni, apprendista presso un crudele scalpellino che lo imbrogliava con le sue paghe di tre cent al giorno; di come sua madre lo raggiungeva in cantiere nella tenuta del Duca degli Abruzzi aiutandolo a trasportare grosse pietre su per una scala che portava all’impalcatura. Era una storia tragica, e vera, perché anch’io l’avevo sentita molte volte prima di allora; ero cresciuto ascoltandola; era un racconto di miseria paesana che rimescolava il sangue, e quelli che erano vicini a lui sul vagone 21 erano profondamente commossi dalle parole di quell’uomo semplice che si contentava di un pezzo di pane, del formaggio e del salame mentre suo figlio si satollava con dissolutezza di cibi lussuosi. Mi sedetti accanto a lui, piegai le spalle, e desiderai fortemente un cappello per potermi coprire la faccia. L’umile voce di papà, ora ricca di gratitudine, si diresse verso il signor Randolph e verso tutti gli altri. – Ma Dio Onnipotente è stato buono con me. Sono un cittadino americano. Lo sono stato per venticinque anni. Ho quattro bei figlioli. Li ho tirati su e mandati in questo grande paese che è il nostro. È un posto meraviglioso, questa America. È stata buona con tutti noi. Dio benedica gli Stati Uniti d’America. Un signore corpulento vestito di tweed seduto dall’altra parte del corridoio si chinò verso di noi e offrí un sigaro a papà. Era un sigaro costoso, custodito in un astuccio a forma di proiettile. Con semplice dignità papà lo accettò, inchinandosi all’altezza della vita. – Grazie, signore. Lo terrò per quando nascerà mio nipote. È troppo buono per fumarlo adesso. Era molto commovente. L’uomo in tweed guardò la sua grossa moglie bionda, il cui petto palpitava, e il cui viso esprimeva tenerezza. Lei sussurrò qualcosa, e l’uomo in tweed estrasse un secondo sigaro. Papà protestò dicendo che era troppo, troppo, ma si lasciò persuadere ad accettarlo. Il signor Randolph lo invitò a tornare nel bagno per godersi il regalo, e papà acconsentí. Con molta cura ripose il pane, avvolse il salame in uno strofinaccio, e infilò il suo formaggio di capra in una sacca. Non andò sprecata nemmeno una briciola. Chiuse la valigia e si alzò in piedi. Era teso, ma bisognava
avere l’esperto occhio di un figlio per accorgersene. Il signor Randolph lo accompagnò per il corridoio. Delle teste si girarono per vederlo passare. Lasciò dietro di sé una scia di amore. Mi appoggiai contro il finestrino e guardai fisso davanti a me. Mi sentivo solo e senza amici. L’assenza di papà creava una lacuna che si poteva avvertire perfettamente. Il treno procedeva sussultando. L’uomo in tweed e sua moglie si alzarono per andare al vagone ristorante. Non ero degno di un suo sguardo, ma sua moglie abbassò gli occhi verso di me e le sue narici ebbero un fremito. Tornò il signor Randolph. – L’anziano gentiluomo desidera la sua valigia nera. Porsi al signor Randolph due dollari bruciati dall’aglio. – Faccia in modo che abbia tutto quello che desidera. – Non si preoccupi. Sentí l’odore dell’aglio e mi guardò con sospetto. Dopo pochi minuti era tornato nello scompartimento, per preparare le cuccette. Andai in bagno. Papà, con gli occhi rossi, era seduto al finestrino e borbottava fra sé e sé. L’ambiente era pieno del fumo di un sigaro costoso. – Stanno facendo le cuccette, papà. Faresti meglio ad andare a letto. – Vai tu, figliolo. Divertiti. Ridi e scherza, non preoccuparti di tuo padre. – Credo che dovresti andare a letto. – Non io. Niente letti sul treno per Nick Fante. Me ne rimango qui. E lí rimase. Io tornai alla carrozza ristorante e presi un brandy. Quando tornai al vagone 21 il signor Randolph aveva sistemato tutte le cuccette. Il bagno degli uomini era pieno, c’erano dei passeggeri che si lavavano la faccia, i denti, e che si preparavano per il riposo. Tutti chiamavano mio padre «Papà» e gli auguravano la buona notte. Nessuno ebbe una parola per me. Strinsi i denti e assunsi un’aria di sfida, fumando sigarette e anelando alla mattina seguente, quando quel nero viaggio sarebbe terminato. Alle undici tutti i passeggeri del vagone 21 erano a letto tranne papà e io. Lui si era addormentato accanto al finestrino, e russava. Lo scossi. – Vieni a letto. – Nossignore. – Non puoi dormire qui. Ti ho preso un bel letto. – Nossignore. Entrò il signor Randolph. – Povero vecchio. È cosí stanco. – Non vuole dormire in cuccetta. – È una brava persona. – Mi dia una mano a portarlo a letto. Provammo a sollevarlo, ma lui scalciava con una tale energia, con i suoi scarponi da lavoro, che tutto fu inutile. Lo supplicai e cercai di farlo ragionare. – Nossignore. Mi arresi. Tornai al nostro scompartimento e mi infilai nella cuccetta in basso. Dal momento che papà rifiutava di stendersi, non vedevo il motivo di arrampicarmi su quella alta. Non riuscivo a dormire. La cuccetta era calda e asfissiante. Mi alzai tre volte, indossai i pantaloni e andai al bagno degli uomini. Papà si era allungato sul sedile. Ogni volta che lo scuotevo, grugniva e si metteva a scalciare. Tornai alla mia cuccetta. Il calore era soffocante. Suonai per chiamare il signor Randolph. Dormiva in una cuccetta bassa accanto al bagno degli uomini. Fu piuttosto sbrigativo con me. – Fa troppo caldo, qui, – dissi. – Chiuda la cuccetta superiore, in modo che mi arrivi un po’ d’aria. Fece quanto gli avevo chiesto. Ora avevo l’intero spazio libero e quando mi stesi mi sentii molto meglio.
Dopo poco mi addormentai. Era mattina quando mi svegliai. Il treno stava lasciando Castaic, in montagna, e mancava ancora poco piú di un’ora a Los Angeles. Mi vestii in splendida libertà, perché potevo stare dritto ora che la cuccetta superiore era stata chiusa. Poi andai nel corridoio. Tutti gli altri passeggeri erano svegli e vestiti. Tutte le altre cuccette salvo la mia erano state rifatte. Il signor Randolph si dava da fare con un piumino. Tutti gli occhi erano puntati su di me. Se quella gente aveva provato antipatia per me la sera prima, adesso era pronta a linciarmi. La loro animosità era come un vento caldo e tanto forte da istupidire, decisa e spaventosa. Poi capii cosa li aveva fatti inferocire. La cuccetta sopra la mia era chiusa; non era stata usata per tutta la notte. Solo quella inferiore era stata occupata, e da nessun altro se non da me. Papà, loro sapevano, era nel bagno. La conseguenza di ciò era terribilmente ovvia: mentre io avevo dormito con lussuosissimo agio, occupando il posto destinato a due persone, il mio povero vecchio padre era stato costretto a passare la notte nel bagno degli uomini. A mascelle strette procedetti vacillando lungo il corridoio, dieci miglia attraverso l’ostile territorio indiano, fino al fumoir degli uomini. E lí trovai papà. Aveva la valigia nera aperta sulle ginocchia, stava mangiando una semplice colazione di formaggio di capra e mele. Il signore in tweed era accanto a lui. – Hai dormito bene, papà? Il sorriso di papà indicava che non aveva dormito benissimo, ma abbastanza bene date le circostanze. Volevo strappargli il cuore, e l’uomo in tweed voleva strappare il mio. Solo arrivati a Los Angeles, solo quando fummo lontani dai suoi leali compagni di treno, solo dopo che ebbe stretto la mano a tutti salutandoli con affetto, solo allora io ebbi la mia rivincita. Il nostro bagaglio era stato trasportato fino al parcheggio dei taxi fuori dalla Los Angeles Union Station. In cupo silenzio attraversammo il sottopassaggio pedonale e uscimmo dalla stazione diretti verso il posteggio. Diedi a un facchino le ricevute per i bagagli e lui tolse da un carrello le nostre valigie. Papà aveva tirato fuori il suo portamonete, pronto per offrire una mancia. Mise un decino sottile fra il pollice e l’indice. – Non prenda quei soldi, – dissi al facchino. Egli fu contentissimo di non farlo, vista la moneta. Poi capii come avrei potuto vendicarmi. Estrassi il mio borsellino e lentamente mi misi a contare cinque banconote da un dollaro nel palmo della mano del facchino che sorrideva. Papà guardava non credendo ai propri occhi, con la lingua di fuori. – Che succede? Il facchino era raggiante. – Grazie! Feci un cenno a un taxi. Papà si guardò intorno, attonito, aspettandosi che per cinque dollari sarebbe successo qualcosa di strano, ma il facchino si allontanò contando i soldi. Si avvicinò una macchina. Il guidatore sistemò il nostro bagaglio sul sedile anteriore. E papà era sempre lí ad aspettare che accadesse qualcosa. Il facchino scivolò via tra la folla. – Cosa è successo? Dove va? – Andiamo, papà. – Ora ti porta il resto. – Glieli ho dati tutti. – Sei matto? Prima che potessi fermarlo, stava correndo dietro al facchino, dando gomitate a destra e a sinistra, facendosi largo a spintoni fra la calca, gridando: – Signore! Ehi, signore! Torni indietro! Ma il facchino era sparito, divorato dal gorgo della gente che si affrettava andando e venendo dai treni. Papà rimase mortificato, quasi in lacrime, con i suoi occhi veloci che saettavano in ogni direzione. – È andato via. Con i tuoi soldi. – Ho voluto darglieli.
Si girò, esortandomi con le mani e con la faccia rossa dalla rabbia. – Non sai cosa stai facendo. I soldi sono difficili da guadagnare. Ne hai bisogno – di ogni penny – per comprare le scarpe, per comprare il latte e il pane. Per tua moglie, per il bambino. Ahimè, papà aveva ragione. La mia era stata la vendetta di uno sciocco. Troppo presto avevo dimenticato i tempi magri del passato, i tempi magri che sicuramente sarebbero tornati. Tornammo al taxi. Vi montai. Papà esitava alla portiera. – Quanto costa? – Non molto, papà. Qualche cent. Salí anche lui e gli spiegai come il tassametro avrebbe determinato l’ammontare della somma. Diedi l’indirizzo al guidatore e lui abbassò la leva per azionare il tassametro. Il taxi si allontanò dalla Union Station. Il tassametro segnava la tariffa minima. – È solo venti cent, – sorrise papà. Si appoggiò allo schienale, soddisfatto. Procedemmo per Aliso verso Los Angeles Street. Al semaforo del primo isolato, ci fu uno scatto secco e il tassametro balzò a trenta cent. – Che succede? – Non preoccuparti, papà. Mancano ancora otto miglia. Non costerà molto. Si sporse in avanti. Le strade della città, la folla del centro, non erano interessanti. Solo il tassametro attirava la sua attenzione. Raggiungemmo Main Street. Indicai l’enorme City Hall. Il tassametro scattò. – Quaranta cent, – disse. Passammo per Spring Street, non lontano dal Plaza, e per il quartiere malfamato di Los Angeles. Non molti anni prima avevo camminato per quelle strade da solo e senza un centesimo. Avevo dormito alla Sunshine Mission e avevo tirato fuori mozziconi di sigarette dalla sabbia dei portacenere davanti agli ascensori. C’erano stati dei giorni in cui ero andato in giro senza calzini. Una volta avevo fatto il sotto cameriere da Simon’s su Hill Street, avevo dovuto lavare con la sistola le pattumiere, e lucidare i corrimano di ottone. Da molto tempo quei giorni avevano perso la loro attrattiva. Ero felice di essere lontano dagli squallidi hotel di Temple Street, dai caffè a due cent, e dal farmi la barba nei bagni pubblici con l’acqua fredda e vecchie lamette. C’erano stati dei giorni in quelle strade del centro quando una singola banconota da un dollaro in tasca aveva significato per me un periodo in cui potevo dimenticare la febbre della sopravvivenza, un tempo per rallentare il passo, la possibilità di lasciarmi andare per ventiquattro ore. Oltrepassammo Pershing Square. Il tassametro scattò. Papà si asciugò la faccia con un fazzolettone blu. – È arrivato a settanta cent. Scendiamo. Oltre la piazza si trovava un cinema aperto tutta la notte, dove, per dieci cent, ero solito dormire fino alle cinque di mattina. Poi ci buttavano fuori, e io usavo sempre l’uscita di sicurezza, mentre quelli che venivano dalla campagna barcollavano insonnoliti attraverso la porta principale per finire nelle mani dei poliziotti che li portavano alla prigione di Lincoln Heights con l’accusa di vagabondaggio. Era successo anche a me, una volta, e mi sarebbe potuto accadere di nuovo, a meno che non lavorassi sodo, a meno che non seguissi il consiglio di papà e risparmiassi il denaro. Il taxi passò sulla Seventh Street, con il tassametro che via via scattava, e con papà che finiva sempre piú in preda al panico a mano a mano che la cifra aumentava. Presto mi contagiò, e cominciai a fissare anch’io il tassametro, spaventato e affascinato. Quando infilammo il Wilshire Boulevard segnava quasi due dollari, e io stavo sudando come papà. Avevo piú di cento dollari nel portafoglio, ma pensavo ai vecchi tempi, alla disperata urgenza di fare economia ora che stava arrivando il bambino, alla irrevocabile perdita dei penny sprecati. Quando il tassametro segnò due dollari, papà gemette per la sofferenza, crollando la testa.
