Giuseppe Guarino
IL NOME DIVINO NELLA TRADUZIONE DELLE SACRE SCRITTURE ________ UNA RICERCA
Giuseppe Guarino – Il Nome Divino
INDICE
Prefazione Introduzione Capitolo 1 – Il nome personale di Dio rivelato a Mosè Capitolo 2 – L’alfabeto ebraico Capitolo 3 – La vocalizzazione del Tetragramma Capitolo 4 – Le possibili letture del Tetragramma Capitolo 5 – Dio ha un un Nome o si presenta con un nome? Capitolo 6 – La parola “nome” nell’Antico Testamento Capitolo 7 – L’ellenizzazione del mondo antico e la diffusione della lingua greca Capitolo 8 – La lingua originale del Nuovo Testamento I: i Sinottici e gli Atti degli Apostoli Capitolo 9 – La lingua originale del N. T. II: quarto Vangelo, epistole e Apocalisse Capitolo 10 – La parola “nome” nel Nuovo Testamento Capitolo 11 – Il Tetragramma nella versione dei Settanta Capitolo 12 – Il Tetragramma nel Nuovo Testamento? Capitolo 13 – Il testo ebraico di Matteo e le conclusioni di George Howard Capitolo 14 – Evidenze interne nel Nuovo Testamento contro la presenza del Tetragramma Conclusione Appendice I – Mosè: incontro o scontro di due culture? Appendice II – Radici ebraiche della fede cristiana Appendice III – Gesù o ?ישוע
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Prefazione
La questione che riguarda il nome che Dio ha rivelato a Mosè sul Sinai e la sua presenza, nella sua forma originale o traslitterata, è l’argomento di questo studio. Che vi sia bisogno di un’indagine in questo senso è un dato oggettivo, dimostrato dal pullulare di tentativi di ripristino del nome divino nelle traduzioni sia delle Scritture dell’Antico Testamento che in quelle del Nuovo. E’ noto il tentativo della Traduzione del Nuovo Mondo dei Testimoni di Geova che inserisce Geova tanto nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento (disponibile adesso anche online: http://www.jw.org/en, in inglese e su http://www.jw.org/it in italiano). Altri tentativi recenti in lingua inglese sono The Book of Yahweh e della King James Bible (che, nella sua revisione del 1769, è una traduzione tutt’ora in voga fra gli evangelici americani conservatori) della quale è stata approntata recentemente una versione che inserisce Jehovah, chiamata The Divine Name (versione in inglese soltanto, ovviamente, disponibile su http://www.dnkjb.net/faq_dnkjb_online.htm). Ma al di là della semplificazione dei problemi di traduzione, traslitterazione o inserimento del nome divino di Esodo 3:14-16 anche nelle versioni della Bibbia non in lingua originale o nel Nuovo Testamento, quali sono le vere problematiche connesse a questi tentativi? In questo mio lavoro mi ripropongo di partire da zero, di resettare questa problematica e provare ad affrontarla dall’inizio, passo passo, per poi poter serenamente valutare la possibilità di inserimento del Nome divino nelle versioni non ebraiche della Sacra Scrittura. Non mi propongo di evitare i punti più spinosi e tecnici della questione. Considero troppo spiccia la semplificazione, per motivi di mera propaganda alle proprie convinzioni religiose, fatta ormai da diversi movimenti religiosi o pseudo religiosi su questa tematica che mira in realtà solo a coinvolgere per trascinare più persone possibile a sostenere questa o quella convinzione. Allo stesso tempo farò di tutto per rendere il più accessibile possibile la mia discussione, non evitando le citazioni in lingua originale, ebraico soprattutto, ma anche in greco; ma proponendo sempre ampie spiegazioni e traslitterazioni nel nostro alfabeto che permetteranno a chi ama una lettura complessa ma non impossibile di seguire il filo del discorso. Chi cerca qui polemica, rimarrà deluso. Chi ama invece la ricerca e la Parola di Dio sia il benvenuto in questo viaggio difficile che io stesso mi accingo, non senza un certo timore riverenziale, ad intraprendere. C’è un ultima nota. Quando avevo già completato la prima stesura del mio libro, ho trovato online un interessantissimo testo anonimo e senza copyright intitolato The Tetragrammaton and the Christian Greek Scriptures. In alcuni punti siamo così in accordo con questo autore ed utilizziamo schemi talmente simili che potrebbe persino sembrare che io mi sia più che ispirato a questo lavoro. Non ci sarebbe nulla di male, ma non è stato così. In parole povere, non ho copiato da lui, nonostante le incredibili coincidenze su quello che
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diciamo e come lo diciamo. Questo testo è disponibile gratuitamente sul sito www.tetragrammaton.org Possa il Signore, יהוה, assistermi in questo tanto affascinante quanto serio compito che mi sono prefissato.
Giuseppe Guarino Catania, 07 Maggio 2013
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Introduzione
La questione riguardante le problematiche connesse al Nome divino personale di Dio rivelato a Mosè (Esodo capitolo 3) è un problema antico quanto la necessità di dover tradurre l’Antico Testamento. La più antica versione che conosciamo della Bibbia ebraica è la traduzione in greco, la cosiddetta LXX (Settanta) o Septuaginta. Questa versione – originariamente del Pentateuco soltanto – venne sponsorizzata nel III secolo a.C. dal sovrano egiziano Tolomeo Filadelfo per arricchire la biblioteca di Alessandria. Il nome Settanta deriva dal numero originale dei traduttori impegnati in quest’opera. Vi sono idee controverse su quale fosse la scelta adottata da questa antica versione. Alcuni sostengono che i traduttori preferirono mantenere il Tetragramma, il nome di Dio nella sua forma originaria ebraica, e semplicemente inserirlo nel testo greco. Altri sostengono che fu preferito inserire Kyrios (cioè Signore). Qualunque sia stata la scelta iniziale di quei traduttori, è evidente la difficoltà di trasporre un termine tanto delicato come il Nome personale di Dio. Quale scelta è la migliore? Vediamo brevemente l’originale ebraico. Quando Dio apparve a Mosè, quegli gli disse: “"Io sono colui che sono". Poi disse: "Dirai così ai figli d'Israele: "l'IO SONO mi ha mandato da voi"”. Ma se Dio dice in prima persona di essere: “l’IO SONO”, gli altri si dovranno rivolgere a lui chiamandolo: “י ה ו ה, il Dio dei vostri padri, il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi”. י ה ו הè il modo in cui viene rappresentato in alfabeto ebraico il nome con il quale viene detto a Mosè di identificare al popolo chi è il Dio che l’ha mandato per far uscire Israele dall’Egitto. L’ebraico si legge da destra verso sinistra. Quindi volendo identificare con il nostro alfabeto le lettere ebraiche avremo: Y יH הW וH ה Queste quattro lettere che compongono il nome di Dio per eccellenza nell’Antico Testamento vengono comunemente definite Tetragramma (dal greco Tetra Grammaton). Nell’alfabeto ebraico (diremo per semplicità) mancano le vocali ed è formato soltanto da 22 consonanti. Il disagio che ne può seguire è facilmente comprensibile e la corretta pronuncia delle parole è legata all’insegnamento di una generazione a quella successiva. Proprio per ovviare a questa problematica, all’inizio dell’era cristiana, i masoreti, dei sapienti ebrei, aggiunsero dei simboli al testo ebraico per fissarne la lettura. Il Tetragramma divenne vocalizzato nel seguente modo: יְהוָֹה Mentre nella stragrande maggioranza dei casi i simboli fornivano al lettore le vocali da aggiungere alle consonanti del testo, onde fissare la pronuncia dei vocaboli, per il Tetragramma gli studiosi parlano di qere perpetuum, cioè di “correzioni permanenti, non riportate al margine ma inserite nel testo mediante una vocalizzazione anomala” (citazione tratta da: Giovanni Deiana e Ambrogio Spreafico, Guida allo studio dell’ebraico biblico, Urbaniana University Press e Società Biblica Britannica e Forestiera, pag. 20). Infatti, www.studibiblici.eu 5
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quando i masoreti aggiunsero la loro vocalizzazione al testo, gli ebrei ortodossi da tempo non leggevano più il Tetragramma, preferendo pronunciare al suo posto la parola “Adonai”, corrispondente all’italiano “Signore”. Alle consonanti del nome divino vennero, quindi, aggiunte le vocali di Adonai. Nel XVI secolo uno scriba tedesco che stava traslitterando la Bibbia in alfabeto latino per il Papa, intercalò semplicemente le vocali alle consonanti ottenendo la lettura Iehovah. (fonte: http://www.jewfaq.org/name.htm) Più tardi (nel 1611) la King James Version della Bibbia, famosissima versione inglese in uso ancora oggi in molte chiese tradizionaliste, introdusse la lettura Iehovah. Questa, con l’evoluzione della lingua inglese, divenne Jehovah (si legge: Gehouva, dove l’ “h” corrisponde alla “c” aspirata del dialetto toscano), vocabolo in voga in molte chiese evangeliche di lingua inglese, dove è considerato a tutti gli effetti il nome di Dio. L’affetto che lega i cristiani anglo-americani a Jehovah ha generato diversi tentativi di traduzione che lo inseriscono nel loro testo. Nel 1901 la American Standard Version inserì Jehovah in tutti i punti dove l’originale ebraico aveva il Tetragramma. Negli anni ’60 i Testimoni di Geova produssero la loro traduzione della Bibbia che introduceva Jehovah sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Di recente è apparsa una variante della traduzione in inglese della King James Version che riprende Jehovah in tutto l’Antico Testamento. Diverse le altre versioni in inglese che utilizzano questo termine in modo più o meno sistematico. In Italia la Traduzione del Nuovo Mondo dei Testimoni di Geova, facendo eco alla sua versione inglese, della quale è fondamentalmente – e servilmente – la trasposizione in lingua italiana, utilizza Geova sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. (Della opportunità e persino possibilità del recupero del Tetragramma nel Nuovo Testamento ne parlerò in un altro articolo – a Dio piacendo). Vi sono state delle versioni italiane che hanno inserito, nel testo o nelle note, le letture Javhe, Jahweh, Yahvè, Iavhé, Geova, Iehova, Iehovah. La Riveduta Luzzi ha preferito indicare il termine “Eterno” ogni volta che occorre il Tetragramma nel testo originale dell’Antico Testamento. Un tempo ritenevo questa soluzione incomprensibile. Ma con una migliore conoscenza dell’originale mi sono senz’altro ricreduto. Le motivazioni le spiega benissimo Asher Intrater, nel suo libro “Chi ha pranzato con Abrahamo?” edito da Perciballi (se non l’avete fatto: COMPRATELO. E’ reperibile nelle librerie CLC e sul sito internet dell’editore www.perciballieditore.com): “Aggiungendo le vocali “e”, “o”, “a” alle consonanti YHVH, si ottiene il nome YeHoVaH. In questa struttura verbale, la “e” (sh’va) indica il tempo versale futuro, la “o” (holom) il presente e la “a” (patach) il passato, dando al nome YeHoVaH il significato di “Egli sarà, Egli è, Egli era”: in altre parole, l’Eterno”, pag. 102. Visto che Intrater è ebreo la sua testimonianza è piuttosto autorevole. La Nuova Diodati riprende la prassi della Riveduta Luzzi ed adotta la lettura “Eterno” a discapito della scelta della vecchia Diodati che traduceva “Signore” ogni occorrenza del Tetragramma in ossequio alla vocalizzazione ed alla lettura del giudaismo ortodosso. La Nuova Riveduta, riprendendo l’uso di alcune versioni inglesi, propone, come sua alternativa, “SIGNORE”, tutto in maiuscolo.
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La lettura Jehovah (né le sue varianti più prossime ad una corretta traslitterazione dall’ebraico: Yehovah o Yehowah) non è ritenuta originale, proprio perché vocalizzata secondo la parola Adonai. Altre possibili letture sono state proposte. Fra le quali Yahweh, che sembra godere di maggior credito. Tanto che in inglese sono comparse delle versioni contenenti Yahweh con la stessa sistematicità con la quale altre versioni avevano utilizzato Jehovah. Sostanzialmente cosa fare in una traduzione della Bibbia quando si incontra il Nome divino di Esodo 3 è una ferita aperta. Pensare di aver trovato una soluzione definitiva è possibile solo semplificando al massimo le problematiche che abbiamo descritto. Tagliando la testa al toro, quindi, alcune traduzioni hanno pensato di proporre il Tetragramma nella versione della Bibbia inserendolo così com’è, in ebraico. E’ la stessa prassi dell’antica versione greca dei Settanta. La domanda che sorge spontanea è: come leggerlo? Nessuna traduzione da una lingua ad un’altra e di un qualsiasi testo, riuscirà, in diversi punti, a rendere perfettamente tutte le sfumature dell’originale nella lingua in cui si traduce. Questo è vero anche per il Nome rivelato da Dio a Mosè. L’idea stessa del Nome di una persona o di una cosa in ebraico non è la stessa che trasmette il termine “nome” nella nostra lingua. Molti – se non la stragrande maggioranza – di coloro che parlano di Jehovah (anche evangelici, la mia non è polemica ma una discussione) lo fanno con in mente l’idea occidentale di nome. Per questo sono infastiditi soltanto incidentalmente dal fatto che Jehovah non è il nome di Dio, non è il modo in cui si pronunciava il Tetragramma, non può ricondursi al senso del termine originale. Se questo non li scoraggia da persistere, cosa potrà farlo? La semplice – sebbene per noi “Gentili”, “stranieri”, cruda – verità è che י ה ו הè patrimonio esclusivo del testo originale del Tanakh, fenomeno imprescindibile dalla cultura e lingua ebraiche. I vari tentativi di recuperare nelle traduzioni la grandezza dell’originale biblico di Esodo 3 e degli altri riferimenti al Tetragramma, hanno tutti dei meriti, ma non riescono – perché non possono – trasmettere l’interezza del senso dell’originale al lettore che non andrà ad approfondire in prima persona le lingue originali delle Scritture ebraiche. Chiamare Dio Jehovah significa dargli un altro nome proprio che non è di nessuno – e questo può essere un merito. Se lo definiamo Yehowah, siamo un tantino più aderenti alla realtà dell’alfabeto ebraico e della traslitterazione secondo il testo masoretico. Se lo chiamiamo Yahweh avremo dalla nostra un certo consenso degli studiosi e buone probabilità filologiche di essere nel giusto. Se preferiremo dire “Eterno” ci ricordiamo che in Esodo Dio voleva far comprendere come Egli sia un essere senza inizio e senza vincoli con la realtà fisica di questo mondo, dettata fondamentalmente dal trascorrere del tempo. Se utilizziamo “Signore” o “SIGNORE” diamo credito alla scelta fatta dagli ebrei, che, per rispetto del Nome santo di Dio ne evitano la pronuncia (chi siamo noi Gentili per giudicarli?), seguiamo l’uso della antica traduzione biblica dei Settanta e ci richiamiamo a TUTTE le copie manoscritte esistenti del Nuovo Testamento. In questo pullulare di teorie, di una cosa posso rassicurare il lettore attento a seguire il più possibile l’insegnamento della Sacra Scrittura: “chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato” (Romani 1013). Grazie a Dio la risposta del nostro meraviglioso
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Signore non dipende dalla qualità della nostra pronuncia, o dalla lingua nel quale lo invochiamo, ma dalla sincerità del cuore che eleva a Lui il suo grido.
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Capitolo 1 Il nome personale di Dio rivelato a Mosè
L’ebraico rappresenta un fenomeno linguistico senza uguali nella storia dell’umanità. Se riteniamo il Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia, opera di Mosè – ed io sono di questa opinione – ci troviamo davanti ad una lingua che ha viaggiato quasi indenne per oltre 3500 anni! L’italiano di appena 100 o meno anni fa ci sembra strano. Quello di Dante ci è a malapena comprensibile. E 2000 anni fa nella nostra terra si parlavano il latino, il greco e chissà quali altri dialetti. L’egiziano non è sopravvissuto al crollo della civiltà faraonica. Si è evoluto nel copto, la lingua parlata ormai soltanto dalla minoranza cristiana egiziana ed ha abbandonato duemila e più anni fa la sua famosa scrittura in geroglifici a favore di una variante dell’alfabeto greco, al quale sono stati aggiunti alcuni segni per rappresentare dei suoni tipici di questa lingua. La lingua più antica della quale rimane traccia nella storia è il sumero. Questa non sopravvisse all’invasione sociale e culturale degli accadi, un popolo semita che prese il sopravvento nei luoghi dell’antico stanziamento mesopotamico. A sua volta l’accadico, lingua dell’antica Babilonia, dell’Assiria e dialetto internazionale dell’antico oriente, dovette cedere il passo all’aramaico, portato dalla lenta ma inesorabile invasione culturale del popolo degli aramei. Nel VI secolo a.C. quando i giudei vennero deportati in Babilonia dal re Nabucodonosor, vennero in contatto con l’aramaico e questo quasi prese il posto della lingua natia degli ebrei. Ma l’ebraico scritto da Mosè e dai profeti secoli e secoli prima echeggiava ancora nelle sinagoghe al tempo di Gesù, come in quelle di oggi. L’ebraico è una lingua semitica. E’ la lingua nella quale Mosè scrisse la Torah, la Legge di Dio, perché il suo popolo la tramandasse e conservasse. Ma come la scrisse? A quali mezzi pratici attinse per un’opera tanto importante da riuscire a viaggiare pressoché indenne nel fiume dei 3500 anni che ormai ci separano dalla sua composizione? Non sono mancati nel passato coloro che ritenevano impossibile che il Mosè biblico fosse realmente l’autore della Torah, la Legge. Ma nuove e relativamente più recenti scoperte archeologiche hanno rivelato un mondo antico pervaso da un grande fermento culturale già secoli prima la nascita del grande legislatore ebreo. Se si riteneva un tempo che il codice di Hammurabi fosse il primo tentativo di legiferare, la scoperta del codice di Ur-Nammu, re della III dinastia sumera di Ur, ci ha costretti a rivedere tale idea. La biblioteca riportata alla luce ad Ebla, antichissimo insediamento, da una spedizione italiana, risale a circa il 2700 a.C. ed annovera ogni tipo di testi, dalle grammatiche comparate agli atti di vendita, a testi narrativi. Mosè venne poi agevolato rispetto ai suoi contemporanei. La Bibbia ci spiega come.
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Mosè, per via delle rocambolesche vicende narrate nel libro biblico dell’Esodo, crebbe e visse per i suoi primi quarant’anni di vita all’interno della corte egiziana. Qui egli venne certamente istruito, quale figlio adottivo della stessa figlia del Faraone, nella lingua e cultura egiziana. Già in quel periodo gli egizi avevano alle spalle una tradizione millenaria ed una cultura che vantava approfondite conoscenze astronomiche, matematiche, mediche, ecc … L’ambiente della corte egiziana doveva essere colto, poliglotta – visto che l’Egitto intratteneva rapporti con tutte le altre potenze di allora (vedi la copiosa corrispondenza di Amarna) – ed era di sicuro il luogo più adatto dove poter imparare le basi del diritto, il senso della giustizia, le necessità amministrative di un popolo. D’altra parte Mosè rimaneva pur sempre un ebreo, discendente di Abramo e la sua cultura lo accompagnava e certamente lo caratterizzava in maniera più intima di quella della terra adottiva egiziana, che mai poteva riguardarlo del tutto. Ad un certo punto della sua rocambolesca vita Mosè fugge dall’Egitto. Si rifugia nel deserto per fuggire ad un crimine commesso in patria. Qui entra in contatto con i Madianiti e sposa una di loro. Vive facendo il pastore, una vita semplice e ciò per i secondi quarant’anni della sua esistenza. Poi accade a Mosè qualcosa di ancora più straordinario: egli incontra Dio. La Bibbia ci narra di un vero e proprio incontro personale con il Dio degli ebrei, dei suoi avi, di Abraamo, Isacco e Giacobbe, sui antenati: Mosè ritrova la sua identità ed il suo Dio. Mosè pascolava il gregge di Ietro suo suocero, sacerdote di Madian, e, guidando il gregge oltre il deserto, giunse alla montagna di Dio, a Oreb. L'angelo del SIGNORE gli apparve in una fiamma di fuoco, in mezzo a un pruno. Mosè guardò, ed ecco il pruno era tutto in fiamme, ma non si consumava. Mosè disse: "Ora voglio andare da quella parte a vedere questa grande visione e come mai il pruno non si consuma!" Il SIGNORE vide che egli si era mosso per andare a vedere. Allora Dio lo chiamò di mezzo al pruno e disse: "Mosè! Mosè!" Ed egli rispose: "Eccomi". Dio disse: "Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo sacro". Poi aggiunse: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe". Mosè allora si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio. (Esodo 3:1-6 – Nuova Riveduta)
Mosè non potrà più essere lo più lo stesso uomo. Da figlio di schiavi ebrei era divenuto principe d’Egitto e poi un umile pastore al servizio di suo suocero. Ma da questo momento in avanti diviene l’uomo che Dio sceglie per liberare il suo popolo e il tramite per promulgare le sue leggi. E’ proprio durante questo incontro che Dio “rivela” a Mosè il suo nome. Continuiamo a leggere da Esodo 2, ma saltando i versi da 7 a 12 perché in questo contesto ininfluenti per la nostra discussione. “Mosè disse a Dio: "Ecco, quando sarò andato dai figli d'Israele e avrò detto loro: "Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi", se essi dicono: "Qual è il suo nome?" che cosa risponderò loro?" Dio disse a Mosè: "Io sono colui che sono". Poi disse: "Dirai così ai figli d'Israele: "l'IO SONO mi ha mandato da voi"". Dio disse ancora a Mosè: "Dirai così ai figli d'Israele: "Il SIGNORE, il Dio dei vostri padri, il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe mi www.studibiblici.eu 10
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ha mandato da voi". Tale è il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in generazione”. (Esodo 3:13-15 – Nuova Riveduta)
Mosè chiede il nome a Dio, per poterlo identificare, per rispondere a chi fra il popolo gli avrebbe chiesto chi lo mandava. Gli egiziani adoravano Ra, Amon e tanti altri dei. Vi fu anche una rivoluzione intellettuale con il “monoteismo” del culto professato dal faraone Akhenaton per il dio Aton. Nulla di più normale che Mosè cercasse di identificare il suo Dio, il Dio della sua apparizione con un nome. E Dio gli spiega: “Io sono colui che sono”. Il Dio degli ebrei mostra subito la sua peculiarità. Nella risposta data a Mosè Egli spiega di se che trascende il tempo, il linguaggio, è lui misura di ogni cosa e non è possibile misurarlo o contenerlo, tantomeno con il linguaggio umano; nessun nome può quindi perfettamente definirlo. Ma l’uomo ha bisogno di identificare le cose, di catalogarle, di dar loro un nome per attribuire un’identità, quasi per voler sintetizzare i ruoli di una persona o una o più caratteristiche peculiari che la riguardano. Ciò è tipico dell’intelletto razionale che ci caratterizza. Anche in ciò siamo fatti ad immagine e somiglianza del nostro Creatore. Egli stesso, all’alba del tempo, ci dice la Scrittura, “chiamò la luce "giorno" e le tenebre "notte".” (Genesi 1:5 – Nuova Riveduta). Allo stesso modo anche noi abbiamo bisogno di chiamare le cose in qualche modo per poterle identificare. Non è a caso che nell’antichità il nome, in un qualche modo, era descrittivo di chi lo portava. Samuele venne chiamato così perché fu un dono di Dio. Il nome di Gesù è legato al significato salvifico della sua nascita. Se non bastavano i nomi a descrivere la persona (perché attribuiti troppo presto) vennero i soprannomi ad assumere questa funzione – non si fa anche oggi così in molti ambienti? Così Giacomo e Giovanni vennero chiamati i “figli del tuono”. Gesù venne chiamato Nazareno, perché veniva dalla città di Nazareth. Per segnare il cambiamento radicale della sua esistenza, Saul divenne Paolo. E così via. Cito esempi biblici soltanto perché ciò ci tiene vicini alla mentalità biblica, che è quella che più ci interessa in questo studio. La maniera principale di comunicare per gli esseri umani è il linguaggio. Esistono tantissime lingue al mondo. Come ho già detto ne esistevano alcune nell’antichità che oggi non esistono più. Altre si sono evolute, sono cambiate. Il latino è divenuto italiano, spagnolo, francese. Se vi è una caratteristica del linguaggio umano è il suo essere in continuo cambiamento. La lingua dell’Antico Testamento è l’ebraico. Questa era la lingua del popolo di Dio. In questa lingua Dio si rivela, in questa lingua egli manifesta se stesso al suo popolo. Perché abbia un senso ciò che Egli dice, Dio lo deve dire in modo comprensibile a coloro cui indirizza il suo parlare. E’ questo il primo esempio concreto di Dio che si fa uomo, che abbandona la sua grandezza per rimpicciolirsi all’interno dei confini dell’esperienza umana, della nostra lingua, di ciò che sappiamo e possiamo sapere: l’infinito veste il finito per amore nostro, Colui che è inspiegabile si fa comprensibile e definibile per rivelarsi, per farsi conoscere e riconoscere dalla sua creatura. Facciamo adesso il primo accenno alla lingua ebraica e vediamo in concreto, in quella lingua, come appare, sui testi originali oggi comunemente utilizzati, il nome che Dio rivela a Mosè. Riprendiamo il testo in italiano e inseriamo tra parentesi la parola ebraica originale corrispondente al “nome” di Dio. www.studibiblici.eu 11
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“Mosè disse a Dio: "Ecco, quando sarò andato dai figli d'Israele e avrò detto loro: "Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi", se essi dicono: "Qual è il suo nome?" che cosa risponderò loro?" Dio disse a Mosè: "Io sono ()אהיה colui che sono (")אהיה. Poi disse: "Dirai così ai figli d'Israele: "l'IO SONO ( )אהיהmi ha mandato da voi"". Dio disse ancora a Mosè: "Dirai così ai figli d'Israele: "Il SIGNORE ()יהוה, il Dio dei vostri padri, il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi". Tale è il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in generazione”. (Esodo 3:13-15 – Nuova Riveduta)
Ecco come appare il nome divino di Esodo 3:15 nel testo originale ebraico dell’Antico Testamento che viene comunemente tradotto nelle nostre Bibbie: י ה ו ה י ה ו הè composto da quattro consonanti, da qui il nome di Tetragramma, dal greco tetra, cioè quattro, grammaton, cioè lettere – vediamo già quanto è facile per una definizione divenire un nome. Diciamo subito che la lingua ebraica non ha vocali, con le ovvie difficoltà che ne conseguono. Volendo traslitterare le quattro consonanti del nome divino nel nostro alfabeto, esse corrispondono grossomodo a: I H V H. Dico grossomodo, perché mentre la valenza fonetica della ( יin ebraico si chiama “iod”) è variamente descritta con quella di una “y” o di una “J”, con valenza di “i” lunga latina, o con una “i” (ma in ebraico è pur sempre una consonante), quella della הnon corrisponde a nessun suono delle lingue occidentali, ma rappresenta un suono tipico della lingua ebraica, appartenente (come l’arabo) al cosiddetto ceppo delle lingue semitiche. La migliore maniera per rappresentare הnel nostro alfabeto è con una “h”. La וè stata descritta con il suono di una “v” o più impropriamente, in particolare negli ambienti anglosassoni, da una “w”. Trovarsi davanti alle consonanti di una parola significa, senza l’aiuto delle vocali, significa, se non la si è mai sentita pronunciare, essere in serie difficoltà sul modo in cui leggerla. Le vocali, infatti, proprio a questo fine, posso risultare più indispensabili che utili. Sebbene ciò non sia sempre vero. Ad esempio nella lingua inglese essere in presenza di vocali e consonanti, anche in una quantità notevole, non significa riuscire a leggere una parola con successo se non la si è sentita pronunciare almeno una volta – e questo succede anche ai madrelingua. Vi sono poi alcuni suoni in certe lingue che non possono efficacemente rappresentarsi in alcun modo. A buona sostanza, non dico nulla che non sia ovvio, le lingua nascono fondamentalmente per essere parlate e solo per comodità o necessità vengono in qualche modo messe per iscritto. Lo stesso problema dell’ebraico riguarda l’egiziano antico. Forse è poco noto, ma il primo alfabeto della storia è rappresentato da 22 segni geroglifici ai quali venne attribuita la valenza fonetica di altrettante consonanti. Studiosi del calibro di Albright e il nostro contemporaneo David Rohl da tale coincidenza, fra l’alfabeto ebraico e quello egiziano, hanno tratto delle conclusioni che personalmente trovo molto interessanti. Ma questo apre una parentesi importante ed è meglio parlarne nel prossimo capitolo, riservando al terzo il prosieguo della discussione sul Tetragramma.
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Capitolo 2 L’alfabeto ebraico
La forma di scrittura antica più suggestiva è certamente quella egiziana, rappresentata mediante i cosiddetti geroglifici, di sicuro impatto visivo ed indubbio valore decorativo. I geroglifici assumevano valenza di ideogrammi, fonogrammi, ma anche e soprattutto, alcuni di essi, vennero utilizzati dagli egiziani come un vero e proprio alfabeto. Infatti 22 geroglifici venivano utilizzati con valenza consonantica. Ciò era perfettamente in armonia con i requisiti della lingua per la quale questo alfabeto era stato concepito. Esso era poi oltremodo utile per poter trascrivere parole, in particolare nomi, non di lingua egiziana che, grazie alla potenzialità di un alfabeto, potevano essere riprodotti senza eccessive difficoltà. Il limite dell’alfabeto egiziano, come quello ebraico, era l’assenza delle vocali. E’ per questo che non sappiamo come le parole venissero realmente pronunciate in quella che purtroppo è ormai da millenni una lingua morta che sopravvive soltanto nel copto parlato dalle minoranze cristiane d’Egitto. “… gli scribi egiziani scrivevano ignorando le vocali”. Scrive così Alan Gardiner, nella sua Egyptian Grammar; Being an Introduction to the Study of Hieroglyphs, pag.7. “Ciò permetteva che entrambi questi segni” continua così commentando in concreto alcuni geroglifici “potessero essere utilizzati in un molto più grande numero di parole”. Poco più in là aggiunge: “Una simile omissione delle vocali la troviamo nel fenicio, nell’ebraico e nell’arabo, sebbene in alcune altre scritture semitiche (babilonesi ed etiopi) la vocalizzazione è sempre indicata. La motivazione per l’omissione delle vocali nell’egiziano non è difficile da comprendere. E’ caratteristica della famiglia delle lingue cui appartiene l’egiziano che la medesima parola presenta differenti vocalizzazioni secondo la forma che assume ed il contesto nel quale compare”. Mosè crebbe nella corte egiziana dove certamente gli venne insegnata la scrittura. Lì ebbe ampio accesso alla copiosa letteratura egiziana e ciò lo rese un uomo istruito. Ma non solo, istruito con quella che era la più antica e prestigiosa cultura del tempo. “… ci vollero le capacità poliglotte di un colto principe d’Egitto ebreo per trasformare queste prime semplici incisioni in una scrittura funzionale, capace di veicolare idee complesse e un racconto fluente. I Dieci Comandamenti e le Leggi di Mosè erano scritte in lingua protosinaitica. Il profeta di Yahweh, che aveva dimestichezza sia con la letteratura epica egizia, sia con quella mesopotamica, non fu solo il padre fondatore del Giudaismo, della Cristianità e, attraverso le tradizioni iraniche, dell’Islam, ma fu il progenitore delle scritture alfabetiche ebraica, cananea, fenicia, greca e, quindi, del moderno mondo occidentale.” – David Rohl, Il Testamento Perduto, Newton & Compton Editori, pag. 222- 223. Le argomentazioni di Rohl, trovano ampie evidenze archeologiche. Nelle miniere del Sinai sono state ritrovate delle iscrizioni in un alfabeto definito protosinaitico.
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Gli ebrei del primo tempio, quello di Salomone, scrivevano in un alfabeto detto protoebraico. E’ un alfabeto che ritroveremo anche piùù avanti nella nostra discussione.
Come ha notato il lettore attento qui non abbiamo finora trovato le lettere che abbiamo riportato per rappresentare il cosiddetto Tetragramma. Ciò perché fu soltanto dopo l’esilio babilonese che gli ebrei adottarono l’alfabeto tutt’oggi in uso in Israele, preso in prestito dall’aramaico.
Le evidenze manoscritte dell’Antico Testamento in ebraico ci tramandano nella maggior parte il Tetragramma in alfabeto aramaico, nella forma in cui l’abbiamo già visto: יהוה Fra i manoscritti di Qumran, dove si mirava ad ottenere una maggiore purezza della d fede ebraica, troviamo il Tetragramma etragramma scritto nell’alfabeto proto ebraico all’interno di manoscritti in alfabeto aramaico. Il nome divino è stato rinvenuto in alfabeto proto proto ebraico anche in manoscritti contenenti la traduzione in greco dell’Antico Testamento, Testamento, la cosiddetta Septuaginta. Septuaginta Per quanto attiene alla nostra discussione utilizzeremo il Tetragramma nella forma a noi più familiare, י ה ו ה, non ritenendo necessaria o fruttuosa la ricerca o il ripristino dell’originario alfabeto utilizzato da Mosè. Esso era lì a sua disposizione per tramandare la Parola di Dio alle generazioni a venire. Esso era un mezzo che voleva spiegare, immortalare, non complicare bensì semplificare semplificare la comprensione di Dio e dei suoi piani per l’uomo ai suoi contemporanei ed alle generazioni a venire.. Qualunque tentativo compiuto in www.studibiblici.eu 14
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nome della ricerca di una purezza ideologica, di un utopistico senso del magico riferito a questo o quel simbolismo utilizzato per esprimere il pensiero umano, ma anche quello divino, rinnega quei principi, rinnega l’essenza stessa di Dio che incontra l’uomo sul suo stesso piano, antropomorfizzandosi in ogni senso pur di rendersi comprensibile, parlando con l’uomo, nella la lingua e con le idee dell’uomo, per spiegare il divino e rendere accessibile alla sua creatura verità eterne. Quale grande atto d’amore del nostro Dio! Perché è necessario tracciare il percorso storico della forma scritta della lingua ebraica? Forse perché a molti la lingua ebraica, così come la scrittura che la rappresenta, appare come qualcosa di magico e sacro. Ci troviamo invece davanti ad un fenomeno linguistico meraviglioso che ha caratterizzato il linguaggio ed ha espresso il fondamento del pensiero religioso dei credenti monoteisti per millenni. Ma nulla di magico è legato a quelle lettere di un alfabeto, nulla di sacro vi è in loro e per loro. Ma sacre sono le parole che Dio ha pronunciato e messo per iscritto tramite questo veicolo di comunicazione. E se qualche altro uomo, dotato di qualsiasi altra lingua e cultura avesse risposto come Abraamo alla voce di Dio, Dio non avrebbe avuto problemi a parlare a quell’uomo o a quegli uomini con una lingua e ad esprimersi con dei concetti che per loro avrebbero avuto un senso. Come possiamo del resto testimoniare tutti noi credenti che, per la Grazia in Gesù Cristo, abbiamo creduto al Dio degli ebrei, di Abramo, Isacco e Giacobbe, sebbene la nostra cultura e la nostra lingua non siano ebraiche. E’ la grandezza del nostro Dio che da assoluto ed immenso sa farsi relativo e piccolo per poter prendere la nostra mano e condurci per i sentieri delle sue eterne verità.
