Wladyslaw Szpilman. Il pianista.
Varsavia 1939-1945. La straordinaria storia di un sopravvissuto. Baldini&Castoldi. http://baldini.editore.it e-mail: infobaldini.editore.it Traduzione dall'inglese di Lidia Lax. Titolo originale «The Pianist». 1988 Wladyslaw Szpilman 1999, 2002 Baldini&Castoldi S. p. A. Milano ISBN 88 8490 245 2
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********** Il 23 settembre 1939 Wladyslaw Szpilman, un giovane pianista di Varsavia, suonò il Notturno in C diesis minore di Chopin per la radio locale, mentre le bombe tedesche cadevano sulla città. Il rumore era er a così forte da impedirgli di udire il suono del suo stesso pianoforte. Fu l'ultima trasmissione dal vivo in onda da Varsavia. Più tardi, quello stesso giorno, un ordigno tedesco distrusse la centrale elettrica e la stazione radio polacca fu ridotta al silenzio. La guerra precipitò Varsavia nell'orrore feroce dell'occupazione. Rinchiusi nel ghetto e assediati dalla fame e dalle malattie, gli ebrei furono a poco a poco decimati. Agghiacciato testimone degli eventi che porteranno alla rivolta e all'evacuazione della città, Szpilman vide morire molti dei suoi amici e la sua intera famiglia, riuscendo miracolosamente a
sopravvivere tra le rovine della sua amata Varsavia. Il pianista è allo stesso tempo la storia straordinaria della tenacia di un uomo di fronte alla morte e un documento della misteriosa, possibile «umanità» degli esseri umani: la vita di Szpilman fu salvata da un ufficiale tedesco che lo udì suonare quello stesso Notturno di Chopin su un pianoforte trovato fra le macerie. Subito dopo la guerra, Szpilman scrisse queste memorie vivide e terribili. Le autorità comuniste polacche, per calcolo politico, le censurarono, bloccandone la circolazione. Oggi, a distanza di oltre cinquant'anni, esse vengono ripubblicate e rese per la prima volta accessibili al pubblico internazionale. A corredo del tenerissimo e implacabile testo originale, nell'edizione attuale de Il pianista, lettori e lettrici troveranno un altro documento che non ha bisogno di commenti: alcuni frammenti dell'accorato diario di guerra di Wilm Hosenfeld, l'ufficiale tedesco che salvò la vita a Szpilman, pagando questa sua temeraria umanità con la prigionia in un campo russo rus so e con la morte. Ritrovato alcuni anni fa dai suoi eredi, questo diario è un'accuse irrevocabile e insieme struggente. Il pianista è un testo splendido e fortissimo, da leggere e far leggere, per non dimenticare e non ripetere le brutture che passano sotto il nome di Storia. Prezioso come Il diario di Anna Frank o le memorie per immagini di Charlotte Salomon, Il pianista si candida a essere il libro più necessario del secolo scorso. Da questo libro è stato tratto l'omonimo film, diretto da Roman Polanski, vincitore della Palma d'Oro al 55° Festival di Cannes. Wladyslaw Szpilman, nato a Varsavia nel 1911, ha studiato pianoforte presso il Conservatorio della sua città e presso l'Accademia delle Arti di Berlino. Dal 1945 al 1963 è stato direttore dei programmi musicali alla Radio polacca, senza però mai interrompere la sua attività di pianista concertista e di compositore. E' morto nel 2001.
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Prefazione.
sopravvivere tra le rovine della sua amata Varsavia. Il pianista è allo stesso tempo la storia straordinaria della tenacia di un uomo di fronte alla morte e un documento della misteriosa, possibile «umanità» degli esseri umani: la vita di Szpilman fu salvata da un ufficiale tedesco che lo udì suonare quello stesso Notturno di Chopin su un pianoforte trovato fra le macerie. Subito dopo la guerra, Szpilman scrisse queste memorie vivide e terribili. Le autorità comuniste polacche, per calcolo politico, le censurarono, bloccandone la circolazione. Oggi, a distanza di oltre cinquant'anni, esse vengono ripubblicate e rese per la prima volta accessibili al pubblico internazionale. A corredo del tenerissimo e implacabile testo originale, nell'edizione attuale de Il pianista, lettori e lettrici troveranno un altro documento che non ha bisogno di commenti: alcuni frammenti dell'accorato diario di guerra di Wilm Hosenfeld, l'ufficiale tedesco che salvò la vita a Szpilman, pagando questa sua temeraria umanità con la prigionia in un campo russo rus so e con la morte. Ritrovato alcuni anni fa dai suoi eredi, questo diario è un'accuse irrevocabile e insieme struggente. Il pianista è un testo splendido e fortissimo, da leggere e far leggere, per non dimenticare e non ripetere le brutture che passano sotto il nome di Storia. Prezioso come Il diario di Anna Frank o le memorie per immagini di Charlotte Salomon, Il pianista si candida a essere il libro più necessario del secolo scorso. Da questo libro è stato tratto l'omonimo film, diretto da Roman Polanski, vincitore della Palma d'Oro al 55° Festival di Cannes. Wladyslaw Szpilman, nato a Varsavia nel 1911, ha studiato pianoforte presso il Conservatorio della sua città e presso l'Accademia delle Arti di Berlino. Dal 1945 al 1963 è stato direttore dei programmi musicali alla Radio polacca, senza però mai interrompere la sua attività di pianista concertista e di compositore. E' morto nel 2001.
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Prefazione.
Anche se fino a qualche anno fa mio padre non aveva mai parlato delle sue esperienze di guerra, esse mi avevano però accompagnato sin dall'infanzia. Proprio questo libro che io dodicenne tirai fuori furtivamente da un angolo dei nostri scaffali mi permise per mise di scoprire perché non avevo nonni paterni e perché mio padre non parlava mai della sua famiglia. Il libro mi rivelò quella parte della mia identità che ignoravo. Sapevo che lui sapeva che lo avevo letto, ma non ne facemmo mai cenno tra noi. Forse proprio per questo non mi passò mai per la mente che ciò che aveva scritto potesse avere un qualche significato per altre persone. E' quanto mi fece rilevare il mio amico, Wolf Biermann, quando gli raccontai la storia di mio padre. Ho vissuto in Germania per molti anni e la consapevolezza della dolorosa incomunicabilità esistente tra ebrei e tedeschi e polacchi mi è sempre stata presente. Mi auguro che questo libro contribuisca a rimarginare alcune delle ferite ancora aperte. Mio padre Wladyslaw Szpilman non è scrittore. Professionalmente è quello che in Polonia viene definito «un uomo in cui la musica vive»; un pianista e un compositore; da sempre se mpre una figura carismatica, un punto di riferimento significativo nella vita culturale polacca. Dopo aver completato gli studi di pianoforte con Arthur Wladyslaw Szpilman Schnabel alla Accademia berlinese b erlinese delle arti e quelli di composizione con Franz Schrecker, nel 1933, quando Hitler salì al potere, tornò a Varsavia dove lavorò come pianista alla Radio polacca. Nel 1939 aveva già composto le colonne sonore di diversi film, oltre a numerosi lieder, chansons e motivi all'epoca molto popolari. Prima dello scoppio della guerra aveva suonato con Bronislar Gimpel, violinista di fama internazionale, con Henryk Schoering e con altri noti musicisti. Dopo il 1945 riprese a lavorare per la Radio polacca. Ricominciò a dare concerti in pubblico, come solista e con complessi da camera. Ha scritto alcune composizioni sinfoniche e circa trecento canzoni popolari, molte delle quali divenute grandi successi. Ha composto anche musica per bambini, accompagnamenti musicali per commedie radiofoniche, e ancora altre colonne sonore. E' stato responsabile del settore musicale della Radio polacca fino al 1963, allorché rinunciò a questo incarico per dedicarsi con maggiore impegno a tournée concertistiche e al Quintetto pianistico di Varsavia che egli stesso ha costituito insieme con Gimpel. Dopo più di duemila concerti e recital in tutto il mondo, nel 1986 si è ritirato dalla carriera concertistica per
dedicarsi interamente alla composizione. E' un mio personale rammarico che le sue composizioni siano ancora quasi sconosciute nel mondo occidentale; ritengo che ciò sia dovuto alla divisione in due mondi culturalmente e politicamente contrapposti, cui l'Europa fu assoggettata dopo la Seconda guerra mondiale. In tutto il mondo, la musica leggera e di intrattenimento ha un pubblico ben più vasto della musica classica. E la Polonia non fa eccezione. La sua gente è cresciuta con le canzoni di mio padre perché lui, nel corso di diversi decenni, ha dato forma al mondo della musica popolare polacca: ma la frontiera occidentale polacca ha costituito una barriera per questo genere di musica. Mio padre scrisse la prima versione di questo libro nel 1945, e sospetto l'abbia fatto più per se stesso che per l'umanità in genere. Scriverlo gli permise di rielaborare entro di sé le sconvolgenti esperienze della guerra, liberando l'animo e i sentimenti così da consentirgli di continuare a vivere. Il libro non fu mai ristampato benché, nel corso degli anni Sessanta, alcune case editrici polacche abbiano tentato di renderlo accessibile alle generazioni nuove. Quei tentativi furono contrastati: non ne fu data mai alcuna spiegazione, ma il motivo era ovvio! Le autorità governative avevano i loro buoni motivi. Ora, a più di cinquanta anni dalla sua prima edizione, il libro è stato pubblicato. Forse una lezione utile per molte brave persone in Polonia, una lezione che potrebbe indurle a farlo ripubblicare nel loro Paese. Andrzej Szpilman
CAPITOLO I. L'ora dei ragazzini e dei matti. Ho iniziato la mia carriera di pianista durante la guerra, al Café Nowoczesna, che si trovava in via Nowolipki, proprio nel cuore del ghetto di Varsavia. Quando nel novembre del 1940 i cancelli del ghetto vennero chiusi, la mia famiglia ormai da molto tempo aveva venduto tutto quello che si poteva vendere, persino quello che noi consideravamo il nostro bene più prezioso: il pianoforte. La vita, alla quale quei tempi avevano tolto ogni valore, mi costrinse tuttavia a vincere la mia apatia e a cercare un modo per guadagnarmi da vivere. Grazie al cielo ne trovai uno. Il lavoro mi lasciava poco tempo per rimuginare e la consapevolezza che tutta la mia famiglia dipendeva
da ciò che io riuscivo a racimolare per sopravvivere, mi aiutò gradatamente a superare il mio stato di disperazione e di scoramento. La mia giornata lavorativa iniziava nel pomeriggio. Per raggiungere il caffè ero costretto a farmi strada attraverso un labirinto di viuzze che portavano nel cuore del ghetto o, in alternativa, se avevo voglia di osservare le febbrili attività dei contrabbandieri, potevo invece rasentare il muro. Il pomeriggio era il tempo più favorevole al contrabbando. La polizia, stremata dopo una mattinata trascorsa a riempirsi le tasche, in quel momento abbassava la guardia, occupata com'era a fare i conti di quanto aveva incassato. Figure irrequiete apparivano alle finestre e negli ingressi dei caseggiati che si susseguivano lungo il muro, quindi si nascondevano di nuovo in impaziente attesa del cigolio di un carro o dello sferragliare di un tram che si avvicinava. A intervalli, il fracasso dall'altra parte del muro si faceva più forte e, non appena un carro trainato da cavalli superava rapido il punto stabilito, s'udiva un fischio e sacchi e involti volavano oltre il muro. Le persone in attesa si precipitavano fuori dei portoni, afferravano svelte il bottino, scomparivano di nuovo all'interno, e un silenzio ingannevole, carico di aspettative, di nervosismo e di bisbigli misteriosi, calava di nuovo sulla strada per minuti che sembravano eterni. I giorni in cui la polizia s'impegnava con maggior energia nel proprio lavoro quotidiano, si poteva udire l'eco di spari insieme con il rumore delle ruote dei carri e, al posto dei sacchi, granate a mano volavano al di sopra del muro, esplodendo con detonazioni così violente da far sgretolare l'intonaco dalle pareti degli edifici. I muri del ghetto non si estendevano per tutta la lunghezza della strada. In alcuni punti c'erano lunghe aperture a livello del terreno, attraverso le quali l'acqua fluiva dai tratti ariani della via finendo nei canali di scolo, accanto ai marciapiedi ebraici. Di questi varchi i ragazzini si servivano per la loro attività di contrabbando. Si potevano vedere figurette scure che vi si dirigevano rapide provenienti da ogni dove, su gambette sottili come stecchini, gli occhi impauriti che scrutavano furtivamente a destra e a sinistra. Poi, piccole mani come nere zampette trasferivano la mercanzia attraverso le aperture: mercanzia spesso più grande dei contrabbandieri stessi. Quando le merci contrabbandate erano dalla loro parte, i ragazzini se le caricavano sulle spalle. Curvi e barcollanti sotto il peso, le vene bluastre affioranti alle tempie per lo sforzo, le bocche spalancate in doloroso ansito alla ricerca d'aria,
sgambettando veloci per disperdersi in tutte le direzioni, simili a piccoli sorci impauriti. Il loro lavoro comportava gli stessi rischi e gli stessi pericoli mortali di quello dei contrabbandieri adulti. Un giorno, mentre costeggiavo il muro, mi capitò di assistere a una di queste fanciullesche operazioni di contrabbando che sembrava sul punto di concludersi in modo positivo. Al ragazzino ebreo dalla parte opposta del muro, mancava solo di seguire la sua mercanzia attraverso l'apertura. La sua figuretta, tutta pelle e ossa, era già parzialmente visibile quando lui, a un tratto, prese a gridare. Al tempo stesso udii lo sbraitare rauco di un tedesco dall'altra parte del muro. Mi precipitai in soccorso del ragazzino per aiutarlo a sgusciare fuori dalla strettoia il più in fretta possibile ma, nonostante tutti i nostri sforzi, si bloccò incastrandosi con i fianchi nel canale di scolo. Lo presi per i braccini tirandolo con tutte le forze che avevo in corpo, mentre le sue grida diventavano via via più disperate. Udivo i pesanti colpi infetti dal poliziotto dall'altro lato del muro. Quando finalmente riuscii a liberare il piccolo, mi resi conto che ormai era morto. La spina dorsale era stata spezzata. Di fatto il ghetto non basava la propria sopravvivenza solo sul contrabbando. La maggior parte dei sacchi e dei pacchi lanciati al di sopra del muro contenevano doni dei polacchi per gli ebrei più poveri. L'effettiva e regolare attività di contrabbando era gestita da personaggi importanti come Kon e Heller. Era un'operazione più semplice e del tutto priva di rischi. Corrotti agenti di polizia chiudevano un occhio a un'ora prestabilita e, subito, intere colonne di carretti passavano attraverso il cancello del ghetto sotto il loro naso e il loro tacito assenso. Trasportavano cibo, alcolici costosi, ghiottonerie raffinate, sigarette arrivate direttamente dalla Grecia, articoli diversi e cosmetici prodotti in Francia. Al Nowoczesna ogni giorno avevo la possibilità di osservare il passaggio di questa merce di contrabbando. Il caffè era frequentato dai ricchi che vi si recavano carichi di gioielli d'oro e di brillanti. Allo schiocco dei tappi dello champagne, prostitute truccate vistosamente offrivano i loro servizi ai borsaneristi seduti a tavoli riccamente imbanditi. Fu lì che io persi due illusioni: la mia fiducia nella solidarietà umana e nell'amore degli ebrei per la musica. Ai mendicanti non era permesso di star fuori del Nowoczesna; robusti guardiaportoni li cacciavano con i manganelli. Carrozzelle come risciò spesso venivano da lontano e gli uomini e le donne che vi sedevano indossavano costosi indumenti di lana in inverno, cappelli di paglia e vesti di seta
francese in estate. Prima di arrivare nella zona protetta dai manganelli dei guardiaportoni loro stessi, i volti contratti dall'ira, tenevano lontano la folla con bastoni che brandivano menando colpi contro la gente sbigottita. Non davano elemosine. Secondo loro, la carità infiacchiva le persone. Bastava che uno lavorasse duramente quanto loro per riuscire a guadagnare altrettanto. Chiunque aveva la possibilità di farlo, e se qualcuno non era capace di cavarsela da solo, peggio per lui. Quando si mettevano a sedere ai tavolini dello spazioso caffè, che frequentavano unicamente per motivi di lavoro, cominciavano a lamentarsi della durezza dei tempi e della mancanza di solidarietà degli ebrei americani. Che cosa si credevano di fare quelli là? Qui la gente stava morendo, non aveva nulla da metter sotto i denti. In Polonia stavano accadendo le cose più spaventose, ma la stampa americana non ne parlava e i banchieri ebrei dall'altra parte dell'oceano non facevano niente affinchè l'America dichiarasse guerra alla Germania, pur essendo nella condizione di caldeggiare l'intervento. Al Nowoczesna nessuno badava alla mia musica. Più forte suonavo più gli avventori occupati a bere e a mangiare alzavano il tono della voce e ogni giorno tra me e il mio pubblico si ingaggiava una gara per vedere chi riuscisse a sopraffare l'altro. Una volta un cliente mi fece perfino chiedere da un cameriere che smettessi di suonare per qualche minuto, perché la musica gli impediva di assicurarsi dell'autenticità dei venti dollari d'oro appena acquistati da un compare. Subito dopo buttò delicatamente le monete sul ripiano di marmo del tavolino, le prese tra i polpastrelli, le avvicinò all'orecchio e ne ascoltò attentamente il suono: l'unica musica per la quale mostrasse interesse. Non lavorai ancora per molto in quel locale. Grazie a Dio, trovai un altro lavoro in un caffè tutt'affatto diverso in via Sienna, dove l'intellighenzia ebraica veniva a sentirmi suonare. Fu lì che cominciai a farmi conoscere e che strinsi legami di amicizia con persone con le quali in seguito avrei trascorso ore piacevoli, ma anche alcuni momenti di paura. Tra gli habitués del locale, il pittore Roman Kramsztyk, un artista di grande talento, amico di Arthur Rubinstein e di Karol Szymanowski. In quel periodo stava lavorando a un magnifico ciclo di disegni raffiguranti la vita all'interno delle mura del ghetto. Non sapeva che sarebbe stato ucciso e che gran parte dei suoi disegni sarebbe andata perduta. Un altro frequentatore del locale era una delle persone più straordinarie che io abbia mai conosciuto. Letterato, Janusz Korczak, conosceva quasi
tutti gli artisti di punta del movimento «Giovane Polonia.» Ne parlava in modo affascinante, riferendone con parole insieme schiette e avvincenti. Non era considerato uno scrittore proprio di primo piano, forse perché le sue attestazioni nel campo letterario erano di un genere molto particolare. Scriveva racconti per bambini e che parlavano di bambini, rimarchevoli per la loro grande comprensione dell'animo infantile. Non erano frutto della sua ambizione artistica, ma direttamente ispirati dal cuore di un attivista e pedagogo nato. Il vero valore di quell'uomo non stava tanto in ciò che scriveva, quanto nel fatto che viveva come scriveva. Anni prima, all'inizio della carriera, aveva dedicato ogni minuto del proprio tempo libero e ogni zloti di cui disponeva alla causa dei bambini, e a quella rimase fedele sino alla morte. Aveva fondato orfanotrofi, organizzato ogni genere di raccolta per i bambini poveri, e tenuto conversazioni alla radio, guadagnandosi vasta popolarità (e non solo tra i bambini) come il «Vecchio dottore.» Quando i cancelli del ghetto si chiusero egli li varcò, anche se avrebbe potuto salvarsi, e continuò la propria missione all'interno di quelle mura, diventando il padre adottivo di una dozzina di bambini ebrei orfani, gli orfani più poveri e più miseri del mondo. Quando gli parlavamo al caffè di via Sienna non sapevamo in che modo nobile e con quale passione vibrante si sarebbe conclusa la sua vita. Dopo quattro mesi mi trasferii in un altro locale, lo Sztuka (Art) in via Leszno. Era il caffè più grande del ghetto e aveva velleità artistiche. Esecuzioni musicali vi si svolgevano nella sala dei concerti. Vi cantava anche Maria Eisenstadt, il cui nome sarebbe potuto diventare famoso per milioni di persone grazie alla sua meravigliosa voce, se i tedeschi non l'avessero assassinata. Io mi esibivo al pianoforte in coppia con Andrzej Goldfeder e ottenni un grande successo con la mia parafrasi del Valzer di Casanova di Ludomir Ròzycky, su parole di Wladyslaw Szlengel. Il poeta Szlengel faceva tutti i giorni la sua comparsa in compagnia di Leonid Fokczariski, del cantante Andrzey Wlast, del popolare attore «Wacùs, l'amante dell'Arte» e di Fola Brannòwna nello spettacolo Giornale dal Vivo, una briosa cronaca della vita nel ghetto, piena di allusioni penetranti e azzardate sui tedeschi. Oltre alla sala da concerto c'era il bar dove chi più che l'arte amava mangiare e bere poteva gustare vini eccellenti e cotelettes de volatile oppure boeuf Stroganoff cucinati magistralmente. Sia la sala da concerto sia il bar erano quasi sempre pieni, sicché in quel periodo guadagnavo piuttosto bene e riuscivo così a soddisfare, pur con qualche difficoltà, i bisogni
della nostra famiglia composta da sei persone. Mi sarebbe davvero piaciuto moltissimo continuare a suonare allo Sztuka perché lì avevo trovato una gran quantità di amici con i quali parlavo tra un pezzo e l'altro, se non fosse stato per il timore che provavo all'idea del rientro a casa la sera. Me ne preoccupavo durante l'intero pomeriggio. Tale fu l'inverno del 1941-1942, un inverno durissimo nel ghetto. Un mare di infelicità ebraica fluttuava attorno alle isolette di relativa prosperità rappresentata dall'intellighenzia ebraica e dalla vita lussuosa dei borsaneristi. I poveri erano già duramente debilitati dalla fame e non avevano alcun modo di proteggersi dal freddo, per l'assoluta impossibilità di procurarsi il combustibile. Erano anche infestati dai parassiti. Il ghetto brulicava di parassiti contro i quali non c'era nulla da fare. Gli indumenti di chi per strada ti passava vicino erano infestati dai pidocchi e così pure i tram e i negozi. Pidocchi formicolavano sui marciapiedi, su per le scale e cadevan giù dai soffitti degli uffici pubblici nei quali toccava recarsi per le più svariate esigenze. Pidocchi si insinuavano tra i fogli piegati del giornale, tra gli spiccioli che si tenevano in tasca, e ve ne erano perfino sulla crosta del pane appena acquistato. E ognuno di quei minuscoli parassiti poteva causare il tifo. E, infatti, nel ghetto scoppiò un'epidemia. Ogni mese il tasso di mortalità toccava le cinquemila persone. L'argomento principale di conversazione sia dei ricchi sia dei poveri era il tifo. I poveri si limitavano a chiedersi quando il tifo li avrebbe uccisi, mentre i ricchi cercavano il modo di riuscire a procurarsi il vaccino del dottor Weigel e così proteggersi. Costui, un eminente batteriologo, era diventato il personaggio più popolare in Polonia dopo Hitler. Il bene opposto al male, veniva da pensare. Si diceva che i tedeschi lo avessero arrestato a Leopoli, ma che grazie a Dio non l'avessero ucciso, e che addirittura quasi gli volessero conferire la cittadinanza onoraria tedesca. Si diceva anche che gli avessero offerto un ottimo laboratorio, un'ottima villa e un'automobile altrettanto ottima, dopo averlo messo sotto l'ottima tutela della Gestapo per assicurarsi che non preferisse fuggire, anziché continuare a produrre la maggior quantità possibile di vaccino a beneficio dell'esercito tedesco infestato dai pidocchi sul fronte orientale. Naturalmente, la storia proseguiva raccontando che il dottor Weigel aveva rifiutato tanto la villa quanto l'automobile. Non so come stessero veramente le cose in proposito. So soltanto che era vivo, grazie a Dio e che, dopo aver rivelato ai tedeschi la formula del suo
vaccino perdendo così la propria indispensabilità, per chissà qual miracolo non era stato alla fine consegnato a quell'ottima più di ogni altra conclusione che era la camera a gas. In ogni caso, grazie alla sua scoperta e alla venalità dei tedeschi, molti ebrei di Varsavia scamparono alla morte per tifo, pur se successivamente destinati a perire per altro tipo di morte. Io non mi ero fatto vaccinare. Non mi sarei potuto permettere più di una sola dose di siero che sarebbe bastata solo per me e non per il resto della mia famiglia e quindi avevo rinunciato. Nel ghetto il numero dei morti per tifo era così alto da costituire un problema riuscire a seppellirli tenendo il passo con l'indice di mortalità. D'altra parte, poiché i cadaveri non potevano essere abbandonati nell'interno delle case, fu trovata una soluzione provvisoria: i morti venivano spogliati dei loro indumenti, troppo preziosi ai vivi per lasciarglieli addosso, e quindi messi fuori sui marciapiedi, avvolti nella carta. Spesso rimanevano lì per giorni fino a quando i veicoli mandati dallo Judenrat venivano a prelevarli per portarli via e seppellirli nelle fosse comuni scavate nel cimitero. Erano i cadaveri non solo dei morti di tifo ma anche di quelli morti di fame, il motivo per cui mi riusciva terribile il rientro serale dal caffè. Io ero tra gli ultimi a lasciare il locale, con il direttore, dopo che, chiusi i conti della giornata, avevo ricevuto la mia paga. Le strade erano buie e quasi deserte. Accendevo la torcia elettrica e guardavo se vi fossero cadaveri in modo da non inciamparvi. Il gelido vento di gennaio mi soffiava in faccia oppure mi sferzava le spalle, facendo frusciare la carta in cui erano avvolti i morti e sollevandola così da mettere a nudo tibie rinsecchite, ventri infossati, volti con i denti scoperti e gli occhi sbarrati sul nulla. A quei tempi non avevo tanta familiarità con i morti co me ne avrei avuta in seguito. M'affrettavo per le strade, in preda alla paura e al disgusto. Volevo arrivare a casa al più Presto. Mia madre soleva aspettarmi con una ciotola piena di cibo e un paio di pinze. Lei si preoccupava come meglio poteva della salute della famiglia durante quella pericolosa epidemia e non ci permetteva di attraversare l'atrio e di entrare in casa fino a quando non ci aveva coscienziosamente tolto i pidocchi da cappelli, cappotti e vestiti, prendendoli con le pinze e facendoli affogare nell'alcol. In primavera, quando il mio legame di amicizia con Roman Kramsztyk si era fatto più stretto, spesso dal caffè non andavo direttamente a casa, ma da lui, che abitava in un appartamento in via Elektoralna, dove ci ritrovavamo e chiacchieravamo fina a tarda notte.