– Quanto manca? – Un miglio o due. Non era vero. Avevo già fatto quel percorso in taxi ed era costato cinque dollari, o giú di lí, e in quel momento sembrò una cifra favolosa, troppo alta per uno come me. Avanzammo per qualche altro isolato, e improvvisamente non riuscii piú a sopportarlo. Picchiai sul vetro che ci separava dal guidatore. – Fermi il taxi. Qui. Il tassista accostò immediatamente. – Non ci sei ancora, amico. – Non andiamo oltre. – Sei libero di scegliere. Tirò fuori lo scontrino dal tassametro. Era tre dollari e venti centesimi. Gli diedi la cifra esatta, non un penny di piú non un penny di meno. Il guidatore scaricò il nostro bagaglio sul marciapiede e si allontanò. Che ci prendesse pure in giro! Un penny risparmiato era un penny guadagnato. In quel periodo andava di moda farsi beffe della modesta saggezza di un Carnegie o di un Rockefeller. Mi rendevo conto in quel momento che quei grandi uomini avevano ragione. – Andiamo, papà. Non è lontano. Solo un paio di miglia. Si sputò sulle mani. – Ora ci intendiamo, ragazzo. Onore al merito. Se non fosse stato per papà mi sarei arenato, sarei caduto in qualche rigagnolo caldo e sudicio, non avrei mai piú visto la mia Joyce. Se non fosse stato per lui il safari sarebbe terminato nella piú completa disperazione, con i pesanti barattoli di conserva di pomodoro, la marmellata di fico della mamma e la torta di cioccolata ancora intonsa abbandonati lungo il percorso. Lui aveva la forza di dieci persone mentre ci trascinavamo in avanti, la follia di quel caldo mi faceva sragionare, e i soffocanti fumi di monossido mi bruciavano le labbra riarse. Portava la sua sacca degli attrezzi in una mano, una valigia nell’altra, e una terza valigia sotto il braccio. A venti passi di distanza dietro di lui, io lottavo sotto il peso orribile dello scatolone legato con lo spago e della mia ventiquattrore. Senza vacillare egli sopportava le difficoltà di quel cammino disperato, gridando parole di incoraggiamento all’uomo piú giovane che voleva arrestarsi davanti a ogni drogheria che emanava l’aroma della coca cola ghiacciata e di bevande alla cioccolata. Ma un penny risparmiato era un penny guadagnato. Ero costretto in quella impresa fino alla sua amara conclusione. Ero un maledetto idiota e lo sapevo. Alla fine arrivammo a casa. Papà era fresco come un toro. Io mi gettai sul prato. Dalla finestra Joyce ci vide e si precipitò fuori. Uno sguardo verso di lei, all’imponente sporgenza sul suo ventre, e papà fece cadere il suo bagaglio mettendosi a piangere. Tese le braccia. – Ah, signorina Joyce! Il bambino, è bellissimo. – Papà Fante! Gli corse incontro, con le braccia tese, gliele buttò al collo, premendogli con la sporgenza dolcemente sulla pancia, e lui si tirò indietro con discrezione, ma lei non lo lasciava andare, ed egli rimase imbarazzato e in soggezione davanti al meraviglioso pallone. – Siamo cosí contenti che è arrivato, – sorrise lei. – Abbiamo veramente bisogno del suo aiuto. Lui rise e un po’ goffamente la carezzò, in adorazione della sua persona e della voluttuosa rotondità che conteneva anche una parte di lui. Lo faceva tremare, ubriaco di felicità, quella estensione di lui stesso, la proiezione della sua vita molto oltre il limite degli anni che avrebbe passato sulla terra. Seduto sull’erba lo guardavo, e capii che nemmeno la nascita dei suoi figli aveva avuto per lui il romanticismo e l’eccitazione dell’arrivo di quel bambino. Da sopra la sua spalla, Joyce mi guardò meravigliata. Ero seduto
là, contento di essere a casa, troppo stanco per parlare. – John… cos’è successo? – Abbiamo camminato. Mi alzai e ci baciammo. – Perché non avete preso un taxi? – Abbiamo fatto anche quello. Non avevo voglia di discutere oltre la questione. Volevo fare un bagno, mettermi dei vestiti puliti e darmi una possibilità di sopravvivere, di dimenticare quella parentesi oscura. Papà stava dando calci al prato con la punta spessa della sua scarpa. – Erba del diavolo. Tutta erba del diavolo. Non è buono, questo paese. Il suo sguardo si spostò sulle due file di alte palme che marciavano su entrambi i lati del viale, con i loro tronchi sottili che si libravano verso l’alto, e le fronde come dei piumini per spolverare dai lunghi manici. – Non sono buoni, quegli alberi. Niente ombra, niente frutti, niente di niente. Prendemmo il bagaglio e lo portammo in casa, appoggiandolo nell’ingresso davanti alla scala. A sinistra, un gradino piú giú, c’era il salotto, con ampie porte finestre e muri dipinti di un fresco verde, era una camera grande e piacevole con un tappeto beige e dei mobili di quercia bianca scelti con attenzione. Lí sentii nuovamente che era una casa come si deve nonostante il buco nel pavimento della cucina; sí, una bella casa, una casa felice, mi sentii orgoglioso di esserne il padrone, e passai un braccio attorno a Joyce. – Eccola, papà. La mia casa. Lui girò la testa da una parte e dall’altra, mordendo l’estremità di un sigaro nuovo e allo stesso tempo sfregando un fiammifero contro la coscia per accendersi da fumare. – Il pavimento non è a piombo. – È di quercia, papà. È ottimo. – Non è a piombo. Lo guardammo. Sembrava perfetto. – Attrezzi, – disse. La sua sacca era assieme agli altri bagagli. – Attrezzi, – disse di nuovo. – Son qui. – Attrezzi, – ripeté. Ci volle qualche minuto prima che capissi quello che voleva dire – dovevo aprire la sacca. Mentre mi rendevo conto di ciò, realizzai che quell’uomo aveva preso il sopravvento, che il nostro rapporto era improvvisamente cambiato, che era il capo. Mi ricordai di un tempo remoto, di quando vivevo sotto il suo tetto con i miei fratelli e lavoravo come suo aiutante in cantiere. Era il modo peggiore di lavorare per quell’uomo, e ai miei fratelli e a me non piaceva affatto. In quei giorni diceva: «Matita», e voleva dire: dammi una matita. Oppure: «Due per quattro, da tre piedi». Faceva parte del mistero del lavorare con lui, perché non rivelava mai il motivo per cui aveva bisogno delle cose che chiedeva. Non spiegava mai nulla, e capitava spesso che andassimo via dal cantiere furiosi per la frustrazione e per la rabbia, perché ci trattava come schiavi. Ed eccolo lí un’altra volta, dopo sedici anni, quell’uomo a casa mia che diceva: «Attrezzi». Aprii la sacca. – Tubo di mezzo pollice. Da un piede. Frugai in fondo alla sacca e trovai vari pezzi di tubo. Lui camminava avanti e indietro esaminando il
pavimento. Gli porsi quello che voleva. Ma lui gli diede appena uno sguardo e non lo prese. – Tubo sbagliato. – È quello che mi hai chiesto. – Mezzo pollice. Lunghezza un piede. Scavai nella sacca e ne trovai un altro. Sembrava quello giusto. Glielo avvicinai. – Tubo sbagliato. Lo ributtai dentro, cercai tutti i pezzi di tubo corti che trovai nella sacca, e li tirai fuori. Con sveltezza, lui prese quello di cui aveva bisogno. – Livella. Gli diedi la livella. La mise sul pavimento, si inginocchiò, e ne studiò la bolla d’aria. – Metro. Glielo passai, e lui misurò la distanza fra la porta e il primo gradino della scala. – Dodici piedi. Appoggiò il tubo sul pavimento accanto alla porta, tenendolo con il piede. – Il pavimento si abbassa di due pollici. Il tubo rotolerà fino alle scale. La casa è piú bassa nel mezzo. Levò il piede dal tubo che cominciò a muoversi, dapprima lentamente, ma presto guadagnando velocità mentre procedeva facendo fracasso; sí, già da quando andò a sbattere contro il gradino mi resi conto che papà non era l’uomo giusto per quel lavoro; capii che odiava quella casa, che aveva un pregiudizio contro di lei, che sarebbe stato spietato. Guardammo il tubo che rotolava avanti e indietro, e che finalmente si fermò. Joyce era attonita. – Santo cielo. Papà lo tirò su e me lo diede. – Attrezzi. Buttai il tubo nella sacca. – Chiudere. La chiusi. – Cinghie. Agganciai le due cinghie. – Termiti, – disse. Joyce lo portò in cucina. Io mi avviai su per le scale. – Dove vai? – domandò. – Bagno. Salii e mi feci un bagno. Rimasi per un’ora nell’acqua calda e rilassante, sonnecchiando, senza però addormentarmi. Il bagno per me non rappresentava tanto la pulizia del corpo, quanto il ristoro della mente. I miei pensieri divennero come il cielo d’estate, con immagini gaie che lo attraversavano come nuvole bianche: le barche a vela a Newport Beach, la bellezza sinistra della Valli, il terzo percorso del circolo del golf di Fox Hills, la prosa di Willa Cather. Tutte le cose deliziose, attraenti, splendide e tenere, mi venivano incontro quando facevo il mio bagno. Ora però si era aggiunto qualcosa di strano, delle immagini nuove e allarmanti, una pozza di acqua stagnante, coperta di muschio e fredda. C’erano ombre di una foresta fitta che oscuravano la pozza, e c’erano creature subito sotto la superficie dell’acqua, che facevano capolino per poi scomparire di nuovo e ogni volta che si immergevano qualcosa di bianco e di terribile solcava le acque per inseguirle. A poco a poco riconobbi le creature. Erano papà, Joe Muto, il signor Randolph e l’uomo in tweed. Le cose bianche e filacciose che si tiravano dietro erano cordoni ombelicali. Quelle creature erano cosí spaventose che
saltai fuori dalla vasca e mi vestii.
Quattro
Joyce era in salotto e leggeva, circondata da libri. Vedevo papà che era nel giardino sul retro. Era seduto sotto un ombrellone, con una brocca di vino sul tavolo accanto a sé, un sigaro in bocca e le gambe allungate, se la stava prendendo comoda mentre studiava la casa. – Cosa ha detto del buco in cucina? – Vuole rifletterci su, – disse Joyce. – Non c’è da rifletterci. C’è solo da aggiustarlo. Chiuse il libro. – Lasciamo che ci pensi. È pieno di idee. – Non importa quello che pensa, il buco deve essere sistemato. È stato un errore portarlo qui. È vecchio e abituato a fare a modo suo. Prevedo guai. – Non è un bel sentimento da avere per il proprio padre. – Non posso farci nulla. È diventato un eccentrico. – Avresti dovuto pensarci prima di chiedergli di venire. Ricordati il Quarto Comandamento. – Il Quarto Comandamento? – Onora il padre e la madre. Le rivolsi un rapido sguardo. Era il ritratto di una calma colossale, con il suo gran pancione appoggiato sul grembo come fosse un essere distinto. Avevo l’impressione di rivolgermi a due persone. Dietro gli occhiali da lettura i suoi occhi grigi erano chiari e bellissimi. Era seduta con una dozzina di libri accanto, alcuni sul tavolinetto basso, altri appoggiati uno sull’altro vicino a lei sul divano. Stava leggendo Chesterton, Belloc, omas Merton e François Mauriac. C’erano libri di Karl Adam, Fulton Sheen ed Evelyn Waugh. Diedi un’occhiata ad alcuni dei titoli: e Spirit of Catholicism, e Faith of Our Fathers, e Idea of a University. Alcuni di quei libri erano miei, tirati fuori da un polveroso scatolone in garage, ma la maggior parte erano nuovi nuovi, appena arrivati dalla libreria. Era incredibile vederla con libri di quel genere, perché lei era una fredda materialista, apparteneva a un gruppo di semantica, andiamo, era praticamente atea, aveva un approccio duro e scientifico ai fatti. – Che fai? – Sto pensando di fare un cambiamento –. Si levò i suoi occhiali da lettura. – Se Dio è bene assoluto, perché permette che nascano bambini storpi? Provai un immediato terrore. – C’è qualcosa che non va con il bambino? – Assolutamente no. Sto facendo una domanda. – Non ne so la risposta. Sorrise soddisfatta. – Io invece sí. – Che bellezza. – Vuoi sentirla? Non riuscivo a prenderla seriamente. Era solo un altro capriccio dovuto alla gravidanza. Era sempre la stessa ragazza a cui piaceva la salsa chili sull’insalata di avocado. Le sarebbe passata appena riacquistata la linea. Era un capriccio. Non poteva essere altro. Mi piaceva avere una moglie atea. La sua posizione rendeva le cose piú facili per me. Semplificava la pianificazione familiare. Non avevamo scrupoli sui contraccettivi. Il nostro era stato un matrimonio civile. Non eravamo incatenati da nessun dogma
religioso. C’era sempre il divorzio, non appena avessimo voluto. Se fosse diventata cattolica, si sarebbero create ogni sorta di complicazioni. Era difficile essere buoni cattolici, molto difficile, ed era proprio quello il motivo per cui avevo lasciato la Chiesa. Per essere un buon cattolico, dovevi farti largo fra la folla e aiutarLo a portare la croce. Lasciavo quel farmi largo per il futuro. Ma se lei si fosse fatta largo, avrei dovuto seguirla, perché era mia moglie. No: era un capriccio, una moda passeggera. Non poteva essere altro. – Ti passerà, – dissi. – Ha chiamato qualcuno? – Niente di importante. Telefonai alla mia segretaria allo studio. Le chiamate per me erano state di routine. Qualcuno voleva giocare a golf, altri volevano giocare a poker. Il mio produttore era a New York, e l’ufficio era molto tranquillo. Era un buon momento per iniziare a prendere accordi per mettere a posto la cucina. Si doveva comprare del legno, e papà avrebbe probabilmente avuto bisogno di un aiutante. Tornai fuori e mi accomodai su una sedia sotto l’ombrellone. Papà era seduto tranquillamente, con i piedi sul tavolo. La brocca del vino era quasi vuota. Seguiva con lo sguardo il fumo del suo sigaro che saliva su per i rami di un arancio nel centro del giardino. – Cosa pensi, papà? Verrà a costare molto? – Mi fanno male gli occhi. Non è buono, questo paese. – È per lo smog. Dovrai cambiare alcuni travicelli. – Ti ho mai raccontato di mio zio Mingo e dei banditi? – Certo, moltissime volte. Avrai bisogno di un aiutante per fare il lavoro? – Un uomo coraggioso, mio zio Mingo. Era un Andrilli, fratello di tua nonna. L’hanno appeso proprio là, in Abruzzo. I carabinieri… Due proiettili nella spalla. Ma l’hanno appeso lo stesso. E sua moglie lí, che piangeva. Sessantuno anni fa. L’ho visto con i miei occhi. Coletta Andrilli, bella donna. Beveva, tenendo la brocca con entrambe le mani, il pomo d’Adamo che andava su e giú. Appoggiò la brocca e si immerse di nuovo nei suoi piacevoli pensieri. Gli dissi che c’era una legnaia a poca distanza. Se lui avesse fatto il calcolo del materiale che serviva ci saremmo potuti andare quello stesso giorno. – Ho fretta di cominciare, papà. Papà si rivolse al sigaro: – Ha fretta di cominciare. Sono qui da due ore. Sono stanco. Non ho dormito bene sul treno, ma lui vuole cominciare. Mi scusai. Ovviamente aveva ragione. Ero stato proprio sconsiderato. – Certo, papà. Non voglio metterti fretta. Rilassati per qualche giorno. Riposati bene. La cucina può aspettare. – Me ne occuperò io della cucina, figliolo. Tu occupati di scrivere. La sua faccia mostrava stanchezza, sul mento gli erano spuntati dei ruvidi peli grigi, aveva gli angoli della bocca all’ingiú, gli occhi semiaperti e iniettati di sangue, che gli bruciavano per il gas velenoso nell’aria. – Divertiti, papà. Riposati. Tutto quello che vuoi – devi solo chiedere. Hai bisogno ancora di vino? – Non preoccuparti del vino, ragazzo. Ci penso io al vino. – Ti ordino del Chianti, papà. Di quello vero. Vorresti altro? – Macchina da scrivere. – Ho una portatile di sopra. Ma tu non sai scrivere a macchina, papà. Studiò il sigaro. – Tu scrivi. Io parlo. Mi commosse. Aveva lasciato la mamma la sera prima, e voleva già mandarle un piccolo messaggio. – Va bene, papà. Ne sarà felice. – È morta. – Chi?
– Coletta Andrilli. – Credevo che volessi scrivere una lettera alla mamma. – E per che cosa? L’ho vista ieri. Dio buono, ragazzo. – Perché allora la macchina da scrivere? – Mio zio Mingo e i banditi. Scriviamo la storia. Per il bambino, cosí saprà dello zio Mingo. Lo farà sentire bene, orgoglioso. – Non oggi, papà. Lo faremo, però piú tardi. – Oggi. Ora. – Ma perché oggi? Mi rispose con fierezza e con spavento: – Perché potrei morire a ogni istante. In ogni minuto. – Un’altra volta. Un dolore improvviso gli contrasse la faccia. Senza dire una parola si alzò e andò camminando svelto in casa. Lo vidi che attraversava in fretta il salotto senza parlare a Joyce. Si arrampicò su per le scale. Quando entrai anch’io, la porta della camera degli ospiti si chiuse sbattendo. Joyce mi guardò da sopra gli occhiali. – Che gli hai fatto a quel povero vecchio? – Niente. Vuole che scriva un racconto su suo zio Mingo. – E tu chiaramente ti sei rifiutato. – Gli ho detto piú tardi. – Dopo Dorothy Lamour e gli zingari? – Non fare la furba. – È sbagliato trattare tuo padre cosí. È peccato. Sai bene che dovresti avere rispetto per gli anziani, e specialmente per i tuoi genitori. È un obbligo sacro davanti a Dio. Grossa e calma, cosí era lei. Un grande scoglio bianco, imperturbabile mentre le onde le si frangevano contro. Una torre d’avorio, era lei, una stella del mattino, una dolce collina, la Diga di Boulder. – Ma che ti prende? – Non posso lasciare che tu tratti male tuo padre. Cercai affannosamente una risposta, ma non ce n’erano. Mi colpí, cosí sicura di se stessa. Era una donna di infinito tatto che raramente usava parole dure. Pensai di chiedere scusa a papà, ma ciò mi avrebbe intrappolato in una seduta con suo zio Mingo. Non che io odiassi lo zio Mingo. Non lo odiavo affatto. Giurai ancora che avrei scritto la sua storia, era solo che non volevo scrivere quella dannata cosa in quel momento. – Vado allo studio. Aveva ricominciato a leggere. Guardò in su. – Cosa hai detto? – Vado allo studio. – Se Dio è il bene assoluto e il sapere assoluto, allora perché crea quelle anime che sa che saranno dannate eternamente? – Non lo so. – Io invece sí, – sorrise lei. – Ma che bellezza. Andai in garage e salii in macchina. Lo studio era a venti minuti di distanza, dovevo attraversare il traffico intenso della città, ma il groviglio delle macchine e il clacson degli autobus mi rallegrò. Era il carattere dei nostri tempi. Dopo la nascita del bambino, Joyce l’avrebbe percepito nuovamente, il conforto della confusione, la necessità assoluta di sopravvivere su questa terra. La gravidanza di una donna era un
brutto momento per un uomo. La procreazione le dava una forza terribile e lei poteva procedere senza di lui. Ma sarebbe passato. La vidi di nuovo magra, con indosso del merletto nero, affamata delle mie braccia. Un primo figlio rendeva piú graziosa la loro figura, le maturava. Quando arrivai allo studio ero molto felice. Ero ebbro d’amore, assaporavo le gioie che sarebbero venute. La mia segretaria era in piedi, mi stava aspettando. – Chiami sua moglie. È urgente. Mentre facevo il numero, vidi Joyce prostrata sul sedile posteriore di un taxi, una scena di totale confusione, il bambino nato a metà, lei che si lamentava, il tassista che guidava terrorizzato, una motocicletta della polizia che apriva un varco nel traffico sul Wilshire Boulevard, con le sirene che urlavano mentre il taxi ruggiva verso l’ospedale. Joyce rispose al telefono. – Tuo padre se n’è andato. – E dove sarebbe andato? – A San Juan. – Ma non lo può fare. Non ha soldi. – Ci sta andando a piedi. Giú per il Wilshire Boulevard. Non sono riuscita a fermarlo. – Lo vado a prendere. Riagganciai, corsi alla macchina, e mi precipitai verso quel viale. Un miglio a est da casa mia, lo trovai. Lo trovai e piansi. Era seduto su una panca, a una fermata dell’autobus. La sua sacca degli attrezzi e le sue valigie legate con lo spago erano accanto a lui. Sedeva lí all’angolo, un vecchio con le sue cose ormai rovinate. Sedeva senza speranza, affranto in una grande città, sulla riva di un fiume di automobili, fra ondate di monossido che gli inondavano il volto stanco. Sí, piansi. Volevo battermi il petto e dire, mea culpa, mea culpa, perché vidi il pathos della vecchiaia, la solitudine degli ultimi anni, mio padre, il mio vecchio padre, dall’Abruzzo, contadino fino alla fine, seduto sulla panca, solo al mondo. Ma certo che avrei scritto la sua storia! Certo, l’avremmo buttata giú la storia dello zio Mingo, e il bambino l’avrebbe potuta leggere! Era la cosa piú importante che un uomo potesse scrivere. Parcheggiai la macchina, mi asciugai gli occhi e andai da lui sulla panchina. – Papà. Che stai facendo qui? – Ciao, figliolo. Gli misi una mano sulla spalla. – Com’era lo zio Mingo, papà? Raccontami tutta la storia, dall’inizio. – Aveva i capelli rossi, ragazzo. Piedi grandi. Era un uomo molto forte. Ma non poté continuare. Si mise a piangere, e io con lui, ci abbracciammo e piangemmo a lungo perché noi sapevamo quanto fosse importante lo zio Mingo e l’amavamo tantissimo dopo tutti quegli anni. – Dai, papà. Andiamo a casa. La scriveremo. Sono prontissimo ora, papà. Scriverò tutta quella dannatissima storia. Cercai di aiutarlo a scendere dalla panchina, ma si scansò. – Non ho casa, ragazzo. Nessuno mi vuole. – Dai, papà. Compriamo del vino, poi andiamo a casa e scriviamo. – Magari una bottiglietta. Tirò fuori un fazzolettone blu a pallini, si asciugò gli occhi ed emise un boato dal naso. Poi estrasse di tasca il portafogli con i molti scomparti, e vidi nuovamente l’aglio, come una piccola fiammata marrone e stizzosa, vi frugò dentro e le sue dita presero delle monete, erano sessanta o settanta cent, che mi offrí. – Una bottiglietta, per tuo padre.