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Capitolo 3 La vocalizzazione del Tetragramma
Come adesso è chiaro, il nome divino tramandato dalle Scritture ebraiche יהוהviene scritto da quattro consonanti, senza vocali. Per altri vocaboli della Bibbia ebraica, la vocalizzazione è stata tramandata oralmente con una ragionevole certezza della pronuncia originaria. Bisogna inoltre dire che anche qualora la pronuncia fosse in un certo senso mutata rispetto a quella originale, una volta fissata la nuova pronuncia il significato sarebbe comunque preservato. Porto un esempio concreto. Nella nostra lingua la parola Canada viene oggi regolarmente pronunciata Cànada; ma originariamente essa veniva pronunciata Canadà, prima che l’influenza della lingua inglese ne mutasse l’uso. La diversa pronuncia non cambia il significato della parola e oggi, sebbene con una pronuncia leggermente diversa, intendiamo la stessa nazione cui faceva riferimento un italiano nel 1940. Qualcosa di unico è però accaduta proprio alla pronuncia del nome di Dio di Esodo 3:15. E’ opinione diffusa che un’adesione troppo letterale al terzo comandamento ha portato ad un certo punto gli ebrei a non pronunciare il nome di Dio persino durante la consueta lettura della Parola di Dio, privata o in sinagoga. “Non pronunciare il nome del SIGNORE, Dio tuo, invano; perché il SIGNORE non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano”. (Esodo 20:7) Ciò, condusse inevitabilmente alla perdita della pronuncia originale del nome divino. Ritengo davvero molto istruttivo il sito internet www.jewfaq.org curato da un laico ebreo di nome Tracey R. Rich, il quale espone ai non ebrei il credo ortodosso del giudaismo ufficiale. Egli sostiene (nella sezione The Name of G-d) che la posizione ebraica sul perché la pronuncia del Tetragramma sia andata perduta sia tutt’altra. Ed io gli credo: “Niente nella Torah proibisce ad una persona di pronunciare il Nome di Dio”. Egli aggiunge: “Il Nome veniva pronunciato durante i servizi quotidiani nel Tempio […] Con la distruzione del Tempio e la proibizione di pronunciare il Nome al di fuori del Tempio, la pronuncia del Nome cadde in disuso”. Trovo le motivazioni del sig. Rich degne della massima considerazione, visto che, secondo quanto discute lui, è il rispetto per Dio che spinge gli ebrei a non pronunciare o utilizzare per iscritto i Suoi nomi – e non solo il Tetragramma – con leggerezza. In merito a ciò mi sento di aggiungere che noi “gentili” abbiamo molto da imparare da questa prassi giudaica: faremmo bene anche noi ad avere maggior rispetto per il Nome ed i nomi di Dio. Anzi, dirò di più: sono contento che non ci sia nota la pronuncia originale del Nome, così da non essere totalmente colpevoli dell’uso continuo e improprio che ne facciamo. La prassi ebraica comune, in uso fino al giorno d’oggi, è quella di pronunciare “Adonai” ogni occorrenza del nome divino. Adonai (in alfabeto ebraico, )אדניcorrisponde, più o meno, all’italiano “Signore”. www.studibiblici.eu 16
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Ad un certo punto della storia della trasmissione dell’Antico Testamento, il popolo di Dio sentì l’inderogabile necessità che la lettura del testo venisse accertata. Il testo originale ebraico aveva raggiunto un livello di sacralità tale da non permettere agli scribi ebrei di innovare a tal punto l’alfabeto da aggiungervi delle vocali. Furono degli studiosi ebrei, i cosiddetti “masoreti” che aggiunsero dei simboli che, in maniera convenzionale, esprimevano i vari modi di pronuncia delle vocali mancanti nel testo. Fino a questo punto del mio studio ho volontariamente omesso di riportare queste “annotazioni” sulla vocalizzazione dell’ebraico. Ciò perché in realtà esso fornisce delle indicazioni per la lettura al testo biblico, ma non ne modifica l’alfabeto dal quale esso è composto. Ne facilita soltanto la lettura. Vediamo in concreto cosa accade al Tetragramma quando i masoreti dovettero aiutare il loro ipotetico lettore ad interpretare il suono di questo vocabolo. Visto che per loro chi legge deve pronunciare il vocabolo Adonai e non il nome divino, sembra che essi abbiano preferito aggiungere le vocali di quella parola al Tetragramma. Vediamo in concreto cosa succede. Questo il vocabolo Adonai in ebraico senza vocali: אדני. Ricordo che l’ebraico si legge da destra verso sinistra. Nel nostro alfabeto, translitterando le lettere in modo da leggerle da sinistra verso destra, otterremo sostanzialmente H D N I. Aggiunte le vocali, o meglio, i simboli convenzionali per indicare i suoni vocalici, otteniamo: אֲדֹנִי Come si vede le consonanti rimangono e nulla le intacca. Compaiono soltanto dei puntini e dei trattini ad indicare quei suoni che, semplicisticamente, per comodità, associamo a quelli delle vocali del nostro alfabeto. In realtà il simbolismo masoretico, con la sua varietà, permette di descrivere non solo la vocale in sé, ma anche alcune sfumature della pronuncia della stessa – ad esempio se breve, o meno breve. Torniamo adesso al Tetragramma nella sua forma originaria: יהוה Vediamo cosa accade quando i masoreti aggiungono le vocali, le vocali di Adonai: י ְהוָה Siamo in presenza di un fenomeno grammaticale chiamato qere perpetuum, termine che indica le “correzioni permanenti, non riportate al margine ma inserite nel testo mediante una vocalizzazione anomala” (citazione tratta da: Giovanni Deiana e Ambrogio Spreafico, Guida allo studio dell’ebraico biblico, Urbaniana University Press e Società Biblica Britannica e Forestiera, pag. 20). L’anomale vocalizzazione del Tetragamma ricordava al lettore che quando lo rinveniva nel testo doveva leggere Adonai, Signore. Vi è un’altra vocalizzazione possibile però. Quando infatti יהוהsi trova accanto alla parola ( אדניAdonai), esso non prende più le vocali di quest’ultimo vocabolo, per evitare la ripetizione, bensì la vocalizzazione della parola ebraica ( אלהיםElohim), tradotta in italiano Dio. La parola ebraica אלהיםè vocalizzata dai masoreti nel seguente modo: אֱ ֹלהִים Il Tetragramma compare così con le vocali di Elohim e così si leggerà: י ְהוִה A mente serena bisogna quindi ammettere che purtroppo non si è certi di come venisse originariamente pronunciato il nome di Dio. Non sappiamo quale esatto suono associare alle quattro consonanti che rimangono fondamentalmente l’unica certezza del nome divino udito da Mosè. www.studibiblici.eu 17
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Se posso già dire la mia personalissima opinione, a me sembra che Dio abbia voluto far scomparire l’esatta pronuncia del suo Nome per lo stesso motivo per il quale Egli non ha permesso agli ebrei di sapere il luogo della sepoltura di Mosè. “Mosè, servo del SIGNORE, morì là nel paese di Moab, come il SIGNORE aveva comandato. E il SIGNORE lo seppellì nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor; e nessuno fino a oggi ha mai saputo dove è la sua tomba”. (Deuteronomio 34:5-6 – Nuova Riveduta)
Il nome divino, il Tetragramma è lì nella Bibbia originale ebraica tramandata fino ai giorni nostri, ma non siamo certi della sua pronuncia originale. Da qui nascono le diverse tendenze ed opinioni sulla pronuncia del Nome sacro. Da una parte gli ebrei, in segno di rispetto nei confronti di Dio, non lo pronunciano ma si limitano ad utilizzare delle circonlocuzioni, come la parola Adonai o Elohim. Dall’altra parte sembra crescere, in particolare negli ambienti anglosassoni, un cieco – non so come meglio definirlo – bisogno di ridurre ai minimi termini la grandezza del testo biblico in chi vuole ad ogni costo recuperare ed onorare il nome udito da Mosè. Prima di continuare la nostra discussione, però, ritengo utile porre qualche domanda al lettore che vorrei esaminasse attentamente, che vorrei stimolasse il senso critico di chi è interessato a questa delicata questione. In che senso יהוהè il nome di Dio? Se consideriamo יהוהil nome di Dio, esso lo è a prescindere dalle circostanze e dalla rivelazione che Dio ha dato di sé a Mosè ed ai Patriarchi, e persino indipendentemente dalla lingua ebraica – perché questo deve essere il caso se Dio risponde e risponderà sempre e solo al nome di ?יהוה Se questo è veramente ed assolutamente il suo Nome ciò implica che a qualsiasi uomo, in qualunque circostanza, a prescindere dalla lingua del suo interlocutore, Egli avrebbe espresso il medesimo suono rappresentato da יהוהnell’alfabeto adottato dalla lingua ebraica? La questione che sto sollevando è: il Nome di Dio rivelato nell’Antico Testamento è l’unico suono da eternità ad eternità che contraddistingue Dio e lo identifica o è il suono intellegibile e la maniera migliore per sintetizzare la somma dei suoi attributi in lingua ebraica? Ne discuterò dopo il prossimo capitolo. Per adesso continuiamo a cercare di capire se c’è una qualche speranza di riuscire a recuperare la lettura originale del Tetragramma.
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Capitolo 4 Le possibili letture del Tetragramma
Abbiamo già detto che il popolo ebraico, nella lettura biblica, leggeva Adonai (Signore) ogni volta che יהוהsi presentava nel testo. A meno che יהוהnon fosse proprio accanto alla parola ( אדניAdonai); in quel caso lo si leggeva Elohim (Dio). Vista la scrupolosità con la quale questa prassi venne osservata e grazie al fatto che il testo ebraico in sé non possedeva delle vocali, la lettura autentica del Tetragramma finì per venire dimenticata. Se supponiamo che l’aggiunta delle vocali di Adonai a יהוהsia stata semplicemente mirata a suggerire la lettura all’occorrenza del nome divino, capiremo che non sarà possibile, come invece facciamo per le altre parole del testo Masoretico, aggiungere le vocalizzazioni alle consonanti, traslitterare nel nostro alfabeto ed ottenere la lettura originale della parola. Vediamo in concreto di cosa parlo. Prendiamo come esempio il primo verso della Bibbia ebraica, Genesi 1:1. Si legge sempre da destra verso sinistra. בראשׁית ברא אלהים את השׁמים ואת הארץ׃ Se trasformiamo i segni dell’alfabeto ebraico nelle lettere del nostro avremo (si legge da sinistra verso destra): B R H SC I T B R H H L H I M H T H SC M I M V H T H H R Z Come vediamo, l’unico aiuto che abbiamo per la lettura è la consonante sostanzialmente corrispondente al suono della nostra vocale “i”. L’unica speranza di leggere il testo con successo, se si hanno a disposizione solo le consonanti, è averlo sentito pronunciare in precedenza. Ora andiamo al testo Masoretico. ֹלהים אֵ ֥ת הַשָּׁ ַ ֖מי ִם וְאֵ ֥ת הָאָ ֶֽרץ ֑ ִ ֱאשׁית ָבּ ָ ֣רא א ֖ ִ בּ ְֵר Grazie alle annotazioni vocaliche al testo, adesso abbiamo la possibilità di possedere una maggiore probabilità di avvicinarci alla pronuncia originale. La nostra traslitterazione, aggiungendo le vocali fornite dai masoreti, diverrà molto più accessibile. BeReHSCIT BaRaH HeLoHIM HeT HaSCIaMaIM VeHeT HaHaReZ Sebbene alcuni elementi dell’alfabeto ebraico corrispondano a suoni gutturali o aspirati tipici delle lingue semitiche che non hanno un suono corrispondente nelle lingue occidentali, la lettura possibile del testo diviene comunque sostanzialmente possibile. Ebbene, per identificare la pronuncia di יהוהin tempi remoti si è pensato semplicemente di aggiungere alle quattro consonanti le vocali fornite dal testo masoretico – non tenendo in debito conto che le vocali erano invece quelle di אֲדֹנִי, Adonai. L’errore di fondo in questo tentativo, come è evidente, è considerare i simboli vocalici aggiunti al Tetragramma un aiuto per il recupero della pronuncia originale della parola. Così non è. Infatti i simboli aggiungi dai masoreti erano lì a confermare la prassi della lettura di Adonai www.studibiblici.eu 19
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all’occorrenza del nome divino. Semplice prova di questo fatto è che quando il Tetragramma compariva accanto alla parola Adonai, per evitare la ripetizione, esso veniva vocalizzato come Elohim, per incoraggiarne la lettura alternativa in questo altro modo. La vocalizzazione del Tetragramma יהוהè un fenomeno grammaticale definito qere perpetuum ed ha lo scopo non di fornire la semplice vocalizzazione della parola, bensì di dirottare il lettore sul modo in cui leggere la parola, a prescindere dalle consonanti con le quali essa sia scritta nel testo che, comunque, per la sua sacralità, non viene modificato nell’ortografia. Aggiungendo la vocalizzazione dei masoreti, יהוהè stato traslitterato: IEHOVAH, ovvero JEHOVAH, ovvero YEHOVAH. Tracey R. Rich (sul suo sito www.jewfaq.org) sostiene che “Durante il sedicesimo secolo, uno scriba cristiano tedesco, mentre traslitterava la Bibbia in latino per il Papa, scrisse il Nome come compariva nei suoi testi, con le consonanti di YHWH e le vocali di Adonai, ottenendo la parola JeHoVaH (la “J” si pronuncia “Y” in tedesco), e il nome rimase.” Dobbiamo alla King James Version della Bibbia ed alla mentalità anglosassone la grande diffusione del nome divino secondo questa possibile pronuncia. La King James Version della Bibbia, chiamata anche Authorized Version, venne pubblicata nel 1611 per volontà di Giacomo I, re d’Inghilterra. La fortuna di questa versione della Bibbia è legata a moltissimi fattori esterni, sicuramente, ma anche al valore intrinseco della traduzione stessa. Con gli anni però la lingua inglese cambiava e per mantenere comprensibile la lingua di questa versione biblica, essa venne sottoposta, nel XVIII secolo, ad una revisione linguistica. Ciò apportò dei cambiamenti che ci interessano. Apro subito una parentesi. Perché dovrebbe interessarci sapere cosa dice la Bibbia inglese su quest’argomento? Perché fondamentalmente il dibattito sull’importanza dell’uso del nome personale di Dio origina dalla mentalità anglo-sassone applicata nell’interpretazione di alcuni brani dell’Antico e del Nuovo Testamento. Il pensiero del lettore correrà subito al movimento dei Testimoni di Geova. Ma, come dirò più avanti, nei paesi di lingua inglese il fenomeno non è limitato a questa organizzazione, ma riguarda molte entità religiose (come quello della House of Yahweh, in Texas ad esempio) e forse soprattutto l’uso frequente del nome di Dio nella forma traslitterata dalla KJV nelle chiese evangeliche di lingua inglese. Se nella mia discussione non tenessi conto di questi fatti, il mio lavoro non potrebbe essere completo. La King James inseriva in alcuni punti dell’Antico Testamento la lettura del nome di Dio che seguiva la lezione vocalica masoretica. “And I appeared unto Abraham, unto Isaac, and unto Jacob, by the name of God Almighty, but by my name JEHOVAH was I not known to them.” (Esodo 6:3) “That men may know that thou, whose name alone is JEHOVAH, art the most high over all the earth.” (Salmi 83:18) “Behold, God is my salvation; I will trust, and not be afraid: for the LORD JEHOVAH is my strength and my song; he also is become my salvation.” (Isaia 12:2) “Trust ye in the LORD for ever: for in the LORD JEHOVAH is everlasting strength.” (Isaia 26.4) www.studibiblici.eu 20
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Ora è doveroso aggiungere che la KJV originale non leggeva Jehovah, bensì Iehovah ed è stata l’evoluzione della lingua inglese a far si che la pronuncia di una “i” divenisse quella di una “g” che è praticamente il suono moderno della “j” inglese. La King James Version nello spelling originale del 1611 leggeva così: “And I appeared vnto Abraham, vnto Isaac, and vnto Iacob, by the Name of God Almighty, but by my name IEHOVAH was I not knowen to them.” (Esodo 6:3)
Nella nostra lingua la “j”, la cosiddetta “i lunga”, mantiene la valenza di “i”, come in Juventus. Ma non nella lingua inglese ed il cambiamento nell’ortografia da Iehovah in Jehovah. Oggi la pronuncia inglese diffusa di Jehovah è grossomodo gehòuva, dove l’ “h” corrisponde al suono aspirato della “c” in dialetto toscano. Scriva così Arno C. Gaebelein nel suo Concise Commentary on the Whole Bible, pag. 57, “In risposta ad un’altra domanda Dio rivela il suo nome. “E Dio disse a Mosè, IO SONO COLUI CHE SONO” e egli disse, tu dirai ai figli di Israele, IO SONO mi ha mandato a voi” Dio si era già presentato ad Abraamo come Jehovah. I patriarchi conoscevano il nome Jehovah, ma il significato benedetto di quel nome non era conosciuto da loro. Egli si rivela come Colui che ha esistenza in se stesso, l’Io sono Colui che sono. Egli è Colui che è, che era e che dovrà venire (Apocalisse 1:4)”. Sono ormai decenni che frequento chiese evangeliche di lingua inglese e che per vari motivi sono affezionato alla King James Version della Bibbia. Nei nostri canti, nelle riunioni, nei commenti, negli studi e nei sermoni l’utilizzo del nome Jehovah, come nome personale di Dio è una costante che non trova nessuna corrispondenza nella prassi delle chiese evangeliche italiane. I movimenti caratterizzati da un costante utilizzo del nome di Dio nella forma proposta dalla KJV, ma anche in altre forme di lettura, nascono dall’estremizzazione di un sentimento diffuso nella cristianità di lingua inglese, dove l’attaccamento al nome Jehovah è piuttosto sentito. Ciò è dimostrato dalle varie versioni che inseriscono questa popolare pronuncia del Tetragramma. Nel 1901 venne pubblicata la American Standard Version e più recentemente una versione della KJV che lo ripristinano in tutto l’Antico Testamento. La New World Translation (in italiano, “Traduzione del Nuovo Mondo”) ha inserito la lettura anglo-americana di יהוהtanto nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento e le sue traduzioni in altre lingue si impegnano invariabilmente ad adottare e diffondere, nelle varie comunità di Testimoni di Geova nel mondo, la lettura anglosassone del Tetragramma. In Italia Jehovah è divenuto Geova, mantenendo l’errore anglosassone della “i” letta “g”, in ossequio alla poca (per non dire assenza di) autonomia che l’organizzazione centrale di questo movimento consente alle sue filiali periferiche. Dire: “ormai s’è fatto così”, non dovrebbe aver senso per un movimento che fa della ricerca della purezza dei dati della fede la sua stessa ragion d’essere, che parte dal presupposto di dover rimuovere ogni errore dovuto alla tradizione umana a favore di una migliore adesione alla verità biblica. La verità invece è che, inevitabilmente, dopo ormai quasi cento anni, anche il movimento dei Testimoni di Geova è divenuto portatore di una www.studibiblici.eu 21
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sua identità religiosa, è divenuto fermo nelle sue posizioni – come i movimenti religiosi che esso contestava – immobile, perché esse rappresentano la propria identità; chiede apertura a chi si avvicina ad esso, ma è chiuso a guscio sulle sue posizioni tradizionali, dalle quali non riesce più a svincolarsi. Molto credito gode un’altra possibile pronuncia del Tetragramma: Yahweh. Svariati i motivi per sostenere questa lettura possibile. Antiche iscrizioni in greco e la pronuncia samaritana di יהוהla rendono probabile. Eminenti studiosi la sostengono. Parole o nomi ebraici come Alleluiah, Geremia, Isaia, ecc, supporterebbero la preferenza per la vocalizzazione in Yah del Tetragramma. Come ci ricorda Intrater: “Molti studiosi optano per la pronuncia YaHWeH, poiché in ebraico significa “colui che ha causato l’esistenza”; rappresenta infatti la forma “causativa”, pag. 162. In questo modo chiamare Dio Yahweh equivale in buona sostanza a riferirsi a lui con un nome che indica “colui che chiama se stesso Io sono”. Molti ritengono sicura questa lettura. Ma è doveroso precisare che non è per nulla certo che Yahweh sia veramente corrispondente alla forma originale della pronuncia del Tetragramma. Vi è chi difende la traslitterazione ottenuta seguendo la vocalizzazione masoretica “e”, “o”, “a”, che da origine alla pronuncia YeHoVaH. Viene utilizzata la “y” e non la “i” perché la ( )יyod ebraica, come la “y” è una consonante con suono vocalico. Di questa opinione Asher Intrater, che ho già citato prima, il quale spiega così le motivazioni delle sue convinzioni: “Nomi come Yeyoyachin, Yehoshua, Yehoyada o Yehoshaphat contengono la stessa radice “YHWH” nella medesima struttura sillabica. Tutti i nomi strutturati secondo questo modello presentano le vocali nella sequenza “e”, “o”, “a”. Se un’identica struttura vocalica è collocata nelle lettere YHWH, il nome risulterà sempre Yehovah. Nelle Scritture ebraiche non c’è un solo caso in cui un nome di tre sillabe contenente la radice YHVH non utilizzi la struttura vocalica “e”, “o”, “a”.” Perché ritengo interessante la testimonianza di Intrater? Perché è ebreo e come tale ha una conoscenza dell’originale sia linguistica che tradizionale, culturale. Perché è un credente in Gesù come Messia. Perché ha i titoli sufficienti a far ritenere che sappia di ciò che parla: ha studiato ad Harvad, al Baltimore Hebrew College ed al Messiah Biblical Institute. Ed in ultimo perché ha cultura e conoscenza sufficiente da poter fare due affermazioni che ritengo fondamentali nell’approccio ad una problematica così delicata: 1. Il problema legato alla comprensione del Tetragramma “… non è una questione di pronuncia ma di rivelazione.” 2. Perché ha il coraggio di informare il lettore sul fatto che la lettura Yahweh “sia una possibilità da tenere in considerazione”, mentre sostiene con convinzione comunque che “ci sono altre ragioni grammaticali che, a mio avviso, rendono preferibile la pronuncia YeHoVaH”. Chi va di casa in casa o si propone in diretta via satellite proclamando le proprie certezze sulla pronuncia esatta del nome di Dio e l’inderogabile necessità di chiamarlo a quel modo – come se facendo altrimenti il nostro Dio non capisca che invochiamo Lui – www.studibiblici.eu 22
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distribuisce soltanto false certezze. E’ facile ridurre ai minimi termini una problematica invece così complessa come quella che stiamo esaminando e convincersi di avere ragione sulle proprie conclusioni liquidando con un colpo di spugna gli onesti, seri tentativi di chi è alla ricerca di una verità non solo religiosa, ma anche storica, linguistica e paleontologica. Mi si perdoni se ora svesto i panni dello studioso ed indosso quelli del credente. Il nostro meraviglioso Dio non ha rivelato il suo Nome a Mosè perché l’umanità si scervellasse da lì in avanti sul come pronunciarlo, bensì perché comprendesse quanto Egli sia grande e meraviglioso, desideroso di incontrare la sua creatura. Ci spiega sempre Intrater: Dio “ha manifestato il Suo nome (le Sue qualità personali) all’umanità attraverso una rivelazione progressiva e grandiosa. Inizialmente era conosciuto come Elohim, in seguito si è fatto conoscere come Yehovah, oggi si può conoscere in Yeshua”, cioè in Gesù. Il Signore ci ha dato un chiaro mandato nella Sua Parola: E disse loro: "Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura. (Marco 16:15)
Se la Buona notizia che in Gesù, siamo salvati non basta, ma occorre anche rintracciare la corretta pronuncia del Tetragramma, siamo davvero perduti, senza speranza e senza certezze! Ma se invece il Signore ci ha inviati nel mondo per essere suoi testimoni. Se veramente nel nome di Yeshua è la salvezza, allora concludiamo che è in Lui che si compie quanto promesso nella Sacra Scrittura e cioè che mediante lui Yehovah salva. “In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati.” (Atti 4:12)
Alla luce di una maggiore conoscenza del testo originale, comprendiamo che, qualunque sia la pronuncia corretta del Tetragramma, è in Gesù, Yeshua (diminutivo di Yehoshua, cioè Yehovah salva) che Dio ha attivamente e perfettamente provveduto la salvezza per il suo popolo e per ognuno che riporrà la fede nel Suo Unigenito Figlio e nella perfetta opera di redenzione che egli ha compiuto per l’umanità intera sulla croce e che Dio Padre ha sigillato con la sua gloriosa resurrezione. Se un compito Dio ci ha affidato è quello di annunciare questa Verità al mondo e non delle improbabili conclusioni sulla pronuncia corretta del nome rivelato a Mosè millenni addietro. Gesù disse chiaramente: “Ma riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.” (Atti 1:8)
E Paolo sapeva benissimo qual era il suo compito. Era forse (lui avrebbe potuto, da erudito ebreo quale era) quello di spiegare come leggere il Tetragramma? Lui sembra avesse ricevuto tutt’altro incarico: www.studibiblici.eu 23
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“Ma non faccio nessun conto della mia vita, come se mi fosse preziosa, pur di condurre a termine [con gioia] la mia corsa e il servizio affidatomi dal Signore Gesù, cioè di testimoniare del vangelo della grazia di Dio.” (Atti 20:24)
Sembra che invece di assicurarsi che tutti invocassero יהוהnella maniera corretta, egli si sforzasse di far conoscere il nome di Cristo dove era sconosciuto. “Così da Gerusalemme e dintorni fino all'Illiria ho predicato dappertutto il vangelo di Cristo, avendo l'ambizione di predicare il vangelo là dove non era ancora stato portato il nome di Cristo …” (Romani 15:19-20)
E’ questo il compito che ci ha dato il Signore ed è questo il vero compito che deve animare l’esistenza dell’autentico cristiano. Sono state proposte altre possibili letture che cercano di riportare alla luce l’autentica lettura del Tetragramma. Ma come deve purtroppo ammettere ogni studioso serio e onesto, allo stato attuale delle nostre conoscenze – come dimostrano ampiamente le divergenze di opinioni fra gli studiosi – non vi è certezza sulla pronuncia esatta del nome divino rivelato a Mosè.
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Capitolo 5 Dio ha un Nome o si presenta con un Nome?
In questo capitolo discuteremo di un’apparentemente semplice questione, ma che in realtà è forse alla base stessa del dibattere sul nome di Dio. E cioè: Dio ha un nome o si presenta ad Israele con un nome? Lo dico subito al lettore, io sono convinto della seconda cosa e, ritengo, ogni essere umano ragionevole che consideri seriamente questa problematica debba arrendersi all’evidenza che gli antropomorfismi di Dio nell’Antico Testamento, cioè i suoi attributi e le sue qualità, le sue motivazioni e le sue azioni, definiti in maniera così simile a quelli degli uomini, sono soltanto una manifestazione e preludono all’incarnazione del logos nella persona di Gesù di Nazareth, sono evidenza del grande amore di Dio per l’uomo, perché sono intesi per darci una maggiore comprensione di Dio con concetti e parole a noi comprensibili, e non sono certo un’espressione dei suoi limiti. Vi è mai capitato che un pensiero molto bello, molto grande, non siate riusciti ad esprimerlo appieno con delle parole? Il pensiero rimane immutato, ma è la pochezza del linguaggio umano a non riuscire ad esprimerlo appieno. L’amore stesso è un sentimento talmente grande da frustrare ogni scrittore e filosofo che prova a descriverlo – e di tentativi ve ne sono dall’alba dei tempi ad oggi. Tanto più la Persona Eterna ed Infinita di Dio! Come possiamo pretendere di contenere il mare in un bicchiere? Allo stesso modo il linguaggio e la cultura umana non può mai appieno descrivere perfettamente la Persona di Dio. E’ per questo che parliamo di Rivelazione di Dio. Perché è Dio stesso che trova i mezzi dell’esperienza umana per poter rivelare di sé ciò che la mente umana può riuscire a comprendere di Lui. Provo un timore riverenziale nei confronti di Filone Alessandrino, “filosofo” ebreo vissuto ad Alessandria d’Egitto a cavallo fra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C. Le sue opere sono molte e la sua difesa del credo ebraico in un mondo intriso di filosofia greca è intelligente e sempre diretta ad affermare il valore della Legge mosaica. Mi piace ciò che scrive sul nome di Dio e lo leggo con grande interesse, visto che un ebreo così erudito sulla Parola di Dio ma anche così ferrato nella lingua e cultura greche (il suo greco è davvero elegante e complesso, degno di scritti filosofici). Egli scrive così sul nome di Dio: “E’ quindi piuttosto ragionevole ritenere che non si può con successo assegnare un nome proprio a colui che è veramente il Dio vivente. Vedete che al profeta che è veramente desideroso di indagare con sincerità circa la verità e chiede quale risposta dovrà dare a coloro che lo interrogheranno sul nome di colui che lo ha mandato, Egli dice: “Io sono colui che sono”, che equivale a dire “è proprio della mia natura essere e non essere descritto da un nome.” Ma perché la razza umana non fosse totalmente sprovvista di un appellativo che www.studibiblici.eu 25
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potessero riferire al più eccellente degli esseri, vi autorizzo ad utilizzare la parola Signore come nome”. (dal De Mutatione Nominum ). Nel suo trattato su Abraamo scrive: “… Dio non ha bisogno di alcun nome. Ma sebbene egli non abbia questa necessità, comunque egli mette a disposizione il suo titolo a favore della razza umana, affinché questa possa avere un rifugio al quale rivolgersi con suppliche e preghiere, così da non vivere senza speranza”. In parole povere – concordo con Filone, per questo l’ho citato – Dio non ha in sé e per sé un nome, perché non ne ha bisogno. Molto semplicemente: “Egli è”. E’ questo il senso della sua affermazione in Esodo 3. Egli è definito e chiamato Dio, ma la parola “Dio” non può racchiudere la sua immensità. Lo chiamiamo Signore, ma è solo per stabilire in maniera comprensibile nel nostro linguaggio umano la sua signoria, ma la mente umana non può nemmeno sfiorare l’idea di qualcosa di tanto grande! Lo chiamiamo Creatore, Padre, ma tutti gli aggettivi ed i nomi che l’uomo ha a sua disposizione per descriverlo servono a noi e non a Lui, non per definirlo bensì per aiutarci ad invocarlo. E’ stato quindi necessario per una più intellegibile rivelazione di Lui che Dio ha dovuto vestirsi di un nome “proprio”, per rendersi più raggiungibile dalla sua creatura. Attribuirsi un nome da parte di Dio lo possiamo associare al resto degli antropomorfismi che rinveniamo nella Parola di Dio tesi a darci di Lui dei contorni più prossimi all’esperienza di noi essere umani e quindi più comprensibili. Per concludere questa riflessione iniziata con le parole di Filone, direi che Dio non ha un Nome, piuttosto si presenta all’umanità con un Nome. E’ una differenza sottile, ma essenziale. Contemporaneo di Filone alessandrino, Giuseppe Flavio è uno storico ebreo, anche lui prolifico autore nella sua materia. Nei suoi scritti (Le Antichità Giudaiche) egli però preferisce non parlare del nome di Dio rivelato a Mosè se non con un accenno dal quale si percepisce l’estrema riverenza che egli prova nei confronti del Tetragramma. Probabilmente il suo silenzio è motivato dal fatto che la sua opera era principalmente storica ed approfondire dettagli religiosi non era il senso del suo lavoro; e, allo stesso tempo, probabilmente la sua ebraicità gli impediva di mettere a disposizione dei suoi lettori pagani verità tanto care al popolo di Dio come quella che riguarda proprio il nome divino. Ma al di là della riflessione sul dato biblico e sulla natura di Dio che comprendiamo dalla contemplazione dell’interezza della Sacra Scrittura, in concreto, nella realtà della lingua nella quale יהוהè espresso, cosa significa il termine, il vocabolo “nome”? Che valenza ha? Quale “potere” possiede, possiamo dare o attribuire ad un nome? Tracey R. Rich (www.jewfaq.org) ci spiega così il significato della cultura ebraica: “Nel pensiero giudaico, un nome non è semplicemente una designazione arbitraria, una combinazione casuale di suoni. Il nome comprende la natura e l’essenza della cosa nominata. Rappresenta la storia e la reputazione dell’essere nominato. […] Un esempio di questo uso lo troviamo in Esodo 3:13-22: Mosè chiede a Dio quale sia il Suo “nome”. Mosè non sta chiedendo: “Come ti devo chiamare?”; piuttosto sta chiedendo: “Chi sei?”, “Come sei?”, “Cosa hai fatto?”. Ciò è chiaro anche dalla risposta di Dio. Dio gli risponde che Egli è eterno, che Egli è il Dio dei nostri antenati, che Egli ha visto la nostra afflizione e che ci avrebbe liberato dalla schiavitù”. www.studibiblici.eu 26
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Per comprendere quanto il pensiero ebraico, che è riflesso ed allo stesso tempo si riflette nella lingua e cultura ebraiche, possa, in un certo senso, essere lontano dalla nostra logica comune, basta considerare come il mondo ebraico possa elaborare la riflessione sul senso del “Nome” di Dio: “ … Dio, così com’è in se stesso, prescindendo da ogni rapporto con la creazione, possiede un Nome di cui lui solo è consapevole, un Nome che, si potrebbe anche dire, esprime la sua autoconsapevolezza. A questa (concezione, ndt) si contrappone l’idea, sostenuta dalla stragrande maggioranza delle fonti cabbalistiche […] che il Deus Absconditus non abbia un nome. Il Tetragramma non è perciò […] il Nome essenziale o proprio di Dio”, esso “esprime l’essenza della sua emanazione o manifestazione, e la riassume in sé. Nessun nome può spingersi oltre.” Gershom Scholem, “Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio”, Piccola Biblioteca 402, Adelphi Edizioni, p. 58-59. Ciò equivarrebbe a dire, in un linguaggio più prossimo al nostro, in una maniera più comprensibile per la nostra mentalità occidentale, che alcuni sostengono che Dio abbia un nome impenetrabile, del quale lui solo ha consapevolezza. Mentre il Tetragramma è il nome di Dio che egli ha rivelato nella Legge mosaica. In altre parole: 1. Solo Dio conosce veramente Dio. 2. Dio si rivela comunque in maniera comprensibile all’uomo. Vi sono diversi modi per osservare un fenomeno linguistico. Quello più semplice è avvalersi di una grammatica e studiarla. Ma la grammatica è fondamentalmente soltanto il risultato della raccolta sistematica di informazioni riguardanti l’uso di una lingua, in un determinato momento storico e spesso anche all’interno di determinati confini. Abbiamo preso nota delle affermazioni di Rich e dobbiamo ritenerle degne di seria considerazione. Ci siamo stupiti (forse, io si) davanti alla potenzialità delle speculazioni fondate originate in seno alla cultura e lingua ebraica. Ora mi sento di poter proporre qualcosa di più avvincente al mio lettore. Lo invito infatti nel prossimo capitolo ad esaminare con me l’Antico Testamento alla ricerca della parola “nome” e del significato che le viene attribuito in base all’uso ed al contesto nel quale è inserito.
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Capitolo 6 La parola “nome” nell’Antico Testamento
I brani che citerò in questo capitolo sono tutti tratti dalla Nuova Riveduta, in quanto si tratta di una traduzione sufficientemente letterale da consentire questo tipo di indagine. SIGNORE, tutto in maiuscolo è invariabilmente la maniera in cui questa versione traduce il Tetragramma. Per le ricerche ho utilizzato il software e-sword (disponibile gratuitamente all’indirizzo internet www.e-sword.net). “Dio il SIGNORE, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all'uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l'uomo gli avrebbe dato.” (Genesi 2:19)
Perché era così importante che l’uomo desse un nome agli animali? E perché gli animali erano soggetti a portare il nome che l’uomo avrebbe loro dato? Attraverso questo linguaggio la Scrittura vuole trasmettere il senso di preminenza del ruolo dell’uomo sulla creazione. Un ruolo voluto da Dio stesso, com’è chiaro se leggiamo attentamente. E’ quest’ultimo infatti a condurre dall’uomo tutte le sue altre creature perché desse loro un nome. Anche a Set nacque un figlio, che chiamò Enos. Allora si cominciò a invocare il nome del SIGNORE. (Genesi 4:26)
Cosa significa questo brano? Implica che da questo momento Dio cominciò ad essere invocato, o che cominciò ad essere invocato utilizzando il suono originario del Tetragramma? Secondo gran parte dei testi nei quali mi sono imbattuto, il Tetragramma era noto ai patriarchi prima della rivelazione a Mosè, grazie ad affermazioni del tipo che rinveniamo qui in Genesi 4:26. Purtroppo non concordo. Intanto diciamo subito che potremo tradurre questo brano biblico altrimenti: “Allora si incominciò ad invocare יהוה.” Mentre non mi sembra di poterlo intendere così come fanno alcuni: “Allora si cominciò ad invocare יהוה, proprio con questo nome.” In secondo luogo è naturale in una narrazione riferirsi ad un individuo con il titolo più importante da lui conseguito, anche quando si parla del periodo in cui non l’aveva ancora acquisito. “Il terzo anno del regno di Ioiachim re di Giuda, Nabucodonosor, re di Babilonia, marciò contro Gerusalemme e l'assediò.” (Daniele 1:1)
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L’affermazione di Daniele, se presa alla lettera, è errata. Infatti a quel tempo Nabucodonosor non era ancora re, essendo suo padre ancora in vita. Ma lo sarebbe divenuto e lo sarebbe stato per 43 anni. Non è naturale riferirsi a lui come re anche quando si parla di eventi che precedevano la sua incoronazione? Facciamo un esempio più vicino alla nostra realtà quotidiana. Francesco Cossiga è stato presidente della Repubblica italiana dal 1985 al 1992. Però è possibile che scrivendo di lui si dica: “il Presidente Cossiga è nato il 28 luglio 1928” senza aspettarsi che chi legga o ascolti supponga che Cossiga sia nato già investito della sua carica presidenziale! Quando Genesi 4:26 si esprime utilizzando il Tetragramma, a mio avviso lo fa per dare la certezza al lettore che colui che allora veniva invocato (perché era Lui ad essere invocato e non il suo Nome) era lo stesso Dio che più tardi avrebbe detto a Mosè di chiamarlo יהוה. “Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.” (Genesi 12:2)
E’ stato il nome di Abraamo ad essere diventato grande o l’uomo che portava quel nome? La sottile differenza che passa fra le due cose ci aiuta a comprendere il senso autentico dell’utilizzo della parola “nome” e dell’idea che essa vuole trasmettere nel testo biblico. “Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al SIGNORE e invocò il nome del SIGNORE.” (Genesi 12:8)
Di nuovo non notiamo come palesemente l’espressione ebraica tradotta letteralmente nel testo biblico con “invocò il nome di ”יהוהsia sinonimo di “invocò ”יהוה. Se le mie deduzioni sono errate, allora è lecito chiedersi come faceva Abraamo ad invocare Dio con quel nome che egli avrebbe rivelato solo secoli dopo a Mosè? La Scrittura ci dice infatti: “Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente (שׁדי ;)אלma non fui conosciuto da loro con il mio nome di SIGNORE ()יהוה.” (Esodo 6:3)
El Shaddai ()אל שׁדי, cioè Dio Onnipotente, è un altro dei “nomi” di Dio nell’Antico Testamento. “L'angelo del SIGNORE le disse ancora: "Ecco, tu sei incinta e partorirai un figlio a cui metterai il nome di Ismaele, perché il SIGNORE ti ha udita nella tua afflizione;” (Genesi 16:11)
Ecco qui un esempio di dove il nome è un attributo identificativo della persona che lo porta, ma anche descrittivo di circostanze o fatti che la riguardano.