Kramsztyk era un uomo molto fortunato: aveva una minuscola stanza dal soffitto inclinato, all'ultimo piano di un caseggiato. Una stanza tutta per sé. Lì, aveva raccolto tutti i suoi tesori sfuggiti al saccheggio dei tedeschi: un grande divano ricoperto da un kelim, due vecchie sedie di valore, un delizioso piccolo cassettone rinascimentale, un tappeto persiano, alcune vecchie armi, qualche dipinto, e ogni sorta di piccoli oggetti che nel corso degli anni aveva trovato in diverse parti d'Europa, ciascuno dei quali costituiva un piccolo capolavoro per se stesso e una festa per gli occhi. Era bello stare seduti in quella stanzetta, nella luce gialla soffusa della lampada riparata da un paralume fatto dallo stesso Roman, a bere caffè nero e a chiacchierare allegramente. Prima che facesse buio uscivamo sul balcone a prendere un po' d'aria, perché lassù era più pura che non nelle strade polverose e soffocanti. Si avvicinava l'ora del coprifuoco, la gente era rientrata e aveva chiuso le porte. Il sole primaverile, calando man mano, diffondeva una luminosità rosata sui tetti di zinco, stormi di piccioni bianchi solcavano il cielo azzurro e il profumo dei lillà saliva al di sopra delle mura, dal vicino Ogròd Saski (Giardino sassone) per arrivare sino a noi, quaggiù nel quartiere dei dannati. Quella era l'ora dei ragazzini e dei matti. Roman e io guardavamo giù lungo via Elektoralna alla ricerca della «Signora con le piume» come noi chiamavamo la «nostra» pazza. Aveva un aspetto strano. Le guance imbellettate di un rosa molto acceso, e le sopracciglia dello spessore di un centimetro, erano disegnate da una tempia all'altra con una matita di kajal. Sopra il lacero vestito nero portava una vecchia tenda di velluto verde con frange, e dal cappello di paglia spuntava gigantesca una piuma viola di struzzo che svettava dritta nell'aria, ondeggiando piano al ritmo dei suoi passi rapidi e malfermi. Mentre camminava continuava a fermare i passanti, chiedendo con un sorriso educato notizie del marito, ucciso davanti ai suoi occhi dai tedeschi. «Scusatemi per caso avete visto Izaac Szerman? Un uomo alto e bello con una barbetta grigia?» Poi guardava attenta il volto della persona interpellata e, ricevuta una risposta negativa, esclamava, delusa: «No?» Per un attimo il volto le si distorceva nella pena; subito dopo, però, si addolciva in un sorriso cortese ma forzato. «Oh, vi prego di perdonarmi!» diceva allora e riprendeva a camminare scuotendo la testa, in parte dispiaciuta per aver fatto perdere del tempo a qualcuno, in parte stupita perché quel qualcuno non aveva conosciuto suo marito Izaac, un uomo così bello e delizioso. Era più o meno a quell'ora del giorno che anche l'uomo che si
chiamava Rubinstein percorreva via Elektoralna, lacero e scarmigliato, le vesti svolazzanti in tutte le direzioni. Brandiva un bastone, saltellava e zoppicava, canticchiava e mormorava tra sé e sé. Era molto popolare nel ghetto. Preannunziava il proprio arrivo facendosi regolarmente precedere dall'immancabile grido: «Animo, animo, ragazzo mio!» Si occupava di tenere alto il morale della gente del ghetto facendola ridere. Le sue battute e le sue osservazioni buffe circolavano per tutto il ghetto diffondendo allegria. Una delle sue specialità era quella di avvicinare le sentinelle tedesche saltellando attorno a loro, con smorfie e invettive: «Canaglie, banditi, ladroni!» e ogni sorta di pesanti contumelie. I tedeschi si divertivano un mondo e spesso gli lanciavano sigarette o qualche monetina in cambio dei suoi insulti. Dopo tutto non si poteva prendere sul serio un pazzo del genere. Sul fatto che fosse pazzo non ero così sicuro come lo erano i tedeschi e a tutt'oggi non so se Rubinstein fosse davvero uno dei tanti usciti di senno a causa dei tormenti subiti o se fingesse semplicemente di esserlo per sfuggire alla morte. Alla quale tuttavia non scampò. I pazzi non tenevano conto del coprifuoco, per loro non significava nulla e lo stesso era per i bambini. O meglio, per quegli spettrali bambini che sbucavano dagli scantinati, dai vicoli, dagli anditi dove dormivano, mossi dalla speranza di riuscire ancora a ispirare pietà nei cuori degli esseri umani in quell'ora estrema del giorno. Stavano in piedi accanto ai lampioni, vicino ai muri delle case e in strada. Il capo sollevato, gemevano ripetendo monotoni il loro lamento di fame. I più dotati per la musica cantavano. Con voci flebili e sottili cantavano la ballata del giovane soldato ferito, abbandonato da tutti sul campo di battaglia, e che grida «Mamma» nel momento della morte. Ma la madre non c'è, è lontana, ignara che suo figlio sta morendo. Così solo la nuda terra culla il poveretto con il fruscio degli alberi e dell'erba accompagnandolo nell'eterno riposo. «Dormi bene, figlio mio, dormi bene, mio caro.» Un germoglio cade da un albero e finisce sul suo petto inanimato, ed è la sua medaglia al valore. Altri bambini tentavano di appellarsi al buon cuore della gente supplicando: «Abbiamo tanta, tanta fame. Non mangiamo da un'eternità. Dateci un pezzetto di pane o, se non avete pane, almeno una patata o una cipolla che ci permetta di sopravvivere fino a domattina.» Difficile però che qualcuno avesse quella cipolla e, se l'avesse avuta, non gli sarebbe bastato l'animo per privarsene. La guerra aveva trasformato il
suo cuore in pietra.
CAPITOLO II. GUERRA. Alla vigilia oramai del 31 agosto 1939, tutti a Varsavia già da tempo davano per certa l'inevitabilità della guerra con i tedeschi. Solo gli ottimisti irriducibili continuavano a nutrire l'illusione che la ferma presa di posizione della Polonia avrebbe trattenuto Hitler all'ultimo momento. L'ottimismo degli altri si manifestava, forse in modo inconscio, come opportunismo: era la convinzione intrinseca, a dispetto di ogni logica che, pur essendo la guerra destinata a scoppiare, - questo era stato deciso già da tempo-, l'inizio effettivo delle ostilità avrebbe subito un ritardo, sicché la gente avrebbe avuto modo di vivere una vita piena ancora per un po'. Dopotutto, era bello vivere. Fu imposto un rigoroso oscuramento notturno in tutta la città. Le persone sigillavano i locali che intendevano usare come rifugi contro i gas e provavano le maschere antigas. Il gas era temuto più di qualsiasi altra cosa. Intanto, le orchestrine continuavano a suonare dietro le vetrine oscurate dei caffè e dei bar, dove i clienti bevevano, ballavano, e attizzavano il loro patriottismo con canti osannanti alla guerra. La necessità di imporre il coprifuoco, l'occasione di andarsene in giro con la maschera antigas appesa alla spalla, un rientro notturno in tassi attraverso vie che a un tratto apparivano diverse, conferivano un che di avventuroso alla vita, visto soprattutto che ancora non c'era un pericolo reale. All'epoca il ghetto non era ancora stato creato e io abitavo con i miei genitori, le mie sorelle e mio fratello in via Sliska e lavoravo come pianista alla Radio polacca. Quell'ultimo giorno di agosto rincasai tardi e, sentendomi stanco, andai subito a coricarmi. Il nostro appartamento si trovava al terzo piano, il che aveva i suoi vantaggi: le sere d'estate la polvere e gli odori della strada diminuivano e una brezza rinfrescante entrava dall'alto, attraverso le nostre finestre aperte, recandoci l'umidità che la Vistola esalava. Mi svegliò un rumore di esplosioni. Faceva già chiaro. Guardai l'ora: le sei. Le esplosioni non erano particolarmente violente e sembravano distanti: comunque fuori della città. Chiaramente erano in atto esercitazioni militari, in quegli ultimi due o tre giorni ci
avevamo fatto l'abitudine. Dopo qualche minuto le esplosioni cessarono. Mi chiesi se rimettermi a dormire, ma ormai era piena luce e s'era alzato il sole. Decisi di leggere in attesa della prima colazione. Dovevano essere almeno le otto quando la porta della mia camera si aprì. Sulla soglia s'affacciò mia madre, vestita come se avesse dovuto uscire da un momento all'altro per andare in città. Era più pallida del solito e, nel vedere che ero ancora a letto a leggere, non potè dissimulare un certo disappunto. Aprì la bocca ma, ancor prima di pronunciare una sola parola, la voce le mancò e dovette schiarirsi la gola. Poi disse con precipitazione: «Alzati! La guerra... è cominciata la guerra!» Decisi di andare direttamente alla stazione radio dove avrei trovato i miei amici e appreso le ultimissime notizie. Mi vestii, feci colazione e uscii di casa. Sui muri degli edifici e negli spazi riservati alle affissioni già si potevano vedere grandi manifesti bianchi: recavano il messaggio del presidente alla nazione e annunciavano che i tedeschi avevano attaccato. Alcuni gruppetti di persone sostavano per leggerli, mentre altri si allontanavano in fretta per sbrigare i loro affari più urgenti. La proprietaria del negozio sull'angolo, poco distante dal nostro caseggiato, stava incollando strisce di carta bianca sulle vetrine, nella speranza che avrebbero potuto salvarne l'integrità nel corso dei bombardamenti futuri. Sua figlia intanto badava a decorare alcuni piatti ovali carichi d'insalata mista a uova sode, di prosciutto e di salsicce disposte in volute circolari, con bandierine nazionali e con ritrattini di personalità polacche. Gli strilloni con le edizioni speciali correvano a perdifiato su e giù per le strade. Non c'era panico. Lo stato d'animo passava dalla curiosità: che cosa sarebbe successo ora?, allo stupore: e così questo era l'inizio? Un signore dai capelli grigi e ben rasato se ne stava inchiodato sul posto, accanto a una delle colonnette su cui era affisso il proclama del presidente. Le chiazze d'un rosso vivo che gli ricoprivano il volto e il collo ne palesavano l'agitazione e si era spinto indietro sulla testa il cappello, cosa che sicuramente non avrebbe mai fatto in circostanze normali. Considerò attentamente il proclama, scosse la testa incredulo e continuò la lettura, premendosi con maggior forza il pince-nez sul naso. In tono indignato lesse qualche parola ad alta voce. «Ci hanno attaccati... e senza preavviso!» Girò il capo a guardare le persone che gli stavano vicino per vederne la reazione, sollevò una mano, si sistemò di nuovo il pince-nez, quindi proseguì: «Questo non è davvero il modo di comportarsi!» E, mentre si allontanava, dopo aver letto di nuovo da cima
a fondo tutto il testo e ancora incapace di controllare la propria agitazione, scuoteva la testa e bofonchiava: «No, no, non si agisce così!» Io abitavo molto vicino alla sede della radio, ma arrivarci non fu affatto facile: ci impiegai un tempo doppio del solito. Ero circa a metà strada quando l'ululato delle sirene prese a risuonare dagli altoparlanti collocati sui lampioni stradali, alle finestre e all'ingresso dei negozi. Poi si udì la voce dell'annunciatore della radio. «Questo è un avviso di allarme aereo per la città di Varsavia... State all'erta! Stanno ora dirigendosi verso...» A questo punto l'annunciatore elencò in termini militarmente cifrati una serie di numeri e di lettere dell'alfabeto che si abbatterono sulle orecchie dei civili come una misteriosa minaccia cabalistica. Forse quei numeri stavano a indicare quanti erano gli apparecchi che stavano arrivando? Forse le lettere segnalavano in codice i luoghi in cui le bombe stavano per essere sganciate? E il luogo in cui ci trovavamo noi in quel momento era fra questi? La strada si svuotò rapidamente. Le donne, in preda al panico, si precipitarono verso i rifugi. Gli uomini non volevano scendervi: stavano nei portoni, imprecando contro i tedeschi, facendo gran mostra del proprio coraggio, e prendendosela con il governo che aveva mobilitato alla carlona cosicché risultavano scarsi gli effettivi validi per la difesa richiamati in servizio. I non richiamati andavano da un'autorità militare all'altra senza riuscire a farsi arruolare in un modo o nell'altro. Nella strada vuota e senza vita si potevano udire solo le discussioni tra i capifabbricato e la gente che insisteva per allontanarsi dai portoni per andare a sbrigare qualche faccenda e alcuni tentavano di andarsene, tenendosi accosto ai muri. Qualche attimo dopo si udirono altre esplosioni, ma ancora non molto vicine. Arrivai alla stazione radio proprio nell'attimo in cui l'allarme si ripetè per la terza volta. Tuttavia nessuno all'interno dell'edificio aveva il tempo per raggiungere i rifugi antiaerei ogni volta che le sirene suonavano. I programmi delle trasmissioni erano in pieno caos. Non appena veniva frettolosamente imbastito qualcosa che valesse come programma sostitutivo, ecco subito subentrare annunci importanti o dal fronte o dai circoli diplomatici. Bisognava interrompere tutto per trasmettere il più in fretta possibile siffatte notizie, il tutto inframmezzato con marce militari e inni patriottici. La confusione più totale regnava anche nei corridoi, dove prevalevano sentimenti di bellicosa baldanza. Uno degli annunciatori che era stato richiamato si presentò per salutare i colleghi ed esibire la propria uniforme.