– Mettili via, papà. Ti prenderò il miglior vino del mondo. Risparmia i soldi, papà. Li ho io. Mettemmo i bagagli in macchina, poi salí accanto a me. Quindi mi aveva perdonato, era bello essere perdonati, e volevo mostrargli la mia gratitudine. Andammo in un negozio di liquori che aveva molte belle bottiglie provenienti da ogni parte del mondo, lui si guardò intorno, mentre la sua tristezza svaniva fra il luccichio di quello splendore. Solo un po’ di vino, insisteva, qualcosa per bagnarsi le labbra, magari una pinta di vino californiano, ma c’era tutto il grande e vasto mondo sugli scaffali, ed era per mio padre. C’era del Cabernet del Cile, lui si indebolí, e ne ordinammo alcune bottiglie; scelsi del Chateau Lyonnat; poi una cassa di Bordeaux dorato, e lui sorrise, perché credeva che fosse una sciocchezza e che fosse troppo caro per un uomo che voleva solo un sorso o due di chiaretto di California. Sí, Joyce aveva ragione, io dovevo onorare gli anziani, rendere omaggio a mio padre, e lui singhiozzò quasi nel tenere quella bottiglia di Chianti avvolta nella paglia, quindi comprammo anche una cassa di quello. – È troppo, – disse, e si torse le mani, ma poi immediatamente entrò nello spirito della cosa, si accese un sigaro e assunse un aspetto da astuto principe mercante, si mise a passeggiare su e giú per quel bel negozio, tirando giú le bottiglie, leggendone le etichette e rimettendole al loro posto. Era un uomo dotato di un gusto superbo, conosceva i brandy portoghesi, e non scordava il Martell. Ma c’era anche un lato esotico nella sua natura, perché gli piaceva l’anisetta fiorentina distillata dai monaci italiani, e quando vide l’alta bottiglia dorata di Galliano, io compresi che doveva avere anche quella, un vecchio deve avere del Galliano, la bottiglia è cosí squisitamente alta, e il liquore giallo come il sole italiano. Il commesso promise che avrebbe consegnato prontamente il tutto a casa mia, ma per il Galliano papà si fidava solo di se stesso, e sentí che doveva portare da sé anche il Martell. Andammo a casa ed entrammo nel garage. Scese con cautela dalla macchina, misurando ogni movimento. Joyce fu molto contenta nel vederci entrare insieme, ci baciò, e le sue labbra sulle mie guance erano le labbra di una suora. – Che Dio ti benedica, caro, – disse. Era la prima volta in vita sua che diceva una cosa del genere. Papà stappò il Galliano e il Martell, poi andammo in salotto e ci mettemmo comodi. Come un alchimista in una qualche antica cantina veneziana, si versò due once di Martell e sorrise con gioia beata mentre vi aggiungeva un’oncia di Galliano. Sorseggiò il tutto raggiungendo una tale estasi che pensai si sarebbe librato dolcemente verso il soffitto. – Mio zio Mingo aveva i capelli rossi, – disse. – Viveva in una casa di pietra con muri spessi tre piedi… Joyce portò un piatto di formaggi e salame. – Una volta gli dissi: «Zio Mingo, cosa ti rende cosí forte?» Lo zio Mingo mi sollevò con una mano, mi tenne in alto, e disse: «Olio d’oliva». Joyce e io assaggiammo il Galliano. – Il fratello dello zio Mingo, era il piú grande dei Torcelli. Le strade a quel tempo erano brutte. Cinquemila persone. Mio cugino Aldo morí a quattro anni. Tutti vennero alla funzione. Formaggio. Ad Antonio non piaceva il prete. Del grano, ma soprattutto avena. Ci andai e dissi: «Vico, ma che succede?» Era prima che avessimo la luce elettrica… Si fece buio. Il telefono squillò molte volte, e Joyce andò a rispondere in punta di piedi. Non voleva che mi muovessi. Dovevo stare lí e ascoltare, raccogliere i fatti. Papà mise via il Galliano e bevette il brandy liscio. Il campanello della porta suonò; erano degli amici di Joyce. Li fece passare in silenzio accanto a noi, accompagnandoli nello studio. – La sorella dello zio Mingo, Della, aveva sposato Giuseppe Marcosa. Un giorno vidi D’Annunzio in paese, era in bicicletta. Caldo d’estate, freddo l’inverno. Era un uomo grosso, lo zio Mingo. Alle volte beveva della cioccolata, ma niente caffè. Muri spessi tre piedi. Forse due acri. Moltissime rocce. Uno e
novanta, piú o meno. Un uomo buono. Forte. Tetto di tegole. Quando morí Italo c’era tutto il paese. Mi dissi, potrebbero portare il pesce da Bari, ma era un poco di buono, quel Luigi. Come può un uomo rubare la dote della propria figlia? Lo sapevo che ci sarebbero stati dei guai… Joyce lasciò gli ospiti per portarmi la cena su un vassoio. Papà non aveva fame. Strinsi i denti e continuai ad ascoltare. Joyce tornò nello studio dai suoi amici. Le loro risate arrivavano fino a noi. Papà aveva quasi finito il brandy. – Quell’anno non piovve. Mio cugino andò a Napoli. Oh, c’era un po’ d’uva, ma il raccolto fu scarso. Terra da olive, rocce nel terreno. Nessun barbiere a Torcelli, te li tagliavi da te. Non nevicò fino al 19 gennaio. Lo zio Mingo arrivò a casa, era furioso… Il campanello della porta suonò ancora. Era il garzone del vinaio. Ammucchiò buste e casse nell’ingresso. Papà si diresse traballando verso la cucina e ne tornò con un cavatappi. Stappò una bottiglia di Chianti. Per un istante pensai che quella dura prova fosse terminata. Lui vacillò, malsicuro, attaccandosi alla bottiglia, ma poi tornò in salotto e si mise di nuovo a sedere. – Vediamo – dov’ero rimasto? Avrei resistito fino alla fine. Sarei morto in quella stanza, incatenato alla sedia, ma avrei ascoltato fino in fondo. – Tuo zio Mingo arrivò a casa, ed era furibondo. – Certo che era furibondo! Quanto può sopportare un uomo? Non si sa. Tu sei qui a Los Angeles, con molto da mangiare, ma che ne sai dei problemi di un uomo? Tutte quelle rocce, che cadevano sulla sua terra. Il bambino era malato. Ci andò mia madre. Tirava sempre vento. Morí la capra, e Dino andò a Roma a farsi prete. Le tasse erano troppo alte. Avevo diciassette anni quando andai a Napoli. Avevo dei problemi agli occhi. Lo zio Mingo si levò una scarpa, e il piede gli sanguinava. Avevamo olio d’oliva, ma il gelo rovinò l’uva. Niente luce, niente gas. Elena, la moglie di mio fratello, ebbe un bambino. Lo zio Mingo lo prese per il collo, e disse: «Alfredo, ti spezzerò tutte le ossa». Quella fu la notte in cui piovve. Avevano tutti paura dello zio Mingo… Non arrivò mai ai banditi. Gli amici di Joyce se ne andarono in rispettoso silenzio; lui bevve due bottiglie di Chianti, e parlò di molte cose, e io non venni mai a sapere i dettagli sullo zio Mingo e i banditi. La mezzanotte si avvicinava, e Joyce andò in punta di piedi al piano di sopra. Noi restammo alla luce fioca di una lampada da tavolo. Lentamente, interminabilmente, si addormentò. Lo scossi, ma salí le scale continuando a dormire, con un braccio attorno alle mie spalle. Lo accompagnai fino in camera sua, gli levai i vestiti e lo coprii, lasciandolo con addosso i mutandoni. Il mio lavoro non era ancora finito. La mattina dopo avrebbe chiesto il racconto. Andai in camera mia e aprii la macchina da scrivere. Segnai la data e scrissi in forma di lettera. Caro Bambino che Stai per Nascere, stasera tuo Nonno mi ha raccontato la storia di suo zio Mingo e dei banditi. Lo zio Mingo era il tuo pro-pro-zio. Scrivo questo racconto perché tuo Nonno desidera che sia conservato fino al giorno in cui sarai in grado di leggerlo e forse di apprezzarlo…
Pensavo che ci sarebbero voluti venti minuti. Dal caos di tutti quegli aneddoti ingarbugliati doveva emergere qualcosa. Ed emerse, era uno stato d’animo. Alle quattro di mattina, con i denti bruciati dalle sigarette, battevo ancora sui tasti. Al diavolo il bambino; l’avrei venduto al «Saturday Evening Post». Per tutta la notte sentii papà che russava. Lo sentii che si alzava, mugolava e andava in bagno. C’era una gran confusione in corridoio, e lo scalpiccio di molti passi. Se non era papà a occupare il bagno, era Joyce. Usciti dalle loro camere, quelle due persone continuavano ad andare in bagno in una processione continua. Una volta udii dei passi andare rapidi su e giú. Era Joyce che aspettava il suo turno. Papà uscí con i suoi mutandoni. Si guardarono, si sorrisero con reciproca comprensione da sonnambuli, e andarono in direzioni opposte. Il giorno dopo scesi a mezzogiorno. L’avevo con me, erano venti buone pagine su un bandito italiano,
una figura eroica con i capelli rossi. Trovai papà in camera da pranzo. Aveva un foglio di carta da disegno steso sul tavolo, e ci lavorava standoci molto vicino con una matita e una riga. – Eccola, papà. La storia dello zio Mingo. Gliela appoggiai sulla carta da disegno. Lui raccolse le pagine e me le rese. – Tienila per il ragazzo. – Ma non vuoi leggerla? – E che la leggo a fare? Dio buono, figlio mio, io l’ho vissuta.
Cinque
Pensavo che fosse un capriccio da parte sua, una moda passeggera, invece lei non ritenne piú opportuno nascondere i fatti. Da quando era cominciata la gravidanza aveva sentito il pungolo della religione, l’urgenza di un cambiamento. Era diventato piú forte con il bambino. All’inizio l’aveva nascosto, anche a se stessa, ma quell’inganno l’aveva fatta stare malissimo e aveva cominciato a leggere, a cercare, con quello stimolo misterioso che aumentava sempre. L’aveva tenuto segreto anche a me, ma quando me ne ero andato su al Nord aveva deciso: sarebbe tornata alla chiesa. Era cosí matura adesso, cosí succosa, cosí enorme. I suoi occhi grigi ora ti divoravano con il bambino che portava in grembo, ti sentivi annegare nelle loro ipnotiche profondità se li fissavi troppo a lungo, e la passione della fede vi pulsava dentro. La trovavo spesso che guardava fisso oltre la mia persona, in trance per qualche meditazione spirituale. A mezzogiorno l’Angelus rintoccava nel campanile di San Bonifacio, la parrocchia del quartiere. Istantaneamente lei faceva cadere qualsiasi cosa avesse per le mani, il suo libro, il pettine, il cencio per spolverare, e recitava le preghiere dell’Angelus. Mi metteva a disagio. – Perché ti imbarazzi? – mi domandò. – Dovresti essere liberale. Danne la prova, qui, dentro casa tua. Ai pasti annunciò che avrebbe prima ringraziato il Signore, io guardai papà che si strinse nelle spalle, poi fissammo scioccamente i nostri piatti fino a quando ciò non fu fatto. Era completamente presa. Passava ore e ore nella sua camera, fumando sigarette stesa sul letto e riflettendo su quanto fosse effimera la vita. Io non riuscivo a coglierne l’essenza. A volte pensavo che fosse la paura della morte collegata alla nascita. Una notte fui preda dell’antica passione, mi infilai nel letto accanto a lei e l’abbracciai. Era profondamente addormentata. Poi si svegliò, accese la luce, si sollevò su un gomito e mi fissò, con vapori di calda pietà che le uscivano dagli occhi. – Dovresti praticare dell’autocontrollo, – sorrise. – Ti farà diventare molto forte. – E chi vuole diventare forte? – Ho letto una poesia oggi. Recitava cosí: Prendi tutti i piaceri di tutte le sfere celesti Moltiplicane ognuno per anni senza fine Un minuto di Paradiso li vale tutti.
Date le circostanze cercai di fare un’uscita nel modo piú dignitoso possibile, e strisciai nel mio letto, domandandomi dove saremmo andati a finire. Due volte alla settimana lei andava alla canonica di San Bonifacio per ricevere l’istruzione religiosa. Leggeva il catechismo e qualche semplice testo che le dava il prete. Ma non erano sufficienti. Era una lettrice rapida, vorace, che ingurgitava tutto quello che riusciva a trovare sul soggetto. Leggeva il diritto canonico, l’Aquinate, Da Kempis, sant’Agostino, le encicliche papali, e la Catholic Encyclopaedia. Una sera, mentre ero steso pigramente nella vasca, bussò alla porta ed entrò. – Credi nel libero arbitrio? A quella domanda potevo rispondere, perché ricordavo l’argomento dai tempi del catechismo a scuola. – Certo che credo nel libero arbitrio.
– Ma gli idioti hanno il libero arbitrio? I matti? Quello non c’era nel catechismo. – Per gli idioti, non saprei. Raggiò di serenità. – Io sí, invece. – Evviva! Aveva deciso che passate quattro settimane, pochi giorni prima di entrare in ospedale, si sarebbe fatta battezzare. Stava attraversando un periodo in cui la scelta di un santo patrono la assorbiva completamente, anche se con qualche difficoltà. Li vagliava tutti, e da centinaia si ridusse a dover scegliere fra due: santa Elisabetta e sant’Anna. Io non volevo entrarci in quella storia, ma lei ne parlava sempre. Alla fine dissi: – Che c’è che non va in santa Teresa? Gode di una grande reputazione, in tutto il mondo. – Troppo popolare, – disse Joyce. – Non è oscura, non è abbastanza misteriosa. Inoltre, era una donna banale da morire. Personalmente sarei favorevole a santa Elisabetta. Era molto ricca e bellissima. Scriveva anche bene. Mi sento molto vicina a santa Elisabetta. Credo che lei mi capisca meglio di chiunque altro nel mondo. – Ma che fortuna. Mi rivolse un sorriso dolce e tollerante. – Sono pronta per le tue beffe. Mi sono preparata. – Non mi sto facendo beffe di te. Solo che non voglio entrarci. Ho già abbastanza guai per conto mio. – Sei sempre nelle mie preghiere, – disse. – So quanti problemi hai. Anch’io ero cosí una volta. – Oh, smettila. – Ma io prego veramente per te. E per il bambino. E per la pace nel mondo. Improvvisamente divenne irresistibile, e io balzai in avanti verso di lei, ma tutto quello che ricevetti fu un gran bacio sulla guancia mentre il pallone bianco mi colpiva sullo stomaco. Andò a comprare dei rosari, una statua di santa Elisabetta, e una quantità di crocifissi. Portò delle bottigliette di acqua santa e attaccò un’acquasantiera di bronzo alla porta di camera sua, in un luogo facile da raggiungere, cosí che avrebbe potuto farsi il segno della croce con l’acqua santa ogni volta che entrava nella stanza. La statua di santa Elisabetta fu sistemata in un angolo sopra una mensola molto lavorata. Davanti ad essa lei ammassava dei fiori, accendeva delle candele e leggeva le opere della santa. Dissi a papà: – Cosa pensi del fatto che Joyce sta diventando cattolica? – Buono. Bene. – Cosa c’è di buono? – È un male? – Vorrei poter pianificare la mia famiglia. – Allora pianificala. Avanti. Bambini. – Bambini, certo. Moltissimi. Ma li voglio quando decido io, papà. Niente controllo delle nascite nella chiesa, papà. – Controllo delle nascite? – Non si può far nulla perché non arrivino. Continuano e continuano a venire. – Ed è un male? È un bene, quello. – Non siamo piú contadini, papà. Dobbiamo fermarci da qualche parte. Strizzò gli occhi. – Non mi piace come parli.