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E che dire del brano che segue: "Io mando un angelo davanti a te per proteggerti lungo la via, e per introdurti nel luogo che ho preparato. Davanti a lui comportati con cautela e ubbidisci alla sua voce. Non ribellarti a lui, perché egli non perdonerà le vostre trasgressioni; poiché il mio nome è in lui. (Esodo 23:20-21)
Siamo davanti ad un’altra espressione idiomatica che intende trasmetterci l’idea che Dio è con l’angelo che precede il cammino di Israele. O dobbiamo intendere che il nome di Dio, יהוה, fosse fisicamente dentro di lui? “Il SIGNORE disse ancora a Mosè: "Parla ad Aaronne e ai suoi figli e di' loro: "Voi benedirete così i figli d'Israele; direte loro: "Il SIGNORE ti benedica e ti protegga! Il SIGNORE faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio! Il SIGNORE rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace!"" Così metteranno il mio nome sui figli d'Israele e io li benedirò.” (Numeri
6:22-27) Questa stupenda benedizione è comunicata a Mosè con tutta la bellezza delle colorite, quasi poetiche, espressioni idiomatiche tipiche della lingua e cultura ebraiche, talmente forti da sopravvivere nella traduzione del testo nella nostra lingua. Anche qui come non immaginiamo che l’espressione relativa al volto di Dio che splende sia letterale, non possiamo nemmeno immaginare che lo sia “metteranno il mio nome sui figli d'Israele.” “Questi sono i nomi degli uomini che Mosè mandò a esplorare il paese. E Mosè diede a Osea, figlio di Nun, il nome di Giosuè.” (Numeri 13:16)
Interessantissimo questo passo dove il nome di Osea viene mutato in Giosuè. Per quale motivo era necessario cambiare il nome di colui che avrebbe condotto Israele dentro la terra promessa? E’ evidente che il nome è più che il semplice appellativo al quale risponde un individuo ma racchiude in sé il carattere stesso di chi lo porta. “Mangerai, in presenza del SIGNORE tuo Dio, nel luogo che egli avrà scelto come dimora del suo nome.” (Deuteronomio 14:23)
Potremmo benissimo tradurre questo brano: “nel luogo che egli avrà scelto come sua dimora.” “Celebrerai la Pasqua al SIGNORE tuo Dio, sacrificando vittime delle tue greggi e dei tuoi armenti, nel luogo che il SIGNORE avrà scelto come dimora del suo nome.” (Deuteronomio 16:2) “Sacrificherai l'agnello pasquale soltanto nel luogo che il SIGNORE, il tuo Dio, avrà scelto come dimora del suo nome; lo sacrificherai la sera, al tramontar del sole, nell'ora in cui uscisti dall'Egitto.” (Deuteronomio 16:6)
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“Se non hai cura di mettere in pratica tutte le parole di questa legge, scritte in questo libro, se non temi questo nome glorioso e tremendo del SIGNORE tuo Dio.” (Deuteronomio 28:58)
L’utilizzo del termine “nome” nei brani qui sopra riportati è chiaro sinonimo della persona. Vediamo altri brani dove ciò è evidente. “E disse a quegli uomini: "Io so che il SIGNORE vi ha dato il paese, che il terrore del vostro nome (ovvero: il terrore di voi) ci ha invasi e che tutti gli abitanti del paese hanno perso coraggio davanti a voi. (Giosuè 2:9) “Infatti il SIGNORE, per amore del suo grande nome (ovvero: per amore di se stesso), non abbandonerà il suo popolo, poiché è piaciuto al SIGNORE di fare di voi il suo popolo.” (1 Samuele 12:22) “Egli costruirà una casa al mio nome (ovvero: mi costruirà una casa) e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno.” (2 Samuele 7:13) “Perciò, o SIGNORE, ti loderò tra le nazioni e salmeggerò al tuo nome (ovvero: ti loderò).” (2 Samuele 22:50) “Tu sai che Davide, mio padre, non poté costruire una casa al nome del SIGNORE,(ovvero: costruire una casa a )יהוהdel suo Dio (ovvero: al suo Dio), a causa delle guerre nelle quali fu impegnato da tutte le parti, finché il SIGNORE non gli mise i suoi nemici sotto i piedi.” (1 Re 5:3) “Ho quindi l'intenzione di costruire una casa al nome del SIGNORE mio Dio, secondo la promessa che il SIGNORE fece a Davide mio padre, quando gli disse: "Tuo figlio, che metterò sul tuo trono al posto tuo, sarà lui che costruirà una casa al mio nome". (1 Re 5:5) "Dal giorno che feci uscire il mio popolo d'Israele dall'Egitto, io non scelsi alcuna città, fra tutte le tribù d'Israele, per costruirvi una casa, dove il mio nome dimorasse; ma scelsi Davide per regnare sul mio popolo Israele". (1 Re 8:16) “Davide, mio padre, ebbe in cuore di costruire una casa al nome del SIGNORE, Dio d'Israele;” (1 Re 8:17) “ma il SIGNORE disse a Davide mio padre: "Tu hai avuto in cuore di costruire una casa al mio nome, e hai fatto bene ad avere questo pensiero;” (1 Re 8:18)
Vedi anche 1Re 8:19, 1Re 8:20, 1Re 18:32, 1Cronache 22:19, 2Cronache 6:5, 2Cronache 6:6. www.studibiblici.eu 31
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“Il re di Babilonia fece re al posto di Ioiachin, Mattania, zio di lui al quale cambiò il nome chiamandolo Sedechia.” (2 Re 24:17) “Il re d'Egitto fece re sopra Giuda e sopra Gerusalemme Eliachim, fratello di Ioacaz, e gli cambiò il nome in Ioiachim. Neco prese Ioacaz, fratello di lui, e lo condusse in Egitto. (2 Cronache 36:4)
Il fenomeno linguistico che stiamo osservando non sembra sia esclusivamente legato alla lingua ebraica ed alla prassi biblica. Il re babilonese Nabucodonosor si premura di cambiare il nome del re che pone sul trono di Giuda, per sottolineare che da quel momento in avanti egli si sarà sottoposto. Lo stesso farà quando Daniele ed i suoi compagni saranno portati alla sua corte (vedi Daniele 1). E’ prassi anche di Faraone fare altrettanto. Il cambio del nome di una persona intende esprimere il cambiamento nella sua condizione. “Non sarai più chiamato Abramo, ma il tuo nome sarà Abraamo, poiché io ti costituisco padre di una moltitudine di nazioni.” (Genesi 17:5)
Dio cambia il nome di Abramo in Abraamo in maniera che il suo nome porti in sé il segno (ciò è evidente solo nell’originale ebraico, ovviamente) dell’opera che Dio stava per compiere nella sua vita. “L'altro gli disse: "Qual è il tuo nome?" Ed egli rispose: "Giacobbe". Quello disse: "Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto". Giacobbe gli chiese: "Ti prego, svelami il tuo nome". Quello rispose: "Perché chiedi il mio nome?” (Genesi 32:27-29)
Su quest’ultimo brano della Scrittura ci si potrebbe scrivere un libro a sé. Ma per la nostra discussione noteremo due cose. La prima: il nome di Giacobbe viene cambiato, perché dal suo incontro con Dio egli non era più lo stesso ed il suo nome nuovo descriveva questo cambiamento. La seconda: Giacobbe chiede il nome all’individuo con il quale lotta, ma non riceve risposta. Continuiamo con altri esempi. SIGNORE, il tuo nome dura per sempre; la memoria di te, o SIGNORE, dura per ogni generazione. (Salmo 135:13)
Qui le due frasi sono dei sinonimi, la prima e la seconda hanno lo stesso significato sebbene espresse con sfumature linguistiche differenti. Ho scritto questo passo come dei versi – questo sono – per poter meglio osservare la prassi tipica ebraica di esprime lo stesso concetto più volte, in maniera diversa; prassi simile, in quella lingua, alla nostra rima. “Ecco, il nome del SIGNORE viene da lontano; la sua ira è ardente, grande è il suo furore; le sue labbra sono piene d'indignazione, la sua lingua è come un fuoco divorante;” (Isaia 30:27) www.studibiblici.eu 32
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Questa espressione tradotta in maniera così letterale è quasi sconvolgente. “Io infatti sono il SIGNORE, il tuo Dio. Io sollevo il mare, e ne faccio muggire le onde; il mio nome è il SIGNORE degli eserciti.” (Isaia 51:15) “A loro non somiglia Colui che è la parte di Giacobbe; perché Egli ha formato tutte le cose, e Israele è la tribù della sua eredità. Il suo nome è: il SIGNORE degli eserciti.” (Geremia 10:16) “e io vi farò andare in esilio oltre Damasco", dice il SIGNORE, il cui nome è Dio degli eserciti.” (Amos 5:27)
In questo caso, la lingua ebraica ci fornisce l’esempio di un fenomeno linguistico molto lontano dalla mentalità occidentale. Il meglio che può fare il traduttore è rendere il brano “Il Signore degli eserciti”, ma in ebraico questa espressione dice sicuramente di più. Il Signore degli eserciti ( )יהוה צבאותè un altro nome-attributo di Dio. Lo stesso nome lo troviamo in Geremia 32:18, 51:19. “Tuttavia, tu sei nostro padre; poiché Abraamo non sa chi siamo e Israele non ci riconosce. Tu, SIGNORE, sei nostro padre, il tuo nome, in ogni tempo, è Salvatore nostro.” (Isaia 63:16)
Non sembra che, come negli altri esempi che ho appena riportato, il testo attribuisca qui un altro nome a Dio? Invece la parola è all’interno di una costruzione idiomatica, che, come è chiaro dal contesto, non si riferisce al nome in maniera letterale, bensì alle qualità personali che esso vuol descrivere. “Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il SIGNORE, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano” (Esodo 20:5) “Tu non adorerai altro dio, perché il SIGNORE, che si chiama il Geloso, è un Dio geloso. (Esodo 34:14)
Vediamo nei due esempi descritti qui sopra come “sono un Dio geloso” e l’espressione “Il SIGNORE, che si chiama il Geloso” hanno il medesimo significato. Concordo perfettamente con Asher Intrater quando afferma: “Un nome è un termine che indica una persona. Nella Bibbia, i nomi avevano un significato profetico: descrivevano il carattere di un individuo, il suo destino, il suo scopo. A volte nel tentativo di ottenere potenza con la semplice pronuncia di un nome, si finisce per cadere nella superstizione. Tuttavia, cercare di capire il significato spirituale di un nome vuol dire attingere alla fonte della sua potenza.” Chi ha pranzato con Abrahamo?, Perciballi editore, I edizione, pag. 161.
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“Noi siamo diventati come quelli che tu non hai mai governati, come quelli che non portano il tuo nome!” (Isaia 63:9)
Potremmo anche tradurre “come quelli che non ti appartengono”. Ancora altri brani biblici: “Io darò loro, nella mia casa e dentro le mie mura, un posto e un nome, che avranno più valore di figli e di figlie; darò loro un nome eterno, che non perirà più.” (Isaia 56:5)
Anche qui appare molto interessante l’utilizzo idiomatico della parola “nome”. “tu hai fatto nel paese d'Egitto, in Israele e fra gli altri uomini, fino a questo giorno, miracoli e prodigi, ti sei acquistato un nome qual esso è oggi;” (Geremia 32:20)
La parola “nome” è utilizzata come sinonimo di reputazione. Come del resto accade nella nostra lingua quando utilizziamo l’espressione idiomatica “essersi fatto un nome” come sinonimo di reputazione. “In quei giorni, Giuda sarà salvato e Gerusalemme abiterà al sicuro; questo è il nome con cui sarà chiamata: SIGNORE nostra giustizia.” (Geremia 33:16) “Allora quelli che hanno timore del SIGNORE si sono parlati l'un l'altro; il SIGNORE è stato attento e ha ascoltato; un libro è stato scritto davanti a lui, per conservare il ricordo di quelli che temono il SIGNORE e rispettano il suo nome.(ovvero: lo temono)” (Malachia 3:16)
Rispettiamo un nome, la pronuncia di consonanti e vocali o il nostro cuore è volto al Signore dell’universo, יהוה, con timore e riverenza? Nel precedente capitolo ho posto una domanda: “Dio ha un nome o si presenta con un nome?” Se immaginiamo che יהוהsia il nome personale di Dio, unico, eterno ed immutabile e solo nome di Dio, dobbiamo anche immaginare che questo non sia vincolato alla rivelazione ad Israele. Dobbiamo immaginare che anche se Mosè non fosse stato di lingua ebraica, ma accadica o ugaritica, o egiziana, Dio si sarebbe comunque presentato come יהוהproferendo il medesimo suono udito da Mosè. Purtroppo una tale eventualità dobbiamo scartarla subito come impossibile. Ritorniamo nel brano di Esodo. “Dio disse a Mosè: "Io sono colui che sono". Poi disse: "Dirai così ai figli d'Israele: "l'IO SONO mi ha mandato da voi.” Dio disse ancora a Mosè: "Dirai così ai figli d'Israele: "Il SIGNORE, il Dio dei vostri padri, il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi". Tale è
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il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in generazione. (Esodo 3:14-15)
Mosè chiede a Dio il suo nome. A quella domanda Egli risponde: “Io sono colui che sono”. E’ questa la risposta! E’ come se Dio gli dicesse, parlandogli in modo comprensibile, nella lingua e nel modo che a Mosè risultava intellegibile dicendogli: “io non posso avere un nome che mi possa contenere, non ci sono parole umane che possono descrivermi”. E poi aggiunge, perché Mosè deve pur dire qualcosa che abbia un senso al suo popolo: “IO SONO” è Colui che egli dovrà dire al suo popolo che l’ha mandato. Il nome di Dio sarebbe quindi “IO SONO”, che equivarrebbe al dire, in prima persona, di Dio, in lingua mortale, quanto prima aveva spiegato a Mosè dicendogli “Io sono colui che sono”. Ma gli altri non potevano rivolgersi a Lui chiamandolo “Io sono” e il modo – diciamo, per semplicità, “in terza persona” – nel quale il popolo avrebbe dovuto rivolgersi a Dio sarebbe stato la parola – יהוהdella quale purtroppo (o per volontà di Dio) abbiamo perso la pronuncia originale. Non c’è nulla di magico nella maniera in cui Dio rivela il suo nome a Mosè: Egli si esprime con la lingua e nei modi comprensibili da coloro che sono i depositari della sua rivelazione. Se la lingua di Mosè e del suo popolo non fosse stato l’ebraico, il Signore avrebbe pronunciato parole diverse che avrebbero avuto un senso nella lingua di cui si serviva per essere compreso. Ovviamente anche יהוהsarebbe stato espresso con le proprietà e nei modi peculiari di quell’altra lingua, in modo di risultare altrettanto comprensibile e sensato quanto יהוהper gli ebrei contemporanei di Mosè. Credo sia chiaro al lettore adesso che l’idea ebraica espressa con la parola “nome” può non essere esattamente uguale a quella espressa nella nostra lingua. In ebraico il senso del termine è più ampio e lascia spazio a considerazioni ed espressioni idiomatiche impossibili da tradurre nella nostra lingua e che se tradotte letteralmente e letteralmente interpretate possono allontanarci dal senso originario, quindi autentico, di ciò che la Parola di Dio diceva allora al popolo ebraica, ma senz’altro vuole e può dire anche a noi oggi. Per dare un ultimo esempio al lettore di quanto la lingua e cultura ebraiche possano scostarsi dalla nostra mentalità, gli citerò il fatto che per alcuni studiosi ebrei della Legge mosaica “la Torah (appunto Legge in ebraico, ndt), per sua natura non è altro che un unico grande Nome di Dio”. Ciò “non significa però che si tratti di un nome pronunciabile come tale, né ha qualcosa a che fare con una concezione razionale delle possibili funzioni comunicative e sociali del nome. Affermare che la Torah è il Nome di Dio significa che Dio ha espresso in essa il suo essere trascendente, o almeno quella parte o aspetto del suo essere che può venir rivelato alla creazione e attraverso la creazione.” Gershom Scholem, “Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio”, Piccola Biblioteca 402, Adelphi Edizioni, p. 40-41. Adesso dovremmo continuare estendendo la nostra ricerca al Nuovo Testamento. Ma ciò non possiamo farlo subito, in quanto quest’ultimo non è stato in realtà scritto in ebraico; o meglio, è giunto a noi in lingua greca soltanto. Quindi diverse premesse devono essere fatte prima di proseguire nell’esame biblico della parola “nome” anche nel Nuovo Testamento. www.studibiblici.eu 35
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Capitolo 7 L’ellenizzazione del mondo antico e il dominio della lingua greca
Gli ebrei uscirono dall’Egitto con Mosè alla guida nel XV secolo a.C. Dopo quarant’anni trascorsi nel deserto essi furono pronti a prendere possesso della terra che il Signore aveva loro promesso. Fu compito del successore di Mosè, Giosuè, condurre il popolo nella sua conquista della “terra promessa”. Qui Israele dimorò per secoli senza avere un vero e proprio re. Il primo vero monarca fu Saul, unto dal profeta Samuele. A lui succedette il grande re Davide, il quale unificò lo stato ebraico, rendendolo forte e con confini piuttosto importanti. Fu lui che fece di Gerusalemme la sua capitale. Con Davide come re Israele raggiunse una solida e definita unità politica. Bisogna sottolineare che Israele si trovava allora – e in un certo senso è così anche oggi – in un punto nevralgico del medio-oriente. Esso era sulle vie commerciali che collegavano il Mediterraneo e l’Egitto alla Mesopotamia. L’abilità militare di Davide gli aveva assicurato un regno forte e sicuro, ma fu l’abilità diplomatica (la saggezza) di suo figlio Salomone, suo successore, che permise la stabilità di quanto conquistato. Egli edificò il famoso tempio di Gerusalemme (viene chiamato il primo tempio) la cui fama millenaria ne fa una delle più grandi opere della storia dell’umanità. Purtroppo i re che seguirono non furono all’altezza di questi due grandi sovrani. Alla morte di Salomone, a causa delle lotte per la successione al trono, il regno venne diviso in due. A Nord venne costituito il regno di Israele ed a sud il regno di Giuda, fedele alla discendenza davidica. Il regno di Israele cadde sotto la potente e distruttiva mano degli Assiri nel 722 a.C. Questi, secondo la loro crudele prassi, deportarono il popolo in massa e presero possesso delle terre conquistate. Fu così che il mescolarsi degli indigeni lasciati in patria – la parte più povera – e i conquistatori assiri che sarebbe nato il popolo dei samaritani dei quali si parla in diversi punti del Nuovo Testamento. Il regno di Giuda al sud sopravvisse agli assiri soltanto per essere distrutto meno di due secoli dopo per mano di Nabucodonosor, re del nuovo regno babilonese, nel 586 a.C. Come ci raccontano i libri storici della Bibbia, anche il re babilonese deportò in massa il popolo giudaico, lasciandosi alle spalle la desolazione della distruzione della città di Gerusalemme e del tempio eretto da Salomone. La capacità unica del popolo ebraico di mantenere la propria identità culturale non permise che le tradizioni del popolo di Dio venissero soffocate dalla cultura babilonese. Al contrario fu in questo periodo che Israele prese ancora maggiore consapevolezza del suo ruolo quale testimone del suo Dio e la fede ebraica da qui in avanti prenderà i contorni sempre più definiti del giudaismo che ci è familiare grazie ai brani del Nuovo Testamento. Con la caduta di Babilonia e l’ascesa della potenza persiana, il popolo di Giuda potrà tornare prima ad edificare il suo tempio e poi la stessa città di Gerusalemme. www.studibiblici.eu 37
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La ripresa e persino la crescita di Israele fu lenta ma costante. Poi accadde qualcosa che avrebbe sconvolto il mondo definitivamente. Filippo era sovrano di Macedonia, un regno che esisteva a nord del variegato mondo politico e culturale che era la Grecia. La cultura dei macedoni era fondamentalmente greca, sebbene i greci non fossero così entusiasti di questa parentela culturale. L’opera forse nemmeno sognata da Filippo venne compiuta da suo figlio, passato giustamente alla storia come “il Grande”, Alessandro Magno. In circa dieci anni Alessandro riuscì a muovere al di fuori della Grecia, attraverso l’attuale Turchia, scendendo fino in Egitto, avanzando poi verso oriente, verso il cuore stesso della potenza persiana, conquistando in pochi anni pressoché tutto il mondo conosciuto e divenire il più vasto impero del tempo. Alessandro portò con sé l’entusiasmo per la cultura greca e la vittoria militare venne accompagnata da una vera e propria opera sistematica di colonizzazione linguistica e culturale delle terre conquistate. Questo fenomeno viene conosciuto come ellenizzazione. Esso interessò anche Israele. Dapprima si trattò di un processo pacifico. Molti giudei iniziarono ad adottare i costumi e la cultura dei greci, rinnegando in un certo senso la tradizione ebraica o cercando di conciliare le due cose. Con la morte di Alessandro lo stato di Israele venne a trovarsi fra due fuochi, proprio in mezzo a due dei regni nati dalla frammentazione dell’impero di Alessandro seguito alla sua morte: il regno Seleucida a nord e quello Tolemaico a sud. In Egitto vi era una nutrita colonia di ebrei. Lì, nella città di Alessandria, luogo di fermento culturale, nacque una delle più grandi biblioteche della storia dell’umanità. Lo storico ebreo Giuseppe Flavio narra che il re tolemaico Tolomeo Filadelfo, sponsorizzò la prima traduzione in greco delle Scritture ebraiche perché si aggiungessero alla sua nutrita collezione di libri. Dal numero dei traduttori originari nacque il nome con il quale da allora in avanti ci si riferì a questa versione greca delle Scritture ebraiche: Settanta. La Settanta è detta anche Septuaginta e spesso viene indicata come “LXX”, 70 in numeri romani. La Settanta divenne la Bibbia degli ebrei dispersi nel mondo ellenico che avevano perso dimestichezza con l’ebraico originale. Fu molto popolare e molti sono convinti che in alcuni punti preservi un testo persino più puro di quello tramandato dal testo ebraico come noi lo conosciamo. Vi sono ragioni per supporre che in diversi punti questa versione venga direttamente citata nel Nuovo Testamento, anch’esso scritto in greco. Nonostante l’eccezione dell’apertura culturale di Tolomeo, in generale, agli occhi dei sovrani di cultura ellenica, il culto monoteistico ebraico appariva oscuro, quasi una superstizione, soprattutto per via del suo esclusivismo. Per dei politeisti, interessati più ai dubbi filosofici e, quindi, animati da forti sentimenti sincretisti, risultava davvero poco comprensibile l’ostinazione ebraica a considerare יהוהil solo Dio e marchiare tutti gli altri dei come falsi! Il sovrano seleucida Antioco IV epifane – definito da alcuni, non senza validi motivi, come l’“anticristo” dell’Antico Testamento – perseguitò duramente il partito tradizionalista ebraico. Ciò fece muovere gli ebrei a rivolta e la vittoria che il piccolo popolo di Giuda ottenne contro il gigante seleucida fu indispensabile per la sopravvivenza della cultura ebraica.
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Israele rimase una piccola isola, culturalmente distinta da tutto il mondo che la circondava – non è così anche oggi? Tutto il Mediterraneo, l’Egitto, l’Asia minore, la Mesopotamia, tutto il mondo conosciuto abbracciò la lingua e la cultura greca. Una colonizzazione linguistica e culturale di tale portata trova un parallelo millenni più tardi, quando l’impero britannico si guadagnò il primato di impero più esteso della storia dell’umanità. E’ anche grazie a questa espansione politica se la lingua inglese oggi è così parlata in tutto il mondo e, fondamentalmente, anche se la cultura occidentale è così diffusa. Gli Stati Uniti d’America erano una colonia inglese. Lo stesso vale per l’Australia. Dopo la seconda guerra mondiale, gli americani hanno colonizzato culturalmente – pacificamente – l’Europa occidentale, diffondendo ulteriormente la lingua e la cultura anglosassone, sebbene nella sua variante americana. Dico questo per riportare alla mente del lettore un fenomeno simile a quello greco, ma a noi molto più familiare. Quando nacque Gesù, Israele era una nazione fondamentalmente libera, ma politicamente sottoposta all’autorità dell’impero romano. Essa manteneva la propria lingua e le proprie tradizioni. Ma l’influenza culturale ellenica era ancora fortissima in tutto l’impero romano e il greco era ancora la lingua più parlata nel mondo di allora. L’iscrizione sulla croce era multilingue – come il mondo di allora – ed era in ebraico, latino e greco. L’apostolo Paolo, adottando evidentemente un linguaggio allora diffuso, distingueva gli uomini in due categorie, giudei e greci, intendendo con quest’ultimo termine coloro che non facevano parte della prima categoria – tanto universale era la cultura greca! “Infatti non mi vergogno del vangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del Giudeo prima e poi del Greco.” (Romani 1:16)
Vedi anche Romani 2:9, 10, 10:12; Galati 3:28; Colossesi 3:11. Quando il cristianesimo muoveva i suoi primi passi, Israele era una nazione dove si parlava l’ebraico, tramandato anche grazie alla cultura della lettura e studio della Parola di Dio, l’aramaico, lingua che si era affiancata come lingua nazionale all’ebraico dopo l’esilio babilonese e il greco, lingua indispensabile per comunicare con i non giudei, per il commercio e le attività internazionali. Il luogo dal quale provenivano Gesù ed i suoi discepoli, la Galilea, con i suoi porti e la sua vocazione commerciale, doveva essere particolarmente interessato dal fenomeno della diffusione della lingua greca. E’ tra l’altro possibile ed anche plausibile che alcuni dei discorsi riportati nel Nuovo Testamento siano stati fatti da Gesù originariamente in greco. Mel Gibson ha filmato il suo “la Passione di Cristo” in aramaico. Ma vi è stato un punto che sono riuscito a comprendere e cioè quando Pilato chiede a Gesù: “τί ἐστιν ἀλήθεια;” Cioè: “cos’è Verita?” E’ molto probabile che il dialogo fra Gesù e Pilato si sia svolto veramente in lingua greca piuttosto che ebraica. Alcuni studiosi, andando alla radice di alcune frasi pronunciate da Gesù e riportate nel Nuovo Testamento, sono convinti che esse siano state pronunciate originariamente in lingua greca. Ciò è possibile. Durante alcune feste giudaiche vi erano pellegrini che venivano da ogni parte del mondo. Come, ad esempio, durante la Pentecoste, quando Pietro annunciò per la prima volta l’evangelo. Quindi può essere accaduto che Gesù, in determinate circostanze, possa aver parlato in greco alle folle. www.studibiblici.eu 39
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Sebbene la religione cristiana sia fondamentalmente lo sviluppo di una parte dell’ebraismo, diversi fattori finirono per allontanare la nuova fede dall’ambiente ebraico. La predicazione di Paolo finì per abbracciare tutto il mondo portando la salvezza, secondo il mandato che Gesù stesso aveva dato agli apostoli, ad ogni uomo, di qualsiasi razza e cultura. Il numero dei “greci” convertiti a Cristo divenne esponenzialmente superiore al numero dei “giudei” che l’avevano accettato. Da qui l’affermazione del quarto vangelo – vedi Giovanni 1:11-12. La distruzione del tempio e della città di Gerusalemme operata dai romani nel 70 d.C. finì per segnare definitivamente la distinzione fra cristiani ed ebrei. Tanto che per vedere degli ebrei che si convertono a Cristo e mantengono la propria identità cultura ebraica, bisogna attendere i giorni nostri, con movimenti cristiani quali gli ebrei messianici. E’ in questo contesto storico e culturale che il cristianesimo muove i suoi passi. E’ in questo contesto culturale che gli apostoli consegnano al mondo la dottrina del loro maestro, Gesù, e lo fanno in una maniera congeniale alla cultura ebraica: per iscritto. All’alba del II secolo d.C., quando ormai tutti i testimoni oculari delle vicende che avevano riguardato il Cristo erano morti, rimaneva il cosiddetto Nuovo Testamento a tramandare la dottrina apostolica alle generazioni a venire. Se teniamo conto dell’atmosfera culturale del tempo e dell’ampia diffusione del cristianesimo all’esterno dei confini della nazione ebraica, non ci può sorprendere constatare che il Nuovo Testamento venne consegnato alla generazione post apostolica scritto tutto in lingua greca, in greco Koiné, per essere più precisi. Si tratta di un greco semplice, corrispondente alla forma colloquiale di questa lingua, non a quella sofisticata dei classici, accessibile e comprensibile anche ai non madrelingua. Tutti i manoscritti giunti a noi dall’antichità che lo contengono in tutto o in parte, ci sono giunti in greco soltanto – con una sola eccezione, vedremo quale più avanti. Ma il Nuovo Testamento era stato scritto originariamente in questa lingua? O il Nuovo Testamento in greco è solo la traduzione di un testo originariamente composto in ebraico, ormai andato perduto? Rispondere a questa domanda sarà molto importante per il prosieguo della nostra discussione. L’errore più banale che si possa commettere in questo tipo di indagine, nella ricerca della lingua originale per il Nuovo Testamento, è immaginare che questo sia un’opera unica, dove ogni libro che lo compone sia solo equivalente ai singoli capitoli di un qualunque libro. Si, vi è un solo autore del Nuovo Testamento, in un certo senso ed è lo Spirito Santo. E certamente lo Spirito Santo ha ispirato ogni autore sacro con in mente l’idea dell’opera unica alla formazione della quale i singoli scritti prodotti avrebbero concorso. Ma allo stesso tempo non possiamo svuotare di significato il contributo personale che ciascun autore dei libri che compongono la raccolta delle Scritture cristiane ha avuto nella composizione della propria opera. Né possiamo comprendere appieno uno scritto – in generale, ma forse anche di più se biblico – se lo estrapoliamo dalle circostanze della sua composizione, dal periodo nel quale è stato composto e se non teniamo debito conto dei primi destinatari di quello scritto. Vi è un dettaglio che sfugge di solito a chi legge le traduzioni e non l’originale del Nuovo Testamento: lo stile dei singoli autori. Quando leggevo la traduzione della Bibbia www.studibiblici.eu 40
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soltanto, non capivo Marco – mi sembrava un riassunto di Matteo. Ma quando l’ho letto in greco ho percepito l’unico, meraviglioso stile del secondo vangelo. Ho amato sempre il quarto vangelo, ma quando l’ho letto nell’originale greco è come se avessi ancora di più scoperto il suo autore e la forza del messaggio che voleva trasmettere. Non è un limite della Parola di Dio, efficace e potente anche nelle sue traduzioni, bensì una inalienabile caratteristica del linguaggio umano. Parlando della lingua originale dei libri del Nuovo Testamento, quindi, sarà saggio discuterne separatamente se non per titolo, almeno per autore. Considereremo separatamente della lingua originale di Matteo e di quella di Marco. Il vangelo di Luca e gli atti degli apostoli sono necessariamente un fenomeno linguistico unico. Giovanni scrive nello stesso greco sia il suo vangelo che le epistole. Ma l’Apocalisse è meglio considerarla a parte. Il corpo degli scritti di Paolo è nettamente distinto dal resto delle epistole. E l’ “epistola agli ebrei” merita un’attenzione particolare. Si tratta di un esame difficile, se non addirittura impossibile. Riuscire a trovare gli indizi in uno scritto di un supposto originale in un’altra lingua non è cosa da poco. E’ facile doversi affidare a delle motivazioni troppo soggettive per essere oggettivamente sostenute e comprovate: da un momento all’altro le nostre supposizioni possono dimostrarsi errate per il semplice fatto che conosciamo troppo poco i retroscena e i dettagli che hanno concorso alla formazione del Nuovo Testamento inteso come raccolta dei libri sacri del cristianesimo. Nelle pagine che seguono proverò ad analizzare questa delicata questione nella maniera più completa e chiara possibile che mi permetteranno le mie capacità e conoscenze.
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Capitolo 8 La lingua originale del Nuovo Testamento I: i sinottici e gli atti degli apostoli
Come dicevo alla conclusione del capitolo precedente, è saggio affrontare la questione della lingua originale del Nuovo Testamento, analizzando caso per caso gli scritti che lo compongono. Tutt’al più sarà utile raccoglierli per autore. Di sicuro il caso più controverso sulla possibilità di un originale ebraico è quello che riguarda il primo vangelo, quello di Matteo. Per quest’opera esistono diverse testimonianze antiche che ne sostengono sia l’attribuzione a Matteo, l’apostolo, sia la composizione in lingua ebraica. Tempo fa si era soliti credere che i riferimenti giunti dall’antichità sulla lingua ebraica alla base di questo scritto, fossero in realtà da intendersi in senso non stretto e che la lingua originale di Matteo fosse l’aramaico. Si pensava infatti che dopo l’esilio babilonese, l’ebraico fosse caduto in disuso e quella lingua fosse divenuta l’“ebraico” del tempo. La scoperta dei rotoli del Mar Morto (ne parlo più dettagliatamente nel mio libro sui rotoli di Qumran) dei quali l’80% è in lingua ebraica, ha definitivamente invertito la tendenza ed oggi si è praticamente certi, con l’unanimità del corpo degli studiosi, che l’ebraico fosse una lingua viva e vegeta ancora ai tempi Gesù. Papia ed Ireneo nel II secolo, Origene nel III, testimoniano l’esistenza di un vangelo scritto da Matteo per gli ebrei. La loro testimonianza viene raccolta dalle affermazioni dallo storico Eusebio di Cesarea nel IV secolo e poi è anche riproposta da Girolamo, traduttore in latino della Vulgata nel V secolo. Per quanto ne sappiamo, quindi, l’idea che Matteo fosse stato originariamente scritto in ebraico era una credenza consolidata della Chiesa antica. Ma il vero problema di fondo non può sfuggirci: il Matteo di cui parlano gli autori appena citati, corrisponde nel testo al Matteo del quale oggi abbiamo soltanto una versione in greco? George Howard, professore di religione alla University of Georgia, ha pubblicato nel 1987 un libro interessantissimo: “The Gospel of Matthew according to a Primitive Hebrew Text”. Egli introduce così il suo lavoro: “Un testo ebraico completo di Matteo si trova all’interno di un trattato giudaico polemico risalente al XIV secolo intitolato Even Bohan”. Di questo testo ebraico di Matteo il prof. Howard presenta la traduzione in inglese e le sue conclusioni sul significato di un testo aperto a tante possibili controverse conclusioni. “Un’indagine accurata del testo conduce alla conclusione che l’antico archetipo del testo ebraico di Matteo nel trattato di Shem-Tob possa essere una composizione e non una traduzione”, p.223. (Ho tradotto questa frase po’ liberamente per permetterne una facile comprensione). Il prof. Howard ritiene che il testo di Matteo all’origine della tradizione manoscritta del testo utilizzato per la base del trattato di Shem-Tob possa non essere una semplice traduzione da un Matteo originale in greco, bensì una composizione a sé. Sarebbe facile per il lettore a caccia di scoperte sensazionali afferrare al volo una tale eventualità (proprio Howard è stato vittima di questa tendenza). Più indietro nello stesso scritto però egli, da studioso quale è, ha dovuto spiegare al suo lettore le tre possibili relazioni esistenti www.studibiblici.eu 42
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fra il Matteo originale greco che conosciamo e il Matteo ebraico che egli traduce, o, comunque, il supposto antico originale, che, dopo una lunga tradizione manoscritta, è giunto in mano all’autore del trattato del XIV secolo che lo incorpora: “1. Il testo ebraico è una traduzione di quello greco (o una delle sue traduzioni, come quella latina). 2 Il testo in greco è una traduzione di quello ebraico. 3 Sia l’ebraico che il greco (di Matteo, ndt) rappresentano una composizione originale nella sua rispettiva lingua, con uno dei testi che serviva da modello per l’altro. La discussione condurrà alla conclusione che la numero 3 è l’eventualità più accettabile, sebbene, non si possa stabilire quale – quello greco o ebraico – sia servito come modello all’altro”, pag. 181. La mia conclusione sulla possibilità che Matteo sia stato originariamente composto in ebraico e poi successivamente tradotto in greco è che ciò, in linea teorica, sarebbe possibile. Possibile, però, non significa dimostrato. Significa soltanto che non si può interamente dimostrare il contrario e che ci sono dei seri indizi che questo sia potuto accadere. Vi sono dei dettagli che riguardano anche il vangelo di Marco che possono venirci in aiuto sulle conclusioni che possiamo trarre sulla composizione originale dei due primi vangeli del Nuovo Testamento. All’inizio del suo libro “La Nascita dei Vangeli Sinottici”, Jean Carmignac racconta la sua esperienza che l’ha portato a formulare una sua teoria che in maniera tanto onesta quanto avvincente presenta al suo pubblico. Lo cito per esteso perché credo sia doveroso riconoscere il valore di questo studioso e del suo lavoro: “Per facilitare il confronto tra i nostri vangeli greci ed i testi ebraici di Qumran, ho provato, semplicemente per mio uso personale, a vedere che cosa avrebbe dato Marco ritradotto nell’ebraico di Qumran. Pensavo che questa traduzione sarebbe stata molto difficile a causa delle notevoli differenze tra il pensiero semitico e quello greco. Così fui stupefatto nel constatare che la traduzione era, al contrario, estremamente facile. Dopo un solo giorno di lavoro, verso la metà dell’aprile 1963, ero convinto che il testo di Marco non poteva essere stato redatto direttamente in greco e che non era in realtà che la traduzione greca di un originale ebraico. Le enormi difficoltà che mi aspettavo erano state già tutte risolte dal traduttore ebreo-greco che aveva trasposto parola per parola e aveva conservato in greco lo stesso ordine delle parole voluto dalla grammatica ebraica”, pag. 7-8. E’ davvero difficile sottostimare il contributo di Carmignac. Consiglio il suo testo a chiunque voglia analizzare in dettaglio quest’argomento. Personalmente, però, non ne condivido interamente le conclusioni. Vi sono alcuni elementi che non mi fanno protendere per la possibilità di una versione originaria in ebraico dei sinottici, ma di sicuro per ampi documenti ebraici serviti per la redazione dei sinottici, quello certamente si. Chi conosce il mio lavoro sa che scrivo anche in lingua inglese. Ho sottoposto tempo fa un mio piccolo libro ad uno studioso di un certo calibro ed egli mi disse che era buono, sebbene purtroppo si vedesse che l’avevo tradotto dall’italiano. Ma la semplice verità è che io non avevo prima scritto in italiano e poi tradotto in inglese, ma, evidentemente, la costruzione delle frasi era la medesima che naturalmente utilizzo in italiano e la mia cultura, profondamente italiana, anzi siciliana, deve aver dato un’impronta talmente forte al mio inglese da farlo sembrare addirittura una traduzione! Trovo interessantissima l’allusione ad un “traduttore ebreo-greco”. Sono però dell’avviso che sia piuttosto improbabile che un traduttore, il quale in molti brani è letterale www.studibiblici.eu 43
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fino al punto che il suo testo trasuda semitismi, abbandoni le vesti del traduttore per indossare con disinvoltura quelli del redattore e si prenda la libertà di riportare alcuni vocaboli ebraici traslitterandoli semplicemente per proporne la traduzione in greco, come accade in diversi punti dei sinottici. Questo non è un comportamento da traduttore, bensì da autore, da redattore, se vogliamo immaginarlo con ampi documenti in originale ebraico a sua disposizione quali fonti attendibili (molto probabilmente di origine apostolica) che egli stesso, vista la sua scrupolosa adesione, considera indispensabili per la validità del suo lavoro finale. Questa eventualità spiega il forte sostrato semitico dei primi tre vangeli, ed allo stesso tempo motiva sia alcuni comportamenti, lo stile tipico dell’opera (lo stile di Marco non è quello di Matteo, o di Luca) e l’esistenza di manoscritti che attestano soltanto un Marco greco, mentre nessuna traccia rimane, né manoscritta, né nella memoria cristiana, di un possibile originale ebraico di Marco. Diciamo che tutte le evidenze sono per un originale greco di Marco e soltanto il beneficio del dubbio rimane su una improbabile redazione originale dell’opera in ebraico, andata prestissimo e definitivamente perduta. Ancora diversa la questione per gli scritti di Luca. Il terzo vangelo è intimamente legato alla composizione del libro degli Atti degli apostoli, tanto che è di fatto impossibile, alla luce delle evidenze in nostro possesso sperare di dimostrare efficacemente che entrambi gli scritti non siano del medesimo autore. Nel prologo degli Atti degli Apostoli leggiamo: “Nel mio primo libro, o Teofilo, ho parlato di tutto quello che Gesù cominciò a fare e a insegnare”. E il vangelo cominciava così: “Poiché molti hanno intrapreso a ordinare una narrazione dei fatti che hanno avuto compimento in mezzo a noi, come ce li hanno tramandati quelli che da principio ne furono testimoni oculari e che divennero ministri della Parola, è parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa dall'origine, di scrivertene per ordine, illustre Teofilo, perché tu riconosca la certezza delle cose che ti sono state insegnate”. (Luca 1:1-4 – Nuova Riveduta)
Nel libro degli Atti, nel cambiamento di stile, quando Luca si associa a Paolo, e l’autore passa dalla narrazione in terza a quella in prima persona, troviamo la prova che entrambi questi scritti, come comunemente accettato, siano opera di Luca. Nel prologo del Vangelo lo stesso Luca ci spiega, indirettamente, la motivazione per i forti semitismi presenti nel suo scritto. E’ stato il suo attento lavoro di ricerca ed il suo rispetto dalle fonti ebraiche che ha utilizzato che gli hanno fatto tradurre l’ebraico in un greco in maniera piuttosto letterale, conservando le sfumature semitiche delle sue fonti. Scrive Carmignac: “il caso di Luca è diverso. Egli ha certamente composto il suo vangelo in greco, come prova il bel periodare greco che costituisce il suo prologo (1, 1-4). E tuttavia si trovano in lui i semitismi più inattesi, seminati nel mezzo di modi di dire in greco elegante. Per spiegare tutto questo, l’ipotesi più normale è di supporre che egli lavorasse su documenti semitici, tradotti molto letteralmente … ”, pag. 12. Siamo appena all’inizio della nostra discussione, che per praticità sarà divisa in più capitoli.