Probabilmente s'era aspettato che tutti gli si facessero attorno in una scena d'addio nobile e commosso, ma rimase deluso: nessuno aveva il tempo di badargli molto. Se ne stava lì ad attaccar bottone con i colleghi, che di fretta gli passavano accanto, desideroso di riuscire a far trasmettere almeno una parte del suo programma intitolato L'Addio di un Civile, nella speranza di poterne parlare un giorno ai nipoti. Non poteva sapere che di lì a neanche due settimane i colleghi non avrebbero avuto tempo per lui... nemmeno il tempo di onorare la sua memoria con un dignitoso funerale. Fuori della porta dello studio, un anziano pianista che lavorava alla radio mi prese per un braccio. Caro vecchio professor Ursztein. Laddove gli altri misurano la propria vita scandendola in giorni e ore, per decenni invece la sua era stata scandita sugli accompagnamenti al pianoforte. Quando il professore cercava di ricordare i particolari di qualche evento passato, soleva cominciare dicendo: «Dunque, vediamo, all'epoca io accompagnavo il tal o tal altro...» e, una volta individuato con grande precisione un particolare accompagnamento, con la relativa data, quasi si trattasse di una pietra miliare sul ciglio stradale, lasciava vagare la memoria verso altre reminiscenze invariabilmente meno importanti. Ora se ne stava fuori dello studio, stordito e disorientato. Come si poteva intraprendere questa guerra senza accompagnamento pianistico? Come sarebbe stato? Smarrito prese a lamentarsi: «Non vogliono dirmi se oggi devo lavorare...» Quel pomeriggio eravamo entrambi al lavoro, ciascuno al proprio pianoforte. Le trasmissioni musicali continuavano, anche se non seguivano il programma prestabilito. A metà della giornata qualcuno di noi aveva fame e uscì dagli studi radiofonici per andare a mangiar qualcosa in un ristorante vicino. Le strade avevano un aspetto quasi normale. Nelle arterie principali della città c'era un traffico intenso: tram, automobili, pedoni. I negozi erano aperti e, dato che il sindaco aveva rivolto un appello alla popolazione affinchè non facesse incetta di cibo, assicurando che non ce n'era bisogno, non s'erano formate nemmeno code fuori dei negozi. I venditori ambulanti facevano buoni affari vendendo un certo giochetto di carta raffigurante un maiale. Ma se si ricombinava il foglio, e poi lo si spiegava in un dato modo ecco che appariva il volto di Hitler. Riuscimmo, anche se con una certa difficoltà, a sederci a un tavolo del ristorante e lì saltò fuori che quel giorno non erano disponibili alcuni dei piatti tipici del locale, mentre altri erano di parecchio rincarati. Gli speculatori erano già all'opera. La conversazione verteva soprattutto sulla imminente
dichiarazione di guerra da parte di Francia e Inghilterra, attesa da un momento all'altro. Per la maggior parte si era convinti, a eccezione di alcuni pochi irriducibili pessimisti, che entrambe sarebbero entrate in guerra entro tempi brevissimi e molti pensavano che anche gli Stati Uniti avrebbero dichiarato guerra alla Germania. Si argomentava in base alle esperienze della Grande guerra ed era opinione diffusa che le uniche risultanze utili del precedente conflitto consistessero ora nell'insegnarci a condurre meglio questo attuale, operando con avvedutezza e sagacia. Il 3 settembre la dichiarazione di guerra da parte di Francia e Gran Bretagna divenne realtà. Mi trovavo ancora a casa benché fossero già le undici. Tenevamo la radio accesa tutto il giorno per non perderci nemmeno una parola di tutte quelle notizie di capitale importanza. I comunicati dal fronte non erano quelli che ci eravamo aspettati. La nostra cavalleria aveva attaccato nella Prussia Orientale e la nostra aviazione bombardava obiettivi militari tedeschi, ma intanto la superiorità militare del nemico costringeva di continuo l'esercito polacco a cedere questa o quella posizione. Com'era possibile una cosa del genere quando la nostra propaganda ci aveva raccontato che gli aerei e i carri armati tedeschi erano di cartone ed erano alimentati da carburante sintetico di problematica efficacia anche per gli accendisigari? Diversi aerei tedeschi erano già stati abbattuti sopra Varsavia, e testimoni oculari sostenevano di aver visto i cadaveri degli aviatori nemici vestiti con divise e scarpe di carta. Come avrebbero potuto truppe tanto scalcinate costringerci alla ritirata? Era insensato! La mamma stava sfaccendando in salotto, papà si esercitava al violino e io me ne stavo in poltrona a leggere, quando un programma di scarso rilievo fu interrotto all'improvviso e una voce disse che stava per esser trasmesso un comunicato della massima importanza. Io e mio padre ci precipitammo vicino all'apparecchio, mia madre invece andò nella stanza vicina per chiamare le mie due sorelle e mio fratello. Frattanto la radio trasmetteva marce militari. L'annunciatore ripetè quanto aveva detto poco prima, seguirono altre marce e ancora l'annuncio di un imminente altro annuncio. Riuscivamo a stento a controllare la tensione nervosa quando infine fu eseguito l'inno nazionale, seguito dall'inno nazionale inglese. Apprendemmo così che non avremmo più dovuto affrontare da soli il nostro nemico: avevamo un alleato potente e la guerra sarebbe stata sicuramente vinta, sia pur tra alti e bassi, sicché la nostra situazione nell'immediato non sarebbe migliorata. e' difficile descrivere ciò che provammo nel sentire quel
comunicato alla radio. Mia madre aveva le lacrime agli occhi, mio padre singhiozzava senza vergogna e mio fratello Henryk ne approfittò per sferrarmi un pugno e per dirmi in tono irato: «Ecco! Te l'avevo detto, no?» A Regina non piacque vederci battagliare in un momento simile e intervenne esortandoci in tono quieto: «Smettetela! Sapevamo tutti che questo sarebbe successo.» S'interruppe, poi proseguì: «e' la logica conseguenza dei patti concordati.» Regina era avvocato e aveva quindi autorità in materia. Perciò era inutile contrastarla. Frattanto anche Halina si era seduta vicino alla radio e cercava di sintonizzarsi su Radio Londra. Voleva la conferma diretta della notizia. Le mie due sorelle erano le persone più equilibrate della famiglia. Da chi avevano preso? Se da qualcuno avevano preso doveva trattarsi della mamma, ma anche lei, a confronto delle mie due sorelle, sembrava un temperamento emotivo. Quattro ore dopo, la Francia dichiarava guerra alla Germania. Quel pomeriggio mio padre insistette per partecipare alla dimostrazione che si sarebbe svolta s volta davanti all'ambasciata inglese. Mia madre non ne era contenta, ma lui era deciso de ciso ad andarvi. Tornò a casa sovreccitato, i capelli scomposti per il pigia pigia in mezzo alla ressa. Aveva visto il nostro ministro degli Esteri e gli ambasciatori inglese e francese, aveva applaudito e cantato insieme con gli altri ma poi, all'improvviso, la folla era stata invitata a disperdersi il più in fretta possibile, perché c'era il rischio di un'incursione aerea. E la folla s'era dispersa d'impeto, sicché mio padre aveva rischiato di rimanere soffocato in mezzo alla gente. Ma, nonostante questo, era felice e con il morale alle stelle. Purtroppo la nostra gioia fu di breve durata. I comunicati che arrivavano dal fronte si fecero via via più allarmanti. Il 7 settembre, poco prima dell'alba, udimmo colpi violenti alla porta del nostro appartamento. Il nostro vicino dell'appartamento di fronte, un dottore, stava sulla soglia, stivali militari ai piedi, un giubbotto da caccia, in testa un berretto sportivo e uno zaino sulle spalle. Aveva fretta, ma aveva ritenuto suo s uo dovere informarci che i tedeschi stavano avanzando su Varsavia. Il governo si era trasferito a Lublino e tutti gli uomini fisicamente validi dovevano lasciare la città e recarsi sulla sponda opposta della Vistola, dove sarebbe stata approntata una nuova linea difensiva. In un primo momento nessuno di noi gli credette. Decisi di andare a chiedere conferme confer me da altri nostri vicini di casa. Henryk accese la radio ma non si udì nulla: la stazione radio non trasmetteva più. Non riuscii a trovare molti dei nostri vicini. Qualche appartamento era chiuso a chiave. In altri le
donne stavano facendo i bagagli per i mariti o i fratelli, f ratelli, piangenti e preparate al peggio. Era indubbio che il dottore aveva detto la verità. Decisi su due piedi di non allontanarmi. Era inutile vagare per la città. Se il mio destino era morire, preferivo morire a casa mia. Dopo tutto, pensai, qualcuno doveva pur preoccuparsi di mia madre e delle mie sorelle, se mio padre e Henryk se ne fossero foss ero andati. Però, quando ne parlammo tra noi, mi resi conto che anche loro avevano deciso di restare. La mamma fu spinta dal suo senso del dovere a tentar di convincerci a lasciare la città. Guardava ora l'uno ora l'altro, gli occhi sbarrati dalla paura, cercando argomenti validi per persuaderci a lasciare Varsavia. Tuttavia, poiché noi insistemmo per rimanere, i suoi begli occhi espressivi manifestarono un sentimento istintivo di sollievo e soddisfazione. Qualsiasi cosa fosse accaduta era meglio restare uniti. Rimasi in casa fino alle otto, quindi uscii e scoprii di colpo una città irriconoscibile. Come poteva essere tanto e tanto radicalmente mutata nel giro di poche ore? Tutti i negozi erano chiusi. Niente tram nelle strade, solo automobili, stipate all'inverosimile e lanciate in velocità, tutte nella stessa direzione, verso i ponti sulla Vistola. Un distaccamento di soldati stava marciando lungo via Marszalkowska. Avanzavano con aria di sfida e cantavano, ma risultava evidente che la disciplina era stranamente allentata: non regolamentare era e ra la posizione dei berretti sulle teste, né il modo in cui tenevano i fucili, e non marciavano a tempo. Qualcosa nei loro volti faceva intuire che andavano a combattere, per così dire, su loro iniziativa ini ziativa e che da tempo avevano cessato di esser parte di un organismo perfettamente organizzato e funzionante come si richiede per un esercito. Due giovani donne ferme sul marciapiede gettarono loro astri rosa, gridando più volte parole sovreccitate. Nessuno se ne curava. La gente andava di fretta f retta ed era chiaro che tutti intendevano attraversare la Vistola, con l'angustia di sbrigare innanzitutto le ultime impellenti i mpellenti necessità prima dell'attacco tedesco. Anche queste persone apparivano diverse dalla sera precedente. Varsavia era una città molto elegante. Che cosa ne era stato di tutte quelle signore e qui signori agghindati come figurini appena usciti da una rivista di moda? Coloro che sgambettavano adesso in tutte le direzioni sembravano quasi persone mascherate da cacciatori o da turisti. Portavano stivali alti, scarponi e pantaloni da sci, calzoni alla zuava, avevano sciarpe sulla testa e con le mani reggevano fagotti, f agotti, zaini e bastoni. Non s'erano punto curati di avere un aspetto civile quando in fretta e furia, com'era evidente, s'erano buttati su indumenti
diversi per rivestirsi. Le strade così pulite fino al giorno precedente adesso erano piene di rifiuti e sporcizia. Altri soldati stavano seduti o distesi nelle vie trasversali, sui marciapiedi, sulle cordonate in mezzo alla strada. Arrivavano direttamente dal fronte, e dai loro volti, dal loro portamento e dai loro gesti traspariva una profonda spossatezza e l'avvilimento. Di fatto cercavano di rendere palese il proprio scoraggiamento affinchè i passanti intendessero che la ragione per cui si trovavano lì e non al fronte era diretta conseguenza dell'inutilità di stare al fronte per combattere. Non ne valeva la pena. Gruppetti di persone si scambiavano le poche notizie spigolate dai soldati circa questo o quel settore operativo. Ed erano tutte brutte notizie. Istintivamente mi guardai attorno alla ricerca degli altoparlanti. Possibile che fossero stati tolti? No, erano ancora lì, ma improvvisamente si erano azzittiti. Mi precipitai alla stazione radio. Perché non vi erano comunicati? Perché nessuno cercava di ridar fiducia alla gente per bloccare quell'esodo di massa? Ma la stazione radio aveva chiuso i battenti. La direzione aveva abbandonato la città. Erano rimasti solo i cassieri, per pagare frettolosamente agli impiegati e agli artisti tre mesi di stipendio in sostituzione del preavviso. «Che cosa dobbiamo fare adesso?» chiesi a un anziano amministratore, bloccandolo con una mano. Mi lanciò un'occhiata inespressiva, poi negli occhi gli vidi lo scherno che divenne collera mentre liberava la mano dalla mia. «E chi se ne frega?» gridò, stringendosi nelle spalle e uscendo in strada a grandi passi. Si sbattè furiosamente la porta alle spalle. Era una cosa pazzesca! Nessuno era in grado di convincere tutte quelle persone a non andarsene. Gli altoparlanti sui lampioni erano muti, nessuno ness uno ripuliva la sporcizia dalle strade. Sporcizia o panico? O la vergogna, piuttosto, di fuggire lungo quelle strade, invece di combattere? La dignità che la città aveva di colpo perso non poteva essere ripristinata. Questa era la sconfitta. Molto abbattuto, andai a casa. La sera del giorno successivo, la prima granata dell'artiglieria tedesca si abbattè sul deposito di legname di fronte a casa nostra. I vetri delle vetrine del negozio sull'angolo, sigillati con tanta cura con strisce di carta bianca, furono i primi pri mi ad andare in frantumi.
CAPITOLO III.
I PRIMI TEDESCHI!
Grazie al cielo, nei giorni successivi, la situazione migliorò molto. La città fu dichiarata piazzaforte, le fu assegnato un comandante, che rivolse un appello alla popolazione affinchè restasse dove si trovava e si mostrasse pronta a difendere Varsavia. Sull'altro lato dell'ansa del fiume si stava organizzando un contrattacco da parte delle truppe polacche mentre noi, nel frattempo, dovevamo contrastare il grosso delle forze nemiche, impedendo loro di entrare a Varsavia finché i nostri non fossero arrivati a liberarci. La situazione stava migliorando anche attorno a Varsavia; l'artiglieria tedesca aveva smesso di cannoneggiare la città. D'altro canto, le incursioni aeree del nemico diventavano sempre più frequenti. Oramai non si davano più preallarmi: per troppo tempo avevano paralizzato la città e i suoi preparativi di difesa. Quasi ogni ora le sagome argentee dei bombardieri facevano la loro comparsa, alti su di noi, nel cielo straordinariamente azzurro di quell'autunno e potevamo vedere le nuvolette bianche dei proiettili dell'antiaerea sparati dalla nostra artiglieria. A quel punto dovevamo affrettarci a scendere nei rifugi. Ora non c'era più da scherzarci sopra: l'intera città veniva bombardata. I pavimenti e i muri dei rifugi antiaerei tremavano e, se una bomba fosse caduta sull'edificio sotto il quale ci si nascondeva, la morte era sicura: come il proiettile in una micidiale roulette russa. Le ambulanze attraversavano di continuo la città e, quando non ve n'era più disponibilità, venivano sostituite da autopubbliche e addirittura da normali veicoli trainati da cavalli, che portavano via i morti e i feriti estratti dalle macerie. Il morale della popolazione era alto e l'entusiasmo cresceva di ora in ora. Non contavamo più sulla fortuna e sull'iniziativa individuale, come il 7 settembre. Adesso eravamo un esercito con comandanti e munizioni; avevamo uno scopo, difenderci, e il successo o il fallimento di questo stava nelle nostre mani. Bastava solo che impegnassimo tutta la nostra forza. Il comandante generale fece appello alla popolazione perché fossero scavate trincee attorno alla città per impedire l'avanzata dei carri armati tedeschi. Ci offrimmo tutti come volontari per scavare: solo mia madre al mattino rimaneva in casa per riordinare l'appartamento e preparare da mangiare. Scavavamo lungo il fianco di una collina
all'estrema periferia. Avevamo alle spalle un bel quartiere residenziale dove sorgevano ville e davanti a noi c'era un parco pubblico folto di alberi. Si sarebbe trattato di un lavoro addirittura piacevole se non fosse stato per il rischio delle bombe che venivano sganciate su di noi. La mira non era particolarmente accurata, per cui cadevano a una certa distanza, e tuttavia non era piacevole sentirne il sibilo in arrivo oltre le trincee nelle quali lavoravamo, consapevoli che una di queste avrebbe potuto colpirci. Il primo giorno un vecchio ebreo col caffettano e la yarmulka stava scavando il terreno al mio fianco. Lavorava con fervore biblico, buttandosi sulla vanga come su un nemico mortale, schiumando, rivoli di sudore sul volto pallido, il corpo tremante, i muscoli contratti. Mentre scavava digrignava i denti, in un nero turbinio di caffettano e barba. Quel suo sforzo caparbio, più che soverchio rispetto alle sue reali capacità fisiche, dava risultati del tutto inconsistenti. La punta della sua vanga riusciva a stento a penetrare nel fango rassodato e le zolle gialle e aride che lui staccava via riscivolavano nel solco aperto prima che quel poveretto, con uno sforzo sovrumano, riuscisse a girarsi all'indietro con la vanga per rovesciarne il contenuto fuori della trincea. Di continuo s'appoggiava col dorso a quel muro di terra, il corpo scosso dalla tosse. Pallido come un morente, sorseggiava l'infusione alla menta preparata per ristorare gli uomini al lavoro da vecchie donne troppo deboli per scavare ma egualmente desiderose di rendersi utili in qualche modo. «Stai esagerando», gli dissi, durante una di quelle sue pause. «Non dovresti esser qui a scavare, perché non sei abbastanza forte.» Provavo pena per lui e cercai di persuaderlo a rinunciare. Era ovvio che non poteva far quel lavoro. «Guarda che nessuno ti chiede di farlo.» Lui mi fissò, sempre ansimando, poi alzò gli occhi al cielo, a quell'azzurro zaffiro in cui ancora si libravano le nuvolette bianche lasciate dagli shrapnel, e negli occhi gli comparve un'espressione rapita, come se lì nel cielo avesse visto Jahweh in tutta la sua maestà. «Ho un negozio!» bisbigliò. Trasse un sospiro ancor più profondo e dalle labbra gli sfuggì un singhiozzo. Mentre si chinava di nuovo sulla vanga, quasi annientato dallo sforzo, sul volto gli si dipinse la disperazione. Dopo due giorni smisi di andare a scavare. Avevo sentito che la stazione radio aveva ripreso a trasmettere, con un nuovo direttore, Edmund Rudnicki, che prima era a capo del settore musicale. Non era fuggito come gli altri, invece era riuscito a riunire i colleghi rimasti e a riattivare la stazione. Ne conclusi che sarei stato più utile
lì che non a scavar trincee, il che risultò esser vero: suonavo molto, sia come solista, sia come accompagnatore. Nel frattempo la situazione della città prese a deteriorarsi in misura inversamente proporzionale, si potrebbe dire, al coraggio e alla determinazione della gente. L'artiglieria tedesca ricominciò a cannoneggiare Varsavia, prima la periferia poi il centro urbano. Crebbe il numero degli edifici rimasti privi dei vetri alle finestre. Fori circolari sui muri colpiti dai proiettili, angoli di facciate sfregiati. Di notte il cielo rosseggiava per il bagliore degli incendi, e l'aria era greve del puzzo di bruciato. Le provviste calavano. Risultò essere questo il solo punto sul quale l'eroico sindaco Starzyriski si era sbagliato: non avrebbe dovuto dissuadere la popolazione dal far provviste. La città ora non solo doveva provvedere a sfamare se stessa ma anche i soldati ivi intrappolati e il corpo d'armata posnano che, dal fronte occidentale, s'era fatto strada fino a Varsavia per rafforzarne le difese. Verso il 20 settembre tutta la nostra famiglia si trasferì dall'appartamento in via Sliska presso amici che abitavano in un appartamento al pianterreno di una casa in via Pariska. A nessuno di noi piacevano i rifugi antiaerei. Nelle cantine l'aria era così soffocante che si riusciva a stento a respirare e il soffitto basso pareva potesse crollare da un momento all'altro, seppellendo tutto sotto le macerie di un edificio di molti piani. D'altra parte ostinarsi a rimanere nel nostro appartamento al terzo piano era pericoloso. Continuavamo a sentire il sibilo dei proiettili fuori delle finestre, ormai tutte prive di vetri, ed era concreto il rischio che uno di questi proiettili concludesse la sua traiettoria aerea contro il nostro caseggiato. Decidemmo che al pianterreno saremmo stati più al sicuro: i proiettili avrebbero colpito i piani alti e lì sarebbero esplosi, evitandoci così la necessità di scendere in cantina. Nell'appartamento dei nostri amici si erano già rifugiate diverse persone. Era affollato e noi dovevamo dormire per terra. Frattanto l'assedio di Varsavia, il primo capitolo della tragica storia di questa città, stava arrivando a conclusione. Mi riusciva sempre più difficile raggiungere la stazione radio. Cadaveri di persone e di cavalli uccisi dalle granate erano disseminati per le strade, interi quartieri della città erano in fiamme e, dacché l'acquedotto municipale era stato danneggiato dall'artiglieria e dalle bombe, non v'era possibilità alcuna di spegnere gli incendi. Era anche pericoloso suonare negli studi della radio. L'artiglieria tedesca cannoneggiava tutti i luoghi più importanti della città e, non appena un
annunciatore comunicava l'inizio di un programma, le batterie tedesche aprivano il fuoco sulla stazione radio. Durante questo penultimo stadio dell'assedio, la paura isterica che la gente aveva dei sabotaggi giunse all'acme. Chiunque poteva venir accusato di essere una spia finendo fucilato all'istante, senza neppure il tempo di dare spiegazioni. Al quarto piano dell'edificio in cui ci eravamo rifugiati presso i nostri amici, viveva un'anziana zitella, un'insegnante di musica. La sua sfortuna fu quella di chiamarsi Hoffer e di esser una donna coraggiosa. Il suo coraggio avrebbe senz'altro potuto essere definito «eccentricità.» Non c'erano incursioni aeree o cannoneggiamenti che la inducessero a scendere nel rifugio dissuadendola dalle sue quotidiane due ore di esercizio al pianoforte prima di pranzo. Sul balcone teneva certi uccellini in gabbia e dava loro da mangiare tre volte al giorno, con la medesima regolarità ostinata. Un tal comportamento appariva decisamente strano in quella assediata Varsavia. Più che sospetto appariva alle domestiche del caseggiato che si riunivano in casa del custode per discutere di politica. Dopo averne fatto un gran parlare giunsero alla incrollabile conclusione che un'insegnante dal nome così inconfondibilmente tedesco doveva essere lei stessa tedesca e che i suoi esercizi al pianoforte erano un codice segreto con il quale mandava segnali ai piloti della Luftwaffe per indicar loro dove sganciare le bombe. Senza perder tempo quel gruppo di donne concitate era entrato nell'appartamento dell'eccentrica signora, l'aveva legata, portata da basso e rinchiusa insieme con i suoi uccellini in una delle cantine a riprova della sua opera di sabotaggio. Senza volerlo, le salvarono la vita: qualche ora dopo un proiettile si abbattè sul suo appartamento, distruggendolo completamente. Suonai per l'ultima volta davanti al microfono il 23 settembre. Io stesso non ho idea di come quel giorno raggiunsi la stazione radio. Correvo dall'androne di un edificio a quello di un altro, vi restavo nascosto per un po', e quando mi sembrava di non sentire più nelle vicinanze il sibilo dei proiettili, correvo di nuovo in strada. Sulla porta della stazione radio incontrai il sindaco Starzyriski. Era scarmigliato, aveva la barba lunga e dal suo volto traspariva un'espressione di stanchezza mortale. Non dormiva da giorni. Era lui l'anima e il cuore della difesa, il vero eroe della città. L'intera responsabilità del destino di Varsavia posava sulle sue spalle. Era dappertutto. Percorreva le trincee, aveva la responsabilità di erigere le barricate, di organizzare gli ospedali, distribuire equamente le scarse provviste, organizzare la difesa antiaerea, il corpo
dei vigili del fuoco, e ancora trovava il tempo per rivolgersi quotidianamente alla popolazione. Tutti aspettavano con ansia i suoi discorsi, dai quali attingevano coraggio. Fintanto che il sindaco non aveva dubbi, non c'era motivo di perdersi d'animo. Comunque, la situazione non sembrava troppo disperata. I francesi avevano sfondato la Linea Siegfried, Amburgo era stata pesantemente bombardata dall'aviazione britannica e, da un momento all'altro, l'esercito inglese sarebbe potuto sbarcare in Germania. Almeno così noi pensavamo. Quell'ultimo giorno alla stazione radio stavo suonando musica di Chopin. Fu l'ultima trasmissione musicale in diretta da Varsavia. Per tutto il tempo in cui suonai, i proiettili continuarono a esplodere vicino alla stazione radio e gli edifici più vicini a noi erano in fiamme. Nel frastuono riuscivo a stento a sentire il suono del mio pianoforte. Dopo il recital dovetti attendere due ore prima che il bombardamento rallentasse quanto bastava per consentirmi di tornare a casa. I miei genitori, mio fratello e le mie due sorelle mi avevano ormai dato per morto e mi accolsero come un uomo risorto dalla tomba. L'unica a pensare che tutta quella preoccupazione era stata inutile fu la nostra domestica. «In fin dei conti, aveva i documenti in tasca», fece notare. «Se fosse morto avrebbero saputo dove portarlo.» Alle 3.15 del pomeriggio di quello stesso giorno, Radio Varsavia cessò le trasmissioni. Stava andando in onda una registrazione del Concerto per pianoforte in do minore di Rachmaninov e, proprio alla conclusione del secondo bellissimo e sereno movimento, una bomba tedesca distrusse la centrale elettrica. In tutta la città gli altoparlanti tacquero. Verso sera, nonostante il fuoco dell'artiglieria infuriasse nuovamente, mi sforzai di dedicarmi alla composizione del mio concertino per piano e orchestra. Ci lavoravo dall'inizio di settembre, benché mi riuscisse sempre più difficile farlo. Quando quella sera calò l'oscurità, sporsi la testa fuori della finestra. La strada, rossa per i bagliori degli incendi, era deserta, e non s'udiva altro che l'echeggiare continuo delle esplosioni dei proiettili. Sulla sinistra, via Marszalkowska era in fiamme e lo erano pure via Kròlewska, piazza Grzybowski alle nostre spalle e via Sienna proprio davanti a noi. Densi cumuli di fumo color rosso sangue incombevano sugli edifici. Strade e marciapiedi erano cosparsi di volantini bianchi dei tedeschi, ma nessuno li raccoglieva perché si diceva che fossero avvelenati. All'incrocio, sotto un lampione stradale, giacevano due cadaveri, uno con le braccia
spalancate, l'altro raggomitolato quasi dormisse. Davanti al portone del nostro caseggiato giaceva il cadavere d'una donna con la testa e un braccio tranciati di netto. Accanto a lei c'era un secchio capovolto: era andata a prendere l'acqua alla fontana. Il suo sangue scendeva nel canale di scolo in un rivolo lungo e scuro e proseguiva, finendo nello scarico della fogna protetto da una grata. Una vettura tirata da un cavallo avanzava a fatica proveniente da via Wielka e diretta verso via Zelazna. Non si capiva come fosse riuscita ad arrivare fin lì e perché cavallo e guidatore apparissero tanto tranquilli, come se attorno a loro non stesse accadendo nulla. L'uomo fermò l'animale sull'angolo di via Sosnowa, incerto se svoltare o proseguire. Dopo una rapida valutazione decise di andar diritto, schioccò la lingua e il cavallo si rimise in movimento. Distavano già una decina di passi dall'angolo della via quando si udì come un sibilo, poi un boato e la strada per un istante avvampò in una accecante luce bianca, simile al lampo d'una macchina fotografica: ne fui abbagliato. Quando i miei occhi si furono riadattati alla luce crepuscolare, del veicolo non restava più nulla. Schegge di legno e residui delle ruote e delle stanghe, brandelli del rivestimento interno e i corpi dilaniati dell'uomo e del cavallo giacevano lungo i muri degli edifici. Se l'uomo avesse imboccato via Sosnowa... E vennero i terribili giorni del 25 e 26 settembre. Il fragore delle esplosioni si mescolava di continuo al rombo dei cannoni, perforato dall'urlo degli aerei in picchiata, simile a trapani elettrici che bucassero il ferro. L'aria era greve di fumo e della polvere sollevata dallo sgretolarsi dei mattoni e degli intonaci. Si diffondeva ovunque, soffocando la gente che si era rifugiata nelle cantine o nei propri appartamenti nel tentativo di tenersi il più lontano possibile dalla strada. Non so come in quei due giorni riuscii a sopravvivere. Una scheggia di shrapnel uccise un tizio che stava seduto accanto a me nella camera da letto dei nostri amici. Io trascorsi due notti e un giorno con dieci persone, in piedi dentro un piccolo gabinetto. Qualche settimana dopo, quando ci chiedemmo come ci fossimo riusciti, e tentammo di pigiarci di nuovo là dentro, scoprimmo che solo otto persone, purché non terrorizzate a morte, vi sarebbero potute entrare. Varsavia si arrese mercoledì 27 settembre. Passarono altri due giorni prima che mi arrischiassi ad arrivare in centro. Rientrai in preda a una profonda depressione: la città non esisteva più - o almeno questo pensai in quel momento nella mia sprovvedutezza. Nowy Swiat era uno stretto vicolo che
si snodava attraverso cumuli di macerie. A ogni angolo ero costretto a fare deviazioni attorno a barricate costituite da tram rovesciati e masselli del lastricato divelti. Cadaveri in decomposizione erano ammucchiati per le strade. La gente affamata per il lungo assedio si buttava sulle carogne dei cavalli che giacevano al suolo. Le rovine di molti edifici erano ancora fumanti. Mi trovavo in Aleje Jerozolimskie quando si avvicinò una motocicletta proveniente dalla Vistola. In sella c'erano due soldati con uniformi verdi sconosciute e elmetti d'acciaio. Due volti grandi, impassibili e occhi cerulei. Si fermarono vicino al marciapiedi e chiamarono un ragazzo che li stava fissando spaventato. Lui si avvicinò. «Marschallstrasse! Marschallstrasse!» Continuarono a ripetere quell'unica parola, la parola tedesca che stava per via Marszalkowska. Il ragazzo rimaneva lì, immobile, confuso, a bocca aperta, non riuscendo a profferire parola. I soldati persero la pazienza. «Oh, all'inferno!» urlò quello alla guida della moto, con un gesto iroso. Diede gas e la moto si allontanò rombando. Quelli furono i primi tedeschi che vidi. Qualche giorno dopo sui muri furono affissi proclami bilingui, promulgati dal comandante tedesco: si promettevano alla popolazione condizioni di lavoro sicure e l'assistenza da parte dello Stato tedesco. C'era un paragrafo speciale dedicato agli ebrei. Venivano loro garantiti tutti i diritti, l'inviolabilità degli averi, e la piena sicurezza delle loro vite.