– Un uomo dovrebbe essere in grado di decidere quando vuole un bambino. – Mi hai sentito, figliolo. Non mi piace. – E se arrivano e noi non abbiamo soldi? – Te li guadagni. – È dura, papà. Il suo pugno si sollevò, poi le dita si aprirono e mi afferrò per il bavero. – Non i miei nipoti, capito? Lasciali in pace. Lasciali venire. Hanno tanto diritto quanto te. Allontanai la sua mano. – Non ha niente a che vedere con i diritti, papà. È una questione di economia. – Piantala di leggere quei libri. – Libri? – che libri? Non posso neanche permettermene troppi. – Non potevamo permetterceli neanche io e la mamma. Nemmeno uno. Ma ne abbiamo avuti quattro. L’abbiamo fatto senza soldi, solo con qualche dollaro, che non bastava mai. O preferivi che avessimo usato qualche cosa comprata in farmacia, cosí non saresti nemmeno nato, senza tua sorella e senza i tuoi fratelli, e io e la mamma da soli nel mondo? Per che cosa? Messa in quel modo, non ammetteva risposta. – Credo che di fondo tu sia un uomo religioso, papà. Tu credi davvero. – Nipoti. Ecco in cosa credo. E lascia stare i libri. Sí, lei era davvero presa, aveva la passione di una convertita. Le piaceva camminare su e giú davanti alla statua di santa Elisabetta, recitando il rosario. Attraverso la porta accostata la vedevo andare avanti e indietro, lei con il bambino, con le labbra che recitavano le preghiere, e con gli occhi che andavano verso la sua immagine riflessa nello specchio mentre provava a tirare in dentro e in su la pancia. Una mattina venne con me fino al garage. – Capisci certamente che dobbiamo sposarci al piú presto. – Siamo già sposati. Ci ha sposato il giudice di pace a Reno. – Quella era una cerimonia civile. Per quello che mi riguarda, non conta nulla. – Per me sí. – Voglio che il mio matrimonio sia santificato. – Vuoi dire – avremmo vissuto in adulterio per tutti questi anni? – Ci sposeremo dopo il mio battesimo. È una cerimonia bellissima. Saremo sposati fino alla fine dei nostri giorni –. Sorrise. – Non potrai mai divorziare da me, mai. Non si discute con la madre che aspetta il tuo bambino. Fai del tuo meglio, e cerchi di farla stare allegra. Adesso ai suoi occhi appartieni a una casta inferiore, sei appena tollerato, la parte che hai avuto è piuttosto piccola, lei è diventata la star dello spettacolo, e ci si aspetta che tu ti sottometta, perché la sceneggiatura dice cosí. Altrimenti potresti indisporla, arrecarle angoscia, e conseguentemente danneggiare il bambino. – Cosa vuoi che faccia, cara? Dimmi esattamente, con parole tue, cosa vuoi che io faccia. – Verrà da te padre Gondalfo. È il mio insegnante. Voglio che parli con lui. Due giorni dopo, padre Gondalfo venne a casa nostra. Quel pomeriggio lo trovai seduto in salotto con papà e Joyce. Padre Gondalfo era un tipo tosto. Era stato il cappellano dei Marine nel Pacifico del Sud. Mi aspettava da piú di un’ora. Si era tolto la giacca per via del caldo, ed era rimasto con una maglietta bianca, con i peli neri del petto carnoso che spuntavano fuori attraverso il cotone. Aveva le braccia da lottatore e si teneva in forma giocando a palla contro la parete del garage della parrocchia. Era un prete
giovane, non aveva piú di quarantadue anni, una faccia scura da siciliano, il naso rotto, e il taglio di capelli da militare. Sembrava una guardia o un placcatore di santa Clara. Nel momento in cui lo vidi capii che era, come me, di origine italiana, e l’essere consanguinei stabilí rapidamente una violenta familiarità. Mi frantumò le nocche stringendomi la mano. – Sono le cinque e mezza, Fante. Dove sei stato? Glielo dissi, a lavorare. – A che ora stacchi? Glielo dissi, poco dopo le quattro. – Le quattro? E dove sei stato durante l’ultima ora e mezza? Glielo dissi, da Lucey’s a bermi un bicchiere. – Ma non sai che tua moglie è incinta? Joyce era seduta su una poltrona, con la sporgenza sistemata comodamente sul grembo, e le ginocchia appena aperte per sostenerla. Adorava padre John. Avvertii anche l’ammirazione di papà, e una leggera ostilità nei miei confronti. – Cosa c’è che non va nel bere a casa tua? – disse padre John. – Con tua moglie e con questo grande uomo che è tuo padre? Non ci hai mai pensato? Mi stupii delle sue spalle, della nera intensità dei suoi occhi. – Certo, padre. Bevo anche a casa, molto. – È ora di mettere la testa a posto, Fante. – Certo, padre. Ma… – Non discutere con me, ragazzo. Pensi che io sia appena sceso dal traghetto di Hoboken? Non volevo discutere con nessuno. Guardando Joyce vidi che ammirava il fervore della vaga ammonizione di padre John. In quel momento non mi approvava affatto. E neanche papà, seduto davanti a una bottiglia di vino, che si bagnava le labbra e annuiva con saggezza alle parole del prete. Padre John batté una contro l’altra le sue possenti mani, le fregò con forza, e disse: – Diamoci da fare. Fante, tua moglie vuole convertirsi alla Chiesa Cattolica Romana. Ci sono obiezioni? – Nessuna, padre. E quella era la pura e semplice verità. Non ci potevano essere obiezioni. Avrei voluto diversamente, avrei sperato che lei rimandasse quel suo desiderio di un po’, ma quella era ancora un’altra cosa. – E per quello che riguarda te? Tuo padre, quest’uomo grande e meraviglioso, mi dice che ha sudato e lottato per darti una buona educazione cattolica. Ma ora tu leggi i libri, e, diciamo, scrivi libri. Cosa hai contro di noi, Fante? Devi essere una persona con cervello. Dimmi. Sto ascoltando. – Non ho niente contro la chiesa, padre. È solo che mi piace pensare… – Ah, ecco! L’infallibilità del Santo Padre. Allora vuoi sapere se il Vescovo di Roma è veramente infallibile per quello che riguarda la fede e la morale. Fante, te lo dico io una volta per tutte: lo è. Ora, cosa altro c’è che ti dà noia? Andai vicino a papà, gli presi la bottiglia, e tracannai un sorso. L’attacco improvviso di padre John mi aveva fatto vacillare, e dovevo tranquillizzarmi. – Vede, padre. La Beata Vergine Maria… – Te lo dico io della Beata Vergine Maria, Fante. Te lo faccio capire chiaramente, senza possibilità di equivoci. Maria, la Madre di Dio, ha concepito senza peccato, e alla sua morte è stata assunta in cielo. Un uomo della tua intelligenza può senz’altro capirlo. – Sí, padre. Per il momento l’accetterò. Ma durante la messa, alla consacrazione… – Alla consacrazione, il pane e il vino diventano il corpo e sangue di Cristo. Che altro c’è che ti preoccupa? – Beh, padre. Quando un uomo si va a confessare…
– Cristo ha dato ai suoi preti il potere di perdonare i peccati quando ha detto: «Ricevete lo Spirito Santo. Coloro ai quali perdonerete i peccati, saranno perdonati; e coloro ai quali non li perdonerete, non saranno perdonati». È nel Nuovo Testamento. Leggitelo. – Capisco le parole, padre. Ma nella dottrina del peccato originale… – Ah! Eccoci! Per peccato originale intendiamo che come figli dei nostri genitori siamo concepiti nel peccato e vi restiamo fino al glorioso sacramento del battesimo. – Sí, padre. Lo so. Ma la resurrezione… – La resurrezione? Per l’amor del cielo, Fante, è facile, dai. Cristo Nostro Signore è stato crocifisso, e poi è risorto dalla morte, che è la promessa dell’immortalità per tutti i suoi figli. O preferisci morire come un cane, confinato per sempre nell’oblio? Sospirai e mi sedetti. Non c’era altro da dire. Papà si schiarí la gola, con un sorrisetto sulle labbra, mentre alzava la bottiglia. C’era uno strano calore nei suoi occhi. Della cenere grigia si sparse cadendo sul suo grembo. – Il ragazzo legge troppo, padre. Glielo dico da anni. Eravamo arrivati al «ragazzo», ora. – Ma a me piace leggere, papà. Fa parte del mio mestiere. – Sono quei libri, padre. Controllo delle nascite, me l’ha detto lui. – Controllo delle nascite? – padre John sorrise con tristezza scuotendo la testa. – Te lo dico io com’è il controllo delle nascite nella Chiesa Cattolica. Non c’è. – Gliel’ho detto, padre. Gli ho detto: «Non mi piace quella roba». Non è colpa della ragazza, padre. Lei è protestante. Fa del suo meglio. Ma lui: me l’ha detto lui: «Voglio controllare la mia famiglia», me l’ha detto sarà un paio di giorni fa. A me, suo padre. – Sí, ho affermato qualcosa del genere, – ammisi. – Ma quello che volevo dire era questo, padre. Il mio stipendio… – Vede? – mi interruppe papà. – Sono sposati da quasi quattro anni. Abbastanza tempo per farne due, un bambino e una bambina. I miei nipoti. Ma ci sono, padre? Vada di sopra. Guardi in tutte le camere, sotto i letti, negli armadi. Non li troverà. Il piccolo Nicky e la piccola Filomena. Nicky avrebbe quasi tre anni, ora, parlerebbe con suo nonno. La bambina, lei avrebbe appena iniziato a camminare. Li vede lei in giro, padre? Vada fuori, in giardino; cerchi in garage. No, non li troverà, perché non ci sono. Ed è colpa sua! – L’indice destro di mio padre, quello con l’unghia rotta, fu puntato contro di me. – Smettila, papà. – No, non la smetto. Voglio sapere, perché sono il loro nonno; dov’è Nicky? Dov’è Filomena? – E che ne so io dove sono? Joyce andò accanto a papà e si sedette vicino a lui. Parlava piano, tenendogli la manaccia grossa e rossa. – Non ce ne sono stati altri, papà Fante. Credimi. Quello non era il modo di trattarlo, perché si sarebbe crogiolato in sentimentalismi. Si rattristò davvero, con il mento che gli tremava, e gli occhi improvvisamente umidi. Cercai di mandare con lo sguardo un messaggio a Joyce. Era vero che mi ero opposto a una gravidanza prima che potessimo permettercelo. Era anche vero che lei invece avrebbe corso il rischio anche senza soldi. Ma io non avevo mai considerato, con quelle scelte, di fare torto a delle entità umane distinte, né gli avevo dato dei nomi, a quei bambini mai concepiti, e ora vedevo la perdita negli occhi di Joyce, la disperazione, dal momento che papà aveva espresso tutto ciò in modo cosí sentimentale. – Sto parlando con il mio sangue, – continuò papà. – Ci sono due bambini che non vedrò mai, ma sono qui, da qualche parte, e il loro nonno non si sente tanto bene, perché non gli può comprare dei gelati.
Si mise a piangere, cacciandosi le grosse nocche negli occhi e spingendo via le lacrime. Prese un altro sorso dalla bottiglia e si alzò in piedi, con un miscuglio di vari umori, pulendosi la bocca, aspirando il sigaro, piangendo, gustando il vino, compiaciuto del suo ruolo di nonno disperato, e con il cuore infranto perché i bambini non c’erano. Padre John lo circondò con un braccio, stringendolo con rude affetto. Borbottarono qualcosa come un addio in italiano, poi papà si avviò barcollando di sopra per farsi passare la bevuta, con il mento in fuori, il petto in fuori, verso camera sua, su per le scale con coraggio, trionfante su per le scale. Rimanemmo in silenzio per un minuto. Joyce si asciugò gli occhi e il naso con un fazzoletto. – È il vino, – le spiegai. – Il vino lo fa diventare molto sentimentale. – E tu? – domandò il prete. Io mi strinsi nelle spalle. – Faccio del mio meglio. – Mi domando… Doveva lasciarci. Papà l’aveva rattristato. Lo aiutai a infilarsi il suo pesante soprabito nero, poi uscimmo tutti e tre sul prato verso la sua macchina. Ci stringemmo la mano. – Attenzione a come parli davanti a tuo padre, – mi avvertí. – È molto sensibile. – Lo so. – Voglio che tu torni alla chiesa. – Cercherò di farlo, padre. Lo guardammo allontanarsi, la macchina si immise sul Wilshire Boulevard, il rumore del traffico di quel tardo pomeriggio era come un vasto fiume in primavera. Tornammo a casa in silenzio. Lei entrò in cucina dopo di me, e io presi dei cubetti di ghiaccio per un drink. Mi guardò in silenzio mentre preparavo dei Martini. – Ti aiuta? – le domandai. – Sí. – Non diventerà mai vescovo. Né monsignore. – Ma è un santo per davvero. Semplice, onesto, non ha mai dubbi. – Semplice, proprio. – Ha la fede. – Mi domando da dove abbia preso la sua teologia. Lei sospirò. – Lo ammetto. La teologia gli crea qualche problema. Non riesce a spiegare il corpo mistico di Cristo. E non lo sa, ma in realtà è un calvinista, e crede nella predestinazione. Ho cercato di riportarlo sulla retta via per tutta la settimana, ma non riesco a farglielo capire. Benedetto il ventre che porta mio figlio! La baciai e bevemmo un Martini. Lei sorseggiava pensierosa, c’era qualcosa che la disturbava. Ora era quasi buio. Portò il drink in salotto. Dopo poco andai anch’io, e la cercai nella stanza oscura. Era seduta immobile vicino alla finestra. Fui sorpreso nel vedere che stava piangendo piano. – Cosa c’è, cara? – Tuo padre ha ragione sul bambino e la bambina. Oh, perché non li abbiamo avuti?
Sei
Due settimane dopo, papà decise di cominciare i lavori in casa. Fu una decisione che venne accolta con grande gioia. Eravamo stufi delle tavolacce che coprivano il buco del pavimento in cucina. Sinistri odori di marcio si diffondevano dalle fessure, e tutti inciampavano sugli spigoli. La donna delle pulizie si era infilata delle schegge sulla mano e si rifiutava di lavare il pavimento fino a quando non sarebbe stato riparato. Da quel buco venivano fuori cose malvage. Ogni mattina, la prima persona che entrava in cucina veniva spaventata da una fuga convulsa di goffe blatte marroni. Joyce chiamò il Dipartimento di Igiene che prescrisse alcuni prodotti. Ma il Ddt le faceva solo inciampare, in modo che finivano sui loro ampi dorsi agitando allegramente le zampe. Di notte si riusciva quasi a sentirle, mentre si lasciavano andare a un bestiale abbandono. Di solito era papà a svegliarsi per primo la mattina, preparava la colazione per sé, ma il caffè lo faceva per tutti. Interrompeva il digiuno con un bicchiere di chiaretto nel quale galleggiava un uovo crudo. Quella raffinatezza sembrava un occhio giallo messo sotto aceto. Una volta Joyce lo vide ingoiare quella leccornia, e fu la prima e l’unica volta in cui ebbe la nausea la mattina. Papà conservava i gusci delle uova per il caffè. Credeva che ne migliorassero il sapore. Eravamo degli instancabili sperimentatori per quello che riguardava il caffè, Joyce e io. Per anni avevamo provato di tutto, ma piú di ogni altra cosa preferivamo filtrarlo. Era il nostro piccolo rituale di ogni mattina, macinare dei chicchi freschi, aggiungerci un pizzico di sale, e versarci sopra dell’acqua calda ma non bollente. Era un metodo infallibile. Ogni volta dava quello che si voleva: del buon caffè. La formula di papà era prendere delle manciate di caffè macinato, metterlo in un tegame, e lasciarlo lí a cuocere. A quell’infusione aggiungeva poi i gusci d’uovo e li lasciava a bollire un altro po’, ottenendo cosí una specie di zuppa. Era un caffè feroce, divorava il latte senza quasi cambiare colore. Quando lo si girava, il cucchiaino inciampava nella ghiaia e alcuni frammenti piccoli e sospettosi venivano a galla per poi ripiombare sul fondo. Davanti agli occhi galleggiava il bianco cotto dell’uovo, e non si finiva mai di sputare pezzetti di guscio. Era, per farla breve, un intruglio infernale. Lo sorseggiammo per dovere, per essere gentili, e piú tardi mi presi un buon caffè in ufficio. Ma tutto ciò era molto scomodo per Joyce. Adorava il caffè e, per poterselo fare, doveva precipitarsi giú prima che arrivasse papà. Quella mattina papà aveva indossato i suoi abiti da lavoro. Consistevano nelle stesse cose che aveva portato i giorni precedenti, ma senza cravatta. Non c’era dubbio che l’avesse tolta per mettersi in azione. La sua sacca degli attrezzi era aperta sulla veranda dietro la casa, aveva una matita infilata dietro l’orecchio, e stava davanti al buco rappezzato con un metro da muratore in mano. Sembrava immerso in pensieri profondi, e guardava il pavimento strizzando gli occhi attraverso il fumo del sigaro. Sorridemmo con gratitudine. Dopo tanto tempo il lavoro sarebbe stato fatto. Non era il momento di parlare, eravamo tutti consapevoli dell’importanza di quell’istante. Lui aveva fatto il caffè, e il suo aroma bruciato aveva impregnato l’aria. Joyce aveva preso le tazze e i piatti e aveva apparecchiato senza un rumore. Papà aprí il suo metro e fece delle misurazioni oscure. Si tolse il sigaro di bocca, ne morse un pezzetto che si era staccato, e disse ad alta voce, parlando a se stesso: – Deve essere due per dieci –. Chiuse il metro da muratore. – Deve
proprio essere due per dieci. – Dici i travicelli, papà? – domandai. Ciò interferí sulla purezza dei suoi pensieri. Si girò lentamente. – Ti ho mai detto come scrivere un racconto? – No, papà. – Allora pensa agli affari tuoi. Andò alla sua sacca degli attrezzi e ne ritornò con un martello e con un palanchino corto. I chiodi stridettero quando strappò via un paio di assi provvisorie. Si stese sullo stomaco e la testa scomparve nel buco. Ciò che vide non fu soddisfacente. Levò altre due assi. Si lasciò cadere sul terreno sotto la casa. Per tre o quattro minuti scomparve totalmente. – Sa quello che fa, – sussurrai. – Sembra deciso. Quando emerse, aveva ragnatele drappeggiate intorno al cappello e al sigaro, poi si tirò su, sputacchiando e passandosi le mani sulla faccia. – Due per dodici, – disse. – E sai perché? – Vuoi dire i travicelli, papà? Mi fissò. – Vuoi stare qui ad aggiustare il pavimento mentre io vado a scrivere un racconto? – Ho solo fatto una domanda, papà. Si girò, con negli occhi uno sguardo vago. – Due per dieci va bene lo stesso. Alzerà di un pochino gli stipiti. Sai perché l’ha fatto? – Fatto cosa, papà? Senza rispondere, andò alla finestra e guardò verso il vialetto. – Due per dodici? Diavolo, ma che c’è che non va con quattro per quattro? Scomparve di nuovo nella veranda sul retro e ne tornò con un martello. Rimise le assi sopra il buco e le inchiodò. Raccolse i suoi attrezzi e li buttò nella sacca. Poi sparí nel giardino dietro la casa. Quando uscii per andare in garage, pronto per recarmi al lavoro, lo trovai seduto sotto l’ombrellone. Si grattava il mento e sembrava essere seccato. – Tutto bene, papà? Sputò un pezzo di sigaro dalla bocca. – Vai a scrivere il tuo racconto, figliolo. Presto nel pomeriggio, telefonò Joyce. – Abbiamo una sorpresa per te. Ma io non ero sorpreso, perché sapevo bene come lavorava quell’uomo. Improvvisamente, teatralmente, finiva le cose. – Il miglior paio di mani della California, – dissi. – È un genio. No – non era un genio, eppure aveva le qualità di un genio, una brillantezza dinamica che emanava da lui dopo attenta meditazione. Cinquant’anni a fare il muratore l’avevano reso il migliore in quel campo. Tornando a casa, mi ricordai di come era rimasto in cucina, assorto nei suoi pensieri, spazientito dalle mie domande. Mi aveva preoccupato moltissimo. Forse il danno delle termiti era peggiore di quanto avessi immaginato? Adesso era chiaro che avevo esagerato le mie previsioni. Rapidamente, abilmente, in uno sprazzo di energia, lui invece aveva terminato il lavoro, e il tono caldo della voce di Joyce mi aveva detto che lei era molto contenta. Ancora una volta provai quel vecchio, confortevole sentimento per la mia casa e per mio padre. Grazie a Dio era ancora vivo! Che Dio gli conceda molti altri anni su questa