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Capitolo 9 La lingua originale del Nuovo Testamento II: il quarto vangelo, le epistole e l’Apocalisse - Conclusioni
Anche per il vangelo di Giovanni nulla fa pensare che esso sia stato composto in altra lingua se non il greco attestato da tutti i manoscritti che ne testimoniano il tragitto nella storia fino ai nostri giorni. Molti i punti dove si hanno inoltre indizi della originale composizione in greco. Il modo come Giovanni si riferisce al popolo giudaico ed alle sue usanze, i termini ebraici ritenuti e poi traslitterati in greco, concorrono con le evidenze manoscritte e le informazioni storiche in nostro possesso che null’altro ci fanno supporre se non che la redazione originale del quarto vangelo sia avvenuta in greco. Nessun dubbio nemmeno per le tre epistole generali attribuite all’apostolo Giovanni che troviamo più in là nell’ordine classico dei libri del Nuovo Testamento. Il tipo di greco in cui è stata scritta l’Apocalisse, diverso da quello del vangelo e delle epistole, è da sempre motivo addotto per dubitare dell’attribuzione tradizionale di questo libro all’apostolo Giovanni. Ma sono dell’avviso che tali differenze siano semplicemente da ascrivere alla diversità dei temi trattati, alle circostanze nelle quali l’Apocalisse è nata, ed ai diversi tempi nei quali le varie opere dell’apostolo sono state approntate. Anche per l’Apocalisse non vi sono sospetti che l’opera sia la traduzione di un originale ebraico. Del resto le chiese prime destinatarie dell’opera erano certamente di lingua greca ed a nulla sarebbe servito loro un originale semitico. Anche in questo libro vi sono i segni redazionali di alcuni termini ebraici ritenuti e a volte tradotti. E’ qui che troviamo la traslitterazione greca della parola ebraica “alleluia” così diffusa fra il popolo cristiano. Che le tredici epistole di Paolo siano state scritte in greco è una questione al di là di ogni possibile ragionevole dubbio. I destinatari degli scritti, la qualità della lingua, i termini propri dello stile paolino, sono solo le prove più evidenti di questo fatto. Diversa la questione per l’epistola agli Ebrei. E’ mia convinzione che anche questo scritto sia opera dell’apostolo Paolo, ma che vi siano ragionevoli e fondati motivi per non ritenere del tutto impossibile la sua originaria composizione in lingua ebraica. Anzi, forse per ritenerla addirittura la cosa più probabile. Il tema trattato deve aver avuto come primi destinatari appunto degli ebrei convertiti a Cristo e esprimersi nella loro lingua avrebbe dato maggior forza al senso delle cose dette. L’atmosfera di questo scritto è paolina ed anche gli indizi che troviamo nei saluti ci fanno supporre che Paolo ne sia l’autore. Le differenze con il resto del corpo paolino nascono a mio avviso dal tema trattato e proprio da una possibile prima redazione in lingua ebraica. La successiva traduzione in lingua greca deve essere avvenuta molto presto, ma motiva la differenza fra il greco di questa epistola e quello del resto delle lettere ascritte a Paolo. Anche qui, però, è doveroso aggiungerlo, siamo nell’area delle speculazioni, delle congetture, e non abbiamo neppure una prova manoscritta alla quale appigliarci. www.studibiblici.eu 45
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Per il resto degli scritti del Nuovo Testamento c’è poco da dire: non vi è prova dell’esistenza di un possibile originale ebraico. E’ possibile che Giuda e Giacomo, anche per la natura dei loro scritti, abbiano composto la loro opera originale in ebraico, ma non vi sono tracce da nessuna parte che possano avvalorare una tale supposizione. Anche Pietro avrebbe potuto scrivere le sue due epistole in ebraico, visto che ebrei sembrano essere i primi destinatari del suo lavoro; ma anche qui, possiamo solo supporre e non c’è nemmeno uno straccio di prova che avvalori una tale tesi. Cosa possiamo concludere sul fenomeno linguistico del Nuovo Testamento? Le prove manoscritte che ci attestano l’esistenza del Nuovo Testamento in originale greco sono una quantità straordinaria, oltre 5000 manoscritti e frammenti di manoscritti. Per non parlare delle citazioni che rinveniamo nei cosiddetti “padri della Chiesa”. La possibilità che, comunque, almeno alcuni di questi scritti fossero stati composti in ebraico è stata presa in seria considerazione, ma nessuna vera prova storica e filologica esiste a sostegno, tanto da darci motivazioni sufficienti per ritenere che questo o quel libro siano solo la traduzione di un originale ebraico andato perduto. Il greco era la lingua più parlata nel mondo di allora. Esso era compreso a Roma, alla cui comunità cristiana, composta probabilmente se non interamente, di sicuro in una certa parte, anche da ebrei, Paolo può scrivere in greco. Se è logico che l’apostolo si esprima in questa lingua quando scrive la sua lettera alla chiesa di Corinto, capiamo invece quanto sia estesa la conoscenza di una tale lingua quando scrive nello stesso idioma anche alle chiese di Efeso, Colosse, Filippi ed indirettamente anche a quella di Laodicea. Luca che seguiva l’apostolo Paolo nei suoi viaggi iniziò il suo lavoro di storico della Chiesa con il suo vangelo e lo proseguì con gli atti degli apostoli, scrivendo certamente in lingua greca. In greco Giovanni ha scritto il suo vangelo e le epistole. Dubbi su un possibile originale ebraico solo per Matteo. Più remoti ancora per Marco e per l’epistola agli Ebrei. Per il resto degli scritti neotestamentari, nulla fa supporre che siano stati composti in una lingua che non sia quella in cui ci sono giunti, il greco. Con la chiamata dei gentili, gli stranieri, i non ebrei, ad accettare la salvezza in Cristo, e il rifiuto dell’ebraismo classico di riconoscere in Gesù il Cristo, il Messia atteso dalla nazione giudaica, era logico che si mettesse da parte la lingua ebraica per comunicare le Verità della nuova fede in quella greca. Ciò non per rinnegare il passato ebraico della fede cristiana, ma per renderla praticamente comprensibile ai molti che accettavano la nuova fede e non erano ebrei. Sono significative in questo senso le parole dell’apostolo Giovanni nel suo vangelo. “È venuto in casa sua e i suoi non l'hanno ricevuto; ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventar figli di Dio: a quelli, cioè, che credono nel suo nome; i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d'uomo, ma sono nati da Dio. (Giovanni 1:11-13)
L’invito dell’apostolo Giovanni è universale. Poco più in là nella narrazione, sempre del quarto vangelo, Andrea, entusiasta del suo incontro con Gesù, racconta a suo fratello Simone ciò che gli era accaduto. “Abbiamo trovato il Messia" (che, tradotto, vuol dire Cristo)” (Giovanni 1:41)
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Giovanni incorpora nella sua narrazione la parola ebraica משׁיח, che traslittera in greco, declinandola come un qualsiasi altro vocabolo (Μεσσίαν) , e della quale traduce il significato in greco scrivendo Χριστός, che nella nostra lingua, letteralmente significa “unto”. Se la Nuova Riveduta qui traslittera a sua volta il greco nel nostro italiano “Cristo” ciò è spiegabile con il semplice fatto che “unto” non direbbe nulla al lettore, mentre “Cristo”, è per il lettore immediatamente riconducibile alla persona di Gesù ed al senso della sua missione. Fu naturale per i nuovi credenti fare della LXX, la traduzione greca dell’Antico Testamento – e non l’originale ebraico – la loro la versione delle Scritture veterotestamentarie. Ciò, ovviamente, non per motivi strettamente legati alla qualità intrinseca della LXX o ad altre considerazioni critiche, ma per un semplice fattore linguistico. Nulla di più naturale che l’aggiunta delle Scritture cristiane a quelle ebraiche avvenisse nella stessa lingua in uso generale nella Chiesa: il greco. Verso la fine del I secolo prendeva forma la Bibbia che noi conosciamo. All’Antico Testamento i cristiani aggiunsero il Nuovo. Le circostanze sociali e linguistiche, fecero si che il greco fosse la lingua più parlata delle zone dove la nuova fede muoveva i suoi primi passi e conosceva la sua espansione. Nulla di più naturale che le Scritture che vennero adottate fossero in greco. Se porzioni del Nuovo Testamento erano nate in ebraico, il bisogno di tradurle in greco deve essere stato pressante prestissimo, tanto che nessuna traccia della supposta versione ebraica sopravvive fino ai giorni nostri. Sono comunque talmente schiaccianti le prove esterne che attestano l’esistenza di un testo del Nuovo Testamento soltanto in greco, che la possibilità di potenziali originali ebraici, deve essere per forza relegata al campo delle teorie, delle supposizioni, ma nessuna prova oggettiva può essere candidamente proposta in loro sostegno. Alla luce delle evidenze storiche, dei manoscritti in nostro possesso, delle citazioni negli scritti dei cristiani dei primi secoli, delle nostre conoscenze storiche relative alla nascita e crescita delle chiese cristiane, dobbiamo concludere che, fino a prova contraria, fino ad una soddisfacente ed oggettiva dimostrazione che il contrario sia vero, dobbiamo ritenere che il Nuovo Testamento sia stato scritto come è a noi arrivato, in lingua greca. Esiste, però, un oggettivo, evidentissimo, sostrato semitico che caratterizza in particolare le narrazioni evangeliche e del quale bisogna tenere debito conto. Ed anche per le altre opere, quali le epistole di Pietro, Giacomo, Giuda, Giovanni, il fatto che siano state composte in lingua greca, non li rende meno dipendenti dall’ebraico, lingua nativa di chi ha scritto. Per alcuni brani del Nuovo Testamento vale quanto ha evidenziato Carmignac: “L’apparenza è perfettamente greca … la realtà è profondamente semitica”. Di questo deve tenersi debito conto in ogni serio esame della realtà trasmessa dal Nuovo Testamento. Fatta questa lunga, inevitabile, premessa, passiamo ad esaminare il senso del termine “nome” anche all’interno delle Scritture cristiane per poi poterci spingere più in là, nei capitoli successivi, e finalmente prendere in considerazione la possibilità dell’inserimento del nome divino all’interno delle traduzioni della Sacra Scrittura.
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Capitolo 10 Il senso del vocabolo “nome” nell’utilizzo del Nuovo Testamento
Il Nuovo Testamento esordisce subito con un uso del “nome” che richiede un attento esame del sostrato semitico per poter comprendere appieno cosa voglia dire l’evangelista. “Ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.” (Matteo 1:21) “La vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele", che tradotto vuol dire: "Dio con noi". (Matteo 1:23)
Gesù non venne in concreto chiamato Emmanuele. Ma l’evangelista riprende la profezia di Isaia per applicarla all’incarnazione di nostro Signore. Il senso del “nome” Emmanuele non è, come spiega Matteo, nell’imposizione fisica del nome, ma vuol significare chi egli sarà, e cioè: “Dio con noi”. L’espressione “sarà posto nome” è come quando nella nostra lingua diciamo “lo chiameranno”, “diranno di lui che è”. Qui comprendiamo che anche nel Nuovo Testamento, grazie proprio a quella sostanza ebraica dietro l’apparenza greca, è presente una forte mentalità semitica della quale bisogna tener debito conto se vogliamo realmente comprendere il senso di quello che leggiamo o studiamo. “ Voi dunque pregate così: "Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome.” (Matteo 6:9)
La frase di Gesù, possiamo dirlo chiaramente alla luce dell’uso della parola “nome” che abbiamo ampiamente riscontrato nelle Scritture, non si riferisce letteralmente al nome personale di Dio che deve essere “santificato”, bensì alla Persona stessa di Dio. “Sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato.” (Matteo 10:22)
Non è per il nome di Gesù che la gente odia o ha odiato i credenti, ma perché essi seguivano il loro maestro. Ancora un altro esempio di una frase che ha senso in lingua ebraica, ma che, quando viene tradotta, se presa alla lettera, può portarci fuori strada sul significato autentico delle parole pronunciate da Gesù. Traduciamo la frase di Gesù in maniera meno letterale: “per causa mia”, “per via della vostra fede in me”. “E nel nome di lui le genti spereranno.” (Matteo 12:21)
Noi non abbiamo sperato nel nome, bensì nella persona di Gesù per essere salvati. Paolo cita altrove questo brano, che è ripreso dall’Antico Testamento e scrive: “in lui www.studibiblici.eu 48
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spereranno le nazioni” (Romani 15:12). Egli aveva una conoscenza superiore del greco e evita il possibile fraintendimento davanti ad una frase idiomatica tipicamente ebraica, traducendo in maniera meno letterale. “E chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi a causa del mio nome (potremmo anche tradurre: “per me”), ne riceverà cento volte tanto, ed erediterà la vita eterna. (Matteo 19:29) “Costituì dunque i dodici, cioè: Simone, al quale mise nome Pietro.” (Marco 3:16)
Che strano che Marco dica qui: “al quale mise nome”, parlando di una persona che chiaramente ha già un nome, che è Simone. Luca ci fornisce una versione leggermente diversa di questa frase: “Simone, che chiamò anche Pietro.” (Luca 6:14). E, ancora più specifico, Giovanni, il quale ci consente di avere l’esatta chiave di lettura su cosa realmente significhino le parole di Gesù in Marco: “e lo condusse da Gesù. Gesù lo guardò e disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; tu sarai chiamato Cefa" (che si traduce "Pietro").” (Giovanni 1:42) Mettendo a fronte i dati dei vari evangeli abbiamo la certezza che Simone era il nome dell’apostolo, ma, come era accaduto già in passato quando Dio aveva riservato dei compiti speciali a degli uomini, il suo nome venne cambiato in Pietro, nome con il quale oggi è universalmente conosciuto. “Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto. È venuto in casa sua e i suoi non l'hanno ricevuto; ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventar figli di Dio: a quelli, cioè, che credono nel suo nome; i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d'uomo, ma sono nati da Dio.” (Giovanni 1:10-13)
Noi crediamo in Gesù e non letteralmente “nel suo nome”. La stessa costruzione si ripete in Giovanni diverse volte. “Mentre egli era in Gerusalemme, alla festa di Pasqua, molti credettero nel suo nome, vedendo i segni miracolosi che egli faceva.” (Giovanni 2:23) “Chi crede in lui non è giudicato; chi non crede è già giudicato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio.” (Giovanni 3:18) “ ma questi sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome.” (Giovanni 20:31)
Il nome di Gesù era un nome piuttosto comune. In ebraico esso è ישוע, nel nostro alfabeto Yeshua, abbreviazione di יהושע, Yehoshua, il nome del condottiero che introdusse Israele nella terra promessa, Giosuè nella nostra lingua. Non avremo vita riponendo la nostra fede nel suo nome, nella sua corretta pronuncia in ebraico, bensì in Colui che egli è veramente: il nostro Salvatore. Abbiamo “vita nel suo nome” è comunque un’espressione che, come accade spesso in ogni lingua, può assumere altri significati oltre a quello www.studibiblici.eu 49
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immediato di “abbiamo vita in lui”. Possiamo intendere anche: “abbiamo vita se comprendiamo chi realmente egli è, la sua natura, la sua missione”. Infatti il nome di Yeshua non venne dato a caso al Signore. Esso significa che יהוהsalva, che in lui, nella sua persona, Dio ha provveduto la salvezza per l’umanità. Allo stesso tempo il “nome” sintetizza le caratteristiche proprie e personali, inalienabili, di un essere. Yeshua è il Figlio Unigenito di Dio, ce lo dice Giovanni e qui sembra voler ricapitolare in una sola parola (nome) tutte le cose che egli ha detto nel suo vangelo di lui perché noi le crediamo: Parola, Unigenito Figlio di Dio, Via, Verità, Vita, Buon Pastore, Io sono, ecc. Questo brano quindi non va inteso letteralmente, ma come riferito alla persona di Gesù come indispensabile passo per avere la vita eterna. “Padre, glorifica il tuo nome!" Allora venne una voce dal cielo: "L'ho glorificato, e lo glorificherò di nuovo!” (Giovanni 12:28) “Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.” (Giovanni 17:6) “Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, quelli che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.” (Giovanni 17:11) “e io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, e io in loro". (Giovanni 17:26)
Alla luce di quanto abbiamo visto sulla forte dipendenza ebraica degli autori biblici anche quando scrivono in lingua greca e ciò appare evidente anche nelle traduzioni letterali della Bibbia, dobbiamo intendere che Gesù si riferisse qui al Tetragramma? Sarebbe almeno riduttivo, semplicistico. Applicheremmo erroneamente il significato letterale in una lingua, la nostra, che non può trasmettere, in una versione letterale, il senso del pensiero semitico! Giovanni 17:6 e 17:26 non implicano che Gesù abbia letteralmente fatto conoscere il nome personale di Dio. Osservi il lettore il fenomeno linguistico anche in Giovanni 12:28 3 17:11 che ho volutamente qui affiancato a quelle due altre citazioni. Tra l’altro gli ebrei conoscevano benissimo il Tetragramma. E’ un errore davvero banale. Ma continuiamo la nostra ricerca nel Nuovo Testamento “E, per la fede nel suo nome, il suo nome ha fortificato quest'uomo che vedete e conoscete; ed è la fede, che si ha per mezzo di lui, che gli ha dato questa perfetta guarigione in presenza di voi tutti.” (Atti 3:16)
Qui parla di Gesù e se dovessimo applicare il senso letterale che ne percepiamo nella nostra lingua finiremmo per attribuire al nome di Gesù, o forse all’originale Yeshua, qualche magico potere in sé! Ma è la fede in Cristo, nella sua persona, che salva ed è Cristo che opera i miracoli. Il nome è solo il mezzo evidente, il suono intellegibile che emettiamo per poterlo chiamare in nostro aiuto!
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“In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati.” (Atti 4:12) Lo ribadisco, a rischio di diventare ripetitivo: la salvezza è solo in Gesù, di certo non in sé e per sé nella pronuncia corretta del suo nome. “Stendendo la tua mano per guarire, perché si facciano segni e prodigi mediante il nome del tuo santo servitore Gesù". (Atti 4:30)
Non è il nome di Gesù in sé e per sé a fare miracoli, ma Gesù. Di seguito altri brani da considerare attentamente per comprendere cosa intendessero gli autori biblici con “nome”. “Essi dunque se ne andarono via dal sinedrio, rallegrandosi di essere stati ritenuti degni di essere oltraggiati per il nome di Gesù. (Atti 5:41) “Ma quando ebbero creduto a Filippo che portava loro il lieto messaggio del regno di Dio e il nome di Gesù Cristo, furono battezzati, uomini e donne. (Atti 8:12) “E qui ha ricevuto autorità dai capi dei sacerdoti per incatenare tutti coloro che invocano il tuo nome". “Ma il Signore gli disse: "Va', perché egli è uno strumento che ho scelto per portare il mio nome davanti ai popoli, ai re, e ai figli d'Israele; (Atti 9:14-15)
Il nome inteso nell’ultima citazione è quello di Gesù. Il senso della frase è più profondo del semplice annuncio di un nome; infatti il passo parla della diffusione della conoscenza della persona e dell’opera di Gesù Cristo, Messia promesso ad Israele ed ora Salvatore del mondo. Il senso della frase di Gesù è chiaramente: “Fare conoscere chi sono, il senso della mia missione, la mia opera di salvezza compiuta per l’umanità, la mia morte e resurrezione.” “Di lui attestano tutti i profeti che chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati mediante il suo nome". (Atti 10:43) “Fratelli, ascoltatemi: Simone ha riferito come Dio all'inizio ha voluto scegliersi tra gli stranieri un popolo consacrato al suo nome.” (Atti 15:14)
Anche qui se intendiamo queste affermazioni in maniera letterale stravolgiamo il senso di quello che intendevano gli apostoli. “i quali hanno messo a repentaglio la propria vita per il nome del Signore nostro Gesù Cristo.” (Atti 15:26)
Quest’ultima frase è ovviamente sinonimo di “per il Signore nostro Gesù Cristo”
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“Infatti, com'è scritto: "Il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra fra gli stranieri.” (Romani 2:24)
Non è letteralmente il nome di Dio qui ad essere bestemmiato. Il riferimento qui non può essere al nome personale di Dio rivelato in Esodo 3: i Gentili, gli stranieri, non lo conoscevano nemmeno. Il senso della frase è che gli stranieri bestemmiano Dio e non letteralmente il suo nome. “La Scrittura infatti dice al faraone: "Appunto per questo ti ho suscitato: per mostrare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato per tutta la terra.” (Romani 9:17)
Alla parola “nome” possiamo benissimo sostituire “la fama di ciò che ho fatto”. “Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.” (Romani 10:13)
Quest’ultimo passo è la citazione di un brano dell’Antico Testamento, Gioele 2:32: “Chiunque invocherà il nome di יהוהsarà salvato”. E il nome di Gesù? Anche quello possiamo invocare? “… alla chiesa di Dio che è in Corinto, ai santificati in Cristo Gesù, chiamati santi, con tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore loro e nostro.” (1Corinzi 1:2) “avendo l'ambizione di predicare il vangelo là dove non era ancora stato portato il nome di Cristo, per non costruire sul fondamento altrui.” (Romani 15:20)
Il brano che segue è davvero straordinario. “Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome.” (Filippesi 2:9)
Ma qual è il nome che è stato dato a Gesù che è al di sopra di ogni nome? Alla luce di quanto abbiamo osservato nella Scrittura è saggio non prendere alla lettera questa espressione nella nostra lingua (per poterne percepire il senso letterale nella mentalità ebraica che riflette) per sperare di comprenderne il senso autentico di questa frase, che credo sia evidente che sia: “Gesù è stato innalzato al di sopra di tutto e tutti.” Ancora qualche altro esempio dalle epistole di Paolo. “Tutti quelli che sono sotto il giogo della schiavitù, stimino i loro padroni degni di ogni onore, perché il nome di Dio e la dottrina non vengano bestemmiati.” (1 Timoteo 6:1)
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“Tuttavia il solido fondamento di Dio rimane fermo, portando questo sigillo: "Il Signore conosce quelli che sono suoi", e "Si ritragga dall'iniquità chiunque pronunzia il nome del Signore". (2 Timoteo 2:19) “Così (il Figlio di Dio) è diventato di tanto superiore agli angeli, di quanto il nome che ha ereditato è più eccellente del loro. (Ebrei 1:4) “Dio infatti non è ingiusto da dimenticare l'opera vostra e l'amore che avete dimostrato per il suo nome con i servizi che avete resi e che rendete tuttora ai santi.” (Ebrei 6:10)
Il greco dell’Apocalisse è particolarmente dipendente dal sostrato ebraico. Gli esempi che traggo da questo libro sono davvero emblematici al fine di dimostrare quanto forte sia l’elemento semitico degli scritti neotestamentari, anche se li consideriamo scritti originariamente in greco e non in ebraico. “So che hai costanza, hai sopportato molte cose per amor del mio nome e non ti sei stancato.” (Apocalisse 2:3)
“per amor del mio nome”, che è chiaramente un altro modo di dire “per amor mio”. “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese. A chi vince io darò della manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale è scritto un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui che lo riceve. (Apocalisse 2:17)
Avremo un nome nuovo, saremo diversi, e il cambiamento di nome, come abbiamo visto diverse volte nei nostri esempi, è solo il segno del cambiamento occorso nella persona. “Chi vince sarà dunque vestito di vesti bianche, e io non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma confesserò il suo nome davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli.” (Apocalisse 3:5) “Io conosco le tue opere. Ecco, ti ho posto davanti una porta aperta, che nessuno può chiudere, perché, pur avendo poca forza, hai serbato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome.” (Apocalisse 3:8) “Chi vince io lo porrò come colonna nel tempio del mio Dio, ed egli non ne uscirà mai più; scriverò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, e della nuova Gerusalemme che scende dal cielo da presso il mio Dio, e il mio nuovo nome.” (Apocalisse 3:12)
Quest’ultimo passo è sconvolgente. Come interpretarlo? “Chi vince io lo porrò come colonna nel tempio del mio Dio (il suo posto sarà definitivamente nella dimora di Dio), ed egli non ne uscirà mai più; scriverò su di lui il nome del mio Dio (apparterrà a Dio) e il nome della città del mio Dio (abiterà nella città del mio Dio, facendola sua), e della nuova Gerusalemme che scende dal cielo da presso il mio Dio, e il mio nuovo nome. (e sarà una nuova persona)”. www.studibiblici.eu 53
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Spero che gli innumerevoli esempi che abbiamo addotto, dall’Antico e dal Nuovo Testamento, ci abbiano fatto comprendere quanto siano diverse le sfumature della parola e del concetto di “nome” in ebraico rispetto alle nostre lingue occidentali. Nutro la presunzione di aver fornito al lettore sufficienti mezzi per poter trarre lui le sue conclusioni. Tiriamo comunque le somme di quanto abbiamo osservato finora. Quando Dio rivela il suo nome a Mosè, per spiegare agli uomini chi Egli sia, dice: IO SONO. Ma se egli dice di se stesso “IO SONO”, gli altri non possono certo chiamarlo così, non possono utilizzare la frase in prima persona e allora dovranno chiamarlo “”יהוה. Abbiamo visto che nella mentalità ebraica, che continua ad essere presente anche se il Nuovo Testamento è stato scritto in greco, il nome è più che un suono da collegare all’identificazione di una persona. Esso descrive la persona, i suoi attributi, le sue caratteristiche. Per questo nella Bibbia alcuni personaggi cambiano nome. Ciò non accade per capriccio, ma per mostrare il cambiamento concreto nelle loro vite portato dalla presenza di Dio e dalla missione che questi affida loro. La Donna diviene Eva. Abramo diviene Abraamo. Giacobbe diviene Israele. Osea diviene Giosuè. Saul significa “scelto”, quindi è molto probabile che il vero nome personale del primo re di Israele sia andato perduto. Simone divenne Pietro. A Saul da Tarso venne cambiato il nome in Paolo. Alla luce di quanto abbiamo finora detto avrebbe senso traslitterare semplicemente il Tetragramma ed utilizzarlo come nome personale di Dio anche nelle versioni non originali dell’Antico Testamento? Ha senso farlo anche se non siamo sicuri della sua pronuncia originale? Utilizzare una pronuncia del nome di Dio ed inserirla nelle nostre traduzioni della Bibbia ci porta davvero alla maggiore comprensione di Dio che il suo Nome personale rivelato a Mosè riusciva sicuramente a trasmettere? O diviene solo un suono del quale vogliamo riappropriarci per utilizzarlo, come se in sé e per sé possedesse qualcosa di magico? E poi, un altro dettaglio: se siamo mossi da tanto desiderio di conoscere il Nome di Dio rivelato nella circostanza dell’Esodo, dovremmo essere altrettanto interessati a conoscere gli altri suoi nomi, visto che ognuno di essi ci comunica una migliore conoscenza delle qualità personali del nostro Dio. Abbiamo visto infatti che il Tetragramma non è il solo Nome di Dio nell’Antico Testamento: אלהים, אל,אדני, יהוה צבאות, ecc. E’ importante tener presente che vi sono delle cose che riguardano una lingua che non possono essere con successo trasposte in un’altra. E’ un dato di fatto che chiunque parli almeno due lingue sa per certo di cosa parlo. In questo noi italiani siamo avvantaggiati, visto che grazie ai nostri dialetti regionali, siamo praticamente quasi tutti bilingue. Quante cose del nostro dialetto non riusciamo a tradurre in italiano! Le espressioni colorite ed idiomatiche, intraducibili, del mio siciliano me lo fanno preferire molto spesso all’italiano nelle conversazioni con i miei conterranei. La mia lingua scritta preferita è di gran lunga l’italiano. Mentre l’elasticità dell’inglese colloquiale è imbattibile. Ciò riguarda anche diversi casi tipici della lingua ebraica, presenti sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Il fenomeno linguistico del Tetragramma è fra questi. Nei capitoli che seguono esamineremo due esempi illustri di traduzione biblica che ci permetteranno di osservare come si è cercato di risolvere nell’antichità il problema della traduzione del Nome: 1. L’antica e prestigiosa versione greca dell’Antico Testamento dei Settanta (LXX) o Septuaginta, alla quale ho già accennato e 2. Il Nuovo Testamento stesso.
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Capitolo 11 Il Tetragramma nella versione greca dei Settanta
Abbiamo già detto che la storia ci informa che Tolomeo Filadelfo, sovrano dell’Egitto, abbia sponsorizzato la prima versione della Torah, la Legge mosaica in greco dall’originale ebraico per arricchire la prestigiosa biblioteca di Alessandria d’Egitto. Come traduce questa versione i brani dove compare il Tetragramma? Cominciamo dall’Esodo. In italiano: “Dio disse a Mosè: "Io sono colui che sono". Poi disse: "Dirai così ai figli d'Israele: "l'IO SONO mi ha mandato da voi"". Dio disse ancora a Mosè: "Dirai così ai figli d'Israele: "Il SIGNORE, il Dio dei vostri padri, il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi". Tale è il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in generazione. (Esodo 3:14-15)
In greco: “καὶ εἶπεν ὁ θεὸς πρὸς Μωυσῆν Ἐγώ εἰµι ὁ ὤν· καὶ εἶπεν Οὕτως ἐρεῖς τοῖς υἱοῖς Ισραηλ Ὁ ὢν ἀπέσταλκέν µε πρὸς ὑµᾶς. καὶ εἶπεν ὁ θεὸς πάλιν πρὸς Μωυσῆν Οὕτως ἐρεῖς τοῖς υἱοῖς Ισραηλ Κύριος ὁ θεὸς τῶν πατέρων ὑµῶν, θεὸς Αβρααµ καὶ θεὸς Ισαακ καὶ θεὸς Ιακωβ, ἀπέσταλκέν µε πρὸς ὑµᾶς· τοῦτό µού ἐστιν ὄνοµα αἰώνιον καὶ µνηµόσυνον γενεῶν γενεαῖς.”
Vediamo di inserire le parole greche ed ebraiche nella versione in italiano per rendere chiaro anche ai chi conosce il greco o l’ebraico di cosa parliamo. “Dio disse a Mosè: "Io sono colui che sono (gr. Ἐγώ εἰµι ὁ ὤν, ebr. אהיה אשׁר ")אהיה. Poi disse: "Dirai così ai figli d'Israele: "l'IO SONO (gr. Ὁ ὢν, ebr. )אהיהmi ha mandato da voi". Dio disse ancora a Mosè: "Dirai così ai figli d'Israele: "Il SIGNORE (gr. Κύριος, ebr. )יהוה, il Dio dei vostri padri, il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi". Tale è il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in generazione.”
La scelta della LXX è di tradurre il Tetragramma con il greco “Κύριος” (che traslitterato nel nostro alfabeto, con l’aiuto delle lettere che ormai l’uso moderno gli ha aggiunto, corrisponde a “Kyrios”), corrispondente ad “Adonai”, pronunciato dagli ebrei al posto del Nome; in italiano: “Signore”. Non tutti, però, la pensano così. Ad esempio, la conclusione cui giunge George Howard è che la versione LXX originariamente conteneva il Tetragramma in alfabeto ebraico o paleo ebraico e che soltanto www.studibiblici.eu 55
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successivamente è stata inserita la lettura Kyrios. Egli giunge a fare una tale affermazione osservando la testimonianza dei più antichi manoscritti (in realtà frammenti di manoscritti) della LXX che effettivamente preservano il Tetragramma in ebraico in un testo interamente in greco. Egli sostiene questa cosa a più riprese, in vari articoli e nel suo libro sul Vangelo ebraico di Matteo. Su questo suo ultimo lavoro ci soffermeremo in un intero capitolo. Scusate se apro adesso una parentesi, ma vista l’opera assidua di diffusione di certe opinioni e la conseguente popolarità che queste hanno raggiunto, ritengo importante farlo. Personalmente non comprendo l’entusiasmo dei Testimoni di Geova quando scoprono che il Tetragramma si trovava nella versione dei Settanta, né comprendo come questo dovrebbe avvalorare la loro traduzione che utilizza “Jehovah” o “Geova” quale traslitterazione (e non traduzione) di יהוה. Al contrario la testimonianza della LXX è contro la loro pratica! Infatti se i traduttori di quella versione in greco avessero preferito realmente inserire il Tetragramma in lingua ebraica originale anche nel testo greco della Bibbia, significa che lo credevano troppo sacro per traslitterarlo o tradurlo. Se avessero voluto, potevano fare entrambe le cose: come hanno fatto in alcune versioni moderne i difensori delle varie possibili letture, essi avrebbero potuto traslitterare il Tetragramma nel loro testo, aggiungendovi persino le vocali giuste, in quanto a loro note. Ma devono aver ritenuto per qualche motivo inutile o blasfema una tale possibilità. Quindi sia che immaginiamo che la versione greca dell’Antico Testamento incorporasse il Nome divino in lettere ebraiche, sia che lo rendesse come Kyrios, ciò si pone contro la semplice traslitterazione di יהוהe il suo inserimento nel testo di una versione. Scrivono così i Testimoni di Geova parlando dei frammenti di manoscritti greci che inseriscono il Tetragramma in originale: “In essi è chiaramente visibile il nome Geova, rappresentato nel testo greco dalle quattro lettere ebraiche ( יהוהYHWH), o Tetragramma”. (www.jw.org/it) Si tratta di una conclusione errata esposta in maniera subliminale: nei frammenti non è visibile il nome Geova! Nei frammenti sono invece visibili le varie inclusioni del Nome divino in lettere ebraiche. Ciò non potrebbe essere più contrario alla traslitterazione Yehovah o Geova! Per essere a favore della causa dei testimoni la LXX avrebbe dovuto leggere in caratteri greci la traslitterazione del Nome divino ma non lo fa. Dimostra al contrario il desiderio degli scribi che hanno prodotto quei manoscritti di non riconoscere alcuna alternativa al Nome divino se non la sua inclusione nella forma originale, anche in una traduzione. La Watch Tower (“Torre di Guardia” in italiano), organo direttivo del movimento dei Testimoni di Geova, non è nuova ad un utilizzo discutibile di citazioni a favore della sua causa. Nello stesso contesto in cui citano la LXX a favore delle loro idee, citano anche il professore George Howard (lo stesso editore del testo in ebraico di Matteo) e continuano a farlo nonostante lui abbia scritto più volte per lamentare la manipolazione delle sue parole. Howard, interpellato da Doug Mason (editore del sito internet www.jwstudies.com) gli ha esposto così il suo problema: “Doug, non sono per nulla d’accordo con l’utilizzo (cattivo utilizzo) dei miei scritti da parte dei Testimoni di Geova … Ho provato per anni a correggere i Testimoni di Geova ma alla fine ho dovuto rinunciare. Per il semplice motivo che non rispondono alle lettere indirizzate ai loro quartieri generali. Ne ho avuto abbastanza di loro.” E’ pratica consolidata dei Testimoni quella di citare a loro favore brani di scritti che, nella sostanza, sono contro le loro idee. Sono anche perfettamente cosciente che potrebbero persino citare alcune parti di questo scritto, estrapolandole dal contesto, in difesa delle loro tesi. Lo fanno anche quando citano la Bibbia, no? Nel caso dell’ottimo lavoro del prof. Howard (il fatto che non ne condivida alcune conclusioni non significa che io non riconosca il valore del suo onesto ed intelligente contributo allo www.studibiblici.eu 56
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studio del Nuovo Testamento) e della supposta lettura della Septuaginta, non ci troviamo davanti a delle citazioni, bensì a delle strumentalizzazioni. Che sia così per la testimonianza manoscritta della LXX credo di averlo dimostrato con un semplice ragionamento; per le citazioni del dott. Howard credo basti aver trasmesso la frustrazione di quello studioso davanti alla manipolazione del suo lavoro. Chiusa la parentesi, torniamo alla nostra discussione.
Contrariamente a quanto sostenuto da Howard si può ipotizzare che la presenza del Tetragramma in alfabeto ebraico anche nel testo tradotto in greco, testimoni la pratica accertata a Qumran di emendare il testo greco per armonizzarlo con quello ebraico. Gli antichi manoscritti venuti alla luce e oggetto di tanto fermento, probabilmente sono solo la prova che degli anonimi scribi erano alla ricerca di una purezza “ebraica”, ma ciò è chiaro indizio di un intento redazionale, di un deliberato intervento nel testo biblico – anche se l’idea di fondo dietro una tale operazione potrebbe essere, anche in linea teorica, persino condivisibile. Albert Pieterma, ha scritto un articolo molto interessante ed erudito sulla questione della lettura originale della Septuaginta. Egli esamina i manoscritti più antichi della LXX, chiamati proprio in causa in sostegno dell’introduzione del Tetragramma nella versione greca originale della Tanakh. Il rotolo contenente i profeti cosiddetti “minori” (8 HevXIIgr) è stato scritto fra il 50 a.C. ed il 50 d.C. e ha il Tetragramma scritto in caratteri paleo ebraici, in un testo altrimenti tutto in greco. L’antichità di questo manoscritto, in sé grande pregio, significa da sola poco se quanto afferma Pietersma risponde a verità: “Si tratta in realtà di una recensione tendente ad armonizzare il testo con quello ebraico, e non propriamente di un rappresentante del testo della LXX”. Un altro testimone altrettanto antico (P. Fouad 266, chiamato anche Rahlfs 848, datato intorno all’anno 50 a.C.) include nel suo testo il Tetragramma nell’alfabeto aramaico, quello a noi familiare. Il fatto è che anche questo manoscritto ha tracce di armonizzazioni con il testo ebraico, come attesta il nome di Mosè, scritto traslitterando l’ebraico e non secondo l’uso della versione greca che conosciamo. Pietersma evidenza un’alta peculiarità di questo manoscritto. Nei punti dove si trova il Tetragramma viene lasciato uno spazio di 5-6 lettere, indizio che probabilmente lo scriba copiava il suo testo da un manoscritto che aveva Kyrios e che lui lasciava in bianco affinché un secondo scriba potesse poi aggiungervi il tetragramma in alfabeto ebraico che oggi vi rinveniamo. Consiglio la lettura degli articoli che ho citato. E’ facile reperirli sul web e li ritengo indispensabili per chi volesse approfondire la parte squisitamente tecnica della nostra discussione. Lapidario Pietersma conclude: “Nel Pentateuco Kyrios come surrogato per il tetragramma è la lettura originale della LXX”. In parole povere, è vero che vi sono alcuni – i più antichi per l’esattezza – manoscritti antichi della Settanta che incorporano il Tetragramma anche in alfabeto proto ebraico. Ma ciò non significa necessariamente che quella sia la lettura originale di quella versione. Che senso avrebbe avuto inserire quattro lettere incomprensibili ed impronunciabili all’interno di una traduzione in lingua greca? Ciò non avrebbe certamente reso il nome di Dio comprensibile bensì ulteriormente più oscuro ai destinatari di quella versione.