CAPITOLO 4.
Mio padre china il capo davanti ai tedeschi. Tornammo in via Sliska. Lì trovammo il nostro appartamento integro, sebbene ci aspettassimo il contrario. Mancavano alcuni vetri alle finestre ma nient'altro. Le porte erano state chiuse a chiave, e perfino gli oggetti più piccoli erano al loro solito posto all'interno dell'appartamento. Anche altre case del quartiere erano rimaste intatte o avevano subito solo qualche danno di scarso rilievo. Nei giorni successivi, quando cominciammo a uscire per appurare che ne fosse dei nostri conoscenti, scoprimmo che, pur se gravemente colpita, tutto sommato la città stava ancora in piedi. I danni non erano stati così pesanti come avremmo potuto pensare in un
primo momento, aggirandoci tra le grandi aree coperte dalle rovine ancora fumanti. Lo stesso valeva per le persone. All'inizio si era parlato di centomila morti, una cifra che equivaleva a circa il dieci per cento della popolazione della città e aveva fatto inorridire tutti. In seguito si scoprì che erano morte all'incirca ventimila persone. Tra queste, amici che avevamo visto vivi solo pochi giorni prima e che ora giacevano sotto le rovine o maciullati dai proiettili. Due colleghe di mia sorella Regina erano morte per il crollo di un caseggiato in via Koszykova. Passando davanti all'edificio bisognava mettersi il fazzoletto al naso: il puzzo nauseabondo di otto cadaveri in putrefazione filtrava attraverso le finestre bloccate della cantina, attraverso ogni passaggio e ogni fenditura, appestando l'aria. Un proiettile aveva ucciso uno dei miei colleghi in via Mazowiecka. Solo dopo che la sua testa fu ritrovata si riuscì a stabilire che quei resti sparpagliati appartenevano a un essere umano che un tempo era stato un violinista di talento. Per quanto orribili, queste notizie non riuscivano a turbare il nostro piacere animalesco di essere ancora vivi e di sapere che essendo sfuggiti alla morte non correvamo ora alcun pericolo immediato, anche se reprimevamo nel nostro subconscio questi sentimenti perché ce ne vergognavamo. In questo mondo nuovo, dove tutto ciò che aveva avuto un valore durevole un mese prima era adesso distrutto, le cose più semplici, cose cui prima quasi non si badava, avevano assunto un significato di enorme importanza: una comoda e solida poltrona, l'aspetto rassicurante di una stufa rivestita di piastrelle bianche sulla quale posare lo sguardo, lo scricchiolio del legno dell'impiantito: un consolante preludio all'atmosfera di serenità e di tranquillità della casa. Papà fu il primo a riprendere la sua musica. Sfuggiva alla realtà suonando il violino per ore e ore. Quando qualcuno lo interrompeva portandogli una brutta notizia, ascoltava e si accigliava, mostrava irritazione ma, di lì a poco, si rischiarava in viso di nuovo e diceva, portandosi il violino al mento: «Oh, non preoccupatevi! Gli alleati saranno sicuramente qui entro un mese.» Quella risposta fissa a tutte le domande e ai problemi di quel momento era il suo modo di chiudersi la porta alle spalle e di tornare al suo altro mondo, quello della musica, dove era del tutto felice. Purtroppo le prime notizie passateci da persone che si erano procurate degli accumulatori e avevano rimesso in funzione i loro apparecchi radio, non
confermavano l'ottimismo di mio padre. Niente di ciò che avevamo sentito era vero. I francesi non avevano alcuna intenzione di sfondare la Linea Siegfried, non più di quanto gli inglesi intendessero bombardare Amburgo, e tanto meno sbarcare sulle coste tedesche. D'altra parte, a Varsavia stavano cominciando le prime retate di ebrei. Inizialmente eseguite con un certo impaccio, come se coloro che le mettevano in atto si vergognassero di quel nuovo mezzo per torturare la gente e non avessero comunque familiarità alcuna con pratiche del genere. Piccole vetture private percorrevano le strade, fermandosi inaspettatamente accosto al marciapiede quando un ebreo veniva individuato; le portiere allora si aprivano, una mano si protendeva uncinando un dito. «Sali!» Chi era reduce da una di quelle retate dava notizia dei primi casi di maltrattamenti. Per il momento la cosa non era grave, la violenza fisica si limitava a ceffoni, pugni e a volte calci. Ma, poiché era un'esperienza del tutto inusitata, chi ne era vittima la viveva malissimo, essendo lo schiaffo subito da un tedesco sofferto come ignominia. Non si rendevano ancora conto che tali percosse equivalevano moralmente a una botta o a un calcio ricevuto da un animale. In quel periodo iniziale, la collera contro il governo e il comando militare, entrambi fuggiti abbandonando il Paese al proprio destino, era in genere più forte dell'odio verso i tedeschi. Ricordavamo con amarezza le parole del feldmaresciallo, il quale aveva giurato che non avrebbe permesso al nemico di strappargli anche un solo bottone dell'uniforme: promessa mantenuta, infatti, ma solo perché i bottoni erano rimasti attaccati all'uniforme che indossava quando aveva tagliato la corda per fuggire all'estero. E secondo l'opinione di certuni ora saremmo stati addirittura meglio, giacché i tedeschi avrebbero portato un po' di ordine in quel caos che era la Polonia. Ma i tedeschi invece, che avevano vinto la guerra guerreggiata contro di noi, cominciarono ora a perdere la guerra politica. Un punto di svolta cruciale fu la fucilazione dei primi cento innocenti cittadini di Varsavia, nel dicembre del 1939. Nel giro di poche ore era stato eretto un muro di odio fra tedeschi e polacchi, e né gli uni né gli altri da quel momento riuscirono più a scalarlo, anche se durante gli ultimi anni dell'occupazione i tedeschi, mostrarono una certa disponibilità a farlo. Furono affissi i primi decreti tedeschi che comminavano la pena di morte per chi non ottemperasse alle disposizioni. Le più importanti riguardavano il commercio del pane: chiunque fosse stato colto nell'atto di acquistare o vendere pane a prezzi più alti di quelli d'anteguerra
sarebbe stato fucilato. Questo divieto fu per noi una rovina. Non mangiammo pane per giorni e giorni, alimentandoci invece con patate e altri farinacei. Tuttavia, Henryk poi scoprì che di pane in giro ce n'era sempre in vendita e che, acquistandolo, non toccava cader morti stecchiti. Così riprendemmo a comperare pane. Il decreto non fu mai abolito e, dato che tutti mangiarono e acquistarono pane tutti i giorni durante i cinque anni di occupazione, a milioni sono stati quelli che hanno rischiato la condanna a morte per questa sola infrazione nel territorio polacco del governatorato generale sottoposto a dominio tedesco. Dovette però trascorrere molto tempo prima che ci persuadessimo che i decreti tedeschi non avevano alcun peso, e che il pericolo reale era costituito da ciò che ti sarebbe potuto succedere del tutto inaspettatamente, come un fulmine a ciel sereno: non preannunciato da regole e regolamenti, per quanto inattendibili. Presto cominciarono a essere pubblicati decreti concernenti esclusivamente gli ebrei. Una famiglia ebrea non poteva tenere in casa più di duemila zloty. Altri risparmi e oggetti di valore dovevano essere depositati in banca su un conto bloccato. Similmente, le proprietà immobiliari degli ebrei dovevano essere trasferite ai tedeschi. Ovviamente, era ben difficile che qualcuno fosse tanto ingenuo da consegnare, di sua spontanea volontà, tutto quello che possedeva al nemico. Al pari degli altri decidemmo di nascondere i nostri valori, benché si trattasse solo dell'orologio e della catena d'oro di mio padre e della somma di cinquemila zloty. Dibattemmo animatamente su quale fosse il modo migliore per metterli al riparo. Mio padre suggerì alcuni metodi sperimentati durante la Prima guerra mondiale, come per esempio forare la gamba del tavolo della sala da pranzo per occultare nel varco gli oggetti di valore. «E se dovessero portarsi via il tavolo?» chiese Henryk in tono sarcastico. «Non dir sciocchezze», replicò mio padre irritato. «Che vuoi che ci facciano con un tavolo come questo?» Diede un'occhiata spregiativa al tavolo. Il ripiano di noce lustro alla perfezione era segnato da macchie di liquidi rovesciati, e in un punto l'impiallacciatura si stava staccando. Per togliere anche l'ultimo residuo di valore a quel mobile mio padre vi si avvicinò, infilò il dito sotto l'impiallacciatura staccata e la fece saltar via, lasciando una striscia di legno nudo. «Ma che stai facendo?» lo rimproverò mia madre. Henryk fece un'altra proposta. Secondo lui, avremmo dovuto usare metodi psicologici e lasciare l'orologio e i soldi in piena vista. I tedeschi avrebbero frugato dappertutto senza però notare gli oggetti di valore
lasciati sul ripiano del tavolo. Raggiungemmo un accordo amichevole: l'orologio fu nascosto sotto la credenza; la catena sotto il manico del violino di mio padre e il denaro fu ficcato nell'infisso di una finestra. Benché allarmata per la durezza delle leggi tedesche, la gente non si scoraggiava. Si consolava al pensiero che forse i tedeschi avrebbero consegnato Varsavia alla Russia sovietica da un momento all'altro e che zone occupate solo formalmente sarebbero state restituite alla Polonia al più presto. Non era stata stabilita alcuna frontiera sull'ansa della Vistola e persone che arrivavano in città dalle due rive del fiume giuravano di aver visto con i propri occhi i soldati dell'Armata rossa a Jablonna o a Garwolin. Ma subito dopo venivano smentite da altre che giuravano d'aver visto con i loro occhi i russi che si ritiravano da Vilna e da Leopoli, consegnandole ai tedeschi. Era difficile decidere a quali di queste testimonianze oculari si poteva dar credito. Molti ebrei non aspettarono l'arrivo dei russi in città, vendettero invece tutto ciò che possedevano a Varsavia e si trasferirono a est, nell'unica direzione che permettesse loro di sfuggire ai tedeschi. Quasi tutti i miei colleghi musicisti partirono e insistettero perché li seguissi; la mia famiglia invece decise di restare. Dopo due giorni uno di quei colleghi tornò, ammaccato e furioso, senza più il suo zaino e il suo denaro. Vicino alla frontiera aveva visto cinque ebrei seminudi, appesi per le mani agli alberi intorno e presi a frustate. Era stato anche testimone della morte del dottor Haskielewicz, che aveva detto ai tedeschi di voler attraversare l'ansa del fiume. Pistola alla tempia, gli avevano ordinato di entrare nel fiume, costringendolo ad avanzare nell'acqua sempre più alta, fino a quando non aveva più toccato il fondo ed era annegato. Il mio collega aveva perso solo gli oggetti e i denari, poi era stato picchiato e mandato indietro. Ma la maggior parte degli ebrei, pur se derubati e maltrattati, riuscirono a raggiungere la Russia. Certo ci dispiacque per quel poveretto, ma al tempo stesso provammo un senso di trionfo: avrebbe fatto meglio a seguire il nostro consiglio e a rimanere. La nostra decisione non era stata conseguenza di alcun ragionamento logico. Avevamo semplicemente scelto di restare per via del nostro attaccamento a Varsavia, anche se non saremmo stati in grado di dare una spiegazione logica al riguardo. Quando io dico nostra decisione mi riferisco a tutti i miei familiari, eccetto che a mio padre. Se non aveva lasciato Varsavia era perché non voleva allontanarsi troppo da Sosnowiec, da dove proveniva. A lui Varsavia non era mai piaciuta e
quanto più le cose per noi a Varsavia peggioravano, tanto più lui sentiva nostalgia e idealizzava Sosnowiec. Sosnowiec era l'unico posto in cui si viveva bene, dove la gente amava la musica ed era in grado di apprezzare un bravo violinista. Era addirittura l'unico posto dove era possibile bere un bicchiere di birra decente, perché a Varsavia si trovava solo sciacquatura di piatti, disgustosa e imbevibile. Dopo cena mio padre soleva incrociare le mani sul petto, appoggiarsi allo schienale della sedia, chiudendo gli occhi con aria sognante e tediandoci con il suo monotono soliloquio di una Sosnowiec esistente solo nella sua nostalgica immaginazione. In quelle settimane di tardo autunno, poco meno di due mesi dopo che i tedeschi avevano preso Varsavia, la città del tutto all'improvviso e inaspettatamente ritornò al suo vecchio modo di vivere. Questo ribaltamento della congiuntura materiale, sopravvenuto con tanta facilità, costituì per noi una sorpresa in più di quella guerra più di ogni altra ricca di sorprese, dove nulla andava come ci aspettavamo. L'enorme città, capitale di un Paese con una popolazione di molti milioni di abitanti, era in parte distrutta, un esercito di impiegati statali erano senza lavoro e ondate di profughi continuavano a riversarvisi, provenienti dalla Slesia, dalla Posnania e dalla Pomerania. Di colpo, tutte queste persone, gente rimasta senza un tetto sopra la testa, senza un lavoro, con fosche prospettive di vita, si resero conto che si poteva guadagnare moltissimo eludendo i decreti tedeschi. Più decreti venivano emanati più aumentavano le possibilità di guadagno. Due modelli di vita cominciarono a delinearsi di pari passo: una vita ufficiale e fasulla, basata su regole che costringevano la gente a lavorare dall'alba al tramonto, al limite della denutrizione; e una seconda vita non ufficiale gremita di fiabesche opportunità, di lucro, con floridi traffici di dollari, brillanti, farina, pelli o persino documenti falsi; una vita sotto la minaccia costante della pena di morte, ma vissuta allegramente, spensieratamente, in ristoranti di lusso dove i clienti si recavano in risciò. Non tutti, beninteso, se la godevano a quel modo. Ogni giorno, quando rientravo la sera, vedevo una donna seduta sempre nella stessa nicchia d'un muro in via Sienna: suonava una piccola fisarmonica e cantava malinconiche canzoni russe. Non chiedeva mai la carità prima del calar del crepuscolo, probabilmente per timore di esser riconosciuta. Indossava un tailleur grigio, probabilmente l'ultimo capo residuo a testimoniare l'eleganza di chi aveva certo conosciuto giorni migliori. Il suo bel volto appariva inerte nel crepuscolo, gli occhi continuavano
a fissare lo stesso punto in alto, chissà dove, sopra le teste dei passanti. Cantava con una voce profonda, affascinante e si accompagnava bene con la sua piccola fisarmonica. Tutto il suo portamento, il modo in cui si appoggiava al muro, dimostravano che era una signora della buona società, costretta dalla guerra a sostentarsi in quel modo. Ma persino lei riusciva a guadagnare bene. C'era sempre una gran quantità di monetine nel tamburello ornato di nastri che lei sicuramente considerava il simbolo del mestiere di mendicante. Se lo era sistemato ai piedi in modo che nessuno potesse aver dubbi sul fatto che stava chiedendo l'elemosina. Oltre alle monetine c'era anche qualche banconota di cinquanta zloty. Se mi era possibile, nemmeno io mi facevo vedere in strada fino al calar della sera, ma per ragioni tutt'affatto diverse. Tra i tanti fastidiosi divieti imposti agli ebrei ce n'era uno che, benché non scritto, doveva essere osservato molto scrupolosamente: gli uomini ebrei avevano l'obbligo di chinare il capo davanti a ogni soldato tedesco. Quest'imposizione stupida e umiliante mandava su tutte le furie me e Henryk. Cercavamo in ogni modo di eluderla. Facevamo lunghe deviazioni per le strade, al solo fine di evitare incontri con i tedeschi e se non ci riuscivamo, voltavamo la testa da un'altra parte fingendo di non averli visti, pur rischiando così d'essere malmenati. Mio padre invece si comportava in modo tutt'affatto diverso. Per le sue passeggiate sceglieva le strade più lunghe e si inchinava ai tedeschi con un garbo indescrivibilmente ironico, felice quando un soldato, tratto in inganno dal suo volto serafico, ricambiava educatamente il saluto, sorridendogli come a un buon amico. Tutte le sere, quando rientrava, non riusciva a trattenersi dal far commenti con noncuranza sulla vasta cerchia delle sue conoscenze: gli bastava metter piede in strada, raccontava, e subito lo attorniavano a dozzine. Non riusciva proprio a sottrarsi alla loro cordialità e a furia di cortesi scappellate la mano finiva con l'irrigidirglisi. E a questo punto sorrideva sempre come un monello e si strofinava allegro le mani. Ma la malignità dei tedeschi non era da sottovalutarsi. Faceva parte di un sistema mirante a tenerci in uno stato costante di tensione nervosa riguardo al nostro futuro. Quasi ogni giorno venivano promulgati nuovi decreti. All'apparenza di scarso rilievo, ci facevano però capire che i tedeschi non ci avevano dimenticato, né avevano intenzione alcuna di farlo. Poi agli ebrei fu proibito viaggiare in treno. In seguito fummo obbligati a pagare i biglietti del tram quattro volte di più degli «ariani.» Avevano preso a circolare le prime voci
della costruzione di un ghetto. Imperversarono per due giorni, sprofondandoci nella disperazione, poi di nuovo si sopirono.