terra, e a me la possibilità di dimostrargli la mia gratitudine e ammirazione. Questi erano i miei sentimenti mentre tornavo a casa, chiudevo il garage e mi affrettavo in cucina passando dalla veranda sul retro. Il pavimento non era stato riparato. C’erano le stesse assi di pino grezzo che coprivano il buco. Non era cambiato nulla. Ma dalla parte anteriore della casa sentivo battere, erano i colpi dell’acciaio che frantuma l’intonaco. Li trovai in salotto, Joyce e papà. Stavano abbattendo il caminetto. C’era della polvere che si levava dai mattoni e dall’intonaco che avevano sbriciolato. Sembravano dementi. Joyce con un martello, papà invece brandendo un palanchino, stavano eliminando la vernice dai mattoni. C’era una sciarpa intorno ai capelli di Joyce, la polvere e lo sporco le insudiciavano la faccia. Portava un paio di pantaloni premaman di seta verde e una camicia gialla, e il suo viso era caldo e rosso per lo sforzo. Papà lavorava con metodo, teneva il sigaro fra i denti, e con il palanchino estraeva i mattoni dal muro, per farli poi cadere a terra. I mobili erano stati spostati e coperti. Un pezzo di stoffa proteggeva il pavimento. Poi Joyce mi vide. – Ciao, – gridò. – Ma che sta succedendo qui? – Stiamo costruendo un nuovo caminetto. – E perché? Fissai quella rovina. Il vecchio camino, nella sua semplicità, andava benissimo. L’avevo provato una volta e aveva bruciato bene, senza fumare. Non era un’opera d’arte, ma era adatto al salotto. – Non c’è niente che non va in quel camino. Joyce si scrollò la polvere dai vestiti. – L’ho sempre odiato. Dal giorno in cui ci ho messo gli occhi sopra. – Avresti dovuto parlare con me prima, però. – Perché? Tanto doveva essere fatto. – Non doveva essere fatto neanche per idea. – Bisogna buttarlo giú, – disse papà. – Ma cos’ha che non va? Accennò alla sporgenza impolverata di Joyce. – Domandalo a mio nipote. Non vuole un camino di Los Angeles. Vuole il camino che gli ha costruito suo nonno. Chiacchierando con grande eccitazione, Joyce mi mostrò i progetti che papà aveva disegnato su un foglio protocollo. Sarebbe stato un caminetto massiccio, alto sei piedi e largo dieci, costruito con strisce sottili di pietra dell’Arizona. Le giunture sarebbero state riempite di calcina nera. Una sola pietra spessa avrebbe formato la mensola. Secondo le spiegazioni, era esattamente due volte la grandezza del camino che stavano demolendo. Era davvero grandioso. Sarebbe stato al suo posto in uno chalet svizzero, in una capanna da caccia, o in un Elk’s Club. – Ma non c’è bisogno di demolire anche una parte del muro, – dissi. – Lasciami fare, – disse papà. Joyce tese le braccia verso il camino. – Sarà stupendo. Cosí grande e bello. Staremo caldi e a nostro agio. – Fantastico, – dissi. – Specialmente quando la temperatura crolla a venticinque sotto zero, e diciotto piedi di neve paralizzano il traffico sul Wilshire Boulevard. – È per mio nipote, – disse papà sognando. – Durerà mille anni. Niente al mondo lo potrà buttare giú. Durerà piú di qualsiasi altra cosa a Los Angeles. Mi figurai la scena, non dopo mille anni, ma solo dopo dieci o quindici, quando la nostra casa sarebbe stata senza dubbio demolita per fare posto a un parcheggio, con le macchine che vi sarebbero entrate e
uscite, ma sempre girando attorno all’indistruttibile camino di papà, che avrebbe vinto contro tutti gli sforzi compiuti per tirarlo giú. – Papà, – dissi. – Quando aggiusterai il buco nel pavimento di cucina? – Non è un lavoro per me, quello. Chiama un falegname. Io ero contrario a quella cosa. Aveva un che di folle. Seguirono giorni di grande preoccupazione. Arrivarono i materiali. Furono scaricati sul prato davanti a casa, quattro tonnellate di pietra, una montagna di sabbia, una pila di mattoni, sacchi di cemento, pezzi di legno. Giorni problematici, grandi buchi in casa, una moglie incinta che ora credeva di essere un portatore di calcina, e un vecchio con la passione di costruire. Era la calcina che la affascinava. Papà aveva costruito un cassone per mischiarla: calce, cemento, sabbia e colore nero. Lei non riusciva a resistere a tutto ciò. Si comprò dei guanti di stoffa e un cappello messicano a tesa larga. Per tutto il giorno girava la calcina con un attrezzo, impastandola, colpendola, aggiungendoci acqua. Era come una bambina che faceva le torte di fango. Le macchiava le scarpe, le sporcava i pantaloni. Una donna incinta non avrebbe dovuto mischiare la calcina. Non era raccomandato in nessun libro. La misi in guardia perché non esagerasse. Lei non mi prese sul serio. Negò. Ma quella roba le lasciava delle macchie nere rivelatrici sui sandali, sui gomiti, nei capelli. Sebbene indossasse i guanti di stoffa, le venne una vescica sul pollice. – Mi sono bruciata con un fornello, – mentí. Papà faceva il lavoro pesante. Impastava la calcina, la portava a secchi davanti al camino, poi la rovesciava sullo sparviero. Tagliava le pietre, le metteva una sull’altra nella carriola e le trasportava davanti al camino. Maneggiava i mattoni. E lei giocava. Certe pietre le piacevano; grandi o piccole, le voleva portare lei. Erano pietre carine, diceva, e voleva che facessero figura. Ma erano pesanti, e lei le tirava, le trascinava, cercava di sollevarle. Poi tornava alla calcina. – Le dia un po’ d’acqua, signorina Joyce. Lei ci aggiungeva un po’ d’acqua, poi la rimestava, e la lisciava. Oppure si sedeva a guardarlo lavorare, e lui le chiedeva gli attrezzi. – Martello. – Livella. – Cazzuola. Una volta la trovai a mezzogiorno con le mani arrossate nel giardino davanti casa, mentre gettava sabbia nel cassone della calcina. Non lo poté negare, perché era a meno di dieci piedi di distanza da me, con la pala in mano, e gocce di sudore che le colavano dalle tempie. Le presi la pala. – Smettila di comportarti come una sciocca. Alzò il mento e si diresse verso casa. La seguii. Era ferma davanti al camino, con le braccia incrociate, gli occhi colpevoli che evitavano i miei. – Continua cosí e abortirai. – Chi abortisce? – disse papà. – Non voglio che sollevi dei pesi, che usi la pala. – Non le farà male. – Non voglio correre rischi. – Non le farà male. In Abruzzo, le donne lavorano fino all’ultimo giorno, lavano i vestiti, puliscono la casa, vanno nei campi. Fa bene alle madri. Mantiene i muscoli forti. Lei si girò verso papà.
– Aveva solo bisogno di un pochino di sabbia. Solo una palata o due. – Una palata o due non fanno male a nessuno. Le diede uno sguardo, e gli occhi gli diventarono dolci e compiaciuti. – Un bel bambino. Il bambino del nonno. – Ascolta, papà. È mia moglie. Si rovinerà la salute. Qui non siamo in Italia. Non è abituata. – E lui è mio nipote. E starà bene. Erano schierati contro di me, c’era un muro fra noi, un camino. Andai da lei nella calma della notte, passando in punta di piedi davanti alla camera di papà da dove proveniva il suo russare che sembrava il fischio di una bomba. Lei aveva gli occhi vitrei per aver letto troppo diritto canonico, trasalí nel vedermi, e poi tornò al suo libro. – Come ti senti? – Bene. – Non manca piú molto. Silenzio. – Non mi importa piú, – dissi. – Maschio o femmina, mi va bene comunque. Silenzio. – Da ora in poi dovrai essere molto attenta. Scansò il libro, si tolse gli occhiali e mi fissò con un’aria strana. – Se dovessi morire, tu non potresti comunque sposare mia sorella. – Non voglio sposare tua sorella. – È molto carina. Ma non potrai mai averla. Mai. È la legge della chiesa. – Ma io non sono interessato a tua sorella. – Anche se lo fossi, non servirebbe a nulla. – Non lo sono. – È un’ottima legge. Molto saggia. – Cosa ti fa pensare che morirai – Non morirò. Ho detto, se dovessi morire. Parole sinistre. C’era forse la premonizione di una tragedia nella profondità della sua anima? Quali movimenti nei segreti luoghi della sua psiche la spingevano a subire il fascino di quel passo della legge della chiesa? Considerai attentamente la situazione. Il mio pensiero andò al dottor Stanley. Se non lo avessimo ossessionato cosí tanto in passato, l’avrei chiamato. Ahimè, troppe volte avevamo gridato al lupo. Se solo fra i miei amici vi fosse stata una madre che avesse potuto parlare a questa sciocca ragazza e dirle dei rischi che si correvano a sollevare gli oggetti pesanti. Ma io non conoscevo madri. Conoscevo moltissime mogli, ma nessuna madre. Vennero i giorni degli inganni vergognosi. Perché ora cercavo di sorprenderla. Tornando dall’ufficio, entravo dalla strada a nord invece che da sud, sperando di sorprenderla al cassone della calcina. Una volta parcheggiai a un isolato di distanza e arrivai a piedi. Ma non era nel giardino davanti casa. E fu cosí che la sorpresi un’altra volta. Quel pomeriggio avevo finito alle due, arrivai in macchina a un isolato da casa, e parcheggiai dietro l’angolo. Coprii il resto della distanza a piedi. E da quella distanza la beccai. Era in ginocchio dietro a una pila di pietre, e con le sue piccole mani aveva preso una mazza col manico corto. Stava dando dei colpi a un pezzo di pietra, e lo stava rompendo in parti piú piccole per il camino. Con un urlo le corsi accanto. Lei fece cadere la mazza, soffocò un grido, e scappò in casa. Io saltai lo steccato ed entrai dietro di lei. Non era in salotto. Papà era al caminetto, con una cazzuola in mano.
– Dov’è mia moglie? Lui alzò le spalle innocentemente. Salii su per le scale. Lei si era chiusa nel bagno. Sentivo il sibilo dell’acqua della doccia. Andai in camera sua. Tutto era pronto per l’evento piú importante della sua vita. Una settimana prima aveva riempito una valigetta con le cose che le sarebbero occorse in ospedale. Giaceva aperta su un tavolino, e vi guardai dentro. C’erano dei pettini, una spazzola, uno specchio con il manico. Un orologio. Delle pantofole. Un astuccio con degli oggetti di cartoleria. Una penna stilografica. Alcune camicie da notte. Una vestaglia. Un set per il manicure. Colonia. Dei fazzoletti, qualche spilla. Tutte le piccole cose della vita di una donna. Uno sull’altro in un angolo c’erano i regali che aveva ricevuto a una festa in onore del nascituro: dei giocattoli, dei biberon, dei lenzuoli, alcuni vestiti per neonati, un piattino d’argento, una forchettina e un cucchiaino. Accanto alla sua camera da letto c’era la veranda chiusa che aveva trasformato in una nursery. C’erano la culla, una chiffonier, una vasca piccola, un cavallo a dondolo, una bambola. Era tutto rosa, rosa per una bambina, con le tende rosa, e dei nastri rosa. Che fosse una bambina, allora. Ma maschio o femmina, bisognava dargli una possibilità, lasciarlo vivere! C’era bisogno di una resa dei conti. La porta del bagno si aprí e lei entrò in camera. Mi guardò senza alcuna sorpresa. La doccia le aveva lavato via il trucco dal viso, aveva le labbra di un rosso pallido, e i suoi capelli bagnati ricadevano in giú come uno scopettone per pulire il pavimento. – Allora? – disse. – Voglio parlarti. – Davvero? Iniziò a spazzolarsi i capelli. – Voglio che tu la smetta di fare la sciocca. Niente piú sollevamenti. Niente piú mazzate alle pietre. – È tutto? Avevo voglia di scuoterla. – Sono arrivato a una decisione. O tu la smetti o me ne vado di casa. Lei sorrise e scosse i capelli bagnati. – Puoi andartene quando vuoi. – È quello che vuoi? – Sí, caro. Uscii cupo. Lei aveva scelto. Sola. Ma non me ne andai. Non si possono lasciare quando sono in quelle condizioni. Ci vuole molto tatto. Né bisogna fare delle affermazioni brusche. Ci vuole una grande pazienza, ma non si può andare via.
Sette
La punizione era inevitabile. Due notti dopo lei pagò per la sua follia. Entrò in camera mia dieci minuti dopo la mezzanotte. Bastò uno sguardo alla sua faccia di gesso, ai suoi occhi spalancati, per capire che era arrivato il momento. Il dottor Stanley aveva predetto le prime doglie per il venticinque circa. Eravamo al dodici. Ma il dottor Stanley non aveva previsto un periodo intenso di mescolamento di calcina e di pietre frantumate. Appoggiata alla soglia, con una mano sulla sporgenza e l’altra sulla fronte, disse: – Credo che il bambino stia arrivando. Saltai giú dal letto. Lei stringeva i denti mentre aveva i crampi e osservava il suo orologio da polso, respirando forte. – Nove minuti. Stanno peggiorando. L’accompagnai a letto. Il sudore le copriva le tempie, e tremava. La sua mano nella mia era calda, umida, e tremava. Fissavamo insieme l’orologio. Dieci minuti dopo ebbe un’altra fitta. Durò trenta secondi. La sopportò a denti stretti, e con i pugni serrati. Ricordai gli avvertimenti letti sui libri. – Le acque? – Chiama il dottor Stanley. Portami all’ospedale. Corsi giú per le scale e telefonai al dottore. Mi rispose un’infermiera. Avrebbe riferito il mio messaggio; e il dottore avrebbe richiamato. Di sopra Joyce era stesa sul letto. Chiamai papà. – Il bambino è in arrivo. Si svegliò istantaneamente. – Dove? – Si drizzò a sedere. – Il bambino? – Era fuori dal letto. – Come? Uscí barcollando dall’oscurità con i suoi mutandoni lunghi. Joyce gemeva. Papà si infilò la tuta. Tornai in camera. Joyce era distesa con gli occhi chiusi. – Come vanno le acque? – Dammi una sigaretta. Papà entrò allacciandosi le fibbie della tuta. Capí la situazione con uno sguardo. – Tu. Vai di sotto e fai bollire dell’acqua. – Per farci che? – Fai quello che ti dico. Non riuscivo a muovermi. Avevo sempre saputo che in tali situazioni le persone facevano bollire l’acqua. Ma che ci facevano poi? – Dobbiamo portarla all’ospedale. – Maledizione, fai bollire dell’acqua. Mi prese per la nuca e mi buttò fuori dalla porta. Per tutto il tragitto fino al piano di sotto mi resi conto che era follia. L’ospedale era solo a dieci minuti di distanza. Riempii il bollitore d’acqua, lo misi sulla fiamma e mi precipitai ancora di sopra. Papà era seduto sul letto accanto a Joyce, e le teneva la mano. – Hai chiamato il dottor Stanley?
– L’infermiera lo sta cercando. – Chiama padre Gondalfo. Voglio essere battezzata. – Acqua calda, – disse papà. Suonò il telefono. Corsi di sotto. Era la voce del dottor Stanley. – Il bambino sta arrivando, dottore. – Sembra che sia un po’ in anticipo. Ha le doglie? – È in agonia. – I dolori sono a intervalli regolari? Li ha cronometrati? – Ogni dieci minuti. È in agonia. – Farebbe meglio a portarla qui. – Va bene, dottore. Tornai di sopra. – Preparati, tesoro. Andiamo all’ospedale. – Acqua calda, – gridò papà. – Chiama padre Gondalfo, – mugolò Joyce. – Voglio essere battezzata. Il bollitore giú cominciò a fischiare, poi a urlare quando l’acqua si mise a bollire. Chiamai padre Gondalfo. Promise che sarebbe venuto all’ospedale entro quindici minuti. Afferrai il bollitore con l’acqua calda e lo portai di sopra. Joyce era in camera sua, seduta sul letto, con indosso una pelliccia, e delle pantofole ai piedi. Papà mi strappò il bollitore dalle mani. – Prendi la macchina. Portala davanti a casa. Si precipitò in bagno con il bollitore. Lo seguii. Volevo vedere cosa sarebbe successo. – Muoviti, – disse. – La macchina. Io rimasi lí. Non volevo che usasse nessuna delle sue tecniche abruzzesi con Joyce. Prese una bottiglia di brandy dall’armadietto delle medicine e ne versò una sorsata abbondante in un bicchiere. Poi vi aggiunse l’acqua calda e sollevò in alto quel miscuglio contro la luce. – Che fai? – Cosa credi? Scolò quella bevanda tutto d’un fiato. Bruciò per tutto il tragitto, finché non arrivò giú. – Ahaa! – disse. – Ora mi sento meglio. Muoviti, tu. Corsi di sotto, condussi la macchina fuori dal garage a retromarcia, e la portai davanti alla casa. Mi stavano aspettando sul marciapiede. Ci sedemmo tutti e tre sul sedile anteriore. Papà mise il braccio intorno alle spalle di Joyce. Lei non aveva dolori. Per tutta la strada fino all’ospedale, non ebbe fitte. Niente di tutto questo faceva presagire una paternità imminente, e io avevo il sinistro presentimento che tutto ciò fosse un falso allarme. Sembrava isteria piú che paternità; era qualcosa di informe, fumoso, come una esplosione senza causa. Io comunque andai avanti, perché non avevo modo di esserne sicuro. Ora il viso di Joyce esprimeva cautela; mostrava ritegno e preoccupazione. Papà teneva in bocca un sigaro spento. – Andrà tutto bene, – disse. Quella constatazione non aveva spessore, mancava di onestà. Piú ci avvicinavamo all’ospedale, piú avevamo la certezza non espressa che l’intera faccenda fosse un errore di calcolo. Poi lo dissi. Dovetti dirlo: – Forse non è veramente il momento, cara. Ciò provocò un ululato di costernazione da parte di Joyce. – Oh, per favore! – gridò. – Non pensarlo nemmeno! Altrimenti, io ne morirò. Con la mano sinistra, papà mi diede una tirata ai capelli. – Lasciala in pace, maledetto idiota.