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La LXX ha molto più senso come versione in greco delle Scritture se al posto del Tetragramma abbiamo Κύριος, Kyrios, Signore. Non sto dicendo che eliminare il riferimento al nome di Dio personale rivelato a Mosè sia una buona cosa, ma una traduzione è pur sempre una traduzione ed è in diversi punti che ci si trova davanti ad un bivio e spesso si deve non perché si vuole, ma per forza di cose, un po’ tradire il significato dell’originale perché intraducibile, per rendere comprensibile il più possibile il senso dell’originale, che è ciò cui aspira in realtà chi si avvicina alla versione di un qualsiasi libro. La pratica di leggere in ebraico Adonai, “Signore” le occorrenze del Tetragramma risale almeno al III secolo a.C. E’ quindi perfettamente possibile che i traduttori in greco della Torah, degli scritti di Mosè, abbiamo ritenuto più semplice ed utile tradurre in greco Adonai, Signore, che trovava un corrispettivo nel greco Kyrios, piuttosto che doversi confrontare con l’impossibilità di tradurre יהוהo l’oscura scelta di includerlo in ebraico nel testo greco. Personalmente sono convinto che la lettura Kyrios sia quella autentica e che l’inserimento del Tetragramma in lingua ebraica è solo prova della ricerca in ambienti ebraici di una purezza del testo successiva alla redazione originale di quella versione. Non sta succedendo così anche ai giorni nostri con i vari tentativi di ripristinare il Nome divino nelle Sacre Scritture? Howard stesso, che attribuisce sostanzialmente all’uso cristiano la sostituzione di Kyrios per il Tetragramma nella LXX, deve precisare che si tratta di una “pratica giudaica prima, durante e dopo il periodo del Nuovo Testamento di scrivere il nome divino il alfabeto paleo ebraico o aramaico o traslitterarlo all’interno del testo greco delle Scritture”. (Biblical Archeological Review, 1978). Nulla di più normale che uno scriba ebreo cercasse di avvicinare il più possibile il testo greco della Bibbia a quello ebraico a lui familiare. Ciò è perfettamente inquadrabile nell’atmosfera di ricerca di purezza ebraica attestata anche dalla presenza dell’alfabeto proto ebraico qui ed in altri esempi di manoscritti proveniente da Qumran. Comunque è alquanto singolare pensare che, se veramente fossero stati i cristiani a volere Kyrios nel testo greco dell’Antico Testamento, l’avrebbero fatto in ossequio a quella che era invece la prassi ebraica di leggere Adonai (“Signore” in italiano, “Kyrios” in greco) al posto di יהוהed è almeno improbabile che siano riusciti a farlo in maniera così sistematica ed uniforme da non lasciare alcuna traccia della supposta lettura originale. Di sicuro, qualunque che sia la lettura originale della LXX apprendiamo subito qualcosa che prelude alla parte conclusiva della nostra discussione. I traduttori e i vari redattori della Settanta avvertirono tutto il dramma dell’impossibilità della perfetta trasposizione del pensiero e delle parole da una lingua all’altra, dall’ebraico, lingua cresciuta insieme alla fede del popolo che la parlava, al greco, totalmente estranea al fenomeno del monoteismo ebraico. Davanti al Nome personale di Dio rivelato a Mosè la questione diveniva molto più importante che in tutto il resto delle Scritture ebraiche. Cosa fare? I manoscritti che testimoniano il testo della versione greca LXX, senza entrare nel merito di quale fosse la pratica più antica o persino quella originale, ci offrono principalmente le seguenti possibilità: 1. Inserire il Tetragramma nel testo, in alfabeto paleo ebraico. Qui il senso di rispetto per il testo originale ed il Nome divino prende persino il posto dell’esigenza prima di rendere comprensibile la traduzione ai suoi fruitori. Infatti come doveva comportarsi il www.studibiblici.eu 58
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lettore del testo biblico di lingua greca davanti all’occorrenza del Tetragramma? Se non conosceva l’ebraico, esso doveva essere semplicemente incomprensibile. Se era informato del fenomeno linguistico, poteva pronunciarlo nella sua maniera corretta – ammesso che il divieto di pronunciare il nome divino non gli imponesse comunque di leggere Kyrios, ovvero Adonai. 2. Inserire il Tetragramma in alfabeto corrente. Questa soluzione è identica alla precedente. Non osando toccare il Nome di Dio, lo scriba lo incorpora nel testo nell’originale ebraico. Rimane sempre l’incognita del comportamento del lettore quando lo incontrava. Con ogni probabilità egli doveva comunque ricorrere ai surrogati utilizzati per evitare la diretta pronuncia del Nome sacro. 3. La traslitterazione in lettere greche simili. I frammenti della traduzione greca del Salmo 22 presenti nella versione esaplare di Origene (III sec. d.C.) pubblicati nel 1900 da C. Taylor, convertono il Tetragramma in lettere greche simili, ottenendo l’anomala lettura Π Ι Π Ι. E’ una scelta incomprensibile che non può convincere nessuno: tale tentativo non ha un vero senso e nella trasposizione viene persino invertito il senso di lettura del Tetragramma. E’ degno di nota il fatto che mentre gli altri nomi personali venivano traslitterati in alfabeto greco (Abramo, Giosuè, Mosè), i nomi divini non vengono traslitterati. Elohim è tradotto in greco con Theos, Adonai con Kyrios, ecc. I traduttori della LXX traducendo Kyrios sarebbero stati coerenti con il comportamento tenuto davanti agli altri nomi biblici. 4. La trasposizione in vocali greche. A Qumram, nella grotta n.4, un frammento in greco del libro del Levitico ha il tetragramma reso con le lettere greche Ι Α Ω. 5. La traduzione di Kyrios per il Tetragramma. Nei punti dove è possibile, la soluzione classica della LXX è quella di sostituire Kyrios al posto di יהוה. Ho già accennato come ciò sia in armonia con la pratica di tradurre con termini greci il più possibile corrispondenti gli altri nomi di Dio. Qualunque sia il caso che vogliamo prendere come testimone dell’originale e supponendo anche che nessuno di questi casi corrisponda alla lettura originale della LXX, la conclusione è che non si può efficacemente tradurre il nome di Dio. Nel rispetto dell’originale, il meglio che si può fare è inserirlo, a discapito nella lingua in cui si traduce, nella sua versione ebraica. Per sforzarsi di renderlo comprensibile nella lettura a chi non conosce l’ebraico originale lo si può tradurre con il termine greco che più vi si avvicina. In parole povere, come per altri punti della Bibbia, i LXX ci confermano che il problema della “traduzione” del nome divino è fondamentalmente irrisolvibile. In ogni modo, lontano dalla lingua ebraica, dal testo originale dell’Antico Testamento, il senso del Nome di Dio rivelato in Esodo viene irrimediabilmente perduto – proprio come sono andati perduti il significato e la pronuncia originale.
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Capitolo 12 Il Tetragramma nel Nuovo Testamento ?
L’analisi sulla possibile presenza del Tetragramma negli autografi del Nuovo Testamento deve subito partire da un dato oggettivo davvero importante: tutte le prove manoscritte, quelle dirette quanto quelle indirette, così come le citazioni negli antichi scritti cristiani dal I secolo in avanti, ortodossi ed eretici, sono tutti unanimi nell’escludere la presenza del Tetragramma nel Nuovo Testamento greco. Si tratta di prove davvero notevoli: non un silenzio che lascia spazio a supposizioni, quanto un coro unanime a favore dell’uso neotestamentario di Kyrios, Signore, anche nella traduzione dei passi dell’Antico Testamento dove in ebraico si leggeva il Tetragramma, così come per tutto il resto del Nuovo Testamento. Parliamo poi di un numero straordinario di testimoni. I manoscritti del NT greco infatti sono davvero tantissimi (oltre 5000 fra testi completi e frammenti) alcuni, grazie ai molti papiri antichi resisi disponibili nella prima metà del XX secolo, databili all’indomani della nascita del Nuovo Testamento, II e III secolo d.C. come raccolta delle Scritture cristiane. Bisogna tener anche conto che originariamente la trasmissione dei singoli scritti del NT avveniva in maniera autonoma. Non esistette subito una raccolta del NT unanimemente accettata dalla Chiesa. I cristiani che ricevettero per primi gli scritti paolini devono aver iniziato loro la tradizione manoscritta per tramandare e diffondere gli scritti apostolici. L’apocalisse era copiata a sé. I vangeli non sono stati scritti e raccolti in un unico volume e pubblicati come oggi avviene per i libri che troviamo in libreria. Le prime copie prodotte, diffuse nelle varie comunità, devono essere state oggetto di lavoro di copiatura indipendente. Non credo ci sia nulla di male a citare il mio libro sui manoscritti del testo greco originale del Nuovo Testamento per vedere più da vicino di cosa sto parlando. Le copie manoscritte per il Nuovo Testamento greco possiamo riassumerle come segue (arrotondo i numeri per comodità). Il testo greco originale del Nuovo Testamento è preservato in oltre 5000 manoscritti che lo contengono in tutto o in parte. Il libro dell’Apocalisse soltanto, che è quello col minor numero di testimoni, ci giunge in circa 300 manoscritti che contengono il suo testo in greco1. La traduzione in latino della Bibbia di Girolamo, la cosiddetta Vulgata, ci giunge in circa 8000 manoscritti. Numerosi sono anche i manoscritti di altre antiche versioni. 1
Ho tratto questa informazioni dall’indispensabile testo di Bruce M. Metzger, The Text of the New Testament, 1968, Oxford University Press, p. 34. Sebbene non condivida le posizioni di Metzger a favore del testo alessandrino/egiziano ciò non significa che non riconosca il suo valore come studioso ed il suo importantissimo contributo alla scienza della critica testuale del Nuovo Testamento. www.studibiblici.eu 60
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Oltre 200 i lezionari - un’altra categoria di manoscritti biblici utilizzate per le letture in chiese durante alcune festività particolari. Le numerosissime citazioni di brani della Scrittura da parte di antichi scrittori cristiani, i cosiddetti padri della Chiesa, sono anch’esse importanti per la valutazione dell’esistenza e dello stato del testo in un determinato luogo ed in un certo periodo della storia della cristianità. Credo che quanto ho detto basti a rendere l’idea di quanto sia mastodontica la mole di testimoni a favore dell’esistenza e del testo del Nuovo Testamento. Diciamo qualcosa anche dell’età di queste prove. P52 è il nome attribuito ad un frammento su papiro del Vangelo di Giovanni. Risale a circa l’anno 125 d.C., ma, secondo alcuni, potrebbe essere addirittura più antico! Non ci vuole molto per intuire quale inestimabile valore abbia una testimonianza che possa vantare una tale antichità! Come un piccolissimo atomo è capace del rilascio di un’infinita energia, così questo piccolo testimone da solo è riuscito a far crollare le maestose impalcature delle intricate teorie filologico-storiche di chi negava l’antichità del vangelo di Giovanni, ridando credibilità alla possibilità della datazione tradizionale di quel meraviglioso documento che è il vangelo dell’apostolo amato. Di recente un sempre maggior numero di studiosi di papirologia ha sostenuto la teoria che vedrebbe in un frammento di papiro ritrovato a Qumran, 7Q5, il resto di una antichissima copia del vangelo di Marco. Visto che la comunità di Qumran venne abbandonata nel 70 d.C., questo manoscritto sarebbe il più antico del Nuovo Testamento e la prova che il vangelo di Marco fosse già diffuso nell’anno 50 d.C. – anno della datazione paleografica più probabile per questo preziosissimo frammento. Se tale identificazione si rivelasse corretta, 7Q5 sarebbe anche prova che il rotolo – e non solo il codice (simile al nostro libro) – fosse in uso anche presso i cristiani, contrariamente a quanto si pensava in passato. Considerata l’importanza di questo reperto ne discuto alla fine di questo libro in un’appendice specifica. P75 è un papiro che contiene parti di Luca e Giovanni. Questo manoscritto appartiene alla famosa collezione Bodmer. E’ stato datato 175-225 d.C. E’ molto importante per la sua testimonianza al vangelo di Giovanni. P66 è un altro antichissimo manoscritto. Risale all’inizio del III secolo e ci è arrivato in buono stato. Anche questo appartiene alla collezione Bodmer. Molte altre prove manoscritte su papiro sono state raccolte recentemente e, quale che possa essere il valore che viene loro riconosciuto, rappresentano una valida testimonianza all’esistenza e diffusione dei vangeli canonici come noi li conosciamo. B ed ( אsi legge Alef) sono i due manoscritti più antichi e completi che possediamo. Risalgono entrambi alla prima metà del IV secolo e contengono quasi l’intera Bibbia. ( אAlef, prima lettera dell’alfabeto ebraico) è chiamato anche Codice Sinaitico perché ritrovato in un monastero sul monte Sinai da Constantin Von Tischendorf, il famoso studioso di critica testuale. In onore alla sua antichità ed importanza, venne subito battezzato con la prima lettera dell’alfabeto ebraico, appunto Alef, א. Conteneva originariamente l’intera Bibbia. Non è giunto a noi nella sua totale integrità, ma il Nuovo
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Testamento è ancora intatto. Oggi l’intero codice Sinaitico è visibile su internet, dove lo si può studiare gratuitamente. B ovvero Codice Vaticano è proprietà delle biblioteche vaticane, ma non venne reso disponibile agli studiosi se non nel XIX secolo. Un’altra categoria di manoscritti sono i cosiddetti minuscoli. Fino al IX secolo d.C. i manoscritti venivano tutti copiati in lettere maiuscole, ma da tale data in poi divenne prassi la creazione di manoscritti con testo in minuscolo e rimase questa la maniera di ricopiare i manoscritti fino all’invenzione della stampa. Categoria
PAPIRI
CODICI
MINUSCOLI
Nome
Datazione Contenuti
P45 P46 P47 P52 P66 P75 A a (Alef) B C D W 33 61
III sec. 200 III sec. 125 200 175-225 V sec. IV sec. IV sec. V sec. V sec. V sec. IX sec. XIII sec.
Parte dei Vangeli e Atti Parte delle epistole di Paolo Epistole di Paolo e Apocalisse Giovanni 18:31-33, 37-38. Parte di Giovanni Parti di Luca e Giovanni L’intera Bibbia L’intera Bibbia L’intera Bibbia L’intera Bibbia Nuovo Testamento in greco e latino
Per quanto riguarda la critica del testo di libri non biblici, gli studiosi si trovano spesso ad affrontare due problemi: la scarsità di prove manoscritte e la loro lontananza dal testo originale. Bruce M. Metzger ci informa in questo senso. L’Iliade di Omero sopravvive in meno di 600 manoscritti, ovviamente distanti secoli e secoli dagli originali. Gli scritti di Euripide sono preservati in meno di 400 manoscritti. Gli annali completi di Tacito sono attestati da un singolo manoscritto copiato nel IX secolo. Venetus A è il nome del manoscritto risalente al X secolo d.C. ed è la copia più antica disponibile per il testo dell’Iliade e si trova a Venezia nella biblioteca di San Marco. E’ alla base delle edizioni correnti di quell’opera. Vi sono ovviamente le dovute eccezioni, ma riguardano testi meno antichi. Molto più vicini infatti agli originali sono i manoscritti della Divina Commedia, per la quale, così come per le varie opere e scritti di Dante Alighieri non esiste comunque neanche un autografo. Gli 800 manoscritti che contengono quella che è forse la più famosa opera della letteratura italiana nel mondo, la rendono molto ben attestata (fonte: www.danteonline.it). Oltre a quelli dell’originale greco cui ho già accennato, vi sono moltissimi altri manoscritti, che attestano le varie traduzioni del Nuovo Testamento in altre lingue. Quella
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latina ad esempio. Per la Vulgata soltanto esistono oltre 8000 manoscritti. Vi sono poi le traduzioni in altre lingue ed anche queste non hanno poco peso. Dopo avere parlato di quanto sia imponente la testimonianza manoscritta antica al Nuovo Testamento, non si può non rimanere impressionati dal fatto che nessuna delle evidenze esistenti attesta la minima traccia dell’uso del Tetragramma. Due dettagli meritano di essere evidenziati per dare ulteriore spessore al significato delle testimonianze dei documenti antichi in nostro possesso. I libri del Nuovo Testamento sono stati scritti in momenti e per scopi diversi da individui diversi, lontani fra loro. Le operazioni di copiatura dei vari manoscritti sono cominciate perciò indipendentemente. Chi ha ricevuto e iniziato a copiare e diffondere Colossesi non era di certo chi aveva ricevuto le lettere di Pietro. Matteo è stato scritto probabilmente in Israele, mentre la credenza antica era che Marco fosse stato scritto a Roma. Più tardi, una volta accertata l’origine apostolica, gli scritti furono poi riuniti e, all’inizio del II secolo andarono a formare il Nuovo Testamento come noi lo conosciamo. Un altro dettaglio importante è che i manoscritti greci del Nuovo Testamento non sono esattamente uguali, sono infatti caratterizzati da molte “varianti”, termine tecnico che indica le differenze esistenti fra loro. Se da una parte è vero che le varianti al testo fanno impazzire i critici testuali alla ricerca del testo originale, per il merito della nostra discussione queste loro differenze sono molto importanti. Dimostrano infatti l’indipendenza delle varie tradizioni manoscritte, dei manoscritti in nostro possesso l’uno dall’altro, la loro testimonianza non è quella di un testo in mano ad un clero capace di crearne un’edizione standard alla quale tutti dovevano uniformarsi, bensì di uno scritto copiato liberamente nelle varie parti del mondo cristiano, come dimostrano le peculiarità che tramano le varie famiglie di manoscritti. La critica testuale è una delle materie bibliche che meglio conosco e che più mi affascina. Credo di poter dire che ogni studioso serio di questa materia debba convenire che, in pura linea teorica, è possibile che in un certo numero di brani del Nuovo Testamento si possa essere perduta la lettura originale. Ma anche questa è una possibilità piuttosto remota, visto il numero di testimoni che possediamo che ci permettono di essere certi del 99 per cento del testo del Nuovo Testamento e di guardare con serenità ad uno sparuto 1 per cento di varianti ininfluenti sul significato della Parola di Dio ed ad una percentuale ancora minore che può teoricamente intaccare la dottrina cristiana. E’ mia opinione, alla luce di ciò, che la possibilità che una lettura originale sia andata perduta in tutto il testo del Nuovo Testamento, in ogni sua occorrenza, negli esemplari di tutte le tradizioni manoscritte, in un lasso di tempo di sedici secoli, e per giunta in tutti i singoli libri del Nuovo Testamento e in tutte le sue versioni antiche è: 1.teoricamente impossibile e 2.praticamente inspiegabile. (Mi chiedo come si possa leggere qualsiasi brano della Bibbia e nutrire la benché minima speranza che sia originale se si riesce ad immaginare che una congiura sia riuscita in maniera così definitiva a turbarne l’onesta opera di diffusione e copiatura). A questi già impressionanti testimoni, per numero ed antichità, dobbiamo sommare anche gli scritti dei cosiddetti padri della chiesa e, per quanto riguarda questa nostra discussione, anche gli eretici dei quali ci è rimasta una qualche traccia scritta. Anche qui il silenzio per la presenza del Tetragramma nel Nuovo Testamento è unanime.
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I padri apostolici sono degli scritti molto antichi. La prima epistola di Clemente, vescovo di Roma, risale a circa il 96 d.C. Le lettere di Ignazio di Antiochia risalgono all’inizio del II secolo. Giustino morì martire nel II secolo. Egli scrisse dei libri che, a mio avviso, meritano di essere letti molto più di tanti di quelli che vengono dati oggi alle stampe. Le sue apologie sono davvero molto interessanti ed il suo libro “Dialogo con Trifone giudeo” esamina con intelligenza i dettagli della nuova fede raffrontandoli con le convinzioni di quella ebraica. Quando esamina i brani dell’Antico Testamento, e in particolare anche dell’Esodo dove Dio rivela a Mosè il suo nome, la preoccupazione di Giustino è sempre la stessa: dimostrare la presenza del logos nella pagine dell’Antico Testamento e che il Gesù che noi cristiani serviamo altri non è che quel logos incarnato, sostenendo alla luce dell’antico patto il motivo dell’esistenza del nuovo in Cristo. “Permettimi di andare oltre e mostrarti il libro dell’Esodo dove lo stesso che è Angelo, Dio, Signore ed uomo, colui che apparve in sembianza umana ad Abramo ed Isacco, è anche apparso nelle fiamme del fuoco del roveto ed ha conversato con Mosè”. (Dialogo con Trifone, cap. 59). Ireneo, vescovo di Lione nel II secolo, ha scritto un’opera monumentale contro l’eresia gnostica. Nel libro III, al capitolo 6, scrive: “Quindi, come ho già affermato, nessun altro è chiamato Dio o Signore, se non colui che è Dio e Signore di tutti, il quale disse a Mosè: “Io sono Colui che sono …” e il suo Figlio Gesù Cristo nostro Signore, che rende figli di Dio coloro che credono nel suo nome”. Ireneo comprende benissimo il senso della Scrittura per il termine “nome” e segue alla lettera la prassi neotestamentaria di attribuire alla fede nel nome di Gesù il “potere” di renderci figli di Dio. Scrive Tertulliano nel II secolo: “il nome di “Dio Padre” non era stato rivelato ad alcuno. Anche Mosè, che lo aveva interrogato in maniera specifica su questa questione, aveva udito un nome diverso. A noi questo è stato rivelato nel Figlio, perché il Figlio adesso è il nuovo nome del Padre.” (La preghiera, cap. III). L’affermazione di Tertulliano è profonda, intelligente, pertinente, non banale o superficiale ed istruttiva. Il suo silenzio sul Tetragramma non è casuale, ma ha senso nella prospettiva dell’intelligenza del Nuovo Patto in Cristo. Clemente alessandrino, vissuto verso la fine del II e l’inizio del III secolo d.C., scrive delle apologie davvero stupende che meritano di essere lette. Una sua affermazione rivenuta nello scritto “il Pedagogo” accenna qualcosa cui farò riferimento fra due capitoli: “Soltanto di Dio possiamo dire che è: “colui che era, è e sarà”, e le tre divisioni del tempo sono presenti nell’unico nome “Io sono””. Clemente mette in parallelo l’affermazione di Giovanni nell’Apocalisse con l’affermazione fatta in prima persona (“Io sono”) di Dio in Esodo 3. Gli altri scrittori ecclesiastici, insieme a coloro che questi confutano, ed Eusebio che scrive una interessantissima storia ecclesiastica all’inizio del IV secolo d.C. non ci danno alcuna notizia di un Tetragramma all’interno delle Scritture neotestamentarie. Bisogna ammettere che un tale assordante silenzio è una testimonianza davvero notevole, schiacciante direi, contro la possibilità che il Tetragramma di trovasse negli autografi del Nuovo Testamento. Occorre più una mentalità paranoica che uno spirito di osservazione scientifica per concludere che il mondo cristiano intero fra il I ed il II secolo della nostra era, eretici www.studibiblici.eu 64
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compresi, abbia completamente, definitivamente e persino volontariamente cancellato ogni traccia dell’occorrenza del Tetragramma nel Nuovo Testamento greco. Le affermazioni dei Testimoni di Geova meritano adesso di essere nuovamente, ma brevemente considerate. Non per alcun valore che abbiano all’interno di una seria discussione dei fatti che abbiamo esaminato ma per la diffusione che ha la loro estrema esemplificazione della problematica che stiamo valutando e la conseguente facile presa sulle persone semplici ed in buona fede. Leggo dalla Traduzione del Nuovo Mondo, revisione del 1987, dalla pagina 1633. L’affermazione “l’azione più indegna che i traduttori moderni compiono nei confronti del divino Autore delle Sacre Scritture è quella di togliere o nascondere il suo caratteristico nome personale” è gratuitamente offensiva. Nessuno studioso serio la partorirebbe, perché si rende conto delle oggettive difficoltà davanti alla problematica oggetto della nostra discussione. Ma è uno slogan molto efficace per sollevare l’indignazione di un ingenuo lettore. Non sono parole frutto di una ricerca seria, ma mezzucci per arrivare a convincere del proprio errore chi non è adeguatamente informato sulla materia. “Usando il nome Geova, ci siamo strettamente attenuti ai testi delle lingue originali e non abbiamo seguito la pratica di sostituire il Tetragramma con titoli come “Signore”, “il Signore”, “Adonai” o “Dio”. Davvero? E’ stato veramente così? Il piccolo dettaglio con il quale il lettore e lo studioso serio delle Sacre Scritture devono confrontarsi è che il nome di Dio – concordiamo – è il Tetragramma, ma di sicuro non l’errata traslitterazione “Geova”. Tanta cura per il nome di Dio si tramuta nell’uso di un nome che non è quello rivelato a Mosè! La versione della Torre di Guardia è il risultato di una ipersemplificazione delle problematiche che bisogna valutare per poter produrre la bella favola che è facile credere, ed è preferibile nella mente di chi vuole crederci, alla pura e semplice affermazione dei fatti. Geova, o il suo equivalente inglese Jehovah, non sono la pronuncia originale del nome divino. Questo è un fatto incontrovertibile. L’abbiamo dimostrato nelle pagine precedenti, lo crede ogni studioso serio delle Sacre Scritture. Ma allora su cosa si basa tutto il discorso dei Testimoni di Geova? Affermano ancora i Testimoni: “Quando nella sinagoga di Nazaret Gesù lesse Isaia 61:1, 2, dove c’è il Tetragramma, pronunciò il nome divino”. Tanta sicurezza è davvero commovente. Continua il testo: “Questo era in armonia con la sua determinazione di far conoscere il nome di Geova, come si può vedere nella preghiera che rivolse al Padre suo: “Ho reso manifesto il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo … ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere”. – Gv 17:6, 26”. Abbiamo visto in che senso gli autori biblici parlano di “nome” di Dio, o “nome” in generale. In questo punto, comprendere le parole di Gesù spogliandole del loro valore semitico per vederle alla luce delle lingue occidentali è disastroso! La versione dei Testimoni di Geova, ne ho anche parlato, affonda le sue radici in un approccio che è tipico delle confessioni evangeliche anglo-americane, che molto – troppo – vedono della Scrittura alla luce della loro cultura. Il movimento dei Testimoni di Geova, come tanti altri (come quello dei mormoni) viene fuori dalle fede evangeliche classiche, ne riprendere alcune tematiche e le esaspera, facendone il proprio tema centrale. La differenza fondamentale fra le varie chiese evangeliche e il movimento dei Testimoni è che mentre noi rifiutiamo www.studibiblici.eu 65
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un’autorità papale ed un’imposizione centrale, perché la Chiesa ha come capo Cristo e guida lo Spirito Santo, i Testimoni hanno un organo centrale che impone tutto a tutti – seguendo un modello persino più rigido di quello della Chiesa Cattolica Romana. Perché le affermazioni della Traduzione del Nuovo Mondo sono censurabili? A parte il tono offensivo gratuito, utilizzato tra l’altro da chi si cela dietro l’anonimato e non ha quindi il coraggio di mostrare in virtù di quale qualifica meriterebbe fiducia, la rapidità con la quale si liquidano tutte le testimonianze che ho citato contro la possibile presenza del Tetragramma all’interno del testo originale greco del Nuovo Testamento ha in sé una pericolosità che, solo la cecità ispirata dal desiderio partigiano di dimostrare ad ogni costo le proprie tesi può non fare percepire. La persona intelligente non potrà non condividere la naturale preoccupazione sullo stato del testo biblico che possediamo se riteniamo possibile che la Chiesa del II secolo sia stata in grado di far scomparire in maniera tanto efficace ciò che non le garbava. In tale eventualità non esisterebbe un singolo manoscritto neotestamentario non adulterato! Se ritenessi ciò possibile, devo confessare che piuttosto che dedicarmi anima e corpo allo studio della Bibbia mi troverei qualcos’altro da fare. Vi è un ulteriore grave considerazione da fare. La Chiesa del II secolo è infatti anche quella che ha consegnato alle generazioni seguenti il canone delle Sacre Scritture come noi oggi lo conosciamo. Se ha in maniera così determinante e definitiva alterato il testo biblico, come non guardare non sospetto anche il suo operato nella scelta dei libri ispirati del nuovo patto. In questo senso, vorrei che fosse chiaro che la mia posizione contro l’idea che il Tetragramma facesse parte del Nuovo Testamento non è motivata da altro se non dalla convinzione che le prove manoscritte antiche in nostro possesso, che io ritengo valide, siano fedeli ed attendibili al punto che ci consentano di affermare con piena sincerità intellettuale che le edizioni critiche e le loro traduzioni oggi disponibili ci permettono oggi di possedere virtualmente quanto uscito dalle penne degli autori sacri e scritto negli autografi purtroppo andati perduti. Se per provare le proprie posizioni ad ogni costo, alcuni sono disposti a minare alla radice l’attendibilità del testo sacro delle chiese cristiane, lo facciano pure. Se per sostenere la validità delle proprie convinzioni preconcette costoro sono capaci di minare la validità delle prove manoscritte, storiche, archeologiche, filologiche e di scartare tutto ciò che non si allinea al loro pensiero, lo faccia pure. Chi scrive invece è della convinzione che l’attenta ed imparziale osservazione dei fatti dimostra l’attendibilità delle evidenze manoscritte del Nuovo Testamento e che queste tramandano il testo dell’originale, che, anche grazie alla loro provata attendibilità, possiamo affermare, non conteneva il Tetragramma bensì l’alternativa lettura Kyrios (“Signore” in italiano) seguendo l’uso della versione greca dei LXX e, in definitiva, in armonia con l’uso ebraico, nato dal rispetto per la sacralità della circostanza, di leggere “Adonai” (“Signore” in italiano) le occorrenze del Nome divino. Eppure vi è un caso in cui l’inclusione del Tetragramma nel testo del Nuovo Testamento diviene più che legittimo, quasi inevitabile. Vedremo nel prossimo capitolo di cosa sto parlando.
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Capitolo 13 Il testo ebraico di Matteo e le conclusioni di George Howard
George Howard, professore di Religione alla University of Georgia, ha il merito di aver pubblicato il testo ebraico di Matteo incorporato nel XII (o, a seconda dell’edizione, XIII ) libro del trattato dal titolo Even Bohan, scritto da un ebreo vissuto nel XVI secolo, tale Shem-Tob ben-Shaprut. Howard ne cura l’edizione dal punto di vista testuale, valutando la testimonianza dei manoscritti disponibili, ma si basa fondamentalmente sul manoscritto n. 26964 della British Library di Londra. Ne produce inoltre una traduzione in inglese e, ovviamente, nella parte finale del libro discute le sue conclusioni circa un documento di tale spessore. L’esistenza di un vangelo di Matteo in lingua ebraica, ne ho già parlato, è fatto già sostenuto nell’antichità da diversi scrittori cristiani, da Ireneo ad Origene, con Eusebio nella sua “storia ecclesiastica” dell’inizio del IV secolo. Quanto però coincida fra il supposto vangelo ebraico menzionato dai padri della Chiesa e il testo greco del Matteo che noi conosciamo e che troviamo nelle comuni versioni della Bibbia, non ci è dato esattamente di sapere. Sebbene non vi sia da entusiasmarsi troppo per il Matteo ebraico di Shem-Tob, che compare fondamentalmente soltanto in testimoni piuttosto tardi, la sua lettura risulta davvero interessante e comunque non è da sottovalutare il valore dell’opera in sé. Sebbene ben articolate e ottimamente esposte, le conclusioni di Howard, a mio personalissimo giudizio almeno, vanno troppo a poggiare su supposizioni per potersi considerare definitive. Egli stesso, comunque, da attento studioso quale dimostra di essere, non considera il suo lavoro conclusivo, ma un contributo per interrogarsi seriamente sul rapporto esistente fra il testo greco di Matteo che conosciamo ed il testo ebraico da lui pubblicato. Egli afferma: “Le prove sono a favore della possibilità che Shem-Tob abbia copiato e non tradotto il suo Matteo e che il suo Matteo era già in ebraico quando giunse in suo possesso”, pag.179. Egli scarta la possibilità che il testo ebraico sia una traduzione di quello greco, ma intelligentemente anche quella – per lui sicuramente seducente – che il testo greco sia una traduzione di quello ebraico – anche se, secondo me, comunque, gli elementi a disposizione sono pochini persino per poter vantare una buona percentuale di sicurezza di quanto si afferma. Nonostante ciò mi sento di concordare con la sua conclusione: il testo di Matteo che conosciamo, sia nell’originale greco, tanto quanto in quello ebraico, sono delle composizioni indipendenti. Che, però, uno sia servito da modello per l’altro, anche questo è un fatto da verificare. Insomma, i dati a disposizione sono troppo esigui per raggiungere una conclusione definitiva, sebbene siano comunque abbastanza per poter avanzare delle supposizioni interessanti. (pag. 181). www.studibiblici.eu 67
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Scrive Howard: “Se supponiamo che il testo base del Matteo ebraico di Shem-Tob è un testo ebraico primitivo, abbiamo qui proprio quello che ci aspetteremmo, uno scritto composto principalmente in ebraico biblico con ebraico un misto di elementi di ebraico della Mishna, ma che è stato sottoposto ad una serie di modifiche da parte degli scribi con l’intento di renderlo in armonia con schemi linguistici più tardi. Oltre a ciò, il testo riflette delle notevoli revisioni atte a renderlo più vicino agli standard dei testi greco e latino del vangelo del Medio-evo”, pag. 183. Per quanto riguarda la datazione del testo ebraico che sta alla base di quanto giunto fino a noi, lo studioso si spinge (ovviamente, visto quanto ha precedentemente affermato) fino al I secolo d.C. Come si comporta il Matteo ebraico nelle occorrenze del nome divino? Intanto diciamo che il Tetragramma ricorre nell’opera 18 volte, ma non è presente nel modo classico in cui lo rinveniamo nell’Antico Testamento ()יהוה, bensì nella circonlocuzione הprima lettera della parola ebraica Ha-shem ()השם, cioè “il Nome”. La diciannovesima citazione si trova in Matteo 28:9 in un’espressione che fondamentalmente non ha un parallelo nel testo greco e nelle sue traduzioni. Il saluto di Gesù suona così nell’originale ebraico: “possa il Nome salvarvi”. La Nuova Riveduta dice: “Vi saluto”. Qui in Shem-Tob non troviamo הbensì l’intera frase השם, ha-shem, il Nome. Il comportamento di questo testo in rapporto al Tetragramma è in armonia con la prassi ebraica di estremo rispetto per i nomi di Dio. Cosa implica ciò ai fini della nostra discussione? Ci deve sorprendere la presenza del Nome divino in una versione ebraica di Matteo, sebbene proposto con un rispettoso הper guidare la pronuncia del lettore ebreo verso una circonlocuzione? Fondamentalmente siamo davanti ad un modo di non inserire il Nome divino non escludendolo comunque dal testo. E’ una prassi intelligente. Rispettosa del testo del vangelo e della tradizione ebraica, ma possibile solo in una versione ebraica dello scritto. Il Matteo ebraico di Shem-Tob non ci autorizza a supporre che l’originale di Matteo avesse il Nome divino per esteso; non ci autorizza, però, nemmeno a non pensarlo. Il lettore attento, se ha capito la mia posizione, non si sorprenderà se dico chiaramente che in ogni versione ebraica del Nuovo Testamento è auspicabile che compaia il nome di Dio così come si trova nelle citazioni che gli scritti apostolici traggono dalla Tanakh ebraica. Perché in una tale versione dei libri biblici, in lingua ebraica, è giusto ripristinare tutti i termini originali ebraici cui ovviamente fa riferimento, meglio che può, il testo greco del Nuovo Testamento. Dico l’ovvio quando sostengo che il Tetragramma, che è un fenomeno linguistico ebraico, sta benissimo all’interno di un testo ebraico, ma non può adeguatamente, con altrettanto successo, inserirsi all’interno di traduzioni in altre lingue. Lo si può fare per pedanteria, ma non sperando di rispondere al requisito primo di una traduzione: rendere in un’altra lingua, al meglio possibile, parole, concetti ed idee di un’altra. Qualunque sia la nostra idea sull’autorevolezza del testo di Matteo pubblicato da Howard, o per quanto possiamo speculare sul fatto che vi sia un Vangelo ebraico di Matteo antico quanto i vangeli canonici stessi, e anche se lo stesso canonico avesse attinto per la sua composizione al vangelo ebraico all’origine della tradizione manoscritta del testo di Shem-Tob, ciò non ci fornisce nessun indizio sull’uso o meno del Tetragramma all’interno www.studibiblici.eu 68
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del testo greco del Nuovo Testamento o di altro “surrogato” che non fosse il termine a noi noto, cioè Kyrios. E’ proprio in questo contesto che varrà la pena valutare la teoria di Howard che tanta popolarità gli ha dato, popolarità anche non voluta, sulla presenza del T negli originali del Nuovo Testamento. Scrive così Howard: “ Le evidenze ottenute dal vangelo ebraico di Shem-Tob coincidono con le conclusioni già precedentemente enunciate dal presente autore circa l’uso del Tetragramma nella Septuaginta e nel Nuovo Testamento greco. Le copie esistenti che ante datano le copie della Septuaginta dell’era cristiana che includono il Nome divino preservano il Nome divino nel testo greco. Questi sono (1) P. Fuad 266 (=Rahlfs 848), 50 a.C., contiene il Tetragramma in alfabeto aramaico; (2) un rotolo frammentario dei profeti minori in greco da Wadi Khabra (= W.Khabra XII), 50 a.C. – 50 d.C., che contiene il Tetragrammaton in alfabeto paleo ebraico; (3) 4QLXX Levb (=Rahlfs 802), I secolo a.C. contiene il Tetragrammaton nella forma ]]]. Da questi esempi possiamo concludere che gli autori del Nuovo Testamento avessero accesso a copie della LXX che contenevano il Nome divino ebraico. Coloro che utilizzarono tali copie della LXX per le loro citazioni dell’Antico Testamento probabilmente preservarono il Tetragramma nelle citazioni incorporate nei loro testi.”, pag. 202-203. In linea teorica, posso provare simpatia ed interesse per le posizioni di Howard, ma, per quanto ne sappiamo oggi e a motivo delle schiaccianti prove oggettive a favore del contrario di quello che egli sostiene, l’ipotesi del Tetragramma, in qualsiasi forma, negli originali in greco del NT è ancora meno che una mera e lontana probabilità se rapportata all’evidenza di tutte le altre prove a favore dell’uso di Kyrios. Vi sono diversi fattori da considerare. Il Nuovo Testamento nasce come una raccolta di libri composti, l’uno spesso indipendentemente dall’altro. Le circostanze che spingevano Paolo a scrivere ai Galati, o ai Corinzi o agli Efesini ed il contesto di questi scritti sono contro un possibile uso del Tetragramma. Non è sempre possibile determinare con certezza quali autori del Nuovo Testamento e in quali punti essi abbiano citato la versione greca dei LXX anche perché sebbene le citazioni possano concordare con essa, possono derivare comunque da un testo ebraico che non conosciamo. Non è detto che la LXX leggesse in originale il Tetragramma, come ho già detto. E’ mia opinione che sia vero il contrario. Il fatto oggettivo che non esista la benché minima prova esterna, un manoscritto, una citazione, una qualsiasi traccia, nonché l’antichità, quantità e varietà delle prove manoscritte a nostra disposizione per il Nuovo Testamento, sono contro l’eventualità suggerita da Howard. L’osservazione del testo del Nuovo Testamento greco fornisce dati contro una tale ipotesi. Ne parlerò nel prossimo capitolo in dettaglio. Se gli autori del Nuovo Testamento – parlando anche noi in generale – non hanno avuto problemi a traslitterare delle parole ebraiche nel testo greco ed i copisti non hanno esitato a ritenerle nel testo e tramandarle – senza eccezioni! – perché il Tetragramma avrebbe dovuto subire da solo questo ingiusto trattamento? E’ possibile immaginare una congiura talmente diffusa da avere riguardato tutti i copisti che operavano nelle varie parti della cristianità – eretici inclusi – ed in maniera www.studibiblici.eu 69
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indipendente? Procedendo con questa logica potremmo sostenere e immaginare di dimostrare qualsiasi cosa. Vi è un importante ultima considerazione da fare che trae spunto dalle parole di Howard e che sarà ancora più evidente nella discussione del prossimo capitolo. “Sebbene scritto in ebraico, il Matteo di Shem-Tob testimonia ulteriormente dell’uso del Nome divino nel Nuovo Testamento. Il suo uso conservatore del Nome divino, che compare soltanto nelle citazioni dalla Bibbia ebraica, nelle introduzioni delle citazioni, o in frasi bibliche quali “angelo del SIGNORE” o “casa del SIGNORE”, corrisponde da vicino all’uso del Tetragramma nei documenti ebraici fra i rotoli del Mar Morto”. Pag. 203. Lo stato del testo ebraico di Matteo, come lo pubblica Howard, ci aiuta a capire che è frutto di una tradizione manoscritta nelle mani di ebrei conservatori. Ciò ci da l’occasione per avanzare, dedurre che anche la prassi neotestamentaria sia quella di ebrei conservatori. Cioè dove è possibile, al di fuori del contatto con le citazioni dell’Antico Testamento, l’uso del Tetragramma è praticamente inesistente e vengono adottati tutti quei termini che lo sostituiscono, cioè Dio, Signore, ecc … E’ questo secondo me il dato che emerge in maniera davvero oggettiva dall’osservazione dell’uso del Tetragramma in Matteo e ciò rimane evidente in tutto il resto del Nuovo Testamento. Ciò è ulteriore prova dell’origine ebraica degli scritti apostolici in nostro possesso, quindi della loro antichità e, conseguentemente, della loro autorità. Lo stesso fenomeno è stato osservato fra gli scritti di Qumran. “La procedura normale per lo scriba di Qumran era scrivere il Tetragramma liberamente quando si copiavano i manoscritti biblici. Ma nei commentari come 1QpHab, 1QpZeph, ecc… dove vi è una citazione biblica … seguita da un commentario, lo scriba utilizzava il Tetragramma solo nelle citazioni ma nel commentario egli scriveva la parola EL – in ebraico ”, cioè Dio. Howard in JBL, 96/I (1977), p.66. Vediamo adesso quali sono le motivazioni interne al testo a rendere altrettanto improbabile la possibilità che gli originali del Nuovo Testamento incorporassero il Tetragramma, come il Nuovo Testamento conserva traccia, sebbene scritto in greco, della prassi ebraica del periodo in cui veniva scritto.