CAPITOLO 5. SIETE EBREI? Verso la fine di novembre, quando le belle giornate di quell'autunno insolitamente lungo si facevano più rare, e freddi acquazzoni si abbattevano sulla città sempre più di frequente, a mio padre, a Henryk e a me toccò per la prima volta far conoscenza con la disposizione a uccidere dei tedeschi. Una sera tutti e tre ci eravamo recati a fare visita a un amico. Avevamo chiacchierato e, quando guardai l'orologio, mi allarmai vedendo prossima l'ora del coprifuoco. Dovevamo andarcene subito, pur essendo ormai impossibile arrivare a casa in tempo. Ma un quarto d'ora di ritardo non era poi un grave crimine e potevamo sperare di cavarcela. Prendemmo i cappotti, salutammo di fretta e uscimmo. Le strade erano buie e già completamente deserte. La pioggia ci sferzava il volto, raffiche di vento scuotevano le insegne, nell'aria echeggiava lo scrosciare del metallo. Sollevato il bavero dei cappotti, cercammo di camminare quanto più velocemente e più silenziosamente potessimo, tenendoci accosto ai muri dei caseggiati. Eravamo già arrivati a metà di via Zielna e cominciavamo a sperare di giungere a destinazione sani e salvi, quando d'un tratto una pattuglia di polizia girò l'angolo. Non c'era tempo per ritirarsi o nascondersi. Restammo immobili nella luce abbagliante delle loro torce, ciascuno sforzandosi di pensare a una qualche scusa, quando uno degli uomini avanzò deciso fino a noi e ci puntò la torcia in faccia. «Siete ebrei?» Una domanda del tutto proforma, dato che non aspettò la nostra risposta. «Bene, in questo caso...» Avvertimmo in tale denuncia della nostra origine razziale un che di trionfante. Era la soddisfazione per aver scovato siffatta selvaggina, insieme con il dileggio e la minaccia. Ancor prima di rendercene conto eravamo stati afferrati e messi con la faccia contro il muro dell'edificio, mentre i poliziotti arretravano e cominciavano a togliere la sicura dei fucili. Questo, dunque, il modo della nostra morte! Ancora pochi secondi, e saremmo stati lunghi distesi sul marciapiede e insanguinati del nostro stesso sangue, il cranio fracassato, fino al giorno seguente. Solo allora la mamma e le mie
sorelle avrebbero appreso l'accaduto e sarebbero corse a cercarci in preda alla disperazione. Gli amici ai quali eravamo andati a far visita si sarebbero rammaricati per averci trattenuto troppo. Tutti quei pensieri mi passarono per la testa in una successione straniata, quasi fosse stato un altro a formularli. Udii qualcuno dire forte: «Questa è la fine!» Solo un attimo dopo mi resi conto che ero stato io a parlare. Al tempo stesso sentii uno scoppio di pianto e di singhiozzi convulsi. Girai il capo, e nella luce cruda della torcia elettrica vidi mio padre che, inginocchiato sull'asfalto umido, singhiozzava e supplicava i poliziotti di non ucciderci. Come poteva umiliarsi in quel modo? Henryk era chino su di lui, gli bisbigliava qualcosa, cercava di farlo alzare. Henryk, quel mio fratello così riservato, Henryk con quel suo perenne sorriso sarcastico, in quel momento palesava una sua interiore e straordinaria dolcezza e tenerezza. Non gli avevo mai visto prima una tal disposizione. Ma allora c'era anche un altro Henryk, che avrei potuto intendere se solo lo avessi conosciuto, invece di trovarmici in perpetuo contrasto. Mi girai di nuovo verso il muro. La situazione non era cambiata. Papà continuava a piangere, Henryk cercava di calmarlo, gli uomini della polizia continuavano a puntarci contro i fucili. Non riuscivamo a vederli dietro la barriera di luce bianca. Poi, all'improvviso, in una frazione di secondo, avvertii per istinto che la morte non ci minacciava più. Trascorsero alcuni istanti, e una voce secca attraversò la barriera di luce. «Che mestiere fate?» Rispose Henryk per tutti. Appariva sorprendentemente padrone di sé, la voce tranquilla, come se nulla fosse successo. «Siamo musicisti.» Uno dei poliziotti mi si piantò davanti, mi afferrò per il bavero e mi scrollò in un ultimo scoppio di collera, del tutto immotivato, dato che ora aveva deciso di lasciarci vivere. «Buon per voi che anch'io sono musicista.» Mi diede uno spintone, sicché arretrai barcollando contro il muro. «Via di qui!» Ci mettemmo a correre nell'oscurità, ansiosi di allontanarci dalla luce delle loro torce il più velocemente possibile, prima che cambiassero idea. Riuscivamo a sentire alle nostre spalle le loro voci, sempre meno distinte, accese in una discussione violenta. In due rimproveravano quello che ci aveva lasciato andare via. Secondo loro non meritavamo alcuna comprensione, visto che eravamo stati noi a scatenare questa guerra in cui i tedeschi morivano. Per il momento, però, non morivano, e invece si arricchivano. Sempre più spesso gruppi di tedeschi irrompevano nelle case degli ebrei, le saccheggiavano e ne asportavano i mobili caricandoli su autocarri. Capifamiglia disperati
vendevano gli averi più preziosi, sostituendoli con roba priva di valore che non avrebbe tentato nessuno. Anche noi vendemmo i nostri mobili, ma più per necessità che per paura: stavamo diventando sempre più poveri. Nessuno, in famiglia, aveva animo di speculare. Regina ci provò, ma senza successo. In quanto avvocato, aveva un forte senso dell'onestà e della responsabilità e non le riusciva assolutamente né di chiedere né di accettare il doppio dell'effettivo valore di qualsiasi oggetto. Si volse allora alle ripetizioni private. Papà, mamma e Halina davano lezioni di musica e Henryk insegnava inglese. Io ero l'unico incapace di trovare un modo per guadagnarmi il pane. Sprofondato nell'apatia, la sola cosa che riuscivo a fare era lavorare, di tanto in tanto, all'orchestrazione del mio concertino. Nella seconda metà di novembre, inesplicabilmente, i tedeschi cominciarono a sbarrare con filo spinato le strade che partivano dal lato settentrionale di via Marszalkowska e, alla fine del mese, fu emesso un comunicato cui nessuno inizialmente riuscì a credere. Nemmeno nei nostri pensieri più riposti avremmo mai sospettato che potesse accadere una cosa del genere: dal primo al 5 dicembre, gli ebrei avrebbero dovuto munirsi di bracciali bianchi contrassegnati da una stella azzurra di Davide. E ci toccava d'essere pubblicamente marchiati come paria. Secoli di progresso dell'umanità stavano per essere spazzati via ed eccoci tornati al Medio Evo. Per settimane e settimane, l'intellighenzia ebraica si tenne volontariamente agli arresti domiciliari. Nessuno si sarebbe avventurato in strada con quel marchio sulla manica, e se proprio era indispensabile uscire da casa, si cercava di passare inosservati, camminando con gli occhi abbassati, l'animo colmo di vergogna e di angoscia. Sopraggiunsero, senza preavviso, mesi di rigido clima invernale e il freddo sembrava dare una mano ai tedeschi a uccidere la gente. Le gelate duravano settimane, la temperatura scese a livelli senza precedenti in Polonia. Quasi impossibile procurarsi carbone, per il quale venivano richiesti prezzi assurdi. Ricordo che per lunghe file di giorni ci toccò stare a letto perché la temperatura nell'appartamento era troppo fredda da sopportare. Nel cuore più crudo di quell'inverno, arrivarono a Varsavia ebrei deportati, evacuati da ovest. Cioè, solo pochi di loro, di fatto, arrivarono: caricati su carri bestiame nei loro luoghi di origine, sigillati i portelloni, le persone rinchiuse rimasero senza cibo, senza acqua e senza alcuna possibilità di scaldarsi. Spesso ci volevano parecchi giorni prima che quei trasporti spettrali
giungessero a Varsavia, e solo allora la gente veniva fatta scendere. Su alcuni di quei convogli poco meno della metà dei passeggeri riuscì a sopravvivere, e sempre in grave stato di congelamento. Gli altri, ridotti ormai a cadaveri, che il rigore del gelo manteneva ritti in mezzo ai compagni, subito cadevano a terra quando i vivi si spostavano. Sembrava che le cose non potessero peggiorare ancora. Ma questo era solo il punto di vista degli ebrei; diverso era quello dei tedeschi. Fedeli al loro sistema di esercitare la pressione con gradualità crescente, nel gennaio e nel febbraio del 1940 emanarono nuovi decreti repressivi. Il primo annunciava che gli ebrei avrebbero dovuto lavorare per due anni in campi di concentramento, dove avremmo ricevuto una «educazione sociale appropriata», tale da emendare la nostra natura di «parassiti inseriti nell'organismo sano delle genti ariane.» Ci sarebbero dovuti andare gli uomini tra i dodici e i sessant'anni e le donne tra i quattordici e i quarantacinque. Il secondo decreto stabiliva il metodo per registrarci e portarci via. Per risparmiarsene il fastidio, i tedeschi stavano trasferendone la responsabilità al Consiglio ebraico che gestiva l'amministrazione della comunità. Avremmo dovuto assistere al nostro sterminio, preparando la nostra rovina con le nostre stesse mani, in una sorta di suicidio a norma di legge. I trasporti sarebbero iniziati in primavera. Il Consiglio decise di agire in modo da salvare la vita di gran parte dell'intellighenzia. Occorrevano mille zloty a testa per sostituire con un membro della classe lavoratrice ebraica la persona altrimenti da mettere in lista. Naturalmente non tutto il denaro finiva proprio nelle mani di quelle povere vittime sacrificali. I funzionari del Consiglio dovevano pur vivere, e vivevano anche bene, con vodka e qualche altra piccola squisitezza. I trasporti, però, non iniziarono in primavera. Ancora una volta gli editti ufficiali tedeschi risultavano poco attendibili, anzi per alcuni mesi vi fu un allentamento della tensione nei rapporti tra ebrei e tedeschi, sempre più tangibile via via che da entrambe le parti ci si preoccupava sempre più per quanto stava accadendo al fronte. Con l'arrivo della primavera apparve chiaro che gli alleati, trascorso l'inverno a prepararsi adeguatamente, non avrebbero tardato ad attaccare la Germania contemporaneamente dalla Francia, dal Belgio e dall'Olanda, sfondando la Linea Siegfried, e così invadendo il territorio della Saar, della Baviera e della Germania settentrionale, per conquistare quindi Berlino e liberare poi Varsavia al più tardi in estate. Tutta la città era in
uno stato di febbrile ottimismo. Aspettavamo l'inizio dell'offensiva nello stato d'animo di chi si prepari a una festa. Nel frattempo, però, i tedeschi avevano invaso la Danimarca, ma a tale iniziativa non fu attribuito significato alcuno nella valutazione che ne diedero i nostri esperti di politica. Si trattava di unità destinate a essere tagliate fuori e quindi isolate. E il 10 maggio, l'offensiva finalmente scattò, da parte però dei tedeschi. L'Olanda e il Belgio caddero. I tedeschi entrarono in Francia. Una ragione in più, questa, per non perdersi d'animo. Si stava ripetendo quanto già accaduto nel 1914. Da parte francese erano ancora al comando le stesse persone di allora: Pétain, Weygand, uomini eccellenti della scuola di Foch. Era sicuro che avrebbero difeso la Francia contro i tedeschi con la stessa capacità già a suo tempo dimostrata. Finalmente il 20 maggio un mio collega violinista venne a trovarmi nel primo pomeriggio. Dovevamo suonare insieme, ripassando una sonata di Beethoven che non eseguivamo più da qualche tempo e che entrambi amavamo molto. In casa c'erano anche altri amici, e mia madre, desiderosa di festeggiarmi, aveva procurato del caffè. Era una bella giornata di sole. Gustammo il caffè e i deliziosi dolcetti preparati dalla mamma. Eravamo allegri. I tedeschi erano sì alle porte di Parigi, ma nessuno se ne preoccupava troppo. In fin dei conti c'era la Marna: quella classica linea di difesa dove tutto si sarebbe bloccato, come nel contrasto in cui si inverte l'andamento dinamico nella seconda parte dello Scherzo in si minore di Chopin, un crescendo tempestoso di crome, via via sempre più travolgenti sino all'accordo conclusivo, là dove i tedeschi si sarebbero ritirati entro le proprie frontiere con lo stesso impeto della loro avanzata, avviando così la fine della guerra e la vittoria alleata. Dopo il caffè, ci accingemmo ad attaccare la nostra esecuzione. Sedetti al pianoforte, intorno a me molti ascoltatori attenti, persone capaci di apprezzare il godimento che avrei offerto tanto a loro quanto a me stesso. Il violinista era in piedi alla mia destra, alla mia sinistra era seduta una deliziosa giovane amica di Regina con il compito di voltarmi le pagine. Che altro ancora avrei potuto desiderare in quel momento per sentirmi del tutto felice? Aspettavamo per iniziare solo Halina, che era scesa al negozio per fare una telefonata. Quando rientrò aveva un giornale in mano: una edizione straordinaria. Due parole giganteggiavano in prima pagina, a caratteri cubitali, certamente quelli più grandi a disposizione dei tipografi: PARIGI CADE! Appoggiai la testa sul pianoforte e, per la prima volta dall'inizio
della guerra, scoppiai in lacrime. Inebriati dalla vittoria, e obbligati a un attimo di sosta per riprender fiato, i tedeschi avevano ora il tempo per tornare a occuparsi di noi. Del resto nemmeno durante i combattimenti sul fronte occidentale ci avevano del tutto dimenticati. Le ruberie compiute a danno degli ebrei, la loro evacuazione forzata, le deportazioni nei campi di lavoro in Germania, procedevano senza sosta, ma ormai avevamo finito per abituarci. Adesso, però, c'era da aspettarsi il peggio. In settembre vi furono i primi trasporti per i campi di lavoro di Betzec e Hrubieszwòw. Con la scusa di dare agli ebrei un'educazione sociale «adeguata», i tedeschi li lasciavano per giorni e giorni immersi nell'acqua sino alla cintola, perché mettessero in opera più efficienti sistemi fognari, provvedendo al loro sostentamento con razioni giornaliere costituite da cento grammi di pane e da una ciotola di acquosa brodaglia. In pratica quel lavoro non durò due anni, come annunciato preliminarmente, ma solo tre mesi. Il tempo sufficiente, tuttavia, per distruggere fisicamente la gente e per farla ammalare di tubercolosi. Agli uomini rimasti a Varsavia toccava notificarsi per andare a lavorarvi: ciascuno doveva adempiere l'obbligo di sei ore di lavoro forzato al mese. Io feci di tutto per evitarlo. Temevo per le mie dita. Mi sarebbe bastato un deficit del tono muscolare, un'infiammazione articolare o più semplicemente una brutta botta, ed ecco bell'e finita la mia carriera di pianista. Henryk vedeva le cose in modo diverso. Secondo lui, una persona intellettualmente creativa doveva svolgere un certo lavoro materiale al fine di poter valutare nel modo giusto le proprie capacità. E quindi prestò la sua parte di lavoro, anche se per questo dovette interrompere gli studi. Di lì a poco, due ulteriori eventi incisero profondamente sullo stato d'animo generale. Innanzitutto l'inizio dell'offensiva aerea tedesca contro l'Inghilterra. Quindi l'affissione di cartelli posti agli ingressi di certe strade, quelle destinate a delimitare in seguito i limiti del ghetto ebraico, affinchè i passanti fossero informati della presenza del tifo in quelle strade, e dovessero quindi evitarle. Poco dopo, sull'unico quotidiano pubblicato a Varsavia dai tedeschi in lingua polacca, apparve un commento ufficiale a questo proposito: non solo gli ebrei erano parassiti sociali, ma anche propagatori di malattie infettive. Non vivevano affatto rinchiusi nel ghetto, proseguiva la cronaca, e la stessa parola ghetto era improponibile. Il giornale proseguiva affermando che i tedeschi appartenevano a una razza troppo magnanima per
confinare perfino parassiti come gli ebrei dentro un ghetto, un'istituzione sopravvissuta al medioevo e indegna del nuovo ordine europeo. Occorreva invece creare un quartiere a sé stante per gli ebrei della città, destinato esclusivamente agli ebrei, dove questi avrebbero goduto di una libertà totale insieme con la possibilità di conservare la propria cultura, le proprie usanze e le pratiche tradizionali proprie della razza. Solo per esigenze igieniche quel quartiere sarebbe stato cinto da un muro affinchè il tifo e altre malattie ebraiche non si diffondessero in altre parti della città. Questa relazione umanitaria era corredata da una piantina che definiva i limiti precisi del ghetto. Noi, quanto meno, potevamo consolarci al pensiero che la nostra strada si trovava già nell'area del ghetto e non ci obbligava quindi a cercarci un altro appartamento. Gli ebrei che vivevano fuori di quell'area si trovarono in una situazione critica: nelle ultime settimane di ottobre furono costretti a sborsare sottobanco somme esorbitanti per trovarsi un tetto nuovo sopra la testa. I più fortunati trovarono locali disponibili in via Sienna, che sarebbe diventata gli Champs-Elysées del ghetto, oppure si trasferirono nella zona adiacente. Altri furono costretti a occupare squallidi tuguri nelle zone malfamate delle vie Gesia, Smocza e Zamenhof, ormai da tempo immemorabile ricetto del proletariato ebraico. I cancelli del ghetto furono chiusi il 15 novembre. Quella sera io avevo da fare all'altro capo di via Sienna, non lontano da via Zelazna. Piovigginava, ma faceva ancora insolitamente caldo per quel periodo dell'anno. Le strade buie brulicavano di figure che portavano la fascia bianca al braccio. Erano tutti in uno stato di grande agitazione, correvano avanti e indietro come animali rinchiusi in gabbia e non ancora abituati a tale condizione. Le donne si lamentavano, i bambini atterriti piangevano accosciati accosto ai muri degli edifici, sopra mucchi di coperte e materassi sempre più umidi e sudici per la sporcizia delle strade. Queste erano le famiglie ebraiche cacciate a forza dietro le mura del ghetto all'ultimo momento, e senza alcuna speranza di trovare riparo. Mezzo milione di persone doveva cercarsi un posto qualsiasi dove posare la testa in una zona già sovraffollata della città, dove lo spazio bastava appena per centomila persone. Guardando avanti a me nella strada buia, vidi i fasci di luce che illuminavano la nuova recinzione di legno: il cancello del ghetto, di là dal quale viveva gente libera: non a domicilio coatto, con la disponibilità di uno spazio adeguato, proprio qui nella città di Varsavia. Nessun
ebreo, invece, avrebbe più potuto varcare quel cancello. A un tratto qualcuno mi prese la mano. Era un amico di mio padre, anche lui musicista, e come mio padre, uomo di temperamento allegro e cordiale. «Be', che ne dici di questo, dunque?» mi chiese con una risata nervosa, descrivendo con la mano un arco che includeva quella massa di gente, i muri sporchi delle case e quelli del ghetto, e il cancello, visibile nella lontananza. «Che ne dico?» risposi. «Che vogliono eliminarci.» Ma l'anziano signore non condivideva il mio parere, o forse non voleva condividerlo. Fece un'altra risatina, un po' forzata, mi diede una pacca sulla schiena ed esclamò: «Oh, non preoccuparti!» Poi afferrò un bottone del mio cappotto, avvicinò il volto rubizzo al mio, e aggiunse con convinzione sincera o forse no: «Presto ci lasceranno andare. Basta che l'America ne sia informata.»
CAPITOLO 6.
Ballando in via Chlodna.