– Era solo un pensiero che mi era venuto in mente. – Allora piantala. Dopo quello che hai fatto tu! – Io? Io non ho fatto nulla. Dapprima non capii quello che voleva dire. Lo guardai, i suoi occhi erano cattivi e fuori dalle orbite per il rancore. Qualcosa scattò nella sua mente. Poi capii. Stava ancora pensando a quando vendetti la sua betoniera per comprarmi una bicicletta. Era successo quasi venti anni prima, ma eccola lí, l’antica amarezza, che divampava in quello strano momento. – Per piacere, papà. Basta con quella storia. Il sigaro tremò assieme al suo mento. L’antica amarezza l’aveva privato della parola. Joyce si mise a singhiozzare. – Sono cosí infelice. Il braccio di papà si strinse attorno alle spalle di lei. – Dopo che sarà nato il bambino vieni a vivere con la mamma e me, – la placò. – Lascia questo tipaccio. Non combina altro che guai. Avrei dovuto spedirlo al riformatorio. Io strinsi forte il volante e rimasi fermo. Entrammo nel viale circolare davanti al cancello principale dell’ospedale. Di fronte ai gradini si profilava l’imponente figura di padre Gondalfo. Aprí la portiera non appena fermai la macchina. – Oh, padre! – singhiozzò Joyce. Papà scese. I due uomini aiutarono Joyce a uscire dalla macchina. Aveva gli occhi umidi di pianto. Il prete le appoggiò le sue grandi mani sulle spalle e la confortò. Lei piangeva piano. Papà e padre Gondalfo cominciarono a scambiarsi battute rapide in italiano. Agitavano le braccia, scuotevano la testa, si accigliavano, grugnivano, sogghignavano, sorridevano, brontolavano, roteavano gli occhi, facevano delle smorfie, oscillavano, mi indicavano, e alla fine caddero in un silenzio meditabondo, guardandosi l’un l’altro attoniti e tristi. Poi il prete gigante infilò la testa attraverso lo sportello della macchina e mi guardò, divorandomi con i suoi occhi scuri. – Tu. Parcheggia la macchina. Perché no? In un momento come quello era il dovere solenne di un padre posteggiare la sua automobile. Andai lungo la strada fino all’ampio parcheggio dell’ospedale. Quando tornai a piedi verso l’ingresso dell’edificio, se ne erano andati. Entrai e mi diressi all’accettazione. Avevano preso l’ascensore ed erano già da qualche parte ai piani superiori. Domandai all’infermiera dove fossero andati. Non voleva dirmelo. Dovetti firmare dei pezzi di carta prima che se ne potesse parlare. Poi mi disse di rivolgermi all’infermiera al dodicesimo piano. Anche lassú andò piuttosto male. Non riuscii a sapere nulla. Papà e padre Gondalfo non si vedevano da nessuna parte. La caporeparto mi informò che il dottor Stanley stava visitando Joyce. Era una donna bassa, con un petto robusto, la faccia rossa e dei muscoli in rilievo sulle braccia. Anche lei era troppo occupata per parlarmi. La sua scrivania era coperta di carte e di registri. – In che stanza è? – domandai. – Non la può vedere in nessun caso. – Ma sono suo marito. – Pensavo che il marito fosse il vecchio. – Lui è il marito di mia madre. È mio padre. Ritornò nuovamente alle sue carte. Altre infermiere arrivarono e se ne andarono. Io rimasi lí, cercando di non disturbare. Il telefono continuava a squillare. Un medico informò la capo reparto che la 1231 voleva del succo d’arancia. Lei sogghignò e disse: – Niente succo d’arancia –. Sopra di lei, sul muro di fronte, c’era una scatola elettrica con uno sportello di vetro. Un numero vi appariva e scompariva continuamente. Numero 1214, era un numero rosso. Andava
e veniva con frenetica urgenza. Nessuno vi prestava attenzione, né le infermiere, né i medici. – C’è mia moglie al 1214? – No. Accennai al vetro. – Qualcuno al 1214 vuole qualcosa. – Giovanotto, per favore, vada al 1245 e si metta a sedere. Andai dappertutto in cerca del 1245. Camminai su per un corridoio e giú per un altro. Non riuscivo a trovarlo. I numeri delle camere erano in sequenza, e c’erano delle porte non numerate. Provai a entrare in una di queste, una donna si drizzò a sedere sul letto e disse: – Fuori di qui –. Finalmente trovai la strada per tornare dalla caporeparto. – Sembra che non mi riesca di trovare il 1245. Lei era assolutamente convinta della mia sconfinata stupidità, perché il 1245 era proprio lí, accanto alla sua scrivania. Non mi parlò neppure, guardò solo verso la porta e poi fece scorrere gli occhi di nuovo su di me. La ringraziai, ma lei non riuscí a nascondere la bassa opinione che aveva di me. Papà e padre Gondalfo erano seduti nella 1245. Quando entrai, si gelarono. Papà mi voltò le spalle. Padre Gondalfo attese che mi sedessi su una delle sedie di pelle. – Un marito e una moglie incontrano molti problemi, – cominciò. – Alle volte sembra che debbano sopportare un peso troppo grosso. Perdono la pazienza. È umano perdere la pazienza. – Dov’è lei? – lo interruppi. – Che le hanno fatto? – Ora lo vuole sapere, – mi scherní papà. – Dopo tutto quello che ha fatto. Padre Gondalfo sollevò la mano per mettere pace. Papà la ignorò. – Ho visto questo giovanotto che la rincorreva su per le scale. Lei si è dovuta chiudere in bagno. Ecco quando è successo, quando è corsa su per le scale. – Non saltiamo alle conclusioni, – disse il prete. – Aspettiamo di sentire cosa ha da dirci il dottore. – Spero che mio nipote non abbia nulla che non va, – replicò papà. – Se gli succede qualcosa, lo ammazzo. Mi dava la nausea. – Oh, ma stai zitto, papà. Lui guardò supplichevole il prete. Alla fine si era vendicato. Alla fine avevo dimostrato la mia nullità. La sua tuta e le sue scarpe rotte non aiutavano. Poi entrò Joyce con il dottor Stanley. Era calma, avvilita, e sembrava piú incinta che mai. – Copritela e portatela a casa, – sorrise il dottore. – Tutto bene? – domandò papà. – Bene, benone. Tornate fra una settimana, piú o meno. – Mi vergogno tanto, – disse Joyce. – Capita sempre. Non si preoccupi. – Non era successo nulla alle acque, – dissi. – Quello era l’indizio importante. – Tu e le tue acque, – ribatté Joyce. Era cambiata, abbattuta. Era soprattutto l’imbarazzo. Voleva uscire da lí. Il dottore ci seguí mentre ci avviavamo in massa verso l’ascensore. Lei si strinse nella pelliccia, nascondendo il viso. C’era ben poco da dire. Stavamo andando via senza un neonato, a mani vuote. Il grosso prete torreggiava su di noi. In assoluto silenzio aspettammo l’ascensore. Papà sembrava un barbone. Io mi nascosi dietro a un pilastro, fuori dalla portata degli sguardi delle ciniche infermiere. Dividevo l’imbarazzo di Joyce. Sembrava che saremmo andati e venuti da quell’ospedale per sempre. Continuavamo a infastidire quel dottore. L’avevamo probabilmente svegliato da un sonno profondo. E lui non aveva portato alla luce un bambino.
Ora stavamo tornando a casa. L’intera procedura sembrava infinita, sembrava estendersi nell’eternità. La settimana successiva l’avremmo ripetuta da capo. L’ascensore arrivò e noi vi salimmo: una donna incinta, suo marito, suo suocero, e il suo padre spirituale. Con il vecchio che manovrava l’ascensore, eravamo cinque. Era molto grande, come una sala da ballo. Vi sarebbero potute entrare comodamente trenta persone senza affollarlo. Eppure, mentre dicevamo ancora una volta arrivederci al dottore sorridente, c’era appena posto per respirare. La sporgenza sotto la pelliccia sembrava riempire l’intero ascensore. Uno accanto all’altro, stretti in una densa massa umana, scendemmo in cupo silenzio. Solo quando arrivammo al piano terra, avvertimmo nuovamente un senso di libertà. Poi Joyce disse: – Ho dimenticato la mia valigetta. Guardarono tutti verso di me. Perché no? Chi altro? Ripresi l’ascensore fino al dodicesimo piano. La valigetta era accanto alla scrivania della caporeparto. La presi. – Un attimo solo. – È di mia moglie. Non rimane qui. Se l’è scordata. – Come si chiama? Glielo dissi. – Questo è il nome del vecchio signore. – È mio padre. – Lei è il marito? – Esatto. Silenzio. – Posso prendere la valigetta? – È sua, no? Scesi fino al piano terra. Mi aspettavano fuori sui gradini. – Vai a prendere la macchina, – disse papà. Presi la macchina. Papà e Joyce si sistemarono sul sedile anteriore. Padre Gondalfo era arrivato con l’automobile della parrocchia. Lo ringraziammo per il disturbo che si era preso. – È la volontà di Dio, – disse a Joyce. – Ed è la cosa migliore. Ora avrà tempo per completare la sua istruzione. Ci salutammo. Si diresse verso il parcheggio, con il ghiaino che strideva sotto i suoi passi. Partii. Joyce sedeva in silenzio, piena di tristezza e di una nuova saggezza. Mi chinai e la baciai. – Come ti senti? – Molto stanca. E molto stupida. Papà fece un sospirone. – Ci vuole molto tempo per fare un figlio.
Otto
Pace a casa mia, tranquillità, un periodo di grande calma. Lei diventò nuovamente un’altra donna. Era uscita dalla favola, ora, fuori dai romanzi, era come un racconto sulla maternità, una donna in attesa. Niente piú pietre frantumate o calcina rimescolata. Non l’avevo mai vista cosí bella. Camminava a passi silenziosi, ed era seguita dalla scia di un profumo diverso. Tutti i giorni andava alla messa la mattina presto. Il pomeriggio si recava in parrocchia per il catechismo. Padre Gondalfo stava facendo le cose un po’ in fretta, su insistenza di lei. La sera l’accompagnavo in chiesa. Diceva il rosario, faceva la via crucis, o rimaneva semplicemente a sedere, con le mani giunte in grembo. Era uno strano periodo per me. Sedevo accanto a lei, incapace di pregare, di articolare un sentimento per Cristo. Ma tutto mi tornava alla mente, la memoria dei vecchi tempi di quando ero un ragazzo, e quel luogo fresco e malinconico significava moltissimo per me. Joyce aveva dato per scontato fin dall’inizio che ci sarei tornato con lei. Sembra la cosa giusta da fare. In qualche modo avrei riprovato l’antico sentimento, le dita della mia anima si sarebbero distese e avrebbero afferrato l’intensa e bella gioia della fede. In qualche modo avevo sentito che era sempre rimasta lí, che avrei dovuto solo avvicinarmi a lei mormorando il desiderio di riceverla di nuovo per essere avvolto nel conforto del grembo di Dio. Là c’era l’aroma dell’incenso, lo scricchiolio dei banchi, il giocare della luce del sole attraverso le vetrate, il fresco tocco dell’acqua santa, il sorriso delle candele, lo splendore di tornare indietro all’antichità, la sconcertante consapevolezza che innumerevoli milioni di persone erano state lí prima di me e poi se ne erano andate, che altri miliardi sarebbero venuti e andati attraverso milioni di domani. Questi erano i miei pensieri mentre sedevo accanto a mia moglie. Questi e la graduale presa di coscienza del mio errore, perché non era facile ritornare alla propria Chiesa; la Chiesa era sempre lí, uguale a se stessa, ma ero cambiato io. I detriti degli anni mi avevano ricoperto come una montagna di sabbia. Non era facile emergerne. Non era facile chiamare con voce sottile e sapere di essere ascoltato. Sedevo accanto a lei, e sapevo che sarebbe stato molto difficile. No, sapevo che sarebbe stato quasi impossibile. Sedevo accanto a lei e assaporavo la sensazione di un nuovo modo di pensare. Perché i pensieri qui erano diversi. Fuori, al di là delle pesanti porte di quercia, si pensava alle tasse e alle assicurazioni, ai fade-out e alle dissolvenze, si soppesavano questioni come Manhattan e Martini, si sospettava il proprio agente di inganno, il proprio amico di slealtà, il vicino di stupidità. Eppure potevo sedere di fronte all’altare accanto a lei, con le sue piccole mani squisite nei guanti di capretto verde, e l’adoravo per la bellezza del suo sforzo, la lotta del suo cuore, la forza potente che la spingeva a essere solo una donna buona, umile e piena di gratitudine davanti a Dio. Potevo sedere accanto a lei, con le labbra secche perché mi mancavano le parole, io, che le frasi le costruivo, con le pagine dell’anima bianche e senza lettere, quelle pagine che giravo una dopo l’altra, cercando una rima, qualche parola sparsa per esprimere il fatto che in quel luogo non pensavo alle tasse e all’assicurazione, e il mio agente, il mio vicino, il mio amico, erano in qualche modo liberi dal corpo, avevano assunto una spiritualità, una bellezza; erano entità ora, e non piú esseri, erano anime e non maiali. Eppure, nonostante tutto, non ero pronto. Nato cattolico, non riuscivo a diventarlo di nuovo. Forse mi aspettavo troppo: un brivido di gioia, lo splendore accecante della fede rinata. Comunque fosse, non
potevo tornare. Là davanti a me c’era la strada, il cartello indicava chiaramente la direzione della pace dell’anima. Ma non potevo imboccarla. Non riuscivo a credere che fosse cosí facile. Ero sicuro che dietro la collina successiva ci sarebbe stato qualche guaio. Quattro giorni prima che nascesse il bambino, Joyce divenne cattolica. Fu battezzata Joyce Elizabeth. La cerimonia ebbe luogo di sera alla fonte battesimale della chiesa di San Bonifacio. La sua madrina era la nostra vicina che abitava dall’altra parte della strada, la signora Sandoval. Era una donna alta e serena di una sessantina d’anni. Padre Gondalfo l’aveva scelta perché viveva accanto a noi, e perché non conoscevamo altri cattolici in città. La felicità di Joyce era quasi terrificante. Mentre padre Gondalfo leggeva il messale, prima in latino, poi in inglese, le lacrime scorsero liberamente giú per le sue guance e si infransero sulla sua sporgenza. La sua era una felicità devastante. Le dava quasi dolore. Rimasi con mio padre a guardare, ascoltando i suoi singhiozzi che riecheggiavano come battiti d’ali nella chiesa vuota. Eravamo tutti molto impressionati. Papà si asciugava le guance con un fazzolettone blu. La signora Sandoval sorrideva coraggiosamente, senza vergognarsi delle sue lacrime. La cerimonia fu lunga, perché il prete le dette il battesimo assoluto. E questo la mondò non solo del peccato originale, ma di tutti i peccati della sua vita. Lei pianse senza arrestarsi, fino quando anche a padre Gondalfo si strinse la gola, non vide piú nulla e interruppe la cerimonia per estrarre un fazzoletto da sotto la tonaca con il quale si asciugò gli occhi. – Non dovremmo piangere, – sussurrò. – Questo è un momento di gioia. Ciò provocò un nuovo accesso di pianto da parte di Joyce. Papà e io l’accompagnammo a uno dei banchi, dove cadde pesantemente in ginocchio, con la faccia macchiata dal trucco, dal mascara e dalle lacrime. – Mi dispiace, – piangeva. – Mi dispiace tantissimo, ma non posso farci niente. Sono cosí felice. – La tua faccia è un disastro, – dissi. Smise immediatamente di piangere. Aprí la cipria e si sistemò il viso. Senza una parola tornò alla fonte battesimale e la cerimonia proseguí. In silenzio, con gli occhi abbassati, le mani giunte, sperimentò la purificazione dell’anima. Poi finí. Finí per Joyce, ma non per me. Dopo ci riunimmo di fronte alla chiesa. La signora Sandoval aveva un regalo di battesimo per Joyce – una medaglia di san Cristoforo d’argento. Joyce ne fu contentissima. Camminò con la sua madrina tenendola sotto braccio fino alla sua macchina. Ci salutammo mentre l’anziana signora si allontanava. Il momento che avevo temuto era giunto. Guardai mia moglie. C’erano stelle nei suoi capelli, stelle nei suoi occhi che, bagnati di pianto fino a un minuto prima, brillavano ora di felicità piena. Sembrava assurdo che la sua conversione comportasse una tale differenza, eppure era cosí. Non era piú la vecchia Joyce. Non era neppure la Joyce di un’ora prima. Non si poteva venire a capo della chimica di quel cambiamento, lo sentivo e basta, lo capivo, lo vedevo. Quello che sentivo era una maturità, una qualità di donna adulta che non aveva niente a che fare con la sua maternità; una tradizione, meglio, una identificazione con la Madre Chiesa, e con l’alta considerazione che la chiesa aveva per le donne, la sua elevazione alla stessa altezza alla quale da ragazzo avevo posto la Vergine Maria. Ci guardammo, e in quel momento anche lei seppe che avevo avvertito il cambiamento, quella trasformazione che permeava tutta la sua personalità. Ci guardammo, e in quel momento ciascuno di noi seppe che quella sera sarebbe stata una pietra miliare nelle nostre vite, e che le nostre vite insieme erano terribilmente importanti, terribilmente serie. Ma era anche un momento molto triste, perché a me piacevano i controsensi della vita, le cose non importanti, le cose senza senso, e tutto ciò lo stavamo lasciando alle nostre spalle. La grande mano di padre Gondalfo, il suo braccio pesante, mi calarono sulla spalla. – Allora, sei
pronto? Voleva dire: ero pronto per accostarmi alla confessione? Volevo dire: no, padre. Dissi: – Sí, padre. – Bene. Domani potrete ricevere la santa comunione insieme. La messa sarà per voi. Dopo vi sposerò all’altare maggiore. – Va bene, padre. Tornammo in chiesa. Il prete si genuflesse, e passando per la navata laterale ci avvicinammo a uno dei tre confessionali. L’entrata di ognuno di questi era drappeggiata da pesanti tende viola. Padre Gondalfo scomparve in quello centrale. Accese una luce. Joyce, papà e io andammo nella navata centrale e ci mettemmo in un banco a fianco del confessionale. Mi inginocchiai per esaminare la mia coscienza. Dopo quindici anni, tornavo a confessarmi. Quali erano i peccati che avevo commesso in un decennio e mezzo? Il compito davanti a me era enorme. Era cosí grande che non potevo prenderlo sul serio. Ancora peggio, non sentivo alcuna contrizione. Non rimpiangevo nulla. Bene o male, mi ero goduto tutto. L’imposizione delle mani del prete per l’assoluzione mi sembrava priva di senso. Non potevo, non sarei entrato nel confessionale. Ai vecchi tempi il mio sangue cantava rispondendo alla chiamata dell’assoluzione. Felice cadevo in ginocchio, riversavo i miei problemi e venivo mondato, allontanandomi poi con il muscolo possente di un cuore puro. Mi attaccai al passato. Ma non vi trovai nulla. Il tempo passava, quindici minuti, mezz’ora, e il prete attendeva con pazienza. La lotta con la mia coscienza mi rese esausto. Come potevo confessare cose per le quali non provavo rimorso? Tristemente mi sedetti accanto a papà e a Joyce. – Non posso farlo, – sussurrai. Papà sembrò sorpreso. – Per favore, provaci, – sorrise Joyce. – Non posso. Sarebbe ipocrisia. Papà immediatamente si consultò con Joyce. – Che gli è preso? – Non vuole andare, – sussurrò Joyce. – Deve andare –. La sua voce era alta. Scossi la testa. – Non posso, papà. – Entra là dentro! – Ti dico che non posso. – Ti stai comportando malissimo. Forza, entra là dentro! Mi prese per la nuca e cercò di spingermi verso il confessionale. Io mi tenni stretto al banco e rifiutai di muovermi. La sua faccia divenne rossa per lo sforzo. Improvvisamente saltò in piedi e si mosse rapidamente verso il confessionale. Lo osservammo sorpresi. Si voltò a guardarci, con uno sguardo disperato. Poi entrò nel confessionale. Seppi dopo che era la sua prima confessione in cinquantacinque anni. Non spiegò mai perché lo fece. Ero certo che non aveva progettato di andarvi, non si era nemmeno mai sognato di farlo. Ma a modo suo l’aveva fatto per me, per suo nipote, perché bisognava farlo. La sua confessione sembrava una litigata. Si svolse in italiano – una discussione che rimbombava, indistinta e intensa. Ogni volta che padre Gondalfo diceva qualcosa, papà rispondeva con asprezza. A sua volta allora il prete alzava la voce. Parlavano anche con le mani, perché vedevamo sollevarsi le tende.