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Capitolo 14 Evidenze interne del Nuovo Testamento contro l’inserimento del Tetragramma
L’osservazione del testo di Matteo in ebraico ha permesso ad Howard di concludere che: “Sebbene scritto in ebraico, il Matteo di Shem-Tob testimonia ulteriormente dell’uso del Nome divino nel Nuovo Testamento. Il suo uso conservatore del Nome divino, che compare soltanto nelle citazioni dalla Bibbia ebraica, nelle introduzioni delle citazioni, o in frasi bibliche quali “angelo del SIGNORE” o “casa del SIGNORE”, corrisponde da vicino all’uso del Tetragramma nei documenti ebraici fra i rotoli del Mar Morto”. Pag. 203. Il problema di fondo che sembra così difficile da percepire in questa discussione è che il Nuovo Testamento NON è stato scritto in ebraico. Se lo fosse stato, la prassi seguita dal Matteo ebraico di Howard sarebbe stata persino troppo limitativa nell’uso del Tetragramma. Infatti nelle versione odierne del Nuovo Testamento ebraico il Nome è utilizzato e sarebbe impensabile che, se il Nuovo Testamento fosse stato scritto in ebraico, fosse avvenuto il contrario. Nell’edizione del Nuovo Testamento ebraico che fornisce il software e-sword, il Tetragramma ha 133 occorrenze. La Traduzione del Nuovo Mondo, che è caratterizzata dall’eccessivo spirito partigiano dei suoi editori, più per far onore alla denominazione che l’ha adottata che per seri motivi di indagine scientifica, inserisce la traslitterazione “Geova” in 237 punti. Stiamo ben attenti, non ripristina il Tetragramma, bensì lo sostituisce con una errata traslitterazione – è tutt’altra cosa. Poco importa agli editori di quella versione di non avere neppure la minima prova per includere il loro “Geova” in brani che non sono contemplati nella casistica elencata da Howard e che non sono supportati dall’unico testo che abbiamo in ebraico che vada il più vicino possibile ad un potenziale originale scritto in quella lingua. Poco importa loro anche del fatto che la LXX riprendeva il Tetragramma in lingua originale e così lo inseriva nel testo di una traduzione, segno 1. dell’evidente tendenza conservatrice della pratica degli scribi che volevano la purezza dell’ebraismo anche in una traduzione greca 2. e ovvia dimostrazione del fatto che non ha senso volersi appigliare all’importanza del Nome di Dio per poi ostinarsi a proporne, sostenerne e diffonderne, una lettura errata o un surrogato. La risoluzione del problema del Tetragramma nelle traduzioni del Nuovo Testamento – se questo problema esiste, mi chiedo a questo punto – è impossibile, per il semplice fatto che (come accade in tanti altri punti del testo originale ebraico, aramaico e greco delle Scritture) esso è un fenomeno linguistico che riguarda troppo intimamente la lingua originale dell’Antico Testamento perché possa essere con successo trasposto in un’altra lingua, come hanno percepito sia i traduttori della Settanta che gli autori degli scritti del Nuovo Testamento. Per lo stesso motivo quindi per cui il Tetragramma non ha senso nel Nuovo Testamento, perché originariamente scritto in greco, esso è imprescindibile da una sua traduzione in ebraico, in particolar modo dove vi sono citazioni dall’Antico Testamento. www.studibiblici.eu 71
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Ho già detto che è mia convinzione che gli autori degli scritti del Nuovo Testamento abbiano redatto le loro opere originali in lingua greca. Sono convinto però che i loro processi mentali sono profondamente semitici e che ciò sia evidente anche attraverso il filtro della lingua greca che utilizzano. Si tratta di un fenomeno linguistico normalissimo. Tomasi di Lampedusa scriveva in italiano, ma le sue varie edizioni del Gattopardo mostravano l’intento dell’autore di epurare la sua opera dai sicilianismi che originavano involontariamente nel testo a causa della sua cultura. Sul mio sito internet (www.ebiblicalstudies.com) ho pubblicato diversi lavori in inglese. Non traduco mai dall’italiano, ma scrivo direttamente in quella lingua, ma, per quanto mi sforzi per non farlo succedere, è irrealistico illudermi che la mia cultura italiana non sia più o meno evidente qua e là. Sul sito della scuola che mio figlio frequentava, vi era una presentazione in lingua inglese. Non vi ho trovato errori di grammatica, ma la costruzione delle frasi, la scelta dei vocaboli, tutta la logica dietro l’apparenza della lingua inglese era profondamente italiana. Lo stesso credo avvenga per il Nuovo Testamento. Gli autori sono così profondamente semiti nel loro modo di pensare e di rapportarsi alla realtà e soprattutto a quella religiosa, che è impossibile che ciò non sia visibile anche quando scrivevano in lingua greca. Nelle pagine che seguono apparirà evidente che gli autori del Nuovo Testamento scrivono seguendo la prassi che abbiamo riscontrato anche nel Vangelo ebraico di ShemTob, e che rispecchia l’uso ebraico del tempo. “La normale procedura dello scriba di Qumran era scrivere il Tetragramma liberamente quando si copiavano i manoscritti biblici, ma nei commentari biblici quali 1QpHab, 1QpZeph, ecc., dove vi è una citazione biblica … seguita da un commentario, lo scriba scriveva il Tetragramma soltanto nella citazione, ma nel commentario egli scriveva la parola אל, (Nel nostro alfabeto: El) cioè “Dio”. George Howard, The Tetragram and the New Testament, Journal of Biblical Literature, 96/I (1977), p. 66. Darò al lettore le prove che quanto osserva negli scritti di Qumran si rifletta anche nel Nuovo Testamento. Utilizzerò un metodo abbastanza semplice: annoterò le occorrenze dei vari nomi sacri nei singoli libri del Nuovo Testamento, per poi, alla fine, tirare le somme del senso dei dati raccolti. I dati statistici che seguono sono stati ottenuti utilizzando la versione Nuova Riveduta, edizione 1994, adottata nel software e-sword. Il dato quindi è suscettibile, tra varianti testuali e altre occorrenze non tecniche, di un’approssimazione del 10, massimo 15% in più o in meno, ma probabilmente si tratta di cifre arrotondate più in eccesso che in difetto. Visti gli ampi margini nei risultati riscontrati, ho ritenuto il dato sufficientemente chiaro da poter trarre delle conclusioni in questo modo, senza dover analizzare e riportare verso per verso le occorrenze di questo o quel termine sacro. Tutti i numeri che propongono, quindi, vanno intesi con la dicitura “circa”, che per comodità non ho scritto ogni singola volta.
VANGELI SINOTTICI ED ATTI DEGLI APOSTOLI
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o
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Queste le occorrenze dei nomi sacri in Matteo. NOME SACRO
Gesù Dio Padre Signore (il Figlio) Figlio dell’uomo Cristo Signore (il Padre) Figlio di Dio Figlio
NUMERO OCCORRENZE
188 53 44 37 31 16 14 8 6
In questo vangelo, possedendo un’autorevole versione in ebraico, è significativo notare come il nome personale di Dio non sia presente al di fuori delle citazioni bibliche o affermazioni ad esse intimamente connesse – quali “angelo del Signore”. Tra l’altro, come abbiamo sottolineato altrove, anche dove nell’originale compare il Tetragramma, il Matteo ebraico utilizza per designarlo l’iniziale della parola ebraica “Il Nome”. Noteremo che le proporzioni fra i termini “sacri”, Signore, Padre, Dio, Figlio, ecc., negli altri libri del Nuovo Testamento sono sostanzialmente coerenti con l’utilizzo in Matteo. L’analisi di Matteo in greco e, per quanto possiamo affermare alla luce delle considerazioni già fatte sul Matteo ebraico a nostra disposizione, non ci da motivo di credere che il Tetragramma sarebbe stato utilizzato, al di fuori delle citazioni dell’Antico Testamento, nemmeno se il Nuovo Testamento fosse stato scritto interamente in ebraico. Scrivendo invece in greco, anche per i brani veterotestamentari, è stato naturale per degli ebrei scrivere “Signore”, in greco “Kyrios”, rendendo, con un vocabolo comprensibile ai destinatari degli scritti neotestamentari, le occorrenze del Tetragramma che un ebreo del tempo avrebbe letto “Adonai”, cioè “Kyrios”, in italiano “Signore”.
Il Vangelo di Marco Marco è molto semitico. Di greco ha veramente solo l’aspetto e Carmignac lo ha sottolineato abbondantemente ed io l’ho citato in questo senso. Vediamo i dati statistici di questo vangelo.
NOME SACRO
Gesù Dio Figlio
NUMERO OCCORRENZE
151 52 36
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Signore (citazioni dall’A.T.) Cristo Signore (il Figlio) Padre Signore (il Padre)
7 7 6 5 2
Delle 9 volte che il libro chiama Dio col termine generico di “Signore”, 7 sono citazioni dall’Antico Testamento. La proporzione con la frequenza della presenza del termine “Dio” è schiacciante a favore di quest’ultimo.
Il Vangelo di Luca Completiamo il quadro della situazione dei sinottici osservando la casistica nel vangelo di Luca. NOME SACRO
Gesù Dio Figlio Padre Signore (il Figlio) Signore (il Padre) Signore (citazioni dall’A.T.) Cristo
NUMERO OCCORRENZE
150 124 71 50 46 26 14 12
In Luca 10:21 leggiamo: “In quella stessa ora, Gesù, mosso dallo Spirito Santo, esultò e disse: "Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra”. L’utilizzo della parola “Signore” in senso generico e riferita alla persona di Dio, è a mio avviso significativo. L’espressione “angelo del Signore” compare 2 volte, in Luca 1:11 e 2:9. E “gloria del Signore” in Luca 2:9. Questi termini, nell’originale ebraico, incorporano in Tetragramma. Anche qui l’utilizzo di Dio è vistosamente preponderante.
Atti degli Apostoli
NOME SACRO
Dio Signore (il Padre) Gesù Cristo
NUMERO OCCORRENZE
169 104 75 27
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Figlio Padre Signore (il Figlio)
14 11
Le variazioni di occorrenza dei termini sono facilmente collegabili al diverso stile che richiedono due tipi di narrazione quali il vangelo di Luca e gli Atti degli Apostoli, anche quando originano dalla stessa penna. L’uso della Parola “Signore” è più libero. Probabilmente collegato all’uso di una versione dei LXX che incorporava questo termine a posto del Tetragramma.
GLI SCRITTI DI GIOVANNI
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Vangelo di Giovanni Questi i dati raccolti in questo vangelo: NOME SACRO
Dio Figlio Gesù Padre Cristo Messia Signore (il Padre) Signore (il Figlio)
NUMERO OCCORRENZE
83 57 262 133 19 2 Totale 51
1 Giovanni La prima epistola di Giovanni è un testo che afferma il suo scopo verso la fine: “vi scrivo queste cose affinché sappiate che avete vita eterna, voi che riponete la vostra fede nel nome del Figlio di Dio” (1 Giovanni 5:13 - Traduzione del Nuovo Mondo). Anche questa versione, campione dell’inserimento di Geova nel Nuovo Testamento, non presenta una singola occorrenza in questo scritto. NOME SACRO
Dio Figlio Gesù Padre Cristo Signore (il Padre)
NUMERO OCCORRENZE
65 22 12 12 8 0
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Signore (il Figlio)
0
In questo scritto lo stile di Giovanni è ancora più marcatamente in armonia con l’uso tradizionale ebraico. Alla prova oggettiva esterna si aggiunge l’osservazione dello stile dell’autore sacro.
L’Apocalisse Preferisco partire dall’ultimo libro del Nuovo Testamento perché la sua testimonianza è molto interessante. In Apocalisse 19 leggiamo: “Dopo queste cose, udii nel cielo una gran voce come di una folla immensa, che diceva: "Alleluia! La salvezza, la gloria e la potenza appartengono al nostro Dio”. (Apocalisse 19:1 – Nuova Riveduta). In questo capitolo dell’Apocalisse la parola Alleluia ricorre ben quattro volte, ai versi: 1, 3, 4 e 6. La parola nell’originale greco è scritta ἀλληλούϊα. Nulla di strano, se non fosse che questa parola, questa esclamazione, non è greca, bensì ebraica. Nella Nuova Riveduta compare per la prima volta nel Salmo 104, al v.35. In ebraico si scrive: הללו־יה. La domanda lecita che sorge spontanea è: perché i copisti del Nuovo Testamento greco dovevano trattenere nel testo parole ebraiche come questa, o come Amen (v. 4), ma si sono tutti, uniformemente e contemporaneamente, tra l’altro, bisogna dirlo, inspiegabilmente, prodigati per far sparire il Tetragramma dal testo dell’Apocalisse? Le probabilità che ciò sia accaduto sono pressoché nulle. Vediamo quali sono le parole di origine ebraica in questo testo e la loro frequenza. I dati sono raccolti dalla Nuova Diodati. Amen. Lo troviamo 7 volte (3:14, 5:14, 7:12, dove occorre due volte, 19:4, 22:20, 21) Abaddon. Ricorre una sola volta in 9:11. Si tratta di un nome ebraico ed accanto ad esso viene specificato il corrispondente in greco. Armagheddon. Compare una sola volta in 16:16. Il testo specifica che si tratta di un vocabolo ebraico. Alleluia. Ricorre 4 volte e nello stesso capitolo, il 19, ai vv. 1, 3, 4 e 6. A questi quattro vocaboli andrebbe aggiunto “Satana” che è un vocabolo traslitterato dall’ebraico. Il suo greco corrispettivo “Diavolo” gli viene a volte associato, come in 20:2. L’autore sente comunque il bisogno di specificare soltanto per Abaddon e per Armagheddon che si tratta di due vocaboli ebraici. Ciò significa sia (1) che gli altri vocaboli erano oramai comuni anche fra i non ebrei e che (2) scrive in greco la sua opera. Il testo dell’Apocalisse è pieno di semitismi. Sono visibili ad occhio nudo ed anche al lettore meno esperto – basta notare l’assonanza fra il linguaggio dell’Apocalisse e alcuni libri dell’Antico Testamento. Il sostrato semitico è certamente dovuto alla cultura dell’autore – per me l’apostolo Giovanni. Lo stato del testo male si armonizza con l’idea di un traduttore che abbia trasposto in greco un originale ebraico. Vi è poi un dato che ritengo interessante e che, a mio avviso, è prova di quella armonia con l’uso ebraico del I secolo di evitare l’uso del Tetragramma. In Apocalisse 1:4 e 1:8, Giovanni si riferisce a Dio in una maniera un po’ particolare. Egli lo chiama: Colui “che è, che era e che viene”.
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Giovanni conosce il Tetragramma, ne comprende benissimo il significato e lo trasmette al suo lettore in lingua greca. “Aggiungendo le vocali “e”, “o”, “a” alle consonanti YHVH, si ottiene il nome YeHoVaH. In questa struttura verbale, la “e” (sh’va) indica il tempo versale futuro, la “o” (holom) il presente e la “a” (patach) il passato, dando al nome YeHoVaH il significato di “Egli sarà, Egli è, Egli era”: in altre parole, l’Eterno”. Chi ha pranzato con Abrahamo, edizioni Perciballi, novembre 2012, p. 162. La versione greca LXX (Settanta) traduce così Esodo 3:14: "καὶ εἶπεν ὁ θεὸς πρὸς Μωυσῆν Ἐγώ εἰµι ὁ ὤν· καὶ εἶπεν Οὕτως ἐρεῖς τοῖς υἱοῖς Ισραηλ Ὁ ὢν ἀπέσταλκέν µε πρὸς ὑµᾶς". In italiano: "e disse Dio a Mosé: Io sono colui che è e disse: dirai così ai figli di Israele: Colui che è mi ha mandato a voi" (la traduzione è mia, dal greco della LXX).
Sono convinto che non sia una coincidenza, l’assonanza fra questo brano chiave dell'antico patto e l'affermazione dell'autore del libro dell'Apocalisse è troppo chiara: “᾿Εγώ εἰµι τὸ Α καὶ τὸ Ω, λέγει Κύριος ὁ Θεός, ὁ ὢν καὶ ὁ ἦν καὶ ὁ ἐρχόµενος, ὁ παντοκράτωρ.” (Apocalisse 1:8). In italiano: "Io sono l'alfa e l'omega", dice il Signore Dio, "colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente". (dalla Nuova Riveduta)
L'affermazione di Giovanni la dice lunga, a mio avviso, su quanto possa essere opportuno o utile andare a caccia di consonanti e vocali perdute a discapito del nostro Dio, realtà viva e presente. L’Apocalisse da spessore all’affermazione di Intrater che ho citato, circa il riferimento a passato, presente e futuro presente nelle vocali attribuite alla pronuncia del Tetragramma. Vediamo adesso la frequenza dei principali vocaboli sacri in questo libro. Il dato è raccolto sulla Nuova Riveduta anno 1994 con l’utilizzo del software e-sword. NOME SACRO
Dio Signore (il Padre) Gesù Figlio Cristo Padre Signore (il Figlio)
NUMERO OCCORRENZE
96 17 14 8 7 5 5
Sebbene sia convinto che “Signore” sia la lettura originale del testo riferito a Dio, rispecchiando l’uso ebraico di Adonai per il Tetragramma, è altrettanto vero che almeno visivamente la mente dell’autore deve essere andata al Tetragramma. Ma la parola “Dio” www.studibiblici.eu 77
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viene abbondantemente preferita, ciò a dimostrare la tendenza istintiva a ricorrere a circonlocuzioni piuttosto che al nome di Dio.
GLI SCRITTI DI PAOLO
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Ai Romani NOME SACRO
Dio Cristo Gesù Signore (il Padre) Signore (il Figlio) Figlio Padre
NUMERO OCCORRENZE
156 67 39 26 18 7 5
Nel conteggio delle occorrenze della parola “Signore” riferite a Dio Padre arrotondo ampiamente in eccesso. Mettendo da parte l’ovvio e che cioè alcune volte ci troviamo davanti a delle citazioni dall’Antico Testamento, la parola “Signore” appare utilizzata in misura nettamente inferiore a quella di Dio. Analizziamo più da vicino Romani 10. “… perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. Difatti la Scrittura dice: "Chiunque crede in lui, non sarà deluso". Poiché non c'è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.” (Romani 10:9-13).
Mi viene difficile immaginare che qui l’originale di questa epistola potesse in qualche modo incorporare il Tetragramma nella sua forma ebraica. Al contrario, il contesto sembra nettamente a favore dell’utilizzo di un Antico Testamento in greco che leggesse Kyrios, cioè Signore nella citazione di Gioele 2:32, che io per comodità ho evidenziato in grassetto. La Traduzione del Nuovo Mondo, per coerenza con la sua prassi, legge “chiunque invoca il nome di Geova sarà salvato”. In questo punto la versione italiana di questa Bibbia mostra il limite d’essere “traduzione di una traduzione”. Infatti il testo greco viene tradotto poveramente in lingua inglese, per i limiti di quella lingua; e riportando servilmente il testo inglese e non traducendo dal greco direttamente, la versione italiana della TdNM utilizza “invoca” piuttosto che “avrà invocato”.
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Ad ogni modo, togliendo “Signore” dal testo nella citazione di Gioele, si perde il senso delle affermazioni di Paolo, che invece, nella sua triplice ripetizione di Kyrios (Signore) sottolinea, fin troppo chiaramente, che Gesù è Signore, stabilendo il suo ruolo di dominio, la sua signoria, nei confronti dell’intera creazione e che è lui che dobbiamo invocare per essere salvati. (Vedi anche 1 Corinzi 1:2) Per seguire un tale filo logico nel suo discorso, Paolo stava utilizzando la versione della LXX e questa doveva riportare la lettura “Signore” e non una qualsiasi forma del Tetragramma. 1 e 2 Corinzi NOME SACRO
Dio Cristo Signore (il Figlio) Gesù Signore (il Padre) Padre Figlio
TOTALE OCCORRENZE
187 111 87 46 11 6 3
1 Corinzi
107 64 64 27 5 3 2
2 Corinzi
80 47 23 19 6 3 1
La frase che rinveniamo in 1 Corinzi 1:2 (“… alla chiesa di Dio che è in Corinto, ai santificati in Cristo Gesù, chiamati santi, con tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore loro e nostro”) ci consente di tornare un attimo indietro alle statistiche di Romani, dove avevo già accennato al fatto di avere arrotondato per eccesso il conto di “Signore” riferito al Padre. Infatti Romani 10:12, alla luce proprio di 1 Corinzi 1:2, potrebbe benissimo considerarsi come un riferimento al Figlio: “Poiché non c'è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano”. La stessa considerazione si può estendere anche a Romani 12:11, 14:4, 14:8, 16:2, 16:8, 16:11, 16:12, 16:22. Il lettore noterà che questi ultimi riferimenti si trovano verso la fine dell’epistola ai Romani. Ciò, a mio avviso, perché l’apostolo si era già precedentemente espresso chiaramente sul fatto che il titolo di “Signore” può essere riferito tanto al Padre quanto al Figlio. Ciò continua ed è evidente anche nelle epistole ai Corinzi. In queste ultime viene chiarito ulteriormente il senso dell’economia (come direbbe Tertulliano) di Dio nel nuovo risvolto dei rapporti con l’umanità ed è per questo che viene anche aggiunto che lo Spirito stesso è Signore (2 Corinzi 3:17-18). Proprio nelle pagine di queste tre stupende epistole trova la sua espressione ed è testimoniata la meravigliosa realtà della Trinità di Dio – la definizione verrà dopo. Talché è evidente che il Padre non è il Figlio, che lo Spirito Santo “procede” da entrambi (per questo è chiamato Spirito di Dio (Romani 8:14) e Spirito di Cristo (Romani 8:9)) e che questi condividono il titolo di Signore ed operano come tale nella Chiesa e per la Chiesa.
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Quindi quando Paolo scrive “Signore” egli si riferisce genericamente ad un titolo ed una qualità di Dio che riguarda tanto il Padre quanto il Figlio – e lo Spirito Santo. E’ alla luce di quanto l’apostolo ha affermato che poi la chiusa acquista un significato pieno di quanto ho appena detto: “La grazia del Signore Gesù Cristo e l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.” (2 Corinzi 13:14) Tutto in queste tre epistole motiva l’assenza dal Tetragramma dai manoscritti originali. Niente lo fa supporre. La mentalità ebraica e la prassi del tempo è evidente nello scarso numero di utilizzi della parola “Signore” e nell’uso di “Dio”. Il quadro sulla prassi neotestamentaria diventa sempre più chiaro e le motivazioni delle conclusioni che ho condiviso con il lettore acquistano ulteriore spessore e validità.
Galati Già nella mia cronologia delle epistole paoline ho esposto i motivi che mi fanno ritenere che questa epistola sia stata composta nello stesso periodo delle tre che ho appena esaminato. NOME SACRO
Cristo Dio Gesù Signore (il Figlio) Figlio Padre
NUMERO OCCORRENZE
38 30 16 5 4 4
Lo stile di Galati è forte e ciò non può non aver influenzato lo stile di scrittura dell’apostolo. Però troviamo conferme, ai fini della nostra ricerca, nell’assenza del termine “Signore” inteso come potenziale surrogato del Tetragramma e l’uso di “Dio” in armonia con il resto dei dati osservati finora. Filippesi, Efesini, Colossesi e Filemone Efesini, Colossesi e Filemone hanno viaggiato insieme. In Efesini Paolo nomina Tichico: "...Tichico, il caro fratello e fedel ministro del Signore, vi farà sapere tutto. Ve l’ho mandato apposta...", Efesini 6:21-22. Nella chiusa di Colossesi leggiamo: "...Tutte le mie cose ve le farà sapere Tichico, il caro fratello e fedel ministro...e con lui ho mandato Onesimo, che è dei vostri...", Colossesi 4:7,9. La lettera a Filemone viaggia chiaramente con Onesimo: "...Onesimo...io te l’ho rimandato", Filemone v.11. E’ chiaro quindi che Tichico e www.studibiblici.eu 80
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Onesimo viaggiavano insieme, portando alle chiese le epistole agli Efesini e ai Colossesi, nonché la lettera personale per Filemone. Siamo quindi davanti a tre epistole, ma ad un solo fenomeno letterario. Ad esse possiamo sommare anche Filippesi, perché che sia stata scritta prima o dopo quelle tre, dallo stile e dalle circostanze, non sembra essere avvenuto molto lontano nel tempo. L’atmosfera di queste epistole è totalmente cristocentrica. NOME SACRO
Cristo Dio Gesù Signore (il Padre) Padre Signore (il Figlio) Figlio
TOTALE OCCORRENZE
117 87 57 37 20 20 3
Efesini
46 36 20 24 10 8 2
Filippesi
38 24 22 15 4 6 0
Colossesi
25 25 7 13 5 3 1
Filemone
8 2 6 5 1 3 0
Nella TNM Geova ricorre 6 volte in Efesini (2:21, 5:17, 5:19, 6:4, 6:7, 6:8) 6 volte in Colossesi (1:10, 3:13, 3:16, 3:22, 3:23, 3:24). La predominanza dei termini sacri Cristo, Dio e Gesù è troppo notevole per non essere significativa. Sebbene la traduzione del Nuovo Mondo si sforzi di inserire il più possibile il Tetragramma, il testo le lascia ben poco spazio ed è fin troppo chiaro che non vi è il minimo interesse dell’autore sacro ad abbandonare la prassi ebraica dell’evitare il nome divino. Tenga presente il lettore che stiamo utilizzando un metodo di ricerca che evidenzia i termini sacri utilizzati in alternativa persino al pensiero del riferimento al Nome. Ma le circonlocuzioni spesso sono di altro tipo. Come, ad esempio in Efesini 3:20-21, dove è evidente la tendenza ad utilizzare non solo il Nome, ma anche in generale i nomi di Dio il meno possibile: “Or a colui che può, mediante la potenza che opera in noi, fare infinitamente di più di quel che domandiamo o pensiamo, a lui sia la gloria nella chiesa, e in Cristo Gesù, per tutte le età, nei secoli dei secoli. Amen.” Un “geovista” non avrebbe mai utilizzato una costruzione simile! Alla domanda: Chi è costui? Egli infatti risponderebbe subito: “Geova”. Ma allora, se proclamare il Nome era così fondamentale, perché in brani come questo esso viene sottinteso anziché proclamato? La conclusione è semplice: gli scritti paolini sono chiaramente cristocentrici. A riprova di ciò vi sono i molti attributi riferiti dall’apostolo a Gesù: capo della Chiesa, pietra angolare, immagine del Dio invisibile, primogenito di ogni creatura, principio, primogenito dai morti, ecc …
1 e 2 Tessalonicesi Sembra che queste due siano le epistole più antiche dell’apostolo Paolo e incluse nel canone del Nuovo Testamento. www.studibiblici.eu 81
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Vediamo cosa trova la nostra ricerca statistica NOME SACRO
TOTALE OCCORRENZE
Dio Signore (il Figlio) Gesù Cristo Signore (il Padre o generico) Padre Figlio
1 Tessalonicesi
53 31 29 20 15 7 1
2 Tessalonicesi
37 17 16 10 7 4 1
16 14 13 10 8 3 0
L’uso della parola Dio è di gran lunga superiore a quello di Signore, quando riferito al Padre. Anche qui la prassi del Nuovo Testamento che evidentemente segue quella ebraica, è confermata. 1 e 2 Timoteo, Tito Queste tre epistole sono chiaramente le ultime di Paolo. NOME SACRO
Dio Cristo Gesù Signore (generico) Signore (il Figlio) Padre Signore (citazioni dall’AT) Figlio
TOTALE OCCORRENZE
50 32 27 10 9 3 2 0
1 Timoteo
22 15 14 1 5 1 0 0
2 Timoteo
15 13 13 9 4 1 2 0
Tito
13 4 0 0 0 1 0 0
In questo paragrafo, nel considerare le ultime epistole di Paolo, ho preferito distinguere la parola “Signore” utilizzata in modo generico rispetto alle citazioni vere e proprie dall’Antico Testamento che certamente si riferivano ad un brano che nell’originale ebraico aveva il Tetragramma – ciò, mentre nelle occorrenze esaminate in precedenza ho preferito, nel dubbio, computarle a sfavore della tesi che sto sostenendo in questo capitolo del libro – per avere un quadro il più pessimistico possibile contro la tesi che sostengo. Nonostante ciò le mie posizioni rimangono inalterate, confermate dai dati statistici dei nomi sacri, anche nella peggiore delle ipotesi.
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L’epistola agli Ebrei Un altro libro molto importante è l’epistola agli Ebrei. Il suo inizio lo rende uno scritto fondamentale per la comprensione della persona del Figlio di Dio. Anche qui notiamo la stessa prassi evidenziata poc’anzi, l’uso del rispetto per il nome ebraico di Dio. Il vocabolo Dio viene utilizzato al v.1. Al v. 5 il soggetto viene sottinteso, e così via nei versi a venire – anche questa una pratica di rispetto per la persona di Dio del tutto ebraica. Il soggetto è sempre “Theos”, Dio, del v. 1. Sempre nel capitolo 1 al v. 10 leggiamo una citazione del Salmo 102. La citazione è evidentemente tratta dalla traduzione greca dell’Antico Testamento dei LXX. Ciò può essere un serio ostacolo alla possibilità di un originale ebraico di questa epistola, tranne che l’ipotetico traduttore – eventualità piuttosto remota – non abbia, nel suo lavoro di traduzione, lasciato il testo ebraico a favore della Septuaginta. Possibile. Il fatto è che la prosa è molto coerente con il brano come rinvenuto nella LXX. Facciamo anche qui un po’ di statistica. NOME SACRO
Dio Figlio Gesù Cristo Signore (il Padre) Padre Signore (il Figlio)
NUMERO OCCORRENZE
83 16 16 13 11 5 5
“Signore” ricorre solo 16 volte. Molto poco rispetto alle 83 presenze della parola Dio. Vediamo in dettaglio queste 16 volte: In Ebrei 1:10, 2:3, 7:14, 12:14, 13:20 la parola è tradotta “Signore” nella TNM, in quanto riferito a Gesù. Ebrei 7:21, 8:8, 9, 10, 11, 10:16, 30, 12:5, 6, 13:6 sono citazioni di brani dell’Antico Testamento e la TNM include Geova. L’unico verso nel quale questo “nome” è presente – citazioni ovviamente escluse – è Ebrei 8:2. Se proprio gli apostoli e la chiesa erano chiamati a testimoniare al mondo il nome di Dio, il Tetragramma, יְהוָֹה, perché in questa importante epistola compare praticamente solo nelle citazioni dell’Antico Testamento ed è invece istintivamente preferita la circonlocuzione per eccellenza del Nome, cioè “Dio”? Una nota, l’unica citazione dell’Antico Testamento dove la Traduzione del Nuovo Mondo non inserisce Geova è Ebrei 1:10, perché attribuirebbe questo nome a Gesù. Confronti il lettore la citazione in Ebrei e il Salmo 102 e tragga egli stesso le conclusioni che ritiene più opportune.
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LE EPISTOLE GENERALI
.
Giacomo
NOME SACRO
NUMERO OCCORRENZE
Dio Signore (il Padre) Signore (il Figlio) Padre Gesù Cristo Figlio
17 10 5 4 2 2 1
1 e 2 Pietro
NOME SACRO
NUMERO OCCORRENZE 2 Pietro
1 Pietro
Dio Cristo Gesù Signore (il Padre) Padre Signore (il Figlio) Figlio
40 22 9 5 3 2 1
7 8 9 5 1 9 0
Totali
47 30 18 10 4 11 1
Giuda NOME SACRO
Gesù Cristo Dio Signore (il Figlio) Signore (il Padre) Padre Figlio
NUMERO OCCORRENZE
6 6 4 4 3 1 0
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Concludendo, direi che, sebbene il Nuovo Testamento sia stato scritto in greco, dietro la sua composizione vi erano degli autori di lingua ebraica ed aramaica, individui che potevano anche scrivere in lingua greca, ma che rimanevano profondamente ebrei nel loro pensiero, negli schemi linguistici e nel modo di esprimersi. Ciò è vero a sufficienza da sopravvivere anche dietro l’apparenza greca del Nuovo Testamento che gli da la lingua nella quale è scritta. Sebbene i Testimoni di Geova facciano proprie le parole di Howard, trascurano un dato essenziale: egli parla soltanto delle citazioni dall’Antico Testamento. Cioè egli sostiene la possibilità che anche nel Nuovo Testamento in greco, nel citare i brani dell’Antico Testamento, gli autori abbiano riportato nel testo il Tetragramma, come del resto succede nel testo ebraico di Matteo che egli studia e pubblica. Una teoria affascinante: in linea teorica possibile, ma praticamente, alla luce delle evidenze in nostro possesso, del tutto improbabile. Howard ravvisa nel suo Matteo ebraico la medesima prassi riscontrata negli scritti di Qumran, dove il Tetragramma veniva mantenuto all’interno di citazioni bibliche ma volutamente evitato nel resto della discussione. Io credo di aver dimostrato, anche bypassando la lingua greca nella quale è scritto, che ciò è accaduto non solo in Matteo ma in tutto il Nuovo Testamento. E come ultima dimostrazione di ciò che dico, andiamo a verificare dei dati statistici più generici, confortati dalla costanza del dato che abbiamo evidenziato libro per libro per tutto il Nuovo Testamento. Intanto vediamo cosa accade nell’Antico Testamento.
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LIBRO o PORZIONE DELLA SCRITTURA Pentateuco Isaia Geremia Ezechiele
OCCORRENZE DEL TETRAGRAMMA 1934 500 736 445
OCCORRENZE PAROLA “DIO” 810 138 127 253
Nell’Antico Testamento, principalmente nei libri dei profeti maggiori e nel Pentateuco, la preferenza per l’utilizzo del Tetragramma nei confronti dell’alternativa generica “Dio” è schiacciante. Cosa accade nel Nuovo, tirando le somme di quanto già detto? Facciamo considerando il dato più ottimistico a favore della tesi contraria alla nostra, quella della Traduzione del Nuovo Mondo, che inserisce Geova in 237 punti delle Scritture greche.
Nuovo Testamento
Tetragramma 237
Dio 1363
Il dato è già, sebbene irrealisticamente ottimista, molto forte e mostra più che un cambio di tendenza rispetto all’Antico Testamento. Si tratta infatti di un vero e proprio crollo nel possibile, potenziale utilizzo del Tetragramma. Ma c’è di più. Tutte le citazioni dall’Antico Testamento presenti nel Nuovo non potrebbero considerarsi a favore dell’utilizzo del Tetragramma, in quanto appunto citazioni soltanto. Vi sono poi delle espressioni – come ad esempio “angelo del Signore” – che in ebraico incorporano il Tetragramma. Rimanendo sul software e-sword, nella traduzione ebraica del Nuovo Testamento che esso offre, il Tetragramma compare 133 volte. Ciò significa che nella migliore delle ipotesi gli autori del Nuovo Testamento avrebbero fatto riferimento al Tetragramma, al di fuori delle citazioni bibliche, circa 104 volte e che hanno preferito la parola “Dio” al suo posto 1363 volte. Questa statistica cosa ci aiuta a comprendere: - i libri del Nuovo Testamento provengono tutti dall’ambiente ebraico al quale tradizionalmente sono ascritti. - sono stati realmente composti prima che la Chiesa si staccasse definitivamente dall’ebraismo, quindi prima della fine del I secolo, visto che le tracce della cultura e prassi ebraica sono, nelle pagine scritte dagli apostoli o dai loro intimi, chiaramente riscontrabili anche nella prassi, volontaria o istintiva, di evitare l’uso del Nome di Dio, utilizzando al suo posto delle circonlocuzioni, delle quali la più facile da rintracciare è la parola “Dio”. In questo capitolo credo di avere utilizzato un metodo tanto semplice quanto valido.