Oggi, quando mi tornano alla mente ricordi ancora più terribili, le esperienze vissute nel ghetto di Varsavia dal novembre 1940 al luglio 1942, un periodo di quasi due anni, esse diventano un'unica immagine quasi che fossero durate un unico giorno. Per quanto mi sforzi non riesco a frazionarlo seguendo un certo ordine cronologico, come si fa di solito quando si tiene un diario. Naturalmente, all'epoca accaddero alcune cose, proprio come erano già accadute e come sarebbero accadute di nuovo, che erano di dominio pubblico o, quanto meno, facili da intuire. I tedeschi andavano a caccia di selvaggina umana, da usare come bestie da soma, proprio come facevano nel resto d'Europa. Forse con l'unica differenza che nel ghetto di Varsavia quelle cacce cessarono all'improvviso nella primavera del 1942. Nel giro di pochi mesi, la preda ebraica sarebbe dovuta servire ad altri scopi e, come per qualsiasi altra selvaggina, ci voleva una stagione in cui la caccia e la pesca non venivano praticate, così che le grandi battute spettacolari risultassero molto più fruttuose e non deludessero. Al pari dei francesi, dei belgi, dei norvegesi e dei greci,
anche noi eravamo derubati, ma in modo più sistematico e rigorosamente ufficiale. I tedeschi che non facevano parte del sistema, non avevano accesso al ghetto e nessun diritto di rubare. La polizia tedesca era autorizzata a farlo in base a un decreto emesso dal governatore generale in ottemperanza alla legge sul furto istituita dal governo del Reich. Nel 1941 la Germania invase la Russia. Nel ghetto noi seguivamo con il fiato sospeso il corso di quella nuova offensiva. In un primo momento ci illudemmo che i tedeschi avrebbero finalmente perso, in seguito provammo disperazione e dubbi crescenti riguardo al destino del genere umano e di noi ebrei in particolare, man mano che le truppe di Hitler continuavano ad avanzare in Russia. Poi, ancora, quando i tedeschi ingiunsero agli ebrei di consegnare le pellicce, pena la morte se non lo avessero fatto, ci rallegrammo al pensiero che, con tutta probabilità, le cose non dovevano andare particolarmente bene visto che la loro vittoria dipendeva da pellicce di volpe argentata e di castoro. Il ghetto andava sempre più restringendosi, i tedeschi ne riducevano l'area, strada per strada, così come in Europa spostavano i confini dei Paesi che assoggettavano, impadronendosi di una regione dopo l'altra. Pareva quasi che il ghetto di Varsavia fosse per loro importante quanto la Francia, e l'esclusione di via Zlota e via Zielna equivalesse, per l'espansione del Lebensraum tedesco, al distacco dell'Abazia e della Lorena dal territorio francese. Tuttavia, questi avvenimenti che si verificavano fuori dal nostro Paese erano del tutto insignificanti se raffrontati a quel fatto totalizzante che teneva occupata la nostra mente ogni ora e ogni minuto del tempo trascorso nel ghetto: eravamo rinchiusi là dentro. Credo che sarebbe stato per noi psicologicamente più facile da sopportare se fossimo stati, ad esempio, effettivamente rinchiusi in una cella. Questo genere di carcerazione senza dubbio definisce nettamente il rapporto di un essere umano con la realtà. e' una situazione inequivocabile: la cella è un mondo a sé dove sei rinchiuso senza alcun rapporto con il lontano mondo della libertà. Se hai il tempo e la propensione a farlo puoi sognare di quel mondo, ma se non ci pensi non entrerà di forza nella tua mente. Non è sempre davanti ai tuoi occhi, a torturarti con i ricordi della libertà che hai perso. La realtà del ghetto era tanto peggiore proprio perché aveva la parvenza della libertà. Si poteva uscire in strada serbando l'illusione di trovarsi in una città assolutamente normale. Le fasce che portavamo sul braccio e che ci marchiavano in quanto ebrei non ci turbavano perché le portavamo tutti. E, dopo aver vissuto un po' di
tempo nel ghetto, mi resi conto che ci avevo fatto l'abitudine, al punto che quando sognavo i miei amici ariani li vedevo con la fascia al braccio, quasi che quella striscia di tessuto bianco fosse parte integrante dell'abbigliamento umano, al pari di una cravatta. Tuttavia, le strade del ghetto, e solo quelle strade, facevano sempre capo a dei muri. Spesso io uscivo a camminare senza una meta precisa, seguendo il mio istinto e quando meno me l'aspettavo mi ritrovavo di fronte a uno di quei muri. Mi sbarravano la strada a impedirmi di proseguire senza che vi fosse alcun motivo logico. Allora, la parte della strada dall'altro lato del muro mi appariva a un tratto il luogo che più amavo e che mi era indispensabile più di qualsiasi altra cosa al mondo. Un posto dove le cose continuavano ad accadere e che avrei voluto vedere a qualsiasi prezzo. Ma era inutile. Tornavo indietro distrutto e così trascorrevo un giorno dopo l'altro in preda allo stesso senso di disperazione. Perfino nel ghetto si poteva andare al ristorante o al caffè. Lì si incontravano amici e sembrava che nulla ti impedisse di creare un'atmosfera piacevole, come in un ristorante o in un caffè di qualsiasi altro luogo. Ma arrivava inevitabilmente il momento in cui un amico buttava lì che sarebbe stato simpatico, per quel nostro gruppetto impegnato in una conversazione tanto piacevole, fare una gita in una bella giornata domenicale, per esempio a Otwock. «E' estate», magari diceva, «il tempo è bello, e continuerà a far caldo...» e nulla avrebbe potuto vietarti di attuare un progetto tanto semplice, neppure se ti fosse venuta voglia di metterlo in atto lì per lì. Sarebbe bastato pagare il conto del caffè e delle paste, uscire, dirigersi verso la stazione con i tuoi amici allegri e spensierati, acquistare i biglietti e salire sul treno che portava fuori città. Esistevano tutte le condizioni per creare un'illusione perfetta. Ma poi, di colpo, ti si parava davanti il muro. Il periodo di quasi due anni trascorsi nel ghetto mi riporta alla mente, quando ci penso, un'esperienza infantile molto più limitata nel tempo. Dovevo essere operato di appendicite, un intervento di routine che non destava preoccupazione alcuna. Tutto si sarebbe risolto nel giro di una settimana. La data era già stabilita con i medici ed era stata riservata una stanza in ospedale. Spinti dal desiderio di rendermi l'attesa meno pesante, i miei genitori, nella settimana antecedente all'operazione, si erano dati un gran daffare a viziarmi, facendomi tanti regali. Ogni giorno mi portavano a mangiare il gelato, al cinema o a teatro, mi regalavano una gran quantità di libri e di giocattoli e tutto ciò che il mio cuore poteva desiderare. Sembrava
non mi servisse altro per completare la mia felicità. Ricordo però che durante quella settimana, che fossi al cinema o a teatro o che mangiassi il gelato, perfino nei momenti di gioco che richiedevano grande concentrazione, io non riuscivo neppure per un istante a liberarmi di quella sensazione di paura alla bocca dello stomaco, una paura persistente e inconscia per ciò che sarebbe successo quando finalmente fosse arrivato il giorno dell'operazione. La medesima istintiva paura non abbandonò mai la gente del ghetto per quasi due anni. Anche se in confronto al periodo che sarebbe seguito quelli furono anni di relativa calma, trasformarono però la nostra vita in un incubo senza fine, perché con tutto il nostro essere avvertivamo che in qualsiasi momento sarebbe potuto accadere qualcosa di terribile, pur ignorando quale fosse il pericolo che ci minacciava e da dove sarebbe arrivato. Al mattino ero solito uscire di casa subito dopo la prima colazione. Il mio rituale quotidiano includeva una lunga camminata per via Mila fino a una buia e anonima stamberga dove viveva la famiglia del custode Jehuda Zyskind, che abitava in via Mila non lontano da via Karmelicka. Oltre al lavoro di custode, quando ve ne fosse necessità faceva anche da corriere, autista, venditore e borsanerista al di là del muro del ghetto. Grazie alla sua astuzia e alla forza fisica che gli derivava dalla corporatura possente, si procacciava denaro dove gli capitava per poter sfamare la sua famiglia, una famiglia così numerosa che non riuscivo nemmeno a capire di quanti membri fosse composta. Tuttavia, a parte queste occupazioni quotidiane, Zyskind era un socialista, un idealista. Si teneva in contatto con l'organizzazione socialista, faceva entrare notizie di nascosto nel ghetto e cercava di costituirvi delle cellule, benché questo gli riuscisse molto difficile. Mi trattava con la benevola disistima che lui riteneva la giusta via d'approccio da usare con gli artisti, gente del tutto negata ai fini cospirativi. Tuttavia gli ero simpatico e mi permetteva di andare da lui ogni mattina a leggere le comunicazioni segrete pervenute via radio e appena stampate. Jehu-da sopravvisse fino all'inverno del 1942, quando fu colto in flagrante, con pile di materiale segreto sul tavolo che lui stava selezionando con l'aiuto della moglie e dei figli. Furono fucilati tutti all'istante, perfino il piccolo Symche, che aveva tre anni. Nelle condizioni del ghetto uscire di casa, un'attività perfettamente normale, assumeva il carattere di un rituale, soprattutto durante i rastrellamenti per le strade. Prima bisognava far visita ai vicini, ascoltarne i problemi e le lamentele, e
così scoprire che cosa stava succedendo quel giorno in città. C'erano retate, blocchi? Via Chlodna era sorvegliata? Adempiuta quest'operazione si usciva dall'edificio, ma bisognava ripetere le stesse domande per strada, fermando i passanti che ti venivano incontro e poi continuando a interrogare a ogni angolo di strada. Solo prendendo quelle precauzioni si poteva avere la relativa certezza che non saresti stato beccato. Il ghetto era diviso in un ghetto grande e in un ghetto piccolo. Di nuovo ridimensionato, il ghetto piccolo, costituito dalle vie Wielka, Sienna, Zelazna e Chlodna, aveva come unico collegamento con il ghetto grande il tratto dall'angolo di via Zelazna fino a via Chlodna. Il ghetto grande comprendeva tutta la parte settentrionale di Varsavia, dove si articolava un gran numero di vie e vicoli angusti e maleodoranti, gremiti di ebrei costretti a stiparsi nella miseria e nella sporcizia. s porcizia. Anche il ghetto piccolo era affollato, ma non a tal punto. Tre o quattro persone per stanza, e si poteva camminare per le strade senza scontrarsi con altri passanti purché ci si scansasse e ci si destreggiasse abilmente. Né il contatto fisico comportava troppi rischi dato che nel ghetto piccolo abitavano per lo più persone appartenenti all'intellighenzia e al ceto benestante. Gente relativamente indenne da parassiti e più che sollecita a togliersi di dosso quelli che tutti ci beccavamo nel ghetto grande. Solo dopo aver lasciato via Chlodna aveva inizio l'incubo. Occorrevano anzitutto fortuna e intuizione per scegliere il momento giusto per raggiungere quel punto. Via Chlodna si trovava nel quartiere «ariano» della città, e c'era un continuo andirivieni di veicoli, di tram e di pedoni. Per consentire agli ebrei di percorrere via Zelazna dal ghetto piccolo a quello grande e viceversa, era necessario bloccare il traffico quando la gente attraversava via Chlodna. Poiché questo disturbava i tedeschi, agli ebrei l'attraversamento veniva permesso il più raramente possibile. Quando si percorreva via Zelazna si poteva vedere già da una certa distanza una moltitudine di persone sull'angolo di via Chlodna. Coloro che avevano impegni urgenti di lavoro stavano in piedi appoggiandosi nervosamente ora su un piede ora sull'altro, in attesa che i poliziotti avessero la compiacenza di fermare il traffico. A costoro infatti, spettava decidere quando via Chlodna fosse abbastanza vuota e via Zelazna abbastanza affollata per lasciar passare gli ebrei. Quando giungeva quel momento le guardie si scostavano liberando una folla compatta di persone impazienti che si avventavano da entrambe le parti, scontrandosi, scaraventandosi reciprocamente a terra e calpestando altri
ancora per sottrarsi il più in fretta possibile alla pericolosa prossimità con i tedeschi e rientrare tosto nei due ghetti. Poi il cordone formato dai poliziotti si ricomponeva e l'attesa ricominciava. Via via che la folla aumentava, aumentavano insieme l'agitazione, la tensione e l'inquietudine perché le guardie tedesche, scocciate di quella loro corvée, cercavano di divertirsi come meglio potevano. Uno dei loro divertimenti preferiti era il ballo. Musicanti venivano reclutati nelle strade lì attorno, e il numero di queste orchestrine di strada cresceva al pari dell'infelicità generale. Dalla folla in attesa i soldati sceglievano persone dall'aspetto giudicato particolarmente buffo e ordinavano loro di ballare dei valzer. I suonatori si sistemavano accosto al muro di un edificio, la strada veniva sgombrata e uno dei soldati si metteva a dirigere picchiando i suonatori se riteneva che suonassero troppo a rilento. Altri controllavano che i balli fossero eseguiti a regola d'arte. Coppie di sciancati, di vecchi, le persone molto grasse oppure magrissime, erano er ano costrette a volteggiare in tondo davanti a gente che li guardava esterrefatta. Le persone basse di statura o i bambini dovevano accompagnarsi a quelle molto alte. I tedeschi se ne stavano attorno a «quella pista da ballo», ridevano come matti e urlavano: «Più in fretta! Avanti, più in fretta! Devono ballare tutti!» Se la scelta delle coppie risultava particolarmente azzeccata e divertente, le danze si protraevano. Il transito pedonale scorreva, si bloccava, riprendeva a scorrere, ma gli sfortunati ballerini dovevano continuare a saltellare a ritmo di valzer: ansimando, piangendo esausti, lottando per non crollare nella vana speranza d'aver grazia. Solo dopo aver attraversato incolume via Chlodna, vedevo il ghetto come realmente era. La sua gente non possedeva grossi risparmi, non aveva preziosi nascosti, si guadagnava da vivere con mille commerci. Più ti inoltravi nel labirinto dei vicoli stretti, più questi commerci diventavano frenetici e pressanti. Donne con bambini attaccati alle gonne avvicinavano i passanti, offrendo in vendita qualche dolcetto su un pezzo di cartone. Questi dolci rappresentavano tutto ciò che quelle donne possedevano e dalla loro vendita dipendeva se i figli quella sera avrebbero avuto da mangiare un tozzo di pane nero. Vecchi ebrei, resi irriconoscibili irrico noscibili dal loro stato di deperimento organico, cercavano di attirare l'attenzione su cenci d'ogni sorta dai quali speravano di ricavare qualche soldo. Uomini giovani trafficavano in oro e valuta, scatenandosi in contestazioni rabbiose e violente sul valore di certi malconci
cipolloni, di quel che restava delle relative catene oppure sulla dubbia validità dei dollari offerti in banconote tanto sudicie e lacere da esser rifiutate dopo verifica in controluce perché troppo acciaccate, nonostante i calorosi sforzi del venditore a garantire la stampa recente. I tram a cavalli, noti come konhellerki, si facevano strada per le vie affollate sferragliando e scampanellando e i cavalli e le stanghe fendevano la massa umana come una barca che avanzi nell'acqua. n ell'acqua. La ragione sociale derivava dal nome dei due proprietari dei tram, Kon e Heller, due ricchi ebrei che, al servizio della Gestapo, ne ricavavano florido commercio. Il prezzo dei biglietti era elevato, sicché solo le persone benestanti usavano questi tram, recandosi al centro del ghetto unicamente per motivi di affari. Quando scendevano alla fermata, cercavano di procedere il più in fretta possibile per le strade fino al negozio o all'ufficio dove avevano un appuntamento, concluso il quale riprendevano immediatamente un altro tram per lasciare al più presto quell'orribile quartiere. Anche il semplice tragitto dalla fermata del tram al negozio più vicino era tutt'altro che facile. Dozzine di mendicanti aspettavano solo quel fugace incontro con un concittadino prosperoso per circondarlo, tirandolo per i vestiti, sbarrandogli la strada, supplicando, piangendo, urlando e tirandolo per i vestiti, sbarrandogli la strada, supplicando, piangendo, urlando e minacciando. Ma era sconsigliabile provar pena e dar qualcosa a un mendicante, perché in quel caso le urla sarebbero diventate lamentosi ululati. Quel segnale avrebbe richiamato da ogni parte un nuovo e crescente afflusso di spettrali figure, sicché il buon samaritano si sarebbe trovato assediato, circondato da apparizioni lacere e asperso dalle loro salive di tisici, da bambini ricoperti di piaghe purulente sospinti contro le sue gambe per bloccarlo, da un mulinare di moncherini gesticolanti, da occhi privi di vista, da bocche sdentate, spalancate in grevi fiati, a implorare ognuno la pietà per questo ultimo, estremo momento della vita, come se la loro fine potesse essere ritardata solo da un aiuto immediato. Per arrivare al centro del ghetto bisognava scendere lungo via Karmelicka: era l'unico tramite di accesso. Ed era matematicamente impossibile non sfiorare altra gente lì nella strada. La massa umana strabocchevole e compatta più che camminare avanzava spingendo s pingendo e incalzando, ingorgandosi davanti a bancarelle e a sporgenze all'ingresso degli androni. Un odore pungente di fradiciume emanava dalle coperte dei letti mai esposte
all'aria, da grassi rancidi, da immondizia putrescente nelle strade. Alla minima provocazione, la folla cadeva in preda al panico e si precipitava da un lato all'altro della via, pressandosi in un serra serra soffocante, urlando e imprecando. Via Karmelicka era un luogo particolarmente pericoloso: i furgoni cellulari la percorrevano varie volte al giorno. Trasportavano prigionieri, invisibili dietro lamiere di acciaio grigio e finestrini di vetro opaco, dal carcere di Pawiakgad alla sede centrale della Gestapo in vicolo Szuch, e al ritorno riportavano quel che ancora ne restava dopo l'interrogatorio: scampoli sanguinolenti di umanità, ossa spaccate, reni spappolati, unghie strappate. La scorta non permetteva ad alcuno di avvicinarsi, anche se i veicoli erano blindati. Quando imboccavano via Karmelicka, tanto affollata da non consentire in alcun modo alle persone per strada di rifugiarsi nei portoni, gli uomini della Gestapo si sporgevano e picchiavano in modo indiscriminato la gente con i manganelli. Il che non sarebbe stato particolarmente pericoloso se si fosse trattato di normali manganelli di gomma, ma quelli usati dagli uomini della Gestapo erano rinforzati da chiodi e da lamette da barba. Ogni volta che in via Mila mi congedavo da Jehuda Zyskind, provavo un senso di conforto e di rassicurazione. Jehuda era un inguaribile ottimista. Ancora oggi, nonostante siano trascorsi tanti anni dall'orrore che contraddistingueva il tempo in cui lui era ancora vivo e diffondeva il suo messaggio, non riesco, nel ricordo, a non provare ammirazione per la sua incrollabile volontà. Per quanto brutte fossero le notizie trasmesse dalla radio lui riusciva sempre a darne un'interpretazione positiva. Una volta, dopo aver letto le ultime notizie, picchiai con gesto disperato il pugno sul giornale strapazzato ed esclamai, con un sospiro: «Be', deve ammettere che adesso è tutto finito!» Sorridendo, Jehuda allungò una mano a prendersi una sigaretta e sistemandosi più comodamente sulla sedia mi rispose: «Oh, ma lei non capisce, signor Szpilman!» Dopo di che si lanciò in una delle sue lezioni di politica. Ancor meno capivo molte delle cose che lui diceva, aveva però un modo rassicurante di parlare e una tal contagiosa fiducia che tutto stesse andando nel migliore dei modi in questo mondo migliore di tutti quelli possibili, da riuscire a trasmettermela fino a convincermi a pensarla come lui senza che neppure me ne rendessi conto. Era una sensazione, però, di breve durata. Bastava che tornassi a casa e, disteso sul letto, riflettessi di nuovo sulle notizie politiche, per giungere alla conclusione che le tesi di Zyskind erano
prive di senso. Ma il mattino successivo, quando tornavo a trovarlo, lui riusciva a convincermi che mi sbagliavo, e io me ne andavo di lì con una carica di ottimismo che durava fino a sera consentendomi così di tirare avanti. Mi riuscì difficile conservare ancora qualche speranza dopo che Zyskind venne ucciso. Non c'era più nessuno in grado di spiegarmi a modo quello che stava avvenendo. Soltanto adesso so che mi sbagliavo e che sbagliate erano anche le notizie quotidiane, mentre Zyskind aveva ragione. Per quanto inverosimile a quei tempi, tutto si svolse come lui aveva previsto. Per tornare a casa percorrevo sempre la stessa strada: le vie Karmelicka, Leszno e Zelazna. Durante il tragitto facevo una breve capatina dagli amici per riferire di persona le notizie che avevo raccolto da Zyskind. Quindi raggiungevo via Nowolipki per aiutare Henryk a portare a casa la sua cesta di libri. La vita di Henryk era dura. Era lui che l'aveva scelta e non aveva alcuna intenzione di cambiarla, convinto che sarebbe stato spregevole vivere in qualsiasi altro modo. Gli amici che apprezzavano le sue risorse culturali gli avevano consigliato di entrare nella polizia ebraica come faceva la maggior parte dei giovani appartenenti all'intellighenzia. Lì si era al sicuro e se ci sapevi fare potevi guadagnare dei bei soldi. Ma Henryk non volle assolutamente saperne. Si arrabbiò anzi moltissimo e lo prese come un insulto. Ancora una volta diede mostra del suo rigore morale dichiarando che non intendeva lavorare con dei banditi! La sensibilità dei nostri amici ne fu urtata, ma Henryk cominciò ad andare in via Nowolipki tutte le mattine con una cesta piena di libri. Ne faceva commercio, standosene là, madido di sudore d'estate e scosso da brividi durante le gelate invernali, inflessibile, caparbiamente fedele alle proprie idee: se, in quanto intellettuale, non gli era consentito di avere un diverso contatto con i libri, allora, quanto meno, avrebbe avuto questo senza mai scendere più in basso. Quando Henryk e io rientravamo con quella sua cesta, il resto della famiglia di solito era già a casa, e aspettava solo noi per dare inizio al pranzo di mezzogiorno. Alla mamma stava molto a cuore che mangiassimo tutti riuniti: lì era lei la sovrana e, a suo modo, cercava di darci qualcosa a cui aggrapparci. Curava che la tavola fosse apparecchiata bene e che la tovaglia e i tovaglioli fossero puliti. Prima di venire a sedersi con noi, si passava un velo di cipria sul volto, si sistemava i capelli e si guardava allo specchio per vedere se appariva elegante. Si assettava l'abito con gesti nervosi, ma non le
riusciva più di appianare le piccole rughe attorno agli occhi, con il passar dei mesi si facevano sempre più evidenti, o di impedire che i capelli spruzzati di grigio cedessero alla canizie. Quando eravamo tutti seduti attorno al tavolo, lei arrivava dalla cucina con la zuppiera della minestra e, mentre la scodellava nei piatti, dava avvio alla conversazione. Faceva in modo che nessuno accennasse ad argomenti spiacevoli, ma se uno di noi commetteva un simile conviviale faux pas interrompeva con dolce fermezza. «Passerà tutto, aspettate e vedrete», usava dire e subito cambiava argomento. Mio padre non era portato alle tristi riflessioni, tendeva invece a sommergerci di buone notizie. Se, a esempio, c'era stato un rastrellamento di ebrei e successivamente una dozzina di loro erano stati liberati in cambio di denaro, lui sosteneva, con un radioso sorriso, di avere appreso da personaggi molto autorevoli che tutti gli uomini, indipendentemente dall'età o dal grado d'istruzione, erano stati liberati per una ragione o per l'altra: comunque stessero le cose, queste parole erano sempre intese a infonderci coraggio. Se risultava innegabile che le notizie dalla città erano cattive, sedeva a tavola con aria depressa ma, di lì a poco, la minestra ci rianimava. Alla seconda portata, che di solito consisteva in verdure, si riprendeva d'animo e si lanciava in conversazioni spensierate. Henryk e Regina erano quasi sempre profondamente assorti nei loro pensieri. Regina si preparava mentalmente per il lavoro che durante il pomeriggio svolgeva in uno studio legale. Guadagnava poco, ma lavorava con lo stesso impegno che avrebbe dimostrato se fosse stata pagata migliaia di zloty. Henryk invece si distoglieva dai suoi cupi pensieri solo per attaccare una discussione con me. Mi fissava per un po' con espressione attonita, poi si stringeva nelle spalle e bofonchiava, dando finalmente sfogo ai propri sentimenti: «Davvero! Solo uno stupido nato porterebbe cravatte come quelle di Wladek!» «Stupido sarai tu e anche idiota», gli rispondevo, e la nostra lite si accendeva veemente. Lui non capiva perché io dovessi essere ben vestito quando suonavo il pianoforte in pubblico. In realtà non voleva capire né me né quello che facevo. Ora che è morto da tanto tempo mi rendo conto che, a nostro modo, nonostante tutto, ci volevamo bene, anche se ci davamo reciprocamente sui nervi. Con ogni probabilità perché avevamo caratteri molto simili. Quella che capivo meno era Halina. Non sembrava nemmeno far parte della nostra famiglia. Era riservata e non dava mai a vedere quello che pensava e quello che sentiva, e nemmeno ci diceva che cosa faceva quando usciva di casa. Rientrava, impassibile e indifferente
come al solito. Ogni giorno allo stesso modo si limitava a stare seduta a tavola senza manifestare alcun interesse per quello che sarebbe potuto accadere. Non saprei dire com'era in realtà, e ora non mi sarà più possibile scoprirlo. Il pasto di mezzogiorno era molto frugale. Non c'era quasi mai carne e la mamma preparava piatti di altro genere in grande economia. Tuttavia parevano addirittura sontuosi, se raffrontati a quello che avevano in tavola la maggior parte delle persone che stavano nel ghetto. Durante l'inverno, in un umido giorno di dicembre in cui la neve sotto i piedi era diventata fanghiglia e un vento tagliente sferzava le strade, mi capitò di vedere un vecchio «arraffone» che stava consumando il suo pasto di mezzogiorno. «Arraffoni», così venivano chiamati nel ghetto quelli che erano piombati in uno stato di povertà tanto atroce da essere costretti a rubare per sopravvivere. Queste persone si avventavano contro chiunque passasse con un pacco in mano, glielo strappavano e scappavano via, nella speranza di trovarci dentro qualcosa di commestibile. Stavo attraversando la piazza della Banca; qualche passo davanti a me; una povera donna portava un barattolo avvolto in carta da giornale, e tra me e la donna un vecchio cencioso si trascinava faticosamente. Le spalle incurvate, tremante per il freddo avanzava nella fanghiglia, le scarpe bucate che mettevano a nudo i piedi violacei. A un tratto il vecchio si tuffò in avanti, afferrò il barattolo e cercò di strapparlo dalle mani della donna. O perché lui non era abbastanza forte o perché lei lo stringeva con troppa fermezza, in ogni caso, invece di finire nelle mani dell'uomo, il barattolo finì per terra e la minestra densa e fumante si rovesciò sulla strada sudicia. Tutti e tre ci immobilizzammo di colpo. La donna era ammutolita per l'orrore. L'uomo fissò prima il barattolo, poi la donna, quindi emise un rantolo che pareva un gemito. All'improvviso si buttò lungo disteso nella fanghiglia e prese a leccare la minestra dal suolo, tenendo le mani a coppa accosto alle labbra in modo da non farsene sfuggire neanche una goccia, ignorando la reazione della donna, che scalciava contro la sua testa urlando e strappandosi i capelli per la disperazione.