Alla fine la voce del confessore ebbe il sopravvento. Da papà non provenne piú una parola. Il prete parlava con gentilezza, con persuasione, con un sussurro che calmava. Quando emersero, erano entrambi stanchi e sudati. Papà cadde in ginocchio nel banco piú vicino. Padre Gondalfo sorrise e gli diede un colpetto sulla spalla. Papà si coprí il viso con le due mani, annientando qualsiasi distrazione mentre recitava la sua penitenza. Il prete mi fulminò con uno sguardo che mi scoraggiò. Mi alzai e andai fuori. Mi aspettava sui gradini. – Cosa è successo? – Non ce l’ho fatta. – Vorresti un altro confessore? Potrei chiamare padre Shaw. Credi che aiuterebbe? – Non credo. – Sono amaramente deluso. Sai, no, che significa questo? Lo sapevo: significava che non ero in stato di grazia. Significava che non avrei potuto ricevere la comunione con Joyce il mattino seguente. Significava che non avrei potuto ricevere i sacramenti, e il matrimonio era un sacramento. – Mi dispiace, padre. Continuerò a provare. Lui si voltò verso Joyce e papà mentre uscivano dalla chiesa. Ci augurammo la buona notte. Papà si rifiutò di guardarmi. Salimmo in macchina. Presi la mano di Joyce. – Ti ho disgustata. – Sono delusa, ovviamente. – Dammi un po’ di tempo. Un giorno lo farò. – Non riesco proprio a capirti. Se un giorno ritornerai alla Chiesa, perché non ora? – Non lo so. – Nemmeno io. – Io cammino un po’, – disse papà. Lo guardammo mentre si avviava a piedi verso l’angolo della strada. Aveva un passo svelto e sobbalzante. Si fermò sotto un lampione per accendersi un sigaro. Il fumo tornò fluttuando verso di noi, fragrante nell’aria della sera. Andando in macchina a casa, rimanemmo in silenzio. Chiusi il garage ed entrammo in casa. Salimmo senza dire una parola al piano di sopra. Esitai davanti alla porta di camera mia, sperando che lei mi avrebbe parlato. Ma entrò in camera sua senza nemmeno voltarsi. Mi tolsi la giacca e mi buttai sul letto. Non riuscivo a provare dolore per quello che avevo fatto, nessun rimorso. Mi esasperava il fatto di non sentire neanche un fremito di rimpianto. Mi lasciava lacerato e distrutto. Poi lei entrò, con il pallone bianco che galleggiava sotto la camicia da notte, e un libro in mano. Sorridendo, abbassò lo sguardo verso di me. – Voglio leggere qualcosa, – disse. E lesse: – Oh padre, oh madre, oh moglie, oh fratello, oh amico, ho vissuto con te fino a ora secondo le apparenze. Da questo momento in poi sarò la verità. Sappi che da questo momento in poi non obbedirò ad altra legge che non sia la legge eterna… Mi appello alle tue usanze. Devo essere me stesso. Non posso venir meno a me stesso per te o per lui. Se mi puoi amare per quello che sono, saremo felicissimi. Se non puoi cercherò di meritarmelo. Non nasconderò i miei gusti o le mie avversioni. – Emerson, – dissi. – Oh, dolce uomo! Lei si chinò e mi baciò. – Buona notte, – sussurrò. Benedetto il ventre che porta mio figlio! Piansi di gioia.
Nove
La notte che successe stavamo giocando a scacchi. L’aspettavamo di momento in momento, le nostre vite si erano fermate per attendere l’arrivo del bambino, e quella era la notte. Papà aveva terminato il caminetto. Si era affrettato con il lavoro, perché era di primaria importanza che fosse completo e pronto per il nuovo Fante, come un regalo incartato e legato con dei fiocchi rosa. La casa stessa pulsava per l’attesa. Stava arrivando, e sentivamo quasi una sorta di solitudine perché non era già lí. Il duro lavoro di quel giorno aveva affaticato papà che era andato a dormire. – Chiamatemi se succede qualcosa, – aveva detto. Alle dieci eravamo seduti alla scacchiera, e toccava a me muovere. – La tua regina è in pericolo, – disse lei. Io misi di mezzo l’alfiere, cosí la regina fu salva. Ora toccava a lei. Era una giocatrice veloce, ma non mosse per molto tempo; troppo, sembrava, e sollevai lo sguardo dalla scacchiera al suo viso, chiedendomi cosa la facesse ritardare. – Tocca a te. Non mi ascoltava, mi fissava solo negli occhi, con il volto arrossato, il respiro affannoso, fino a quando le guance le divennero molto rosse e vidi che era assorbita da qualche strana attività che aveva luogo dentro di lei. – C’è stato un piccolo scoppio, – sussurrò. – Scoppio? Che scoppio? Non ho sentito nulla. – Non lo so. Ma l’ho sentito distintamente. Ci mettemmo in ascolto. Lei si coprí la bocca. – Oh, santo cielo. Sono le acque. – Andiamo all’ospedale. Esitò prima di alzarsi. – Per favore, – sorrise. – Non guardare. Chiudi gli occhi. Mi coprii gli occhi mentre Joyce si alzava e usciva dalla stanza. La sentii che correva su per le scale, senza fiato, e che diceva: «Oh, santo cielo», e «Povera me», e «Oh, mio Dio». Quando capii che non era piú in vista, chiamai il dottore. Da sopra sentii che era in camera da letto, i suoi tacchi risuonavano sul pavimento. Corsi là. Era seduta sul letto, e leggeva un libro intitolato e Coming Child. – Dovremmo muoverci. Ho chiamato il dottore. – Questa volta voglio esserne sicura. Assolutamente sicura. – Ma è la volta buona. Ne sono certo. – Ascolta –. Lesse: – All’inizio delle doglie, il dolore comincia di solito dalle reni. Inizia come un pizzicotto o un mal di schiena, aumenta poi in un crescendo fino a raggiungere un picco di intensità che dura per qualche secondo, quindi gradualmente diminuisce… La cosa che stava leggendo successe proprio in quel momento. Le cadde il libro dalle mani e rimase a sedere perfettamente ferma, guardando verso la sporgenza. Mosse le mani per toccarla, sentirla. – Contrazioni uterine, – disse. – Pagina 158. Leggi.
Tirai su il libro dal pavimento, ma avevo troppe mani, troppe dita. Non riuscivo nemmeno a tenerlo. Cadde al suolo. Il dolore si acuí, poi diminuí. Lei sospirò piano. – Ora sono pronta per andare. Quella volta fu facile. Avevamo già fatto le prove. Andammo silenziosamente in ingresso, restando in ascolto per sentire il russare sibilante di papà, e poi scendemmo le scale. Senza dircelo, sapevamo che era meglio non svegliarlo. Sotto l’arancio, nel giardino sul retro, lei si fermò e mi abbracciò. – Sei stato fantastico, – disse. – Non mi lamenterò mai piú. – Andiamo, tesoro. – C’è tempo. Voglio che tu sappia che mi sono comportata molto male per nove mesi. Sono stata una completa idiota. Davvero, non è difficile fare un figlio. È facilissimo. – Non l’hai ancora avuto, cara. Andiamo. La spinsi verso il garage. Entrò in macchina e si sedette lontana da me, contro l’altra portiera. Frugò nella sua borsa per cercare un pacchetto di sigarette, e me ne offrí una. – Vuoi che te la accenda? – domandò. – Per favore. – Certi uomini preferiscono accenderle da soli. Mi sembrò una constatazione curiosa, ma non risposi. Andavamo piano, perché ormai eravamo degli esperti. Non c’era realmente alcuna fretta. La notte era calda e si sentiva il profumo delle grandi magnolie bianche sulla Normandie. A uno stop del viale lei ebbe di nuovo i dolori. Erano piú forti. Vidi che afferrava la maniglia della portiera e che la stringeva. – È dura, – dissi. Aveva del sudore sulla fronte. I suoi occhi erano spalancati per il dolore. La sua grande sporgenza pareva schiacciarla contro l’angolo. Era come un enorme alveare, che andava in subbuglio per quella grande sofferenza. Quando le fitte passavano, lei emetteva un debole sospiro di sollievo. – Non è nulla, – disse. – Certo che fa un po’ male, ma non ha niente a che vedere con quello di cui mi aveva parlato mia madre. – Fra cinque minuti arriviamo. – Sono contenta. Cosí ti libererai di me. Detesto esserti di peso con tutte queste storie. – Non è un peso. – Sono stata un peso per tutta la vita. È il destino delle donne. Non siamo molto piacevoli, davvero, non lo siamo proprio. – Stai dicendo cose senza senso. – Non sono cose senza senso. Guardami, sono una mucca, ecco cosa sono. Grottesca e poco interessante. Nessuno mi potrebbe amare. Non mi devi dire mai piú che mi ami. Perché so che non potresti. E non merito il tuo amore. Come sei stato buono! Che pazienza hai avuto! Ti sono terribilmente grata. Perdonami per tutto quanto. Si mise a piangere, e la sua faccia tesa e gonfia era troppo tonda per trattenere le lacrime che le scorrevano sul grembo. Ebbe un’altra fitta, strinse i denti e i pugni le si serrarono fin quando non fu passata. – Non sono molto coraggiosa, – ansimò. – Ma non voglio essere coraggiosa. Voglio solo strisciare in qualche buco, dove tu non possa vedermi, e soffrire e soffrire, perché non ti merito. Sono contenta di soffrire. Sono stata una cretina. Me lo merito. Mi rendeva molto triste. Era seduta a gambe larghe, con la sua sporgenza che pulsava, la faccia come un pallone da pallacanestro rigato di lacrime, e per un momento dimenticai che era un istante passeggero. Afferrai il senso della sua disperazione, cominciai allora a pensare che ero davvero un uomo
molto sfortunato perché mi ero attaccato per sempre a quella massa di carne sussultante e singhiozzante. Guidavo con gli occhi umidi, e piangevo pensando a me, affascinato dal mio coraggio e dalla mia costante lealtà. Come aveva ragione! Come ero stato nobile, capace di soffrire a lungo. Era destino che avrebbe sofferto, era un bene che potesse sperimentare il dolore, che espiasse per il modo terrificante in cui mi aveva trattato durante la sua gravidanza. E come era sensibile ora che il giorno della sua espiazione era arrivato! Come si era indebolito il delicato equilibrio del suo senso morale. Grazie a Dio alla fine si era resa conto della perfidia del suo comportamento. Quando raggiungemmo l’ospedale, seguii il viale che curvava e portava a una pensilina di pietra dove le ambulanze scaricavano i malati. Lei rimase in macchina quando io entrai. All’accettazione riempii le carte che liberavano l’ospedale di ogni responsabilità per qualsiasi cosa sarebbe potuta succedere a mia moglie, e mentre procedevo, una impiegata telefonò per chiamare delle infermiere e per chiedere una sedia a rotelle. Non appena tornai alla macchina, due infermiere avevano già aiutato Joyce a salire sulla sedia a rotelle e l’avevano avvolta in una coperta. Le guardai mentre la spingevano nell’ascensore. Poi parcheggiai la macchina e tornai all’ospedale con la valigia di Joyce. Salii in un ascensore e andai fino al dodicesimo piano. Ormai il dodicesimo piano mi era familiarissimo. Mi pavoneggiai quasi per la facilità con cui riconobbi tutto quando le porte dell’ascensore si aprirono e io ne uscii. Lontano, giú per il corridoio rivestito di gomma pulita, vidi le due infermiere che spingevano mia moglie attraverso una porta. Joyce voltò la testa all’indietro e mi vide di sfuggita mentre mi stavo avvicinando. La sedia a rotelle si fermò e le infermiere si fermarono sulla soglia. Girarono la sedia cosí che Joyce fosse di fronte a me. Lei tese le braccia, sorridendo. Inghiottii la mia gioia improvvisa. Come poteva esserci cosí tanta bellezza nel mondo? Quelle sue mani, tese verso di me, quelle dita gentili, tese verso di me; i suoi occhi su di me, la sua bocca, le sue labbra, tese verso di me, che riversavano amore e una bellezza misteriosa da spezzare il cuore, e ora mi sembrava di correre, con la valigia in mano, come se non l’avessi vista da diecimila anni, e l’avessi avuta in mente in ogni secondo, e alla fine eravamo insieme per sempre, la mia desolazione alla fine era terminata, e tutte le cose della mia vita, ciò che possedevo, le mie ambizioni, i miei amici, il mio paese, il mio mondo, diventavano nulla, come granelli di sabbia davanti alla bellezza e alla gioia di quel momento dolcissimo e doloroso. La abbracciai e piansi. Scivolai sulle ginocchia, felice di una felicità orribile e devastante che mi uccise quasi con la sua terribile forza. Avrei potuto dare la vita allora e in quel punto, perché era cosí fiera la gioia che sentivo per la mia donna. – Coraggio, coraggio, – disse una delle infermiere. – Basta cosí. Mi alzai e baciai Joyce. – È mio marito, – disse Joyce. – Non è un tesoro? Le infermiere non erano molto impressionate. Si prendevano cura di lei, le rincalzavano la coperta, e poi la spinsero via. La porta si chiuse davanti a me. La stanza era la 1237. Era un buon auspicio, quello, perché conteneva il mio numero fortunato. Guardai l’orologio. Erano le 23.05. Andai in corridoio, attraversando molte porte. All’improvviso vi fu un grido da far drizzare i capelli. Proveniva da una camera vicina all’ascensore, era il grido di una donna in travaglio. Un momento dopo passavo davanti a quella camera da dove l’urlo era venuto. Dietro la porta sentii piangere e gemere, come se qualcuno cercasse di soffocare le lacrime in un cuscino. Era un lamento triste, patetico, e mi fece preoccupare, perché sapevo che poteva capitare anche a Joyce. C’erano altri due padri nella sala d’aspetto. Erano sfiniti, con i colletti aperti, e le cravatte che penzolavano. Sembravano due uomini rimasti coinvolti in una interminabile rissa da bar dove non era
scorso sangue. Buttati sulle poltrone di pelle, con i capelli arruffati, e le sigarette che gli pendevano dalle mani, non fecero caso a me. Presi una rivista e mi misi a sedere. Uno dei padri si alzò e cominciò a camminare su e giú. Fumava una minuscola sigaretta, cosí piccola che gli bruciava le labbra quando, piuttosto che aspirarla sembrava volerla baciare. Anche l’altro padre allora si alzò. Avanti e indietro, si ignoravano, in una furia di passi come in una gabbia, le fronti corrucciate, ognuno intrappolato nella tensione del proprio cranio pulsante. Verso mezzanotte, l’infermiera piú alta, che si era occupata di Joyce, apparve sulla soglia. Con l’aspetto di cani bastonati, i due padri la fissarono con gli occhi iniettati di sangue. Ma lei voleva me. – Può vedere sua moglie, ora. I due padri mi guardarono a bocca aperta, mentre attraversavo la stanza e uscivo dalla porta. Era come se mi avessero visto per la prima volta, ed erano sorpresi che fossi stato in quella camera insieme a loro. Seguii l’infermiera alta. – Non si deve trattenere a lungo, – disse. – Sua moglie ha bisogno di riposo. Joyce era stesa con indosso una camicia da ospedale che si allacciava sulla schiena. I suoi capelli erano stati pettinati in un alto e stretto nodo. A capo del suo letto vi erano delle maniglie. Sorrise, con la faccia accaldata, e la paura che le schizzava dagli occhi. Le presi la mano. – Come ti senti? – Benissimo. Mi hanno rasata e mi hanno fatto un clistere. – Sono bravi barbieri? – Hanno fatto un ottimo lavoro. Ti piacerà. Fui contento di vedere che non aveva piú bisogno di scusarsi. Ma non c’era molto da dire. Ci tenemmo le mani, sorridemmo scioccamente, e ci guardammo. L’infermiera alta aprí la porta. – Ora se ne deve andare. Baciai Joyce e andai nel corridoio. – Quanto ci vorrà? – Molto, – disse l’infermiera. – Perché non se ne va a casa e cerca di dormire? – Non potrei farlo. Non sarebbe giusto. – Non sia sciocco. Il dottore non sarà qui prima delle otto di domani mattina. – Vuole dire – che lei soffrirà cosí a lungo? – Non sta soffrendo. E non c’è niente che lei possa fare qui. Assolutamente nulla. Ma un uomo non può semplicemente allontanarsi e lasciare sua moglie incinta da sola in una camera. Sembrava una cosa inaudita, una cosa grossolana e senza cuore. Anche se l’infermiera aveva ragione, la tradizione voleva che io restassi. – Starò qui fino alla fine, – dissi. L’infermiera si strinse nelle spalle e alzò le sopracciglia. – Una volta ogni tanto ci capita un padre con del buon senso, ma non spesso. Tornai alla sala d’aspetto. I due padri che si autopunivano erano stati raggiunti da un nuovo arrivato. Era piú anziano, appena rasato, lindo in un vestito marrone. Emanava dolci vapori di cameratismo e di comprensione. I due, ormai malridotti, trovarono in lui un ascoltatore comprensivo. Ognuno scese in campo per spiegare i suoi guai. Il primo disse che sua moglie era in travaglio da tredici ore. – Tredici ore e quarantadue minuti, per l’esattezza, – disse, guardando l’orologio. L’uomo piú anziano schioccò la lingua tristemente. L’altro mise via l’orologio, si sedette, si mise le mani nei capelli e ricominciò la sua agonia. Il secondo padre si bagnò le labbra secche e screpolate e i suoi occhi velati fluttuarono verso il piú anziano che ora, tutto gentilezza e saggezza, si era girato verso di lui per sentire la sua storia. – La mia signora è lí dentro da sedici ore e