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Per concludere, tiriamo un attimo le somme dei dati statistici del Nuovo Testamento. Dio compare 1363 volte Gesù compare 1112 volte Cristo compare 536 volte Messia compare 3 volte Signore compare 680 volte (indistintamente riferibile al Padre o al Figlio) Padre compare 368 volte Figlio di Dio compare 236 volte Salvatore compare 24 volte E’ lampante che questi dati ci confermano l’adempimento del mandato affidato da Gesù agli apostoli: “Ma riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra”. (Atti 1:8) Mi scuso ancora se abbandono le vesti dello studioso, ma ritengo che un credente, nello studio della Parola di Dio, non possa prescindere dal bisogno di informare o mettere in guardia dai falsi insegnamenti di alcuni. Il numero dei riferimenti a Gesù (1112 + 536 + 3 + 236 + 24 + tutte le volte che è chiamato “Signore”) è talmente schiacciante rispetto all’ottimistica presenza della traslitterazione del Tetragramma adottata dai Testimoni di Geova (237 occorrenze, oltre la metà citazioni dall’Antico Testamento), da non lasciare spazio per supporre che il mandato di Dio alla Chiesa sia stato quello di diffondere l’idea della necessità di chiamare Dio per nome, bensì quello realmente affidatoci da Gesù, cioè di essere Suoi testimoni, testimoni del nostro Signore e Salvatore, Gesù Cristo.
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Conclusione
Questo libro non è ancora completo. Ho appena finito la prima stesura, ma lo presento comunque agli utenti del mio sito per condividere con loro l’entusiasmo che improvvisamente mi ha spinto a scrivere su questo complesso ma interessante argomento. Mi aspetto che mi segnalino errori e che mi facciano osservazioni. Ne consiglio la lettura ma non la stampa, perché si tratta della prima versione e ho già in mente idee per ulteriori capitoli ed intendo rendere ancora più precisi i dati statistici dell’ultimo capitolo. Anche la conclusione è parte di ciò che mi impegno a scrivere meglio in futuro appena comincio ad avere i primi feedback sul mio lavoro. Scrivete. Shalom.
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Appendice I
"In quel tempo nacque Mosè, che era bello agli occhi di Dio; egli fu nutrito per tre mesi in casa di suo padre; e, quando fu abbandonato, la figlia del faraone lo raccolse e lo allevò come figlio. Mosè fu istruito in tutta la sapienza degli Egiziani e divenne potente in parole e opere”. (Atti 7:20-22)
Il film che più mi piaceva guardare con mio figlio maggiore era “Il Principe d’Egitto” della Disney. Ma più ne riporto alla mente i dettagli più mi rendo conto di quanto quella storia a cartone animati si discosti dalla realtà biblica e storica dei fatti. Ciò non ne diminuisce la bellezza, perché ogni narrazione intesa ad intrattenere deve poter lasciare un margine di manovra a chi la gestisce, perché l’intrattenimento è appunto il suo scopo2. Allo stesso modo i miei ricordi di quanto ho appreso sui banchi di scuola su Mosè, l’Esodo e persino la storia dell’antico Egitto assume oggi connotati così deludenti, deprimenti quasi, da avermi spinto da un bel po’ a mettere da parte le nozioni scolastiche per uno studio decisamente più soddisfacente. Quanto leggerete nelle righe a seguire sono le mie conclusioni sulla figura di Mosè alla luce delle mie conoscenze innanzi tutto bibliche, ma anche storiche. Do subito per scontata la realtà storica della persona di Mosè. Premetto questa cosa non perché io dia alcun peso o persino creda si possa dare alcun peso alle affermazioni di chi nega l’esistenza di un uomo chiamato Mosè dietro la Torah 2
Riesco lo stesso a farmi piacere “Stargate” sebbene il protagonista impari a parlare l’egiziano antico – lingua della quale in realtà nessuno conosce la pronuncia autentica – in poche scene, riportando alla mia mente gli anni che occorrono in realtà per riuscire a comunicare e comprendere in maniera soddisfacente una lingua straniera.
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ebraica, ma perché anche la più assurda teoria può trovare da qualche parte qualcuno che la enunci e qualcuno che la sostenga. Se è vero che non vi sono evidenze extra bibliche a sostegno dell’esistenza di Mosè, è anche vero che è soltanto questo l’argomento che si può muovere contro il dato biblico. Un argomento basato sul silenzio e tra l’altro sul silenzio di un popolo su una sua amara sconfitta ha valore pressoché nullo, come il buon senso ed anche una certa conoscenza della storia antica ci impongono. Ma se è vero che vi è chi nega l’olocausto – documentato come pochi eventi storici – non riesco certo a stupirmi se qualcuno nega la realtà storica di qualsiasi altro evento. Il popolo di Dio, i discendenti di Giacobbe, entrarono in Egitto grazie all’intervento provvidenziale di Giuseppe, figlio di Giacobbe e visir3 del faraone, durante un periodo di carestia che interessò l’Egitto stesso ed il medio – oriente che porterà, con varie rocambolesche vicende, all’ingresso dei patriarchi in Egitto. Il libro della Genesi si conclude con questo evento. L’Esodo, il libro che segue, comincia invece evidenziando il cambio della condizione del popolo di Dio ormai stabilmente presente in Egitto, dovuto ad un avvicendamento sfavorevole nelle forze al potere in quella terra. Probabilmente quando la Bibbia ci dice che “sorse sopra l'Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe”. (Esodo 1:8), dobbiamo intenderlo come un avvicendamento dinastico al potere in Egitto4. Saranno le circostanze che seguono, proprio l’ostilità verso Israele, a gettare le basi per la futura gloriosa liberazione di quel popolo. Mosè, infatti, fu per scampare agli intenti omicidi del re egiziano che finì per essere adottato dalla figlia del Faraone stesso. Leggiamo dalla Scrittura stessa cosa accadde. “La figlia del faraone scese al Fiume per fare il bagno, e le sue ancelle passeggiavano lungo la riva del Fiume. Vide il canestro nel canneto e mandò la sua cameriera a prenderlo. Lo aprì e vide il bambino: ed ecco, il piccino piangeva; ne ebbe compassione e disse: "Questo è uno dei figli degli Ebrei". Allora la sorella del bambino disse alla figlia del 3
“Così il faraone disse a Giuseppe: "Poiché Dio ti ha fatto conoscere tutto questo, non c'è nessuno che sia intelligente e savio quanto te. Tu avrai autorità su tutta la mia casa e tutto il popolo ubbidirà ai tuoi ordini; per il trono soltanto io sarò più grande di te". Il faraone disse ancora a Giuseppe: "Vedi, io ti do potere su tutto il paese d'Egitto". Poi il faraone si tolse l'anello dal dito e lo mise al dito di Giuseppe; lo fece vestire di abiti di lino fino e gli mise al collo una collana d'oro. Lo fece salire sul suo secondo carro e davanti a lui si gridava: "In ginocchio!" Così il faraone gli diede autorità su tutto il paese d'Egitto. Il faraone disse a Giuseppe: "Io sono il faraone! Ma senza tuo ordine, nessuno alzerà la mano o il piede in tutto il paese d'Egitto". (Genesi 41:39-44) Il visirato del quale venne investito Giuseppe era un’antica istituzione in Egitto. Volendo rapportare il significato della carica ricoperta da Giuseppe a quelle di uno stato moderno, potremmo dire che egli era il “primo ministro”, mentre Faraone rimaneva il capo dello Stato. Come abbiamo visto di recente, anche il capo dello Stato italiano può elevare alla carica di capo del governo una persona che ne abbia la capacità ed attitudine senza dover interrogare il popolo con delle elezioni. 4 Comprendiamo così anche dagli scritti dello storico giudeo Flavio Giuseppe, il quale deve avere avuto accesso a delle fonti storiche che noi non conosciamo. www.studibiblici.eu 90
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faraone: "Devo andare a chiamarti una balia tra le donne ebree che allatti questo bambino?" La figlia del faraone le rispose: "Va'". E la fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. La figlia del faraone le disse: "Porta con te questo bambino, allattalo e io ti darò un salario". Quella donna prese il bambino e lo allattò. Quando il bambino fu cresciuto, lo portò dalla figlia del faraone; egli fu per lei come un figlio ed ella lo chiamò Mosè; "perché", disse: "io l'ho tirato fuori dalle acque". In quei giorni, Mosè, già diventato adulto, andò a trovare i suoi fratelli; notò i lavori di cui erano gravati e vide un Egiziano che percoteva uno degli Ebrei suoi fratelli.” (Esodo 2:5-11) La narrazione biblica è in perfetta armonia con quanto sappiamo da altre fonti storiche: “… i figli di genitori stranieri potevano essere affidati volontariamente o in modo meno pacifico al Kep5 , in cui ricevevano una formazione identica (studio delle lingue, religione, uso delle armi e così via) a quella dei figli del sovrano egiziano”. Sophie Desplancques, “L’Antico Egitto”, Newton Compton Editori, Collana Biblioteca del Sapere, p. 23. E’ lecito pensare che Dio usò l’accanimento e la malvagità del re egiziano per cominciare l’opera che avrebbe condotto alla liberazione del Suo popolo. Quindi, con le vicende descritte nell’Esodo, il piccolo ebreo si trovò ad essere introdotto alla corte egiziana, il più grande, meglio organizzato e più evoluto paese del periodo storico in cui egli visse. Nel 1500 a.C. circa, periodo nel quale ambientiamo la nascita di Mosè, il popolo egiziano era già una civiltà antica, accreditando le ipotesi più verosimili, circa 1700 anni, computando dal periodo predinastico. Le piramidi venivano costruite da oltre un millennio, visto che alcune fra le più note risalgono a 1200 anni prima e dall’altezza della loro imponenza testimoniavano la grandezza dell’Egitto e del Faraone. L’orgoglio egiziano non era immotivato. Nella Genesi e nell’Esodo non viene nominato nessun re egiziano per nome ma è semplicemente definito Faraone. Ciò crea difficoltà (direi insormontabili) nell’identificazione del sovrano del quale sta parlando il testo biblico. Anche in questo, però, la Bibbia si dimostra una straordinaria accuratezza storica. “Il termine “faraone” viene da un’espressione egiziana che significa “grande casa”, e soltanto a partire dal Nuovo Regno designò la persona del re”. Sophie Desplancques, “L’Antico Egitto”, Newton Compton Editori, Collana Biblioteca del Sapere, 5
“Kep”, viene di solito tradotto “figli reali” e possiamo immaginarlo come un programma di egizianizzazione per stranieri. Non è una pratica sconosciuta anche ad altri popoli. Il re babilonese Nabucodonosor infoltiva il suo apparato statale deportando in Babilonia il fior fiore dei giovani delle nazioni che aveva conquistato, e alla sua corte li istruiva sulla lingua e cultura babilonesi. Ne leggiamo nel libro biblico di Daniele. www.studibiblici.eu 91
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p. 30. Il Faraone era un’istituzione che andava oltre l’identità di chi la ricopriva. Era l’essenza stessa dell’Egitto, la sua rappresentazione vivente, la sua forza, unione, volontà. La religione, la legge, l’unione dello stato erano rappresentate in lui. Fu questo uno dei motivi che permise all’Egitto di essere la più grande e longeva potenza dell’antichità. Le qualità morali e il senso della responsabilità che una tale carica richiedeva erano percepite dallo stesso re. “L’insegnamento di Merikare” è un antico scritto dove un faraone istruisce il proprio figlio sui nobili principi della cultura egiziana, dei quali Faraone deve essere garante ed amministratore ed è un esempio di come il re egiziano percepisse l’importanza del suo ruolo. E’ credenza comune (e così si sostiene anche nel film “Il Principe d’Egitto”) che il re che si mosse contro gli Ebrei fosse Sethi e che il suo successore Ramesse II fosse il faraone dell’Esodo. Se anche ciò corrispondesse alla realtà storica dei fatti, non cambierebbe nulla alle mie argomentazioni. Tuttavia, ci tengo a precisare che dopo aver letto le tesi di David Rohl e le teorie alla base della sua New Chronology, mi sono convinto che Ramesse non sia il Faraone dell’Esodo. Sono stato anche spinto in questa direzione dalla validità che riconosco alla Bibbia come documento storico, fonte attendibile in linea puramente teorica – almeno dal punto di vista scientifico – almeno quanto ogni altra fonte storica antica, ma praticamente più attendibile di altre. Mosè viene portato alla corte di Faraone, come figlio adottivo della stessa figlia del re. Ciò implica che Mosè poté avere accesso ai più alti gradi dell’istruzioni della nazione più evoluta che esistesse al mondo. Gli egiziani infatti eccellevano in molti campi e la loro cultura era avanzatissima. La scrittura classica degli egiziani erano i geroglifici. La bellezza di tale espressione del linguaggio tramite immagine ne favorì l’uso ornamentale all’interno dei vari monumenti funerari e non. Guardiamo questo tipo di scrittura da una parte ammirati per il gusto artistico, dall’altra compiaciuti per i progressi che diamo per scontati considerando il nostro praticissimo alfabeto. In realtà già in tempi remotissimi ai geroglifici si accompagnò in Egitto un più pratico metodo di scrittura chiamato “ieratico”. Quest’ultimo era in pratica un corsivo, che si semplificò ulteriormente nelle epoche successive, assumendo le caratteristiche che lo faranno descrivere agli studiosi con il termine “demotico”. La scrittura in geroglifici non deve farci pensare che il popolo egiziano fosse primitivo – perché mi è parso che ad alcuni possa sembrare così. L’utilizzo dei geroglifici in quasi tutta la storia egiziana è motivato dalla bellezza di questa forma di scrittura, dal suo innegabile valore decorativo quindi, ma anche dal significato religioso che veniva attribuito ai simboli che la costituivano. Qui accanto un esempio di scrittura ieratica (in alto) e geroglifica (in basso) tratto dalla prestigiosa grammatica di egiziano antico di Alan Gardiner, Egyptian Grammar. Come noterà il lettore attento nell’immagine che segue, lo ieratico si evolve sensibilmente nel demotico.
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Lo ieratico, vista la sua praticità veniva utilizzato su papiro per scrivere trattati o testi tes di narrativa. Purtroppo i papiri non resistono altrettanto bene al trascorre del tempo quanto le incisioni su tombe o monumenti. Il cosiddetto papiro Rhind, nell’immagine qui accanto, è un papiro risalente al XVII secolo a.C. Riproduce un testo matematico; matico; contiene anche esercizi di algebra e geometria. La matematica degli egiziani era molto evoluta, come si potrà immaginare dal fatto che furono capaci di costruire le loro piramidi con una precisione anche oggi difficile da eguagliare. Non sarà fuori luogo evidenziare che le più grandi piramidi furono costruite durante il regno antico e che questo papiro risale al secondo periodo intermedio – circa mille anni dopo!
Nell’im magine qui a sinistra invece il papiro Edwin Smith, che tratta di medicina. medicina La scelta degli egiziani di continuare a mantenere la scrittura in geroglifici, come ho già detto, è facilmente spiegabile dal punto di vista storico, per il significato magico attribuito ai segni che utilizzava; ma anche comprensibile vista la bellezza za oggettiva e la potenzialità decorativa che questa scrittura possedeva. Abbiamo esempi nella storia più prossimi a noi. I giapponesi, ad esempio, che fanno largo uso ormai del nostro alfabeto, rimangono fedeli alla loro complica scrittura tradizionale. Eppure ppure sono uno dei popoli più avanzati tecnologicamente del pianeta! Un’ultima cosa va aggiunta, che ci tornerà utile più avanti: la scrittura in geroglifici aveva in sé un seme importante, che sarebbe servito dopo a dare una spinta importante verso la nascita scita dell’alfabeto: la valenza fonetica di 22 dei suoi segni. Dal punto di vista politico l’Egitto rappresentava una nazione solida al suo interno, ben organizzata e con un’economia intelligente ed accorta. La politica estera aveva quasi sempre visto il prestigio e la forza egiziana permettere a quella nazione di mantenere un certo controllo della zona palestinese, con il conseguente buon uso delle vie commerciali che collegavano l’Egitto alla Mesopotamia. La posizione dell’Egitto era duplicemente vantaggiosa. aggiosa. Da una parte si affacciava sul Mediterraneo, dall’altra era protetto dalla natura del territorio nelle vie che lo collegavano alla Mezzaluna Crescente. Era questa la nazione più grande del mondo di allora, paragonabile agli Stati Uniti d’America dei nostri giorni. www.studibiblici.eu 93
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Dio aveva fatto si che il futuro legislatore del suo popolo ricevesse la migliore istruzione disponibile allora sul pianeta. Alla corte di Faraone soltanto Mosè avrebbe potuto apprendere l’antica sapienza degli egiziani, la scrittura, le più evolute conoscenze matematiche, scientifiche, mediche, ecc … Ma non era ancora pronto. Qualcosa doveva ancora avvenire nella sua vita prima di poter essere adatto al compito al quale Dio stava per chiamarlo. “In quei giorni, Mosè, già diventato adulto, andò a trovare i suoi fratelli; notò i lavori di cui erano gravati e vide un Egiziano che percoteva uno degli Ebrei suoi fratelli. Egli volse lo sguardo di qua e di là e, visto che non c'era nessuno, uccise l'Egiziano e lo nascose nella sabbia. Il giorno seguente uscì, vide due Ebrei che litigavano e disse a quello che aveva torto: "Perché percuoti il tuo compagno?" Quello rispose: "Chi ti ha costituito principe e giudice sopra di noi? Vuoi forse uccidermi come uccidesti l'Egiziano?" Allora Mosè ebbe paura e disse: "Certo la cosa è nota". Quando il faraone udì il fatto, cercò di uccidere Mosè, ma Mosè fuggì dalla presenza del faraone, e si fermò nel paese di Madian e si mise seduto presso un pozzo. Il sacerdote di Madian aveva sette figlie. Esse andarono al pozzo ad attingere acqua per riempire gli abbeveratoi e abbeverare il gregge di loro padre. Ma sopraggiunsero i pastori e le scacciarono. Allora Mosè si alzò, prese la loro difesa e abbeverò il loro gregge. Quando esse giunsero da Reuel, loro padre, questi disse: "Come mai siete tornate così presto oggi?" Esse risposero: "Un Egiziano ci ha liberate dalle mani dei pastori, per di più ci ha attinto l'acqua e ha abbeverato il gregge". Egli disse alle figlie: "Dov'è? Perché avete lasciato là quell'uomo? Chiamatelo, ché venga a prendere del cibo". Mosè accettò di abitare da quell'uomo. Egli diede a Mosè sua figlia Sefora. Ella partorì un figlio che Mosè chiamò Ghersom; perché disse: "Abito in terra straniera". Esodo 2:11-22 Mosè abbandona l’Egitto per fuggire al guaio che ha combinato – inutile nascondere la realtà. Ma è proprio di quell’uomo in fuga, senza una vera identità nazionale (era un ebreo che ha le sembianze di un egiziano – Esodo 2:19) che Dio farà il più grande legislatore della storia dell’umanità. I madianiti erano discendenti di Abramo. Quando Mosè entrò in contatto con questo popolo nomade, aveva circa quarant’anni e con loro rimase per altri quarant’anni. In quegli anni egli apprese le antiche tradizioni mesopotamiche sulla creazione, sul diluvio, sulla nascita delle prime città. Egli apprese lì la cultura del Dio unico, il Dio di Abraamo, Isacco e Giacobbe. C’è un problema di fondo della storia antica che adesso ritengo importante dover comunicare al lettore per ben comprendere alcune problematiche. Siamo in condizione di ricostruire la storia antica dell’Egitto e della Mesopotamia grazie ai ritrovamenti archeologici che testimoniano di queste grandi culture del passato, integrando queste informazioni con i pochi scritti storici che sopravvivono. Questi ritrovamenti archeologici sono possibili grazie al fatto che tali antiche civiltà erano sedentarie. Quindi vivevano in città, costruivano palazzi con iscrizioni. Avevano archivi dove raccoglievano informazioni amministrative, commerciali, ecc … Possedevano www.studibiblici.eu 94
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biblioteche – il re assiro si vantava di possedere una biblioteca con oltre 100.000 testi. Non è un caso se molto di ciò che sappiamo è dovuto a documenti o testi che venivano incisi e conservati su tavolette. E’ il caso della cosiddetta corrispondenza di Amarna o degli archivi di Ebla, della stele di Rosetta, del codice di Hammurabi. Sarebbe, però, ingenuo credere che possediamo una testimonianza del passato che attinga a più dell’1% della documentazione che deve essere esistita. Abbiamo pochi papiri, supporto per scrittura molto pratico e maneggevole – come la nostra carta – ma poco resistente nel tempo. Eppure molta letteratura e documenti devono aver avuto una diffusione su questo tipo di materiale da scrittura. Frammenti di papiro ci sono giunti da epoche remotissime e non è difficile supporre che questo fosse diffuso anche quando ancora venivano utilizzate le tavolette di argilla, con funzioni ed usi diversi. Ovviamente i papiri non potevano resistere al decadimento causato dal tempo – credete che la nostra carta potrebbe preservare i nostri libri per oltre 2000 anni? O, visto che ora stiamo digitalizzando tutto, se cambiassero nei secoli le fonti di energia e la nostra civiltà subisse – come è già accaduto nella storia – un salto indietro, la nostra cultura della quale andiamo tanto fieri, non potrebbe andare quasi del tutto perduta? Se vi sono stati dei films di fantascienza che hanno trattato questo tema è perché vi è scientificamente la possibilità che ciò accada6. Ed in una certa misura ciò è accaduto alle civiltà del passato. Se non fosse stato per la testimonianza della Bibbia, sarebbe andata perduta la memoria dell’antico oriente e dell’antico Egitto. L’archeologia è in realtà una scienza relativamente giovane, tanto che siamo ancora lontani persino dall’avere esaminato e valutato tutti i ritrovamenti degli ultimi due secoli. Si discute ad esempio ancora della corrispondenza di Amarna, scoperta oltre un secolo fa. Abbiamo appena grattato la superficie della scoperta dei rotoli del Mar Morto senza riuscire ad avere un verdetto unanime sull’autentico significato di questo importantissimo ritrovamento7. Non ci dobbiamo quindi meravigliare se di popolazioni nomadi come era il clan di Abraamo, Isacco e Giacobbe, così come era il popolo dei madianiti, non possediamo alcuna prova archeologica che ci metta in condizione di sapere più di quanto ci riferisce la Bibbia. Essendo nomadi, non vi erano monumenti che potevano resistere al trascorrere del tempo. Non è inoltre verosimile che utilizzassero delle tavolette di argilla per scrivere, perché ciò avrebbe reso i loro archivi e la loro letteratura difficile da trasportare. Essendo pastori, è molto più probabile che si affidassero alla scrittura su pelli di animali per la trasmissione e diffusione della loro cultura. Mosè ebbe tempo – circa quarant’anni – per ricevere un’accurata istruzione sulla cultura del Dio unico – la stessa cultura tramandata dai patriarchi del suo popolo. 6
Mettendo da parte la narrazione fantascientifica, la realtà storica dei fatti è che, stando alle parole di Gesù sugli eventi che avrebbero caratterizzato l’imminenza della Sua Rivelazione, il ritorno di Gesù è davvero prossimo e presto sarà il momento della resa dei conti per un mondo malvagio e senza Dio. Sarà meglio prepararci individualmente a tale evento piuttosto che cedere alle lusinghe dell’orgoglio umano, in modo che tale evento sia una liberazione ed una redenzione, piuttosto che un momento di giudizio e di condanna. 7 Una recentissima scoperta sembra dare sostegno all’idea che gli scritti ritrovati a Qumran non fossero quelli che rispecchiavano l’ideologia della comunità che li raccoglieva, bensì una raccolta di testi paragonabile ad una nostra biblioteca odierna. Le implicazioni di una tale scoperta sono davvero rilevanti. www.studibiblici.eu 95
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All’età di ottant’anni Mosè era pronto, il perfetto strumento nelle mani di Dio per portare a compimento il più grande compito della storia del popolo di Israele: l’esodo di un intero popolo fuori dall’Egitto. Alcuni sottovalutano l’importanza della scuola, dello studio, della cultura. Io no. Io credo, per l’esperienza che viene anche dalla Parola di Dio, che è molto importante per un cristiano avere più istruzione possibile. Mosè era un uomo istruito nelle più importanti culture del tempo. Paolo era poliglotta e profondo conoscitore della cultura ebraica e greca – fu così che Dio ne fece il primo grande strumento per la diffusione della nostra fede fra i non ebrei. Gli apostoli erano ebrei, ma ben istruiti nella Sacra Scrittura; conoscevano l’ebraico, per leggere le Scritture, l’aramaico, che gli ebrei del tempo parlavano nella vita quotidiana, e il greco, lingua che utilizzarono per scrivere i loro libri raccolti nel Nuovo Testamento. Personalmente devo dire che lo studio della storia antica e delle lingue bibliche (ma non solo) mi hanno aiutato a comprendere meglio la Parola di Dio. Mi hanno inoltre dato cognizione di causa per dire che chi crede che la Bibbia non sia un libro storicamente attendibile o è ignorante o è in malafede – perché fondamentalmente spaventato dall’autorità spirituale che rivendica la Parola di Dio! Sono le mie conclusioni, mi scuso con chi non le condivide; ma le sosterrò finché non mi sarà stato dimostrato che siano errate. La conoscenza, la cultura, non sto dicendo questo, non può prendere il posto dello Spirito Santo. E’ quest’ultimo che ci fa comprendere la Parola di Dio. Senza di Lui, il significato spirituale della Sacra Scrittura non può essere percepito. Non possiamo, quindi, da cristiani nemmeno commettere l’errore inverso ed affidarci totalmente ed esclusivamente alla nostra cultura ed istruzione – non basterebbe. Senza la Rivelazione personale di Dio a Mosè, i suoi scritti o le sue considerazioni non sarebbero andate molto più lontano della filosofia greca. Senza l’assistenza dello Spirito Santo le convinzioni di Paolo non sarebbero state la guida della dottrina della Chiesa per due millenni, ma solo un impossibile tentativo di far uscire la fede ebraica al di fuori dei suoi confini storici nazionali. E’ vero che è Dio che ha in mano lo strumento e che è questo che fa la differenza. Ma è anche vero che non si può martellare un chiodo con un giravite o suonare un concerto per pianoforte con una pianola. Il Signore stesso ha creato le condizioni perché questi strumenti fossero forgiati e pronti per l’utilizzo per il quale Lui li aveva preparati. Ed anche noi abbiamo il dovere di seguire la volontà di Dio per essere pronti nella nostra vita al compito al quale il Signore ci prepara. Ormai giunto ai suoi ottant’anni, Mosè era finalmente pronto ad incontrare Dio ed a conoscere il motivo delle cose straordinarie che avevano interessato la sua vita. “Mosè pascolava il gregge di Ietro suo suocero, sacerdote di Madian, e, guidando il gregge oltre il deserto, giunse alla montagna di Dio, a Oreb. L'angelo del SIGNORE gli apparve in una fiamma di fuoco, in mezzo a un pruno. Mosè guardò, ed ecco il pruno era tutto in fiamme, ma non si consumava. Mosè disse: "Ora voglio andare da quella parte a vedere questa grande visione e come mai il pruno non si consuma!" www.studibiblici.eu 96
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Il SIGNORE vide che egli si era mosso per andare a vedere. Allora Dio lo chiamò di mezzo al pruno e disse: "Mosè! Mosè!" Ed egli rispose: "Eccomi". Dio disse: "Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo sacro". Poi aggiunse: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe". Mosè allora si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio. Il SIGNORE disse: "Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei. E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire. Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele". Mosè disse a Dio: "Chi sono io per andare dal faraone e far uscire dall'Egitto i figli d'Israele? ". Esodo 3:1-11. Sappiamo tutti cosa accadde dopo e come Dio usò Mosè per liberare il suo popolo e guidarli nel deserto prima – che aveva imparato a conoscere negli anni durante i quali aveva vissuto da nomade con i madianiti – e nella “terra promessa” poi, in capo ai terzi quarant’anni della sua vita. Fu durante quel periodo che Mosè lasciò il segno nella storia di Israele in maniera indelebile, nella composizione della Torah, la Legge. Dio lo aveva preparato anche per questo compito. Ho già dato dei cenni sulla scrittura egiziana. La funzionalità raggiunta dallo ieratico già in tempi remotissimi, aveva permesso agli egiziani di scrivere testi di narrativa, trattati di matematica, scritti di medicina. I presupposti c’erano tutti perché Mosè potesse mettere per iscritto – come Dio stesso gli aveva comandato di fare – la Legge. Ma c’era un problema. La scrittura egiziana era profondamente legata alla lingua del popolo che l’aveva concepita e non era probabilmente adatta per altre lingue8. Ma aveva in sé una potenzialità: 22 segni geroglifici avevano infatti valenza consonantica, costituivano, quindi, un vero e proprio alfabeto. Venivano utilizzati quando 8
Qualcosa di simile era accaduto in Mesopotamia. Quando la lingua sumerica scomparve, gli scribi si adoperarono per utilizzare la scrittura cuneiforme per la nuova lingua dominante, l’accadico. Ma non senza difficoltà, visto il legame intimo esistente fra il sumerico e quella forma di scrittura. Fu per questo che anche quando la lingua dei sumeri divenne ormai una lingua morta, la si continuò a far studiare agli scribi per poter meglio comprendere i meccanismi della scrittura cuneiforme. Per molto tempo la cultura orientale non volle arrendersi alla rivoluzione dell’alfabeto aramaico, preferendo ancora per lungo tempo dopo la sua comparsa e spontanea diffusione, la complicata – ma culturalmente propria! – scrittura in caratteri cuneiformi! La praticità dell’alfabeto – con qualsiasi tipo di segni lo si rappresenti – è evidente. Esso, in quanto esprime il suono di consonanti e vocali, può asetticamente adattarsi a qualsiasi lingua. Esistono dei testi in siciliano antico trascritti con alfabeto ebraico: sono tali le potenzialità dell’alfabeto! www.studibiblici.eu 97
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dovevano trascriversi dei nomi non egiziani, per permettere, con simboli fonetici, consonantici, di mettere per iscritto anche le parole di altre lingue. Qui a sinistra si il nome di 9 Cleopatra scritto utilizzando il valore fonetico dei geroglifici.
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Immagine tratta da “Egyptian Grammar, being an introduction to the study of Hieroglyphs”, by Sir Alan Gardiner, p.14. Questa stupenda grammatica spiega che l’alfabeto egiziano era costituito da 22 segni, anzi da 22 consonanti. Gli scribi egiziani infatti ignoravano le vocali, vocali, per motivazioni connesse ad una praticità possibile nella loro lingua. Due simboli comunque hanno una valenza semi-consonantica, semi identificabili con una “i” ed una “u”. Come l’egiziano anche l’alfabeto ebraico ha 22 consonanti e nessuna vocale. Ha, come l’egiziano, delle consonanti con valenza di vocali che permettono una maggiore precisione nella pronuncia. Ovviamente Mosè non scrisse nell’alfabeto ebraico che vediamo oggi. Quella forma di scrittura “quadrata” fu adottata dal popolo ebraico molti secoli dopo, presa in prestito dall’aramaico. Se si conosce l’inglese consiglio di visitare il sito www.hebrew4christians.com Da questo traggo le immagini che seguono che illustrano il percorso dell’alfabeto ebraico ebrai dai primi passi, dall’alfabeto ll’alfabeto protosinaitico – nell’immagine qui sotto – fino ino a quello che oggi conosciamo.
Di questo alfabeto sono rimaste tracce nelle miniere del Sinai, ed è per questo che è stato definito protosinaitico. L’alfabeto utilizzato dagli li ebrei del primo tempio è il cosiddetto proto ebraico. Una sua variante è l’alfabeto dei samaritani.
opo la deportazione babilonese gli ebrei iniziarono ad utilizzare l’alfabeto aramaico che è in uso Dopo anche oggi.
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E’ possibile che da questo ottimo punto di partenza, Mosè aveva gli strumenti per mettere per iscritto la lingua ebraica in un alfabeto che poteva adattare alle esigenze della sua lingua. “… ci vollero le capacità poliglotte di un colto principe d’Egitto ebreo per trasformare queste prime semplici incisioni in una scrittura funzionale, capace di veicolare idee complesse e un racconto fluente. I Dieci Comandamenti e le Leggi di Mosè erano scritte in lingua protosinaitica. Il profeta di Yahweh, che aveva dimestichezza sia con la letteratura epica egizia, sia con quella mesopotamica, non fu solo il padre fondatore del Giudaismo, della Cristianità e, attraverso le tradizioni iraniche, dell’Islam, ma fu il progenitore delle scritture alfabetiche ebraica, cananea, fenicia, greca e, quindi, del moderno mondo occidentale.” – David Rohl, Il Testamento Perduto, Newton & Compton Editori, pag.222- 223. La storia, quindi, insieme alle Sacre Scritture ci dice che Mosè fu il prodotto dell’incontro di due culture. Entrambe servirono ad istruirlo ed a formarlo culturalmente e personalmente. Ma fu poi nelle mani di Dio che ogni cosa che gli era successa e quello che la sua esperienza l’aveva fatto diventare, che tutto ebbe finalmente un senso. Grazie all’intervento di Dio un esiliato dal suo popolo e dal suo popolo di adozione, poté divenire il mezzo per l’esodo del popolo di Dio fuori dall’Egitto e l’autore, grazie alla guida dello Spirito Santo, delle prime pagine di quel libro che noi definiamo le Sacre Scritture.
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APPENDICE II Radici Ebraiche della Fede Cristiana
Introduzione 1. La lingua originale del Nuovo Testamento 2. Cultura ebraica e Nuovo Testamento 3. Parole ebraiche nel Nuovo Testamento 4. Parole ebraiche nelle nostre lingue Conclusione
Introduzione Il Nuovo Testamento, l’abbiamo detto, fu scritto in Greco Koinè. Era la lingua più diffusa al mondo ed era un greco semplice, colloquiale. Lo potremmo rapportare benissimo all’inglese di oggi. Con il mandato di evangelizzare tutti i popoli e l’opera missionaria di Paolo, quella lingua era la più giusta per la diffusione del Nuovo Testamento. Ma nonostante l’evangelo e le Sacre Scritture siano ormai diffuse in tutto il mondo e tradotte in tutte le lingue, non possiamo disconoscere le origini, le radici addirittura, della nostra fede. Gli apostoli e Gesù vissero in un ambiente culturale ebraico. L’ebraico e l’aramaico erano le lingue dei primi apostoli e discepoli. Ebraico il loro modo di pensare. Sebbene il loro insegnamento sia stato trasmesso fino a noi in lingua greca (e poi tradotto nelle nostre lingue) era impossibile che la mentalità e persino le parole della fede giudaica scomparissero del tutto. L’autentica essenza della nostra Fede, la sua origine ebraica, è oggi viva e vegeta nelle nostre Bibbie, vive nel nostro linguaggio, nelle abitudini delle nostre chiese. Terminiamo le nostre preghiere in tutto il mondo, in tutte le confessioni cristiani, con la parola ebraica Amen. Nell’adorazione gridiamo al Signore Alleluia. Chiamiamo Gesù “Messia”, parola che viene direttamente ad entrare nel nostro linguaggio dall’ambiente religioso giudaico: “Cristo” è solo la traduzione greca dell’ebraico “Messia”. E sia in greco che nelle nostre lingue, il significato è totalmente dipendente dalla cultura ebraica. www.studibiblici.eu 100
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Nelle pagine che seguono approfondisco questo argomento, a mio avviso molto interessante, ma anche rilevante per una migliore conoscenza della nostra identità di cristiani.
. 1. La lingua originale del Nuovo Testamento Fino al 1947 una domanda del genere era impensabile. Si credeva, infatti, che la lingua parlata in Israele ai tempi di Gesù fosse l’aramaico. Le scoperte di Qumran hanno riaperto il caso a favore dell’ebraico. L’aramaico era una lingua internazionale con la quale Israele entrò in contatto principalmente a causa della deportazione in Babilonia e la seguente dominazione persiana, fra il 605 ed il 536 a.C. Alcune porzioni dell’Antico Testamento furono scritte in aramaico. Parte del libro di Daniele, Esdra, un verso di Geremia. Il chiaro intento di queste porzioni era renderle comprensibili anche ai non ebrei. Nel libro di Daniele è impossibile non percepire l’intento dell’autore del libro. Egli stesso infatti introduce il passaggio, nell’originale, dalla lingua Ebraica del primo capitolo a quella aramaica, che verrà utilizzata per i capitoli da 2 a 6. Daniele 2:4: “Allora i Caldei risposero al re in aramaico:…”. A volte sentiamo parlare di un vangelo di Matteo in originale aramaico, specie all’interno degli ambienti cattolici. Rimane però la testimonianza di Eusebio di Cesarea, che, nel quarto secolo, nella sua Storia Ecclesiastica scrive: “Matteo avendo inoltre per primo proclamato il vangelo in ebraico, quando stava per andare ad altre nazioni, lo affidò alla forma scritta nella sua lingua d’origine, in maniera da poter supplire alla mancanza della sua presenza fra loro, con il suo scritto”. Libro I, capitolo 24. Non sappiamo quanto affidabile sia la testimonianza di questo storico. Ma di sicuro, tutto nel Vangelo di Matteo è ebraico, tranne la lingua delle evidenze manoscritte giunte fino noi. Se mai vi è stato un originale di Matteo in ebraico, questo è probabilmente andato definitivamente perduto. Fino a nessuna nuova scoperta sensazionale in tal senso, è bene non fantasticare troppo e continuare a pensare che anche Matteo sia stato originariamente composto in greco. Recentemente è stata sostenuta la teoria di un Marco ebraico. Ma nessuna tradizione storica viene in aiuto di una tale supposizione. Anche Marco ci è arrivato solo in greco. E, se l’identificazione del frammento 7Q5, rinvenuto con altri manoscritti in greco in una delle grotte di Qumran, si dovesse rivelare fondata, la possibilità di un Marco ebraico diminuirebbe ulteriormente. Si ritiene che Luca non fosse ebreo. Quindi, nessun dubbio dovrebbe sussistere sul fatto che il suo vangelo, così come gli atti degli apostoli, siano stati originariamente scritti in greco. Eppure proprio il Vangelo secondo Luca ha più semitismi, è più marcatamente dipendente dal pensiero e dalla lingua ebraica, degli altri due sinottici. Quando Giovanni compose il prologo al suo vangelo, utilizzò è vero il termine Greco logos, tradotto di solito Parola o Verbo, ma era solo la fedele traduzione della Memra ebraica e del
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significato che i commentatori rabbinici vi attribuivano, ripresi anche da Filone Alessandrino. Alcuni commentatori ritengono che l’epistola agli Ebrei sia stata originariamente scritta in ebraico e che Luca ne abbia effettuato la traduzione in greco. Ma sono solo speculazioni impossibili da dimostrare allo stato attuale della documentazione in nostro possesso. Sebbene credo che vadano apprezzati gli sforzi di chi cerca di approfondire sul sostrato ebraico dei libri neotestamentari, in particolare dei vangeli, credo sia impossibile, basandoci sulle prove oggettive in nostro possesso, parlare di originali in ebraico. Si può teorizzare sull’esistenza di originali in ebraico andati perduti. Ma con così poche prove in mano, si può teorizzare qualsiasi cosa. E, credetemi, c’è chi lo fa. Personalmente, preferisco affidarmi alle prove piuttosto che alla capacità deduttiva degli studiosi. Quindi possiamo affermare che, all’alba del ventunesimo secolo, gli originali del Nuovo Testamento – fino a prova contraria – sono stati composti nell’unica lingua in cui ci sono giunti, quella greca. Come dirò nelle pagine a venire, ciò non rende la nostra fede meno indebitata con la cultura e la lingua ebraiche.