CAPITOLO 7.
Un bel gesto della signora K.
All'inizio della primavera del 1942 la caccia all'uomo nel ghetto, fino a quel momento condotta sistematicamente, all'improvviso s'interruppe. Se questo fosse accaduto due anni prima, la gente avrebbe provato sollievo, ritenendola una ragione per rallegrarsi: avrebbe nutrito l'illusione che si trattava di un cambiamento in meglio. Ma adesso, dopo due anni e mezzo di stretto contatto con i tedeschi, nessuno poteva più illudersi. Se avevano smesso di darci la caccia era solo perché avevano escogitato un'idea migliore per tormentarci. Il problema era: che genere d'idea? Le persone si cimentavano nelle ipotesi più fantasiose e, invece di sentirsi più calme, erano doppiamente angosciate. Per il momento, tuttavia, potevamo quanto meno dormire a casa, e a Henryk e a me non toccava più ricoverarci per tutta la notte nell'ambulatorio medico al minimo allarme. Era un ripiego quanto mai disagevole. Henryk dormiva sul tavolo operatorio, io sul letto ginecologico e al mattino, quando mi svegliavo, vedevo le radiografie appese sopra la mia testa ad asciugare, con le immagini di cuori ammalati, polmoni tubercolotici, cistifellee piene di calcoli biliari, ossa fratturate. Comunque, il nostro amico dottore che dirigeva quest'ambulatorio aveva avuto ragione nel sostenere che anche durante le più feroci retate notturne, mai la Gestapo aveva messo piede là dentro per perquisire l'ambulatorio, sicché quello era l'unico posto in cui potevamo dormire al sicuro. Questa calma pressoché totale durò sino a un venerdì della seconda metà del mese di aprile quando inaspettatamente un'ondata di paura dilagò per il ghetto. Non sembrava esservi alcuna ragione a giustificarla, e se si chiedeva a qualcuno il perché di tanto spavento e angoscia e che cosa pensava stesse per accadere, nessuno sapeva dare una risposta concreta. Tuttavia, subito dopo mezzogiorno tutti i negozi furono chiusi e la gente si nascose in casa. Non sapevo che cosa sarebbe successo al caffè. Come al solito mi recai allo Sztuka, ma anche questo locale era chiuso. Tornai a casa in uno stato di insolita agitazione, perché, nonostante tutte le domande che avevo posto a miei conoscenti di solito bene informati, non ero riuscito a scoprire che cosa stesse accadendo. Nessuno lo sapeva. Restammo alzati, vestiti di tutto punto, fino alle undici, quando decidemmo di andare a dormire visto che fuori tutto pareva tranquillo. Eravamo ormai quasi convinti che la paura fosse stata
determinata solo da voci prive di fondamento. Al mattino fu mio padre a uscire per primo. Rientrò pochi minuti dopo, pallido, con un'espressione allarmata sul volto. Durante la notte i tedeschi avevano fatto irruzione in moltissimi caseggiati, avevano trascinato una settantina di uomini in strada e li avevano fucilati. Fino a quel momento nessuno aveva rimosso i cadaveri. Che cosa significava? Che avevano fatto queste persone ai tedeschi? Provavamo orrore e indignazione. La risposta arrivò solo nel pomeriggio allorché nelle strade deserte furono affissi dei manifesti. Le autorità tedesche ci informavano che si erano viste costrette a ripulire la nostra parte della città da «elementi indesiderabili», ma che questa loro azione non avrebbe avuto ripercussioni sulla parte leale della cittadinanza: negozi e caffè dovevano essere riaperti subito e la popolazione doveva riprendere la vita normale, che non era affatto in pericolo. Il mese seguente trascorse tranquillo. Era maggio e i lillà fiorivano qua e là, perfino nei rari piccoli giardini del ghetto, mentre grappoli di fiori in boccio pendevano dalle acacie, di giorno in giorno più pallide. Proprio quando i fiori stavano per sbocciare del tutto i tedeschi si ricordarono della nostra esistenza. Ma questa volta in modo diverso: non intendevano occuparsi di noi direttamente. Demandavano il compito della caccia all'uomo alla polizia ebraica e al sindacato ebraico. Henryk aveva avuto ragione a rifiutare di entrare nella polizia e a definirli banditi. Per lo più, erano stati reclutati tra giovani appartenenti alle classi più abbienti e tra loro c'era un gran numero di nostri conoscenti. Restammo tutti ancor più sconvolti quando ci rendemmo conto che uomini ai quali eravamo soliti stringere la mano e considerare amici, uomini che fino a poco tempo prima erano state persone oneste, ora si comportavano in modo così spregevole. Pareva quasi che avessero introiettato lo spirito della Gestapo. Non appena avevano indossato la divisa, calzato i berretti della polizia e impugnato i manganelli di gomma, la loro indole era cambiata. Ora ambivano solo a essere a stretto contatto con gli ufficiali della Gestapo, a rendersi loro utili, a sfilare al loro fianco in parata per le strade, a ostentare la buona conoscenza della lingua tedesca e a rivaleggiare con i loro padroni in crudeltà nei confronti della popolazione ebraica. Nonostante ciò riuscirono a formare all'interno del corpo di polizia un'orchestrina jazz, peraltro di ottimo livello. Nel corso della caccia all'uomo che si svolse nel mese di maggio circondarono le strade con la professionalità di vere e proprie SS, di fautori della purezza della razza. Si aggiravano nelle
loro eleganti divise, urlando con voci tonanti e brutali, simili a quelle dei tedeschi, e picchiavano la gente con i manganelli di gomma. Mi trovavo ancora in casa quando mia madre arrivò di corsa recando notizie della caccia: avevano preso Henryk. Decisi di liberarlo a ogni costo, benché sapessi di poter contare solo sulla mia popolarità di pianista. Nemmeno i miei documenti erano in ordine. Mi feci strada attraverso una serie di cordoni, venni fermato e poi di nuovo rilasciato, fino a che raggiunsi l'edificio dove si trovava l'ufficio di collocamento. Davanti alla porta d'ingresso un gruppo di uomini venivano spinti da tutte le parti da poliziotti che si comportavano come cani da pastore. Il gregge umano continuava ad aumentare mano mano che altra gente veniva trascinata lì dalle strade contigue. Con una certa difficoltà raggiunsi il vice direttore dell'ufficio e riuscii a strappargli la promessa che Henryk sarebbe tornato a casa prima del calar della sera. E così avvenne, ma con mia grande sorpresa mio fratello si mostrò furibondo con me. Pensava che non avrei dovuto umiliarmi a supplicare una tale sottospecie umana come i poliziotti e il personale dell'ufficio. «Avresti per caso preferito che ti portassero via?» «Tu non c'entri», ringhiò di rimando. «Loro volevano me, non te. Perché hai interferito in cose che non ti riguardano?» Mi strinsi nelle spalle. Che senso aveva litigare con un pazzo? Quella sera fu annunciato che il coprifuoco sarebbe stato prolungato fino a mezzanotte in modo che i famigliari di quanti sarebbero stati inviati nei campi di lavoro avessero il tempo di portar loro coperte, un cambio di biancheria e cibo per il viaggio. Un gesto di «magnanimità» davvero commovente da parte dei tedeschi, che la polizia ebraica sottolineò in tutti i modi al fine di guadagnarsi la nostra fiducia. Solo dopo molto appresi che mille uomini rastrellati nel ghetto erano stati portati direttamente al campo di Treblinka, dato che i tedeschi volevano verificare l'efficienza delle camere a gas e dei forni crematori appena costruiti. Trascorse un altro mese di pace e di tranquillità poi, una sera di giugno, nel ghetto vi fu un bagno di sangue. Eravamo ben lungi dall'immaginare ciò che sarebbe accaduto. Faceva caldo, dopo cena sollevammo le tapparelle che riparavano dalla luce la nostra sala da pranzo e spalancammo le finestre per lasciar entrare un po' d'aria fresca della sera. Il furgone della Gestapo era passato davanti alla casa di fronte alla nostra a tale velocità e gli spari di avvertimento ci pervennero con tanta immediatezza che, prima di riuscire ad alzarci da tavola e correre alla finestra, la porta di quell'edificio era già
aperta. Dall'interno ci pervennero le urla delle SS. Anche le finestre erano state aperte e, benché la luce fosse spenta, dietro di esse si avvertiva una grande agitazione. Volti impauriti sbucarono dall'oscurità e subito si ritrassero. Mano mano che un tedesco con gli stivali ai piedi saliva le scale le luci si accendevano, un piano dopo l'altro. Nell'appartamento dirimpetto al nostro viveva la famiglia di un uomo d'affari. Li conoscevamo tutti di vista. Quando la luce si accese anche in quell'appartamento e le SS irruppero nella stanza con gli elmetti in testa e le pistole spianate vi trovarono persone sedute attorno al tavolo, proprio come fino a un momento prima noi ce ne stavamo seduti attorno al nostro. Erano paralizzate dall'orrore. Il sottufficiale nazista a capo del distaccamento lo prese come un affronto personale. Ammutolito per l'indignazione, rimase immobile in silenzio a fissare le persone sedute al tavolo. Solo dopo un momento prese a urlare con furia incontenibile: «In piedi!» Si alzarono tutti il più in fretta possibile, eccetto il capofamiglia, un uomo anziano e storpio. A questo punto l'ufficiale era addirittura schiumante di rabbia. Si avvicinò al tavolo, vi si puntellò con le braccia, guardò fissamente il paralitico e ringhiò per la seconda volta: «In piedi!» Il vecchio si afferrò ai braccioli della sedia per sostenersi, facendo sforzi disperati per alzarsi, ma inutilmente. Prima che ci potessimo rendere conto di ciò che stava accadendo, i tedeschi lo afferrarono con sedia e tutto, quindi lo portarono sul balcone e lo gettarono in strada dal terzo piano. Mia madre si mise a urlare e chiuse gli occhi. Mio padre si allontanò dalla finestra, arretrando nella stanza. Halina si precipitò verso di lui mentre Regina cingeva con un braccio le spalle di mia madre, dicendo a voce molto alta e in tono molto chiaro e autoritario: «Zitta!» Henryk e io non riuscivamo a staccarci dalla finestra. Vedemmo il vecchio restare per qualche secondo sospeso in aria nella sua sedia e poi venirne sbalzato fuori. Subito dopo udimmo il tonfo della sedia sull'asfalto e il rimbalzo di un corpo umano sul selciato. Restammo immobili e in silenzio, come inchiodati al suolo, non riuscivamo a indietreggiare e nemmeno a distogliere lo sguardo dalla scena che avevamo davanti ai nostri occhi. Nel frattempo le SS avevano già preso ventiquattro uomini dall'edificio e li avevano fatti scendere in strada. Accesero i fari della loro macchina, costrinsero i prigionieri a restare in piedi sotto il fascio di luce, avviarono il motore e poi intimarono agli uomini di correre davanti al veicolo nel cono bianco di luce. Dalle finestre della casa antistante ci pervennero urla convulse e, di rimando
dall'auto, partì una raffica. Gli uomini che correvano caddero l'uno dopo l'altro, sollevati in aria dai proiettili, descrivendo col corpo un salto mortale quasi il passaggio dalla vita alla morte consistesse unicamente in un balzo estremamente difficile e complicato. Solo uno riuscì a scansarsi e a proiettarsi fuori del fascio di luce. Con tutte le sue forze prese a correre e per un attimo parve che sarebbe riuscito a raggiungere la strada che intersecava la nostra. Ma sul veicolo tedesco c'era un riflettore rotante montato sul tettuccio, proprio per evenienze del genere. Si accese, a cercare il fuggiasco, si udì un'altra raffica e quindi toccò a quel poveretto essere sbalzato in aria. Con le braccia sollevate sopra la testa, inarcò la schiena come a spiccare un salto e ricadde supino. Le SS risalirono in macchina e si allontanarono passando sopra i cadaveri. Il veicolo ondeggiò leggermente mentre li schiacciava, quasi sobbalzasse su buche poco profonde. Anche se quella notte nel ghetto vennero fucilati circa cento uomini stavolta l'operazione non suscitò tanta impressione quanto quella precedente. Il giorno seguente negozi e caffè rimasero aperti come d'abitudine. In quel momento c'era ben altro a cui pensare. Oltre agli svariati e abituali passatempi quotidiani i tedeschi avevano cominciato a filmare. Ci chiedevamo tutti a quale scopo lo facessero. Irrompevano in un ristorante e ordinavano ai camerieri di apparecchiare i tavoli con il cibo migliore e i vini più pregiati. Quindi ingiungevano ai clienti di ridere, di mangiare e di bere e li riprendevano mentre erano intenti a spassarsela in quel modo. Ugualmente filmavano gli spettacoli di operetta che avevano luogo al cinema Femina in via Leszno e i concerti sinfonici diretti da Marian Neuteich che venivano dati settimanalmente nel medesimo cinematografo. Avevano insistito con il presidente del Consiglio ebraico per indurlo a dare un lussuoso ricevimento al quale avevano partecipato tutte le persone importanti del ghetto. Ripresero anche questo. Quindi un giorno raggrupparono un certo numero di donne e di uomini nei bagni pubblici, ordinarono loro di spogliarsi, di fare il bagno tutti insieme, e filmarono questa scena curiosa in ogni particolare. Solo molto, molto più tardi, scoprii che questi film venivano realizzati per la popolazione tedesca che viveva nel Reich e all'estero. I tedeschi giravano quei film prima di liquidare il ghetto al fine di smentire tutte le voci imbarazzanti qualora al mondo esterno fossero giunte notizie di questa operazione. Per mostrare, non solo quanto fossero ricchi gli ebrei di Varsavia, ma anche quanto fossero immorali e spregevoli, riprendevano scene in cui si vedevano donne e
uomini ebrei immersi nella stessa vasca da bagno mentre si denudavano impudicamente gli uni davanti alle altre. Più o meno nello stesso periodo, nel ghetto presero a circolare sempre più di frequente voci allarmanti e a intervalli sempre più ravvicinati, benché come al solito si trattasse di voci prive di fondamento e non si riuscisse mai a scoprire chi le faceva circolare, o chi fosse in grado di dare la benché minima conferma che si basassero su fatti reali. Un giorno, per esempio, la gente cominciò a parlare delle orribili condizioni nel ghetto di Lòdz, dove gli ebrei erano stati costretti a usare monete metalliche con le quali non si poteva comperare nulla, e adesso morivano di fame a migliaia. Qualcuno prese la notizia molto seriamente, a altri la cosa entrò in un orecchio e uscì dall'altro. Ben presto la gente smise di parlare di Lòdz, e cominciò a occuparsi di Lublino e di Tarnòw, dove sembrava che gli ebrei venissero avvelenati con il gas, benché nessuno riuscisse veramente a credere a questa storia. Più verosimile appariva la notizia che i ghetti ebraici, in Polonia, sarebbero stati limitati a quattro: di Varsavia, di Lublino, di Cracovia e di Radom. Poi, tanto per cambiare, presero a circolare voci che gli abitanti del ghetto di Varsavia sarebbero stati di nuovo deportati nella parte orientale e in numero di seimila al giorno. Secondo alcuni questa azione avrebbe già dovuto aver luogo da tempo, se non fosse stato per quella misteriosa conferenza del Consiglio ebraico, nella quale si era riusciti a convincere la Gestapo (senza dubbio in cambio di denaro), a non dar luogo alla deportazione. Il 18 luglio, un sabato, Goldfeder e io stavamo suonando al Café Pod Fontanne, in via Leszno, era un concerto di beneficenza per il famoso pianista Leon Boruriski, che aveva vinto una volta il concorso Chopin. Adesso era ammalato di tubercolosi e viveva in condizioni miserevoli nel ghetto di Otwock. Il giardino del caffè era gremito di gente. Erano presenti circa quattrocento persone appartenenti alla buona società, oltre a quelli che aspiravano a entrare a farne parte. Ben pochi erano in grado di ricordare l'ultima volta in cui si era tenuto un evento così importante, ma l'eccitazione che serpeggiava fra il pubblico era dovuta a ragioni tutt'affatto diverse: le eleganti signore delle classi abbienti e i piccoli parvenus fremevano nell'attesa di scoprire se quel giorno la signora L avrebbe parlato con la signora K. Entrambe queste signore erano impegnate nella beneficenza, avevano un ruolo importante nelle attività di quei comitati condominiali costituiti in molti degli edifici più ricchi in favore dei poveri. Venivano organizzati eventi
particolarmente piacevoli quali feste danzanti, dove la gente ballava, si divertiva e beveva e il ricavo era destinato a scopi benefici. Alla base del malanimo creatosi tra le due signore c'era un incidente avvenuto al caffè Sztuka qualche giorno prima. Le due donne erano belle, sia pure in modo diverso, e si detestavano cordialmente, facendo di tutto per soffiarsi i corteggiatori. La preda più ambita tra questi era Maurycy Kohn, proprietario di una ferrovia e agente della Gestapo, un uomo dal volto attraente e espressivo come quello di un attore. Quella sera entrambe le signore si divertivano al caffè Sztuka dove, sedute al bar attorniate da una piccola cerchia di ammiratori, facevano a gara nell'ordinare le bevande più recherchées e chiedendo al fisarmonicista dell'orchestrina di eseguire ai loro tavoli le melodie più in voga. Fu la signora L a uscire per prima dal locale. Non poteva immaginare che, mentre si trovava al caffè, una donna che si trascinava affamata per la strada fosse caduta e stramazzata proprio davanti alla porta d'ingresso. Ancora abbagliata dalle luci del caffè la signora L, uscendo, era inciampata nel cadavere della donna. Alla vista del corpo era stata presa da una crisi isterica e non era stato possibile calmarla. Non così la signora K che a quel punto era stata informata di quanto era accaduto. Uscita a sua volta dal locale aveva lanciato sì un urlo di orrore ma subito dopo, quasi sopraffatta dalla compassione, si era chinata sulla morta, aveva estratto cinquecento zloty dalla borsetta e aveva porto la banconota a Kohn, ritto alle sue spalle. «Ti prego occupatene tu per conto mio», lo aveva pregato. «Fai in modo che abbia una sepoltura decente!» A quelle parole una signora che faceva parte della sua cerchia di amicizie aveva mormorato a voce sufficientemente alta per essere udita da tutti: «Un angelo come sempre!» Venuta a conoscenza dell'episodio la signora L aveva deciso di farla pagare alla signora K. Il giorno dopo l'aveva descritta come una sgualdrina da quattro soldi aggiungendo che non le avrebbe più rivolto la parola. Ora entrambe le signore si sarebbero ritrovate al Café Pod Fontanne e la jeunesse dorée attendeva con curiosità di vedere che cosa sarebbe successo quando si fossero incontrate. Quando la prima parte del concerto si fu conclusa, Goldfeder e io uscimmo in strada per fumarci tranquillamente una sigaretta. Eravamo diventati amici e da un anno suonavamo in coppia. Ora è morto, benché all'epoca sembrasse avere maggiori possibilità di sopravvivenza di me. Era non solo un eccellente pianista ma anche avvocato. Si era diplomato al conservatorio e al tempo
stesso laureato in Legge, ma dotato com'era di un forte senso di autocritica, era giunto alla conclusione che non sarebbe mai diventato un pianista di ottimo livello. Così si era iscritto alla facoltà di Legge. Solo durante la guerra aveva ripreso la carriera concertistica. Nella Varsavia d'anteguerra aveva raggiunto una popolarità straordinaria grazie alla sua intelligenza, al suo fascino personale e alla sua eleganza. In seguito riuscì a fuggire dal ghetto e sopravvisse per due anni a casa dello scrittore Gabriel Karski. Una settimana prima dell'invasione sovietica fu fucilato dai tedeschi in una piccola città poco distante da Varsavia, ormai ridotta in macerie. Quella sera fumavamo e chiacchieravamo e a ogni boccata ci ritornavano un po' le forze. Era stata una bella giornata e il sole era già scomparso dietro le case, solo i tetti e le finestre dei piani alti mandavano ancora bagliori purpurei. L'azzurro scuro del cielo stava diventando più pallido; le rondini volteggiavano. I passanti per la strada andavano diradandosi e la luce azzurra, rossa e oro opaco della sera, conferiva loro un aspetto meno sporco e meno infelice. Poco dopo vedemmo venirci incontro Kramsztyk. Fummo felici di ritrovarci. Dovevamo riuscire a farlo entrare a sentire la seconda parte del concerto. Aveva promesso di eseguire il mio ritratto e io volevo discutere con lui dei particolari. Ma non voleva saperne di entrare. Sembrava demoralizzato, immerso nei suoi cupi pensieri. Aveva appena appreso da una fonte attendibile che l'evacuazione del ghetto era data per certa e come imminente. Il commando tedesco delle SS si teneva pronto ad agire dall'altra parte del muro e presto avrebbe dato inizio alle operazioni.
CAPITOLO 8.
Un formicaio minacciato.