dodici minuti, – disse con un sorriso di autodisapprovazione. Questo gli dava un vantaggio di tre ore sul primo padre, che aveva chinato la testa pieno di vergogna. Il secondo padre assaggiò momentaneamente la vittoria, che però gli fu rapidamente portata via da quell’uomo calmo e vecchio. – Quando nacque Billy – il nostro primogenito – la signora Cameron ebbe un travaglio di cinquantatre ore. Il tempo da record della signora Cameron era cosí superiore che i due malconci padri rapidamente persero interesse nel vecchio e gentile signore, che a quel punto volse il suo generoso sorriso verso di me. Ma io ne avevo sentite abbastanza. Quegli uomini si vantavano, trovavano un’assurda consolazione nella sofferenza delle loro mogli. L’infermiera aveva ragione. Decisi di tornare a casa. Era l’una e mezza quando andai a letto. Dalla camera di papà proveniva un russare sibilante. Non sapeva che Joyce era all’ospedale. Mi sembrò meglio non svegliarlo. Fumai una sigaretta al buio, e sentii le dita del rimorso che mi pungolavano. Avevo fatto davvero la cosa giusta? Forse invece avrei dovuto seguire la tradizione. La moglie di un uomo era in travaglio: non dovrebbe anche lui stare sveglio e contribuire in piccola parte infliggendosi del dolore come simbolo della sua volontà di partecipare alla loro eredità comune? Dopo tutto, l’infermiera alta non aveva nulla in gioco. Ragionava come un freddo scienziato. E negli anni a venire, non avrebbe forse riempito nostro figlio di dolore il sapere che suo padre aveva dormito saporitamente mentre lui compiva il pericoloso passaggio dal ventre di sua madre alla vita sulla terra? Mi girai e rigirai fino alle tre, cercando di venirne a capo. Poi mi tornò alla mente una bella e nobile memoria. Saltai fuori dal letto e tirai fuori la mia ventiquattrore dall’armadio. Lo trovai nella tasca laterale, era un mazzetto appassito di basilico dolce ed era legato con del nastro rosso. Non riuscivo a rammentarmi tutte le istruzioni che mi aveva dato la mamma. Ricordavo solo che dovevo appenderlo al mio letto. Lo legai alle sbarre della testiera cosí da farlo ricadere sul cuscino. Poi mi stesi, respirando il suo dolce e acuto aroma, che in qualche modo era il profumo dei capelli di mia madre, e lei mi sorrideva con i suoi occhi teneri, allora mi misi a piangere perché non volevo diventare padre, marito e nemmeno un uomo, volevo tornare indietro all’età di sei o sette anni, per poter riposare ancora fra le sue braccia, e cosí mi addormentai, sognandola. Mi svegliò papà. Erano le sette. – C’è qualcuno che ti vuole parlare. Saltai giú dal letto e corsi giú al telefono. Era l’ospedale. L’infermiera mi informò che Joyce non aveva ancora dato alla luce il bambino, ma che stava bene. – Soffre? – C’è sempre un po’ di sofferenza. – Vengo subito. – Credo che sia meglio. Papà era lí e ascoltava. – Il bambino sta arrivando, papà. Da un minuto all’altro. Gli tremò il sigaro in bocca. – Dov’è Joyce? – All’ospedale. Ce l’ho portata ieri notte. Mi precipitai di sopra e mi vestii. Quando uscii a prendere la macchina, papà era già lí, seduto sul sedile anteriore. Andammo all’ospedale e prendemmo l’ascensore fino al dodicesimo piano. Un’infermiera fece entrare papà nella sala d’aspetto. Bianco in faccia e spaventato, mi guardò mentre mi precipitavo per il corridoio fino alla camera di Joyce.
Era stesa in un piccolo oceano di dolore, e i vapori della sua angoscia annuvolavano la camera. Era stesa sopra i lenzuoli bagnata, contorta e sudata, con la bocca tirata, i denti stretti e gli occhi che sembravano palle di bianco latte. Dapprima non mi vide, ma non appena chiusi la porta emerse dalle onde del suo dolore, e con le dita si resse alla sbarra di ferro a capo del letto mentre si tirava su a sedere. Il pallone bianco era come una enorme vescica, che fremeva per il dolore, troppo pesante per la selvaggia forza delle sue dita esangui. Ansimava esausta, e il suo respiro usciva a scatti attraverso le labbra contratte dagli spasimi. Poi si accorse che ero ai piedi del letto. Mi guardò con occhi spaventati. Il mio cuore fu con lei nella pena per quel dolore accecante. Non riuscivo a trovare parole di consolazione, ma solo dei cliché, degli accenni di un inutile linguaggio, miserabilmente inadeguato. Mentre ero lí con la gola secca, il dolore la afferrò. Le sue ginocchia si sollevarono e un suono animalesco, appena piú di un gemito soppresso, uscí dalle sue labbra. Aveva un ritmo e poteva essere misurato, era un sottile nastro che usciva a spirale attraverso i suoi denti. Quando finí, e il dolore fu esaurito, lei sospirò con gratitudine e spinse all’indietro una massa di capelli bagnati e arruffati, con gli occhi fissi al soffitto. Poi si ricordò che ero lí. – Oh, sono una tale codarda! – gemette. – Non sei niente del genere. Le andai accanto. Il letto era costruito come una grande culla, con le sponde di acciaio regolabili. Quando mi chinai per baciarla, vidi la sua bocca rossa, le labbra turgide e sensuali a causa del dolore. Vidi i suoi avidi occhi bianchi, e la sua sofferenza mi sopraffece. Ma c’era passione nella sua bocca, e si attaccò a me con tale ferocia che ci volle tutta la forza dei miei polsi robusti per scostarle le braccia. Mi amava, gemeva, mi amava, mi amava, mi amava. Poi il dolore la riprese, e la fece rotolare da una parte all’altra, con le ginocchia alzate, le dita che tiravano la sbarra sopra di lei, il nastro di angoscia che si dipanava. Quando la sofferenza cessò, quegli occhi bianchi mi colpirono come uccelli intrappolati, il dolore raggiunse anche me, e mi venne un terribile mal di stomaco. Mi fece quasi piegare su me stesso. Arretrai fino a una sedia e mi misi a sedere. Lei mi guardava. – Stai male, – mi disse. – Questa cosa è troppo per te. – Sto bene. – Bevi questo, – ansimò, e si sporse per prendere un bicchiere d’acqua sul comodino. Ma i dolori la presero mentre allungava la mano, e lei si torse e rotolò, facendo uscire il nastro di rumore dalla gola. Mi piegai agonizzante, ma non urlai, mi limitai a gemere mentre una folle agitazione aveva luogo dentro di me, provavo un dolore acerbo. – Caro, – stava dicendo lei. – Chiama il dottore. Lo so che stai male. – Io? Ma se sto benissimo. Vedevo però la mia immagine riflessa nello specchio a muro, ero pallidissimo e con gli occhi di fuori, disgustato e arrabbiato con me stesso. – Non preoccuparti per me, – ansimò. – Sta andando tutto benone. I dolori sono passati. Guarda! – Tese le braccia, sorridendo. Mentre mi giravo per guardarla, i dolori l’avevano nuovamente sopraffatta, e lei lottava, con gli occhi ora inteneriti, pieni di lacrime; quando finí, si coprí il viso con le mani e pianse piano. – Oh, Dio! – gridò. – Non posso sopportarlo ancora a lungo. Avrei fatto qualsiasi cosa per lei, le mie due braccia, i miei piedi, le mie mani, la mia vita, avrei dato tutto per alleviare anche solo una fitta del suo dolore, ma restavo lí, incapace di sopportare un mal di pancia spasmodico che alla fine mi spedí barcollante, piegato in due, in corridoio. Verso di me stava arrivando il dottor Stanley, assieme a un’infermiera che portava un vassoio con
bottiglie e siringhe. Mi guardarono senza parlare. Il dottor Stanley prese un flacone di pillole dal vassoio dell’infermiera e ne fece cadere una sul palmo della sua mano. – Prenda questa, – disse. La ingoiai dando una rapida sorsata. – Mia moglie non sta granché, dottore. Mi passarono accanto ed entrarono nella camera. Aspettai. Il mal di stomaco passò. Emersero dopo pochi minuti, e il dottore si fregava le mani. – Se la sta cavando egregiamente. – Le dico che sta soffrendo orribilmente, dottore. – Sciocchezze. Ha preso la scopolamina. Non si ricorderà nulla. La portiamo in sala parto. Quando la spinsero fuori dalla stanza e giú per il corridoio, all’inizio mi ritrassi, mi schiacciai contro il muro, per paura che la mia presenza la disturbasse. Ma quando mi passò accanto vidi che dormiva. Le avevano senz’altro dato qualcosa, perché aveva gli occhi chiusi e il suo viso si era trasformato in un’immagine di eterea amabilità. Le camminai a fianco lungo il corridoio. Gemette una volta sola. Era il mormorio di qualcuno che ha raggiunto un’ineffabile pace dopo ore nella tempesta. Portò la pace anche a me. Ora sapevo che andava tutto bene, che il bambino sarebbe nato presto, e che Joyce sarebbe stata bene. Tornai alla sala d’aspetto. Papà era seduto con le braccia incrociate in una delle grandi poltrone, chiuso in un silenzio di ferro. – Manca poco, ormai, – dissi. – Cosa? – sussurrò. – Ancora nulla? – L’hanno portata in sala parto. – Ma cosa stanno facendo? – Fanno quello che possono. Ciò lo fece borbottare, e capii che credeva che io stessi cospirando con l’ospedale per impedire al bambino di nascere. Guardò fisso davanti a sé, non dicendo piú nulla. Un nuovo gruppo di padri sedeva ora nella sala d’aspetto, ma le loro parole erano le stesse, erano gli stessi vecchi racconti sulle mogli che uscivano dalle bocche di uomini sconcertati. Non potevo rimanerci. Pensando al caffè, lasciai papà nella sala d’aspetto e presi l’ascensore per andare al ristorante dell’ospedale al piano terreno. Era pieno di infermiere e dottori. Mi sedetti al banco e studiai il menú. Ma non volevo nulla. Nonostante tutto, ero profondamente preoccupato. Uscii dalla porta laterale e andai per la strada. Era una mattina tetra, la nebbia era pesante e calda. Mi accesi una sigaretta e seguii il marciapiede intorno all’ospedale. Era bordato da siepi di eugenia, potate alla perfezione, un corridoio verde che portava a una fontana zampillante acqua fra grandi pietre rosse. Vi camminai intorno, e gli spruzzi mi baciarono la faccia con labbra fredde. Attraverso la nebbiolina vidi il profilo di una porta gotica. Era la cappella dell’ospedale. Improvvisamente, inspiegabilmente, cominciai a piangere, perché era la Cosa che cercavo, la fine del deserto, la mia casa sulla terra. Vi corsi desideroso dentro. Pax vobiscum! Era un luogo piccolo, con solo un crocifisso sull’altare maggiore. Mi inginocchiai mentre un’ondata di contrizione mi inghiottiva, una cascata tuonante che mi rombava nelle orecchie. Non c’era bisogno di pregare, di implorare il perdono. Il mio essere intero si perse nei gorghi profondi, come delle onde che tornavano alla riva. Rimasi lí per quasi un’ora, e quando mi alzai per andarmene ridevo. Perché era il tempo di ridere, un tempo di grande gioia.
Dieci minuti dopo vidi il bambino. Era nudo tra le braccia di un’infermiera che portava una maschera sul viso. Non potevo toccarlo perché erano dietro a un vetro. Era grinzoso e brutto come uno gnomo intinto nel rosso d’uovo. Con dei baffi, sarebbe stato identico a suo nonno. Mentre l’infermiera me lo mostrava, lui urlò. Contai dieci dita delle mani, dieci dei piedi e un pene. Un padre non avrebbe certamente potuto chiedere di piú. Feci un cenno all’infermiera che coprí il suo orribile corpicino con una coperta e lo portò da qualche parte all’interno della complessa struttura di quel grande ospedale. Poi spinsero Joyce fuori dalla sala parto. Era molto stanca, sorrideva pesantemente. – L’hai visto? – sussurrò. Le strinsi la mano. – Non parlare ora, cara. Dormi. – È stato bellissimo, – sospirò. – Niente dolore, nulla. Chiuse gli occhi e la portarono giú per il corridoio. Papà era accanto alla finestra nella sala d’attesa. Gli passai un braccio intorno alle spalle e lui si girò. Non ebbi bisogno di dire nulla. Si mise a piangere. Mi appoggiò la testa sulle spalle e il suo pianto divenne molto doloroso. Sentivo le ossa delle sue spalle, i vecchi muscoli che si ammorbidivano, e sentii l’odore di mio padre, il sudore di mio padre, l’origine della mia vita. Sentii le sue lacrime calde e la solitudine dell’uomo, la dolcezza di tutti gli uomini e la dolorosa e macabra bellezza della vita. Lo presi per mano e camminammo per il corridoio fino alla scrivania della caporeparto. Lui si coprí gli occhi con un fazzolettone rosso nel quale si riversavano le lacrime, e mentre stava lí davanti a piangere, io dicevo all’infermiera che lui voleva vedere suo nipote. Lui non la guardò, ma la sua dolorosa gioia era piú di quanto lei potesse sopportare. – È contro le regole, – disse, – ma… La seguimmo attraverso delle porte girevoli, la mano di papà era nella mia. Lei scomparve e un momento dopo era dall’altra parte del vetro, con una maschera sul viso, e teneva in braccio il bambino. Papà non lo vide, perché le sue due mani nel fazzolettone rosso gli coprivano gli occhi, ma sapeva che il bambino era molto vicino, ed era riverente, come se avesse paura di alzare lo sguardo fino al volto di Dio. E anche se avesse alzato gli occhi, non avrebbe potuto vedere il bambino lo stesso, perché era accecato dalle lacrime. Dopo pochi istanti l’infermiera lo portò via e io condussi papà lungo il corridoio. Pianse fino a quando raggiungemmo la macchina. Quella prova lo aveva spossato. Era come inebetito mentre guidavo verso casa, con la testa appoggiata al sedile, e le mani immobili sulla pancia. – Voglio andare a casa, – disse. – Ci saremo fra pochi minuti. – A San Juan. Dalla mamma. Guardai l’orologio. – Il San Joaquin Daylight parte fra un’ora. È un treno veloce. – Prendo gli attrezzi. Tu poi mi porti alla stazione. Proseguimmo in silenzio. Gradualmente, la sua forza tornò. Parcheggiai la macchina sulla strada, davanti alla casa. Ne scendemmo e lui si fermò per studiare l’alto tetto a punta, l’ingresso ad arco. – È una buona casa, – disse. – Il pavimento è un po’ in pendenza. – Bah. Non vuol dire nulla. – Abbiamo qualche termite. – Tutti hanno le termiti. – Ma nessuno ha un camino come il mio. Sorrise e si accese un sigaro. – È ben fatto, figliolo. C’è un sacco di spazio per Babbo Natale quando scende dalla cappa.
– Papà, sai quel pezzo di terra vicino a Joe Muto? Credi che dovrei comprarlo? – Tu te ne stai qui e tiri su la tua famiglia, – disse. Entrammo in casa e lo sentii che cantava mentre faceva la valigia.
Una lettera di John Fante
A Mary Fante 625 South Van Ness Los Angeles, 5, Ca 16 maggio 1945
Cara mamma, ci dispiace di non essere potuti venire giú con papà. Noi speravamo in una tua visita… La casa è come l’ha lasciata papà. Ho visto un avvocato, e ho deciso di fare causa a chi ce l’ha venduta. Intanto sto cercando di acchiappare Smith: è l’ispettore che un anno fa ha esaminato la casa e ha detto che non c’erano termiti. Appena riuscirò a beccarlo gli farò fare il lavoro. Ma per adesso non c’è fretta, possiamo andare avanti cosí per un po’. Johnnie
Indice
Dalla parte di Joyce di Paolo Giordano Storia di «Full of Life» di Emanuele Trevi
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