2 . Cultura ebraica e Nuovo Testamento Come ho già detto, la lingua del Nuovo Testamento sarà pure il Greco, ma i pensieri che stanno dietro, la cultura, i luoghi, l’intera ambientazione, è ebraica. Gesù disse apertamente che lui era venuto a confermare la Legge mosaica e non ad abolirla. “Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento”. Matteo 5:17 Durante i suoi discordi Gesù certamente parlava in aramaico ed ebraico. E’ naturale che gli evangelisti, nel tradurre le sue parole in greco, devono avere incontrato delle difficoltà. E certamente non era nemmeno fra i loro scopi tradire l’origine della loro fede. L’atmosfera è ebraica; ben visibile anche dopo la traduzione in greco e dal greco, nella nostra lingua. Oggi i predicatori e i commentatori biblici provano letteralmente a tradurre le parole della Bibbia adattandole alle nostre realtà quotidiane. Visto che la maggior parte del mondo occidentale abita in grandi città, non potremmo essere più lontani dal mondo agricolo e pastorale di Israele all’inizio del primo secolo d.C. Consideriamo qualche esempio specifico. Luca 1:34 “Maria disse all'angelo: "Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?” La parola che viene di solito tradotta con il verbo “conoscere”, traduce letteralmente il greco originale. Ma nella nostra lingua, le parole di Maria, prese per quello che sono, non hanno molto significato. www.studibiblici.eu 102
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Siamo davanti ad un chiaro esempio di un pensiero ebraico espresso con parole greche. Se si traduce non solo la parola, ma anche l’idea che sta dietro, dovremmo far dire a Maria: “…visto che io non ho avuto rapporti sessuali con alcun uomo”. Ma l’espressione biblica è ormai divenuta così comune per i lettori cristiani, e anche al di fuori della cerchia dei lettori biblici soltanto, che, a dimostrazione di quanto dico in diverse parti del mio studio, possiamo sostenere che l’influenza della mentalità semitica è stata tanto forte nella nostra cultura da arricchire il significato delle nostre parole, estendendolo fino alla terminologia delle Scritture. Giovanni 2:1 “ Tre giorni dopo, ci fu una festa nuziale in Cana di Galilea, e c'era la madre di Gesù.” L’apostolo ci informa dicendoci che il matrimonio ebbe luogo di Martedì, giorno comune per la celebrazione dei matrimoni in Israele. Questa tradizione era collegata alle due volte che Dio definì buona la sua creazione in Genesi 1:10-12, dove le due cose vengono intese allegoricamente come l’uomo per la donna e la donna per l’uomo. La Domenica è il primo giorno della settimana. In Italia, purtroppo, mi sono accorto che la maggior parte della gente ti dirà che il primo giorno della settimana è il Lunedì. Così non è. Siamo noi ad avere adottato dal mondo ebraico la settimana. Fu l’imperatore Costantino che, nel suo desiderio di uniformare l’uso dell’impero romano con le abitudini dei molti cristiani che lo popolavano, la introdusse in occidente. E il Sabato è il settimo ed ultimo giorno della settimana. La Domenica il primo. Infatti, in Marco 16:9 leggiamo: “Or Gesù, essendo risuscitato la mattina del primo giorno della settimana…” Se la Domenica è il primo giorno, ne consegue che il Lunedì sia il secondo e Martedì il terzo. Le nozze di Cana ebbero luogo di Martedì, in perfetto accordo con l’uso ebraico. Luca 9:51 “Poi, mentre si avvicinava il tempo in cui sarebbe stato tolto dal mondo, Gesù si mise risolutamente in cammino per andare a Gerusalemme” La traduzione Nuova Riveduta abbandona la traduzione letterale e ne preferisce una che spieghi il loro senso. In una traduzione più letterale comprendiamo dal contesto cosa volesse dire il brano, ma è ovvio che l’espressione idiomatica in grassetto appartiene alla mentalità semitica e non alla nostra occidentale. Luca certamente attinse a fonti ebraiche per le sue narrazioni. Egli traduce dalle sue fonti (che fossero scritte o orali) in maniera letterale. Personalmente lo ritengo un pregio del suo lavoro. Preferisco, infatti, anche in campo lavorativo, leggere una traduzione letterale, piuttosto che una che si limiti a darmi il significato che il traduttore comprende del testo originale. Nel caso di Luca 9:51 la scelta della Nuova Riveduta è ininfluente. Si perde però la bellezza della costruzione originale.
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Luca 11:50-51 “…affinché del sangue di tutti i profeti sparso fin dall'inizio del mondo sia chiesto conto a questa generazione; dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria che fu ucciso tra l'altare e il tempio; sì, vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione.” La contraddizione che salta agli occhi del lettore attento della Bibbia è evidente: Abele fu davvero il primo uomo ucciso nella Bibbia, ma Zaccaria non fu di sicuro l’ultimo. Come può avere commesso Gesù un errore così grossolano? Ebbene, l’apparente contraddizione la spiega benissimo il sostrato ebraico e il contesto nel quale Gesù pronunciò il suo monito. Egli infatti parlava a persone che avevano ben chiaro in mente il canone giudaico delle Sacre Scritture. Lì l’omicidio di Zaccaria era narrato nell’ultimo dei libri sacri, quello delle Cronache. Quindi l’affermazione di Gesù equivarrebbe a quando oggi noi diciamo: “Dalla Genesi all’Apocalisse”, intendendo dire “dall’inizio alla fine”; sebbene con molta probabilità l’Apocalisse non è stato l’ultimo libro del Nuovo Testamento ad essere scritto. Esempi di questo tipo ci mettono in guardia verso chi troppo frettolosamente parla di errori nella Bibbia. Marco 4:41 “Ed essi furono presi da gran timore e si dicevano gli uni gli altri: "Chi è dunque costui, al quale persino il vento e il mare ubbidiscono” “temettero di grande timore” è la traduzione letterale del Greco di questo brano, ovviamente dipendente dalla costruzione ebraica della frase. La Nuova Riveduta, lasciando la letteralità del testo e volendo trasmetterne il significato, traduce: “Ed essi furono presi da gran timore…” Una costruzione simile la rinveniamo in Matteo 2:10 che legge, traducendo letteralmente: “veduta la stella gioirono di grande gioia”. La Nuova Riveduta è in questo caso un po’ più letterale: “Quando videro la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.” Evita, però, la ripetizione che invece esiste anche nell’originale della parola “gioia” come nella mia traduzione. Matteo 5:13-16 “Voi siete il sale della terra; ma, se il sale diventa insipido, con che lo si salerà? Non è più buono a nulla se non a essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo. Una città posta sopra un monte non può rimanere nascosta, e non si accende una lampada per metterla sotto un recipiente; anzi la si mette sul candeliere ed essa fa luce a tutti quelli che sono in casa.” Il primo ebraismo non visibile perché ancora una volta la Nuova Riveduta non traduce letteralmente è nella frase che in greco dice così: “non si accende una lampada e la si mette sotto un recipiente”. Il significato della costruzione semitica è ben reso dalla NR. C’è da notare inoltre quanto sia importante tenere conto del contesto storico e culturale delle frasi di Gesù, che molto probabilmente fanno perdere all’uomo d’oggi tutto il significato che avevano allora. Il sale, infatti, era preziosissimo in tempi antichi. Tanto prezioso che veniva utilizzato addirittura come moneta – da qui la nostra parola italiana salario, come sinonimo di paga! www.studibiblici.eu 104
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Oggi possediamo frigoriferi e congelatori e, se sudiamo troppo abbiamo degli integratori. Ma così non era ai tempi di Gesù e queste vitali funzioni erano svolte grazie al sale. Anche la luce oggi non viene apprezzata come di sicuro lo era allora. Immaginate quanto sarebbe difficile fare qualsiasi cosa di notte se non avessimo la luce elettrica. Uscire, lavorare, leggere, oggi è tutto più facile grazie all’energia elettrica. Immaginiamo quanto preziosa doveva essere la luce del giorno, perché permetteva di potere attendere a tutti i propri affari. La notte era senz’altro molto più insidiosa e piena di pericoli.
3. Parole ebraiche nel Nuovo Testamento Sarà chiaro ormai al lettore che l’unica vera cosa che riguarda il mondo greco che rinveniamo nel Nuovo Testamento è la lingua. Pensiero, terminologia, idee, contesto, tutto appartiene al mondo giudaico. Alcune parole ebraiche sono state addirittura soltanto scritte con alfabeto greco, o nel nostro, cioè, usando un termine più tecnico, vengono traslitterate e rimangono individuabili nell’originale o nelle nostre traduzioni. Vediamone qualche esempio. Matteo 1:23 è uno dei più famosi. “La vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele", che tradotto vuol dire: "Dio con noi”. Come succede in questi brani, l’ebraico è mantenuto e traslitterato in greco e ne viene data la traduzione. A mio avviso questo rafforza le prove a favore di una composizione originale dei vangeli in greco. Alcuni dicono che Matteo stava citando qui la traduzione dei Settanta. Marco 3:17 “Giacomo, figlio di Zebedeo e Giovanni, fratello di Giacomo, ai quali pose nome Boanerges, che vuol dire figli del tuono”. Marco 5:41 “E, presala per mano, le disse: "Talità cum!" che tradotto vuol dire: "Ragazza, ti dico: àlzati!” Marco 7:11 “Voi, invece, se uno dice a suo padre o a sua madre: "Quello con cui potrei assisterti è Corbàn (vale a dire, un'offerta a Dio)”. Marco 7:34 “poi, alzando gli occhi al cielo, sospirò e gli disse: “Effatà!” che vuol dire: “Apriti!” Giovanni 1:41 “Egli per primo trovò suo fratello Simone e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia" (che, tradotto, vuol dire Cristo).” www.studibiblici.eu 105
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Messia è la parola ormai entrata nel vocabolario dei paesi di tradizione cristiana ed è chiaramente presa in prestito dall’ebraico. Cristo è l’adattamento nelle nostre lingue della sua traduzione in greco. L’ebraico Messias e il greco Cristo significano in realtà “unto”. Ma trovo molto appropriato l’uso comune di entrambi i termini, visto il senso esclusivo dell’uso di questi per Gesù. Giovani 1:49 “ Natanaele gli rispose: “Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele”. La parola Rabbi, cioè Maestro, è di uso così comune anche oggi. Rabbino è una sua derivazione. Giovanni 19:13 “Pilato dunque, udite queste parole, condusse fuori Gesù, e si mise a sedere in tribunale nel luogo detto Lastrico, e in ebraico Gabbatà.” Giovanni 19:17 “ Presero dunque Gesù; ed egli, portando la sua croce, giunse al luogo detto del Teschio, che in ebraico si chiama Golgota”. Negli ultimi due esempi, la traduzione precede la parola ebraica. In Giovanni 19:19-20, troviamo un’informazione molto importante: “Pilato fece pure un'iscrizione e la pose sulla croce. V'era scritto: GESÙ IL NAZARENO, IL RE DEI GIUDEI. Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; e l'iscrizione era in ebraico, in latino e in greco.” Il latino era ovviamente la lingua ufficiale dell’impero romano. L’ebraico era la lingua parlata in Israele. E il greco, come si vede, era tanto importante nell’impero da affiancarlo alla lingua ufficiale e del luogo. Matteo 21:9 “Le folle che precedevano e quelle che seguivano, gridavano: "Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi!” La parola Osanna è la traslitterazione dell’ebraico Hoshia’na. Come succede spesso, è difficile esprimere il pieno significato di certe parole o espressioni nel tradurle da una lingua all’altra. Io traduco spesso dall’inglese (americano) all’italiano e viceversa; quindi credetemi, so cosa dico. Ad esempio, un vocabolo molto comune nell’americano parlato di oggi è cool. Nei film lo traducono a volte in un modo, a volte in un altro; ma è perché in realtà non vi è un corrispondente esatto nella nostra lingua. Tanto che, in certi ambienti, ho visto che il vocabolo inglese sta entrando anche nel nostro uso; più o meno come la parola okay, di solito abbreviata ok oggi è stata totalmente incorporata nel nostro vocabolario. Lo stesso dicasi per la parola computer. In campo commerciale poi, che è il mio campo lavorativo l’uso eccessivo della lingua inglese ha portato all’utilizzo di vocaboli (che
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rarissimamente vengono ben pronunciati) dei quali nemmeno si ormai considera l’equivalente nella nostra lingua: reverse charge, spread, ecc… Ma tornando al nostro brano biblico in questione, la parola originale Osanna, può essere tradotta: Salva Ora! Ma è molto più di questa semplice traduzione, come rivela la citazione del brano messianico dal quale è tratta. Essa rappresenta il grido del popolo al Messia promesso venuto per salvarli. Ovviamente, il popolo non aveva idea della meravigliosa e perfetta salvezza che Dio stava per portare a compimento per mezzo di Gesù! Matteo 27:46 “E, verso l'ora nona, Gesù gridò a gran voce: "Elì, Elì, lamà sabactàni?" cioè: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” L’evangelista vuole conservare l’originale straziante grido di Gesù sulla croce. Ci riesce donando ulteriore drammaticità alla forte narrazione della crocefissione. Lo stesso incidente è narrato in Marco 15:34: “All'ora nona, Gesù gridò a gran voce: "Eloì, Eloì lamà sabactàni?" che, tradotto, vuol dire: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" Voglio invitare il lettore a notare una piccolissima differenza fra il resoconto di Matteo e quello di Marco. Matteo scrive prima di spiegare il significato della frase ebraica un semplice “cioè”, mentre Marco specifica “che tradotto vuol dire”. Come ho già detto, ho scoperto il vangelo di Marco dopo averlo letto nell’originale Greco. In italiano mi sembrava soltanto una versione breve di Matteo. Ma in greco è pieno di tantissime stupende sfumature che lo rendono insostituibile e di sicuro non soltanto una versione breve di Matteo. Per chiudere questo paragrafo presento una serie di parole originali rimaste invariate nel testo del cosiddetto Sermone della Montagna di Gesù che troviamo nel vangelo di Matteo. Matteo 5:18 “Poiché in verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, neppure un iota o un apice della legge passerà senza che tutto sia adempiuto.” La parola che troviamo tradotta nelle nostre Bibbie con “in verità”, altro non è nell’originale greco che la parola Amen, traslitterata in quella lingua dall’ebraico. Sulla parola Amen mi soffermerò più avanti in dettaglio. La “iota” ed “apice” fanno riferimento alle parti più piccole della scrittura ebraica. Il fatto che le nostre Bibbie traducano la parola Amen originale con “in verità”, non ci fa vedere che questa parola ebraica è rimasta invariata nel greco originale. Controllando con il software biblico e-sword, ho visto che la frase Amen Amen compare 25 volte nella Bibbia ed è tipica del vangelo di Giovanni. Ma nelle nostre versioni non si vede perché queste, quasi invariabilmente, traducono “in verità in verità”. La ripetizione due volte consecutive di una parola è tipica della lingua ebraica. Grazie a Dio anche della nostra e ciò ci rende più semplice capire il concetto. Ho avuto invece difficoltà a spiegare questo fenomeno in inglese, perché lo stesso non accade in quella lingua. Visto che Giovanni utilizza la parola ebraica Amen con tanta sicurezza, dando per scontata la familiarità del termine nella comunità cristiana, ci rendiamo conto di quanto popolare fosse questa parola nella Chiesa già allora. www.studibiblici.eu 107
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Del resto quasi tutti i libri del Nuovo Testamento terminano con la parola Amen. Tutti tranne l’epistola di Giacomo - e potrebbe essere un’ulteriore prova dell’antichità di questa lettera - e gli Atti degli Apostoli che non possono concludersi veramente visto che l’opera della Chiesa continua a tutt’oggi. Matteo 5:22 “ma io vi dico: chiunque si adira contro suo fratello sarà sottoposto al tribunale; e chi avrà detto a suo fratello: "Raca" sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli avrà detto: "Pazzo!" sarà condannato alla geenna del fuoco.” Vi sono dei termini che non si possono proprio tradurre. Quando parlo con dei miei amici che non sono italiani, pasta non posso tradurlo; anche se parliamo in inglese, pasta rimane pasta. E la parola pizza, è italianissima, ormai a tutti gli effetti parte del vocabolario inglese. Una curiosità linguistica è la parola inglese angiovi, al singolare, angiovis al plurale. In italiano significa aggiuga. Nulla di strano se non il fatto che, non per coincidenza, in siciliano aggiughe si dice angiovi. E’ ovvio dedurre che il vocabolo sia stato preso in prestito dal siciliano, lingua parlata da molti emigranti italiani in America. Lo studio delle lingue è molto appassionante. Ad esempio, si riesce ad individuare il ceppo delle lingue indo-europee da alcuni vocaboli comuni a tutte queste lingue. La parola notte, ad esempio, è indizio di questa comune origine. Infatti in greco è niuchtos, night in inglese, nacht in tedesco, nuit in francese, noche in spagnolo. Ma più sorprendente nei miei studi, è stato scoprire che la parola inglese adobe è diretta discendente di una parola egiziana! Ma questa è un’altra discussione interamente e lascio il lettore con la curiosità. Insomma, fondamentalmente non siamo i primi a mischiare elementi della nostra propria cultura con quella di altri. E’ un fenomeno linguistico normale, con molti precedenti. Torniamo al Sermone di Gesù. Matteo 6:24 “Nessuno può servire due padroni; perché o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Voi non potete servire Dio e Mammona.” La parola Mammona viene dall’ebraico, ma la cosa strana in questo brano è che viene declinata secondo le regole della lingua greca come in italiano viene italianizzata dai traduttori.
5. Parole ebraiche nella nostra lingua Alcune parole provenienti dalla lingua ebraica, sono ormai parte del nostro vocabolario e le utilizziamo con naturalezza senza avere bisogno di tradurle. Questo in Chiesa e fuori dalla Chiesa. Sebbene è solo nell’uso religioso che questi vocaboli vengono onorati rispetto alla profondità di significato che intendo esprimere. Si pensi a quanto blasfemo sia l’uso della parola Alleluia al di fuori della lode a Dio: provo un fastidio fisico quando sento delle canzoni che la utilizzano con una leggerezza imperdonabile.
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AMEN E’ la più comune fra le parole provenienti dalla tradizione giudaica. La parola si trova nel nostro Nuovo Testamento più volte di quelle che vediamo nella traduzione in italiano. Infatti, spesso quello che in greco era stato mantenuto, per amore di chiarezza viene spesso tradotto con “in verità” o “in verità in verità”, quest’ultima espressione essendo tipica del vangelo di Giovanni. La prima volta che troviamo la parola nel Nuovo Testamento è in Matteo 6:13, nella preghiera chiamata “Padre nostro”. E’ oggi nostro uso chiudere tutte le nostre preghiere – e credo sia comune a tutta la cristianità – con la parola ebraica Amen. In questo caso la parola significa esattamente la traduzione che ne viene data molto spesso, e cioè “così sia”: esprime la certezza della fedeltà di Dio in risposta alla preghiera. L’ultima volta che la parola compare nel Nuovo Testamento è alla fine dell’Apocalisse. E’ la parola conclusiva delle nostre Bibbie: e non se ne poteva trovare una migliore. In questo senso viene utilizzata spesso (io lo faccio onestamente) come parola di assenso ad un discorso, a denotare che “è così”. ALLELUIA – in ebraico הללו Il Salmo 111:1 legge: “Alleluia. Io celebrerò il SIGNORE con tutto il cuore nel convegno dei giusti e nell'assemblea.” Apocalisse 19:1: “Dopo queste cose, udii nel cielo una gran voce come di una folla immensa, che diceva: "Alleluia! La salvezza, la gloria e la potenza appartengono al nostro Dio…” ABBA Marco 14:36 “Diceva: "Abbà, Padre! Ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice! Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi”. Romani 8:15 “E voi non avete ricevuto uno spirito di servitù per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito di adozione, mediante il quale gridiamo: "Abbà! Padre!” Galati 4:6 “E, perché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, che grida: "Abbà, Padre”. La parola Abba è di origine aramaica. E’ un’espressione familiare per rivolgersi al padre. Deve essere stata così comune e allo stesso tempo dal significato così peculiare, che gli autori del Nuovo Testamento hanno voluto mantenerla per tramandarla a tutti i credenti.
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MARAN ATHA Paolo utilizza questa parola in 1 Corinzi 16:22: “Se qualcuno non ama il Signore, sia anatema. Maran atha.” Questa parola doveva essere di uso così comune fra i cristiani delle origini che Paolo la utilizza, senza aggiungere alcuna spiegazione ad essa, certo che coloro che l’avrebbero letta erano al corrente del suo significato. La parola è aramaica e il suo significato lo troviamo espresso altrove nella Bibbia stessa: Apocalisse 22:20: “Colui che attesta queste cose, dice: "Sì, vengo presto!" Amen! Vieni, Signore Gesù!” Nel termine originale è sia racchiusa la fede nel prossimo ritorno di Gesù Cristo che la preghiera stessa della Chiesa. Tale ambivalenza non poteva tradursi interamente e, quindi, il termine deve essersi diffuso fra i credenti anche non di lingua ebraica. In sé poi l’aramaico originale significava: Il Signore è venuto Il Signore è presente Il Signore viene E’ entusiasmante vedere la stessa sostanza della nostra fede racchiusa all’interno di una parola sola! Credo dovremmo utilizzare questa parola con la stessa frequenza con cui ricordiamo il termine Alleluia. MESSIA Giovanni 1:41 “ Egli per primo trovò suo fratello Simone e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia" (che, tradotto, vuol dire Cristo)” Giovanni 4:25 “La donna gli disse: "Io so che il Messia (che è chiamato Cristo) deve venire; quando sarà venuto ci annunzierà ogni cosa”. Questo termine ebraico è così diffuse che non è mai tradotto. Significa unto, come ho già detto. La parola Messia nella nostra lingua ha dato origine all’aggettivo messianico, che non ha un parallelo nel corrispondente termine derivato dal greco in uso nella nostra lingua, cioè Cristo. Quest’ultima parola è ormai talmente associata al nome di Gesù, da esserne diventata completamento e sinonimo allo stesso tempo. Il termine d’origine ebraica Messia invece, non ha mai perso il profondo significato religioso che la caratterizza.
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Conclusione
Abbiamo perso il sostrato ebraico nel Nuovo Testamento? La risposta è decisamente: No. Al contrario, è vivo e vegeto; oggi come duemila anni fa. Era lì in evidenza quando veniva utilizzato il greco per scrivere le Scritture della nuova fede. E’ visibile ancora oggi nelle nostre traduzioni. E’ presente nel nostro linguaggio quotidiano e non solo religioso. Anziché scomparire, la cultura ebraica è predominante nella fede cristiana; nella dottrina e nella prassi. E’ lì quando diciamo Amen per assentire nelle nostre riunioni alla parola di un fratello o quando chiudiamo la nostra preghiera. E’ lì quando, durante l’adorazione, diciamo Alleluia. E’ lì anche quando definiamo Gesù “Re dei Re e Signore dei Signori” che altro non è se non la forma ebraica italianizzata per esprimere il superlativo assoluto. Il linguaggio biblico e la cultura ebraica hanno influenzato profondamente il cristianesimo, divenendo parte stessa della nostra identità religiosa. Senza la fede ebraica non vi sarebbe cristianesimo. Questo è quanto siamo in debito con la fede di Israele, alla quale dobbiamo guardare con profondo rispetto. Chi non lo fa, dimentica che Gesù per primo era un giudeo, osservante della Legge mosaica in maniera impeccabile. Egli era discendente di Davide. Fu circonciso come ogni ebreo. Si recava nelle sinagoghe, dove leggeva e spiegava le Scritture ebraiche: era infatti chiamato Rabbi. La sua vita non solo fu vissuta in base all’insegnamento della Tanakh, ma ne fu il perfetto adempimento. Rinnegare la fede ebraica significa rinnegare Cristo e noi stessi, seguaci di Gesù di Nazaret. A tutti gli effetti, possiamo dire che il cristianesimo è nato dall’ebraismo ed è un suo sviluppo, nato dalla “rivoluzione” di Gesù, nel quale i cristiani hanno riconosciuto il Messia atteso da Israele e promesso dalle Scritture ebraiche. Ho letto libri di studiosi che lamentano la scomparsa della lingua e cultura ebraica nel Nuovo Testamento e nella cristianità. Ho letto libri di studiosi che lamentano la scomparsa della lingua e cultura ebraica nel Nuovo Testamento e nella cristianità. Non potrei essere meno d’accordo. Nei primi secoli le sette gnostiche volevano disconoscere l’eredità giudaica della fede cristiana, facendo quasi del cristianesimo un erede del sofisticato sistema filosofico greco piuttosto che pensiero ebraico. I risultati furono disastrosi. Marcione, nel secondo secolo, cancellò dalle sue copie del Nuovo Testamento ogni traccia della cultura ebraica (come se si potesse!) mantenendo solo parte del vangelo di Luca e delle epistole di Paolo. Altri gnostici arrivavano a ritenere che fosse stato il diavolo a dare la Legge mosaica. La Chiesa rispose a questi tentativi riconoscendo nel proprio Dio, nel Dio di Gesù Cristo, il Dio nazionale di Israele che aveva ispirato l’Antico Testamento, patrimonio ormai della fede cristiana quanto di quella ebraica. Traducendo da una lingua ad un’altra spesso si incontrano dei punti dove è inevitabile che qualcosa vada perso. Ma è mia convinzione che il sostrato ebraico e la terminologia propria della fede veterotestamentaria era così forte da non scomparire semplicemente perché il Nuovo Testamento veniva scritto in un’altra lingua. Del resto, grazie all’uso molto diffuso della Settanta, la traduzione dell’Antico Testamento in quella lingua, la fede ebraica era già venuta a “scontrarsi” con la lingua ed il pensiero greco. Io sostengo al contrario di alcuni www.studibiblici.eu 111
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che l’ebraico ha così tanto asservito il greco (e anche le nostre traduzioni – specie quelle letterali) che: la lingua è si greca, ma la costruzione delle frasi è in alcuni punti palesemente ebraica; alcuni termini erano così preziosi in originale che sono stati conservati intatti nel Nuovo Testamento e sono giunti sino ai giorni nostri, a testimonianza della Chiesa non di liberarsi della sua originaria cultura ma di farla propria, riconoscendone il valore inestimabile. Alcune parole ebraiche hanno finito per influenzare la valenza del termine nelle nostre lingue per asservirlo al concetto originale biblico. Ad esempio, la parola profeta che traduce l’ebraico Nabi è stata quasi del tutto svuotata del suo significato laico di “colui che predice il futuro” a favore del significato ebraico di “colui che parla in nome di Dio.” La frase “profeta in patria” è poi comunissima in italiano ed è ovviamente una citazione delle parole di Gesù. In Italia gli evangelici siamo abituati a salutarci dicendoci “Pace”. Ma sebbene il vocabolo nella nostra lingua derivi dal latino, il nostro saluto non richiama di certo la “pax romana” quanto invece il meraviglioso significato dell’ebraico Shalom. Dobbiamo essere coscienti e fieri delle radici ebraiche della nostra fede Cristiana. Chiudendo questo mio piccolo studio non credo che sia fuori posto evidenziare come, detto quanto sopra, è impossibile per un cristiano che esso sia animato da sentimenti contro il popolo ebraico. L’antisemitismo non può riguardare un autentico cristiano. E’ come se un figlio odiasse i suoi stessi genitori, o forse, se stesso! Un tale sentimento di odio nei confronti del popolo Israeliano non è sostenuto in nessun punto del Nuovo Testamento. Paolo parla dei suoi sentimenti verso il suo popolo in Romani capitolo 11. I cristiani autentici non possono non pregare continuamente per il popolo di Dio, condannando senza riserve qualsiasi forma di odio o risentimento nei confronti del popolo di Israele, “perché i carismi e la vocazione di Dio sono irrevocabili.”, Romani 11:9. Shalom.
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APPENDICE III Gesù o ?ישוע Facendo ricerche in rete, soprattutto in lingua inglese, sono rimasto davvero colpito dal risalto che si da in questi giorni alla necessità di pronunciare esattamente i nomi biblici come si immagina venissero pronunciati nella lingua originale. E’ impossibile secondo me riuscire a districarsi all’interno dei vari movimenti che stanno nascendo – specie oltreoceano – con lo scopo di ripristinare la purezza della pronuncia autentica dei nomi sacri, il Nome di Esodo 3, su tutti, ma anche gli altri nomi di Dio dell’Antico Testamento e gli originali ebraici dei nomi anche dei personaggi del Nuovo Testamento, su tutti quello di Gesù. Devo concordare, proprio per l’amore che ho verso le lingue originali della Bibbia, che il tentativo di studiare la pronuncia originale di qualsiasi nome o termine biblico è un’attività spesso edificante e ci aiuta a comprendere ulteriormente il senso dell’originale biblico in vari punti. Allo stesso tempo, quando però la ricerca di un suono nel suo senso originale diviene mezzo di esaltazione mistica e la ricerca di una pronuncia diviene la ricerca di un potere quasi magico legato al suono originale delle parole, sconfiniamo in campi che hanno più l’eco di ricerche esoteriche o mistiche, piuttosto che ricerche tendenti ad una migliore conoscenza della Parola e delle Persona di Dio. Perché chiamiamo Gesù, Gesù? La prima volta che il nome del Signore si trova nell’originale del Nuovo Testamento è Matteo 1:18. Dice così quel brano della Bibbia in italiano: “La nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo … ” (Nuova Riveduta). L’italiano Gesù traduce il testo originale greco Ἰησοῦ, forma dativa di ᾿Ιησοῦς. A sua volta il testo greco rende così l’originale ebraico del nome del nostro Salvatore: ישוע. Il nome del Signore è un nome comune della tradizione ebraica. Non lo troviamo solo in questo punto della Bibbia. Esso corrisponde infatti al nome del personaggio comunemente conosciuto come Giosuè, il successore di Mosè che guidò Israele alla conquista della terra promessa. Vediamo un brano dell’Antico Testamento. Per facilitare il compito a chi non conosce le lingue originali scelgo Deuteronomio 34:9, dove leggiamo: “Giosuè, figlio di Nun, fu pieno dello Spirito di sapienza … ” (Nuova Riveduta). La parola ebraica tradotta qui Giosuè è יהושע, che possiamo traslitterare nel nostro alfabeto come Iehosciua. Di solito però, per vari motivi, grazie all’ampliamento del nostro alfabeto classico e alla fonetica della “sh” ormai ampiamente equiparata alla nostra “sc” italiana, questo nome viene di solito traslitterato Yehoshua. La prima traduzione in altra lingua dell’Antico Testamento fu in greco, la cosiddetta LXX o Septuaginta. In questa versione i traduttori, non avendo un corrispettivo del nome biblico in greco cui far riferimento, provarono a rappresentare il suono originale come meglio potevano. La LXX legge così in Deuteronomio 34:9 il nome del condottiero ebraico: www.studibiblici.eu 113
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ἰησοῦς. L’alfabeto greco non permetteva la riproduzione del suono ebraico. Aggiunge le vocali dove il testo ebraico aveva solo consonanti, ma abbandona il suono “sh” perché non trova un corrispettivo in greco e quindi non vi era modo di rappresentarlo. Tolsero inoltre la “a” finale, che, logicamente, sostituirono con la terminazione della parola maschile greca. In sostanza il greco non poteva non alterare i suoni tipici dell’ebraico, lingua semitica, a favore di una semplificazione che rendesse i vocaboli pronunciabili in lingua greca. Infatti, quando il nome ebraico venne semplificato, dopo l’esilio babilonese, nella forma ( ישׁועvedi il testo originale di Neemia 8:17), il greco non aveva modo di far percepire il semplice cambiamento consistente nell’omissione di “ho” e così Yehoshua diveniva Yeshua, senza che però il greco mutasse ed anche qui la LXX traduce il nome ἰησοῦς. In latino il termine greco divenne Iesus; abbiamo quindi un diverso alfabeto, ma una medesima pronuncia. Dal latino e dal greco viene l’italiano Iesu, forma originale del nome di Gesù nella nostra lingua, come ci testimonia la prima edizione della Diodati del 1641: “Hor la natiuità di Iesu Christo … ” Come vediamo non solo il modo di scrivere il nome “Gesù” era diverso. “Ora” veniva scritto “hor”, “Cristo” ha una consonante andata perduta nell’italiano moderno e si scriveva “Christo” e Gesù era “Iesu”, senza accento. La “s” di quel periodo, poi, come è visibile nelle riproduzioni dei libri dell’epoca, ricorda più la nostra odierna “f”, mentre la “v” è proprio uguale ad una odierna “u”. L’evoluzione della lingua italiana cambiò la stessa Diodati che nell’edizione del 1835, rivista alla luce della nuova ortografia della nostra lingua leggeva: “Or la natività di Gesù Cristo … ” Come è evidente, già nel 1835 l’ortografia era molto più simile a quella odierna. Nessuna origine strana per il nome italiano di Gesù, ma una semplice evoluzione linguistica del termine greco che altro non è se non la fedele traslitterazione del nome ebraico originale. Era prassi comune nell’antichità trasporre un nome da una lingua ad un'altra, come meglio si poteva. Nomi di re, nomi di luoghi, di personaggi in genere. Ciò per un ovvia logica legata alla familiarità con i suoni e la scrittura della propria lingua e l’estraneità del suono e della scrittura di un’altra lingua – nell’antichità non vi era un alfabeto standard con il quale si rappresentavano tutte le lingue, come generalmente accade oggi per le lingue occidentali, ma ogni lingua aveva una sua propria forma di scrittura. Non dobbiamo andare troppo lontano per vedere esempi di quanto dico. London è il nome originale, ma in italiano la stessa città è chiamata Londra. Parigi è in realtà Paris. Lo scopritore dell’America è per noi l’italianissimo Cristoforo Colombo, mentre da secoli gli americani festeggiano noncuranti il Columbus’ Day per ricordare la scoperta del nuovo continente. Nabucodonosor è il nome che ci arriva dalle cronache greche del re babilonese (così nella LXX: Ναβουχοδονοσορ) chiamato nella Bibbia נבוכדנאצר, traslitterato dalla Nuova Diodati Nebukadnetsar. Nell’inglese “The Cambridge Ancient History” ci viene ricordato che il nome originale di questo re è Nabu-kudurri-usur, che significa “Nabu proteggi la mia stirpe”. La traslitterazione della LXX è stata il più rispettosa possibile all’originale e questo è già un grande merito e certamente doveva essere in armonia con il modo in cui un greco riusciva a pronunciare il nome originale ebraico. Purtroppo il significato originali dei nomi www.studibiblici.eu 114
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ebraici si perdevano nella trasposizione in un’altra lingua. E’ per questo che leggiamo nel Vangelo di Matteo che l’angelo specificò a Giuseppe: “ella (Maria) partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché egli salverà il suo popolo dai loro peccati" (Matteo 1:21 La Nuova Diodati). Ecco qui che, in questo contesto, la ricerca del termine originale ha un senso, in quanto non è un semplice esercizio di pronuncia, bensì l’espressione del desiderio di approfondire cosa la Scrittura afferma in determinati punti. “Il nome Yeshua è la forma contratta di Yehoshua, a sua volta forma abbreviata di Yehovah Yoshiah, “il Signore salva”, Asher Intrater, Chi ha pranzato con Abrahamo?, pag. 165. La tendenza a mantenere i nomi originali di persone e luoghi è una caratteristica piuttosto recente, e si è affermata grazie agli scambi culturali ed alla maggiore duttilità ed apertura reciproca delle lingue indoeuropee del nostro tempo. Oggigiorno non è inusuale dar nomi stranieri ai propri figli, diciamo “ok” con maggiore frequenza ormai di quanto non diciamo “va bene”. Il nostro orecchio non è infastidito da suoni anglo-americani, grazie agli scambi culturali facilitati dai vari media, films, musica e tv. In questo senso, parlare alla gente di Yeshua come nome originale di Gesù, spiegare che è la stessa persona in due lingue diverse, spiegare il meraviglioso senso di quel nome, dell’amore di Dio concretizzatosi in Yeshua e nella sua morte sulla croce, può essere uno spunto importante di discussione ed un edificante approfondimento che prende spunto da significati propri delle lingue bibliche originali che in breve nessuna traduzione può rendere appieno. Nessun potere magico nella pronuncia originale del nome di Yeshua, nessuna distinzione fra due termini che in due lingue diverse, Yeshua e Gesù, indicano comunque lo stesso individuo. Gli ebrei pronunciavano perfettamente il nome del Signore Gesù, ma non capivano chi egli realmente fosse. Noi stranieri, non ebrei, magari non riusciremo ad articolare il suono originale del nome di Yeshua; magari ci limitiamo semplicemente alla sua versione italiana; ma non sarà di certo a causa delle nostre deficienze linguistiche che non potremo onorare l’individuo che designa tale nome, visto che riconosciamo in lui l’amore di Dio fatto uomo, il nostro Salvatore ed il giudice che tornerà presto per giudicare “i vivi e i morti”. C’è un ultimo dettaglio che, in questo contesto è utile non tralasciare, affinché il lettore attento del Nuovo Testamento non rimanga con questo dubbio. In Atti 7:45 leggiamo: “I nostri padri, guidati da Giosuè … “ (NR). In Ebrei 4:8: “Infatti, se Giosuè avesse dato loro il riposo, Dio non parlerebbe ancora d'un altro giorno.”. In entrambi questi casi il testo greco originale ha ᾿Ιησοῦς. Ma il traduttore comprende bene che nei due casi che ho appena richiamato all’attenzione del lettore, non è del nostro Salvatore che parla il testo biblico, bensì di Giosuè, il condottiero veterotestamentario. Utilizzando la potenzialità della nostra lingua, che nel suo evolversi ha finito per distinguere fra i nomi di Gesù e di Giosuè, le versioni italiane riescono a poter distinguere fra le due figure aiutando la comprensione del testo anche per il lettore occasionale del Nuovo Testamento.
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