In quel periodo, Goldfeder e io stavamo tentando di organizzare un concerto pomeridiano in occasione dell'anniversario della formazione del nostro duo. Avremmo dovuto tenerlo nel giardino del Café Sztuka, sabato
25 luglio 1942. Eravamo fiduciosi. Tenevamo moltissimo a questo concerto al quale ci eravamo preparati con estrema cura. Ora, alla vigilia dell'evento, non riuscivamo a capacitarci che non avrebbe avuto luogo. Ci auguravamo semplicemente che, ancora una volta, le voci di trasferimento risultassero infondate. Domenica 19 luglio suonai di nuovo nel giardino di un caffè di via Nowolipki, ben lungi dall'immaginare che quella sarebbe stata la mia ultima esibizione davanti al pubblico del ghetto. Il caffè all'aperto era gremito ma lo stato d'animo della gente era alquanto cupo. Dopo il concerto feci una capatina allo Sztuka. Era tardi e nel locale non era rimasto più nessuno, all'infuori del personale ancora impegnato nelle ultime pulizie della giornata. Mi sedetti per un momento a scambiar due parole con il direttore. Era di cattivo umore, impartiva ordini senza alcuna convinzione, quasi si trattasse di un mero atto formale. «Ha già cominciato i preparativi per il nostro concerto di sabato?» chiesi. Mi fissò come se non sapesse di che cosa stessi parlando. Poi sul suo volto si dipinse un'espressione di ironico compatimento di fronte alla mia evidente ignoranza degli avvenimenti che avevano determinato una svolta totalmente diversa nel futuro del ghetto. «Lei crede davvero che sabato saremo ancora vivi?» ribattè, chinandosi sul tavolo verso di me. «Sono convinto di sì», gli risposi. Quasi che la mia risposta non solo avesse aperto nuove prospettive di salvezza, ma che tale salvezza dipendesse da me, mi afferrò la mano e disse con fervore: «Be', bene, se davvero saremo ancora vivi, sabato lei potrà ordinare qualsiasi cosa desideri per cena, a mie spese, e...» A quel punto ebbe un attimo di esitazione, quindi decidendo di fare le cose per bene, soggiunse: «e potrà ordinare il meglio che le cantine dello Sztuka sono in grado di offrire... anche questo, a mie spese, e a volontà!» Secondo le voci che circolavano l'«azione» di trasferimento sarebbe iniziata domenica sera. Tuttavia, la notte passò tranquillamente e il lunedì mattina la gente parve rassicurata. Forse, ancora una volta, non c'era niente di vero in quelle voci. Nel tardo pomeriggio esplose di nuovo il panico. Secondo le ultimissime notizie, l'azione sarebbe dovuta iniziare quella stessa sera, con il
trasferimento degli occupanti del ghetto piccolo e questa volta non c'erano più dubbi al riguardo. Folle di persone agitate, con involti e grandi bauli e con bambini al fianco, iniziarono il trasferimento dal ghetto piccolo a quello grande, attraversando il ponte che i tedeschi avevano costruito sulla via Chiodna per toglierci anche l'ultima possibilità di contatto con il quartiere ariano. Tutti speravano di allontanarsi dall'area minacciata prima del coprifuoco. Fatalisti come eravamo nella nostra famiglia, restammo tranquilli. A tarda sera i vicini udirono dalla sede centrale della polizia polacca la notizia che era stato dato l'allarme. Dunque, qualcosa di veramente brutto stava per accadere. Io non riuscii ad addormentarmi fino alle quattro del mattino e rimasi sveglio accanto alla finestra aperta. Anche quella notte però trascorse tranquillamente. Martedì mattina, Goldfeder e io ci recammo all'ufficio amministrativo del Consiglio ebraico. Non avevamo ancora perso la speranza che in qualche modo tutto si sarebbe sistemato e volevamo chiedere notizie ufficiali riguardo ai piani tedeschi per il ghetto per i giorni a venire. Eravamo quasi arrivati davanti all'edificio quando un'auto decappottabile ci passò davanti. A bordo, circondato dalla polizia, pallido e a capo scoperto, il colonnello Kon, responsabile dell'ufficio sanitario della comunità. Oltre a lui erano stati arrestati molti altri funzionari ebrei; per le strade era cominciato un rastrellamento. Nel pomeriggio dello stesso giorno accadde qualcosa che scosse Varsavia da entrambe le parti del muro. Un noto chirurgo polacco, il dottor Raszeja, vera e propria autorità nel suo campo, professore all'Università di Posnari, era stato convocato d'urgenza per effettuare un difficile intervento. Il quartier generale della polizia tedesca di Varsavia gli aveva concesso un lasciapassare per entrare nel ghetto, ma non appena era arrivato e stava iniziando l'operazione, le SS avevano fatto irruzione nell'appartamento dove si stava svolgendo l'intervento, avevano fatto fuoco sul paziente già sotto anestesia e disteso sul tavolo operatorio, poi avevano sparato al chirurgo e a tutte le persone presenti. Mercoledì 22 luglio, verso le dieci del mattino, mi recai in città. L'aria che si respirava nelle strade era un po' meno tesa di quella della sera precedente. Circolava la voce rassicurante secondo la quale i funzionari del Consiglio arrestati il giorno prima erano stati di nuovo posti in libertà. Dunque i tedeschi non intendevano ancora trasferirci per il momento, perché in questi casi (come
avevamo sentito da voci riferite da fuori Varsavia dove comunità ebraiche molto più piccole erano state trasferite da parecchio tempo) cominciavano con l'eliminare anzitutto i funzionari. Erano le undici quando arrivai al ponte su via Chiodna. Camminavo profondamente assorto nei miei pensieri e in un primo momento non mi avvidi di un certo numero di persone immobili sul ponte, che indicavano qualcosa. Subito dopo si dispersero in fretta, in preda all'agitazione. Stavo per salire i gradini che portavano all'arcata di legno, quando un amico che non vedevo da parecchio tempo mi afferrò per un braccio. «Che cosa ci fai qui?» Era agitatissimo. Mentre parlava il labbro inferiore si contraeva in un modo buffo, rendendo il suo viso simile al muso di un coniglio. «Vattene subito a casa!» «Che succede?» «L'azione ha inizio entro un'ora.» «E' impossibile!» «Impossibile?» Scoppiò in una risata sarcastica e nervosa, poi mi fece girare verso il parapetto e mi indicò via Chiodna. «Guarda lì!» Un distaccamento di soldati, in uniformi gialle mai viste, stavano marciando lungo via Chiodna, guidati da un sottufficiale tedesco. Ogni pochi passi si fermavano e uno dei soldati si appostava accosto al muro di cinta del ghetto. «Ucraini. Siamo circondati!» Più che pronunciare quelle parole, il mio amico parlava singhiozzando. Poi, senza salutarmi, si affrettò a scendere i gradini. Era vero, verso mezzogiorno i soldati cominciarono effettivamente a sgombrare le residenze degli anziani, gli ospizi dei veterani, i rifugi per la notte. In quei rifugi cercavano riparo gli ebrei delle campagne vicine a Varsavia che erano stati scaraventati nel ghetto, nonché quelli espulsi dalla Germania, dalla Cecoslovacchia, dalla Romania e dall'Ungheria. Nel pomeriggio erano già stati affissi manifesti in tutta la città. Annunciavano l'inizio dell'azione di trasferimento. Tutti gli ebrei abili al lavoro venivano destinati all'Est. Ciascuno poteva portarsi venti chili di bagaglio, provviste per due giorni e preziosi. Una volta arrivati a destinazione, quanti erano in grado di lavorare sarebbero stati alloggiati in baracche e si sarebbero visti assegnare lavori nelle industrie tedesche locali. Solo i funzionari degli enti sociali ebraici e il Consiglio ebraico non subivano lo stesso trattamento. Per la prima volta, un decreto non
portava la firma del presidente del Consiglio ebraico. Czerniakòw si era tolto la vita col cianuro. Alla fine, dunque, il peggio era accaduto. La gente di un'intera zona della città, una popolazione di mezzo milione di persone sarebbe stata deportata. Sembrava assurdo, tutti stentavano a crederci. All'inizio i tedeschi ricorsero alla estrazione a sorte. Edifici venivano circondati in modo casuale, ora in una parte, ora in un'altra del ghetto. A un fischio tutti gli inquilini di una casa erano costretti a uscire in cortile. Quindi, di qualsiasi età o sesso fossero, inclusi vecchi e bambini, venivano caricati su carri tirati da cavalli, e portati nella Umschlagplatz, il centro di raccolta e di transito. Lì le vittime venivano stipate su camion e spedite verso l'ignoto, Inizialmente l'azione era stata interamente condotta dalla polizia ebraica, capeggiata da tre aiutanti dei carnefici tedeschi: il colonnello Szeryriski, il capitano Lejkin e il capitano Ehriich. Costoro, non solo non erano meno pericolosi e impietosi degli stessi tedeschi, ma addirittura peggiori. Ogni qualvolta trovavano delle persone che invece di presentarsi in cortile si nascondevano da qualche parte, si lasciavano persuadere a chiudere un occhio solo in cambio di denaro. Lacrime, suppliche, perfino gli strilli disperati dei bambini, non smuovevano il loro animo. Dato che i negozi erano stati chiusi e al ghetto non arrivavano provviste di alcun genere, nel giro di due giorni la fame si fece sentire e questa volta non risparmiava nessuno. Per la gente però quello non era il problema più urgente, ce n'era un altro più pressante. Riuscire a ottenere un documento di lavoro. Se penso a com'era la nostra vita in quei giorni e in quelle ore terribili mi viene solo un'immagine alla mente: quella di un formicaio minacciato. Quando il piede di un idiota comincia a distruggere sconsideratamente un formicaio con il suo tallone chiodato, le formiche prendono ad agitarsi, cercando sempre più affannosamente scampo da ogni parte, un modo per salvarsi. Ma, sia perché paralizzate dalla subitaneità dell'attacco sia perché preoccupate del destino delle loro progenie e di riuscire a mettere in salvo quanto più possibile, invece di andare avanti e mettersi al riparo, come sotto un influsso malefico tornano a ripercorrere il cerchio mortale andando incontro alla morte. Proprio come noi. Se quello per noi fu un periodo orribile, i tedeschi conclusero ottimi
affari. Ditte tedesche spuntarono nel ghetto come funghi dopo la pioggia e tutte prontissime a fornire libretti di lavoro. In cambio pretendevano alcune migliaia di zloty, ma l'entità di quelle somme non era un deterrente per gli ebrei. Davanti a quelle ditte si formavano lunghissime file che assumevano dimensioni gigantesche, soprattutto davanti a quelle più grandi e più importanti, come quelle di Toebbens e di Schuitz. Quei fortunati che riuscivano a ottenere i permessi di lavoro si appuntavano dei bigliettini sui vestiti sui quali era riportato il nome del luogo dove avrebbero prestato lavoro. Pensavano che questo li avrebbe messi al riparo dalla deportazione. Io avrei potuto ottenerlo facilmente, ma anche questa volta, come nel caso della vaccinazione contro il tifo, avrei potuto usufruirne solo io. Nessuno dei miei conoscenti, nemmeno coloro che potevano vantare appoggi autorevoli, avrebbe mai accettato di procurarmene anche per i miei famigliari. Certo, aspettarsi di ottenere gratuitamente sei permessi era sperare troppo ma io non ero in grado di pagare nemmeno il prezzo più basso per tutta la famiglia. Guadagnavo saltuariamente e tutto ciò che riuscivo a raggranellare veniva speso per mangiare. L'inizio dell'azione nel ghetto mi aveva colto con appena poche centinaia di zloty in tasca. Ero sconvolto perché non potevo ovviare in alcun modo a questa situazione e dovevo invece osservare impotente i miei amici più ricchi che assicuravano la salvezza alle loro famiglie. Trasandato, con la barba lunga e affamato, mi trascinavo da mattina a sera da un ufficio all'altro scongiurando la gente di aver pietà di noi. Dopo sei giorni trascorsi in questo modo e grazie anche a tutte le conoscenze a cui riuscii a ricorrere, in qualche modo ottenni questi documenti. Probabilmente fu la settimana prima che iniziasse l'azione nel ghetto che vidi per l'ultima volta Roman Kramsztyk. Era stremato e nervoso, benché cercasse di nasconderlo. Fu contento di vedermi. «Non è andato ancora in tournée?» mi domandò, tentando di fare una battuta scherzosa. «No», mi limitai a rispondere. Non avevo voglia di scherzare. Poi gli chiesi quello che tutti allora continuavamo a chiederci. «Che cosa ne pensa? Ci deporteranno?» Invece di rispondere alla mia domanda la aggirò dicendo: «Ha un aspetto orribile.» Mi fissò con aria di compatimento. «Prende troppo a cuore questa storia.» «Come potrei fare diversamente?» ribattei stringendomi nelle spalle.
Lui sorrise, si accese una sigaretta, rimase un momento in silenzio poi proseguì: «Aspetti. Tutto prima o poi finirà perché», gesticolò con le braccia, «perché in realtà è tutto privo di senso.» Lo disse con un tono di convinzione buffa e piuttosto rassegnata, come se tutta l'insensatezza di ciò che stava accadendo fosse anche la garanzia che avrebbe avuto fine. Purtroppo non solo non andò così, ma le cose peggiorarono ulteriormente nei giorni seguenti quando furono fatti arrivare lituani e ucraini. Erano venali quanto la polizia ebraica, sia pure in modo diverso. Accettavano denaro ma non appena l'avevano intascato uccidevano le persone alle quali l'avevano estorto. A loro piaceva uccidere: uccidere per puro divertimento o per facilitarsi il lavoro, per fare esercitazioni di tiro al bersaglio o anche solo per passare il tempo. Uccidevano i bambini davanti agli occhi delle madri e ridevano davanti alla loro disperazione. Sparavano alle persone mirando al ventre solo per vederle soffrire. A volte allineavano le vittime e lanciavano contro di loro delle bombe a mano da una certa distanza per verificare chi avesse la mira migliore. Ogni guerra fa emergere piccoli gruppi tra le etnie: minoranze troppo codarde per battersi apertamente e troppo insignificanti per svolgere un ruolo importante e indipendente in campo politico. Tuttavia sufficientemente spregevoli per diventare mercenari per conto di uno dei poteri in lotta. Così si comportarono in questa guerra i fascisti ucraini e lituani. Roman Kramsztyk fu uno dei primi a morire quando costoro iniziarono le operazioni di deportazione. Il caseggiato dove abitava venne circondato ma lui rifiutò di scendere in cortile quando udì il fischio. Preferì farsi sparare in casa tra i suoi quadri. Fu all'incirca nello stesso periodo che morirono gli agenti della Gestapo, Kon e Heller. Non avevano consolidato con sufficiente astuzia la loro posizione e forse a causa della loro avarizia. Avevano pagato solo uno dei due quartieri generali della SS di Varsavia e per loro sfortuna finirono proprio nelle mani di quelli che non avevano pagato. I permessi che esibirono erano stati rilasciati dal comando SS rivale e questo fece infuriare ancor di più i loro aguzzini che non si accontentarono di fucilare Kon o Heller, ma fecero arrivare dei camion della nettezza urbana e fu su quelli in mezzo ai rifiuti e alla sporcizia che i due magnati compirono il loro ultimo viaggio attraverso il ghetto per finire in una fossa comune. Gli ucraini e i lituani non tenevano in alcun conto i permessi di lavoro. I sei giorni che impiegai per cercare di ottenerli anche per la
mia famiglia si rivelarono solo tempo perso. Pensavo che bisognasse lavorare davvero, ma il problema era come fare per riuscire a ottenere un lavoro. Ero disperato. Me ne stavo tutto il giorno a letto ad ascoltare i rumori provenienti dalla strada. Ogni volta che mi perveniva alle orecchie il fracasso di ruote sull'asfalto mi sentivo cogliere dal panico. Quei veicoli portavano la gente alla Umschlagplatz. Ma non tutti attraversavano il ghetto e uno di quei veicoli avrebbe potuto fermarsi davanti alla nostra casa. In qualsiasi momento avremmo potuto sentire il fischio nel cortile. Non facevo che saltare giù dal letto, andare alla finestra, rimettermi sdraiato e rialzarmi. Ero l'unico della famiglia a comportarmi con tanta vergognosa debolezza. Forse perché solo io avrei potuto salvare la vita anche agli altri, grazie alla mia fama di concertista mi sentivo responsabile nei loro confronti. I miei genitori, le mie sorelle e mio fratello sapevano di non poter far nulla. Il loro unico sforzo consisteva nel mantenere l'autocontrollo e fingere che la vita quotidiana continuasse in modo normale. Mio padre suonava il violino tutto il giorno, Henryk studiava, Regina e Halina leggevano e mia madre rammendava i nostri indumenti. Poi i tedeschi si fecero venire un'ulteriore brillante idea per agevolarsi il compito. Sui muri comparvero dei bandi nei quali si diceva che tutte le famiglie che si fossero presentate volontariamente nella Umschlagplatz «per emigrare» avrebbero ricevuto una forma di pane e un chilo di marmellata a testa; inoltre queste famiglie di volontari non sarebbero state separate. Vi fu una risposta in massa a quest'offerta. Erano tutti ansiosi di accettarla, sia perché avevano fame, sia perché erano mossi dalla speranza di compiere insieme ai loro cari il difficile viaggio verso un destino ignoto. Inaspettatamente Goldfeder venne in nostro aiuto. Aveva l'opportunità di assumere un certo numero di persone presso il centro di raccolta che si trovava nei pressi della Umschlagplatz dove venivano selezionati i mobili e i beni provenienti dalle case degli ebrei che erano già stati deportati. Offrì un posto a me, a mio padre e a Henryk, in seguito riuscimmo a ottenere di essere raggiunti anche da mia madre e dalle mie sorelle, benché loro non lavorassero al centro di raccolta ma accudissero alla nostra nuova «casa» nell'edificio che era la nostra caserma. Le razioni non erano granché: a ognuno di noi spettava mezza forma di pane e un quarto di litro di minestra al giorno. Dovevamo
ripartire il tutto con molta oculatezza per cercare di placare il più possibile i morsi della fame. Il primo lavoro che feci per conto dei tedeschi fu quello di trasportare da mattina a sera mobili, specchi, tappeti, biancheria e indumenti. Tutta roba appartenuta a qualcuno fino a pochi giorni prima e che rivelava il gusto delle persone che l'avevano posseduta, se si trattava di gente povera o ricca, di indole gentile o crudele. Ora tutto questo non apparteneva a nessuno. Erano solo mucchi e cataste di oggetti maneggiati con malagrazia e, ogni tanto mentre portavo una pila di biancheria intima avvertivo la vaga fragranza di un profumo, lieve come un ricordo, o mi capitava di scorgere un monogramma colorato che spiccava su un tessuto bianco. Non potevo però permettermi di indugiare su queste riflessioni. Bastava un momento di contemplazione o di distrazione per ricevere un calcio sferrato da uno stivale dalla punta metallica di un poliziotto o quello di un manganello di gomma. Potevi rimetterci la vita, proprio come era successo ai giovani fucilati subito dopo essersi lasciati sfuggire dalle mani lo specchio di una sala da pranzo, mandandolo in frantumi. Il 2 agosto di primo mattino giunse l'ordine per tutti gli ebrei di lasciare il ghetto piccolo entro le sei del pomeriggio dello stesso giorno. Io ebbi appena il tempo di prendere da via Sliska qualche indumento e delle coperte, le mie partiture, una raccolta di recensioni dei miei concerti, il mio lavoro creativo di compositore e il violino di mio padre. Portai il tutto nella nostra baracca con una carriola... un'impresa faticosa. Questo era tutto quanto possedevamo. Un giorno, all'incirca il 5 di agosto, mi ero preso una pausa dal lavoro e stavo percorrendo via Gesia, quando mi capitò di vedere Janusz Korczak che stava lasciando il ghetto con i suoi orfanelli. L'evacuazione dell'orfanotrofio ebraico gestito da Janusz Korczak era stata ordinata per quella mattina. Solo i ragazzi avrebbero dovuto essere portati via mentre a Korszak era stata risparmiata la vita. Molti avevano insistito con i tedeschi perché gli permettessero di condividerne la sorte. Aveva trascorso molti anni della sua vita con quei ragazzi, non intendeva abbandonarli proprio in quell'ultimo viaggio. Voleva assisterli. Raccontò loro che stavano andando in campagna, e che dovevano rallegrarsi perché finalmente avrebbero potuto abbandonare quelle orribili soffocanti mura cittadine per i prati fioriti, nuotare in limpidi ruscelli, camminare nei boschi pieni di bacche e di funghi. Disse loro di indossare i loro indumenti
migliori e così i fanciulli uscirono nel cortile, a due a due, ben vestiti e felici. La piccola colonna era guidata da una SS che amava i bambini come solo li sanno amare i tedeschi che amano perfino quando li stanno per mandare all'altro mondo. Questi si prese di una particolare simpatia per un ragazzo dodicenne, un violinista che teneva il proprio strumento sotto il braccio. L'SS gli disse di mettersi in testa alla colonna di bambini e di suonare... e così si avviarono. Quando li incontrai in via Gesia i ragazzi sorridevano, cantavano in coro, il piccolo violinista suonava per loro e Korczak teneva in braccio due dei più piccoli pure sorridenti, ai quali raccontava una storiella divertente. Sono sicuro che perfino nella camera a gas, mentre il Cyclon B soffocava quelle gole infantili e infondeva il terrore invece della speranza nel cuore di quegli orfani, il vecchio dottore deve avere bisbigliato in un ultimo disperato tentativo di far loro coraggio. «Va tutto bene, ragazzi, andrà tutto bene», al fine di risparmiare ai piccoli affidati alle sue cure, quanto meno la paura del trapasso dalla vita alla morte. Infine, il 16 agosto 1942, venne il nostro turno. Al centro di raccolta era stata fatta una selezione. Soltanto Henryk e Halina furono dichiarati ancora abili al lavoro. Papà, Regina e io ricevemmo l'ordine di ritornare alle baracche. Quando rientrammo l'edificio fu circondato e sentimmo il fischio nel cortile. Era inutile continuare a lottare. Avevo fatto quello che potevo per salvare le persone che amavo e me stesso. Ma si era dimostrata un'impresa impossibile fin dall'inizio. Mi auguravo che quanto meno Halina e Henryk avrebbero avuto una sorte migliore. Ci vestimmo in fretta mentre dal cortile provenivano urla e spari e l'ordine di sbrigarci. Mia madre fece un piccolo involto con tutto ciò che le capitò sotto mano, quindi scendemmo le scale.
CAPITOLO 9. La Umschlagplatz.
La Umschlagplatz si trovava ai limiti del ghetto. Era un centro di raccolta vicino ai binari della ferrovia, circondato da un reticolo di
strade, di vicoli e di cunicoli sudici. Nonostante l'aspetto poco invitante, prima della guerra vi si trovavano oggetti di grande valore. In uno dei depositi giungevano enormi quantitativi di beni provenienti da ogni parte del mondo. Erano uomini d'affari ebrei che trattavano l'acquisto di quella mercanzia di cui rifornivano i negozi di Varsavia, prelevandola dai magazzeni di via Naiewki e di vicolo Simon. Un enorme spazio ovale, in parte circondato da edifici e in parte recintato. Parecchie strade vi convergevano come ruscelli che defluissero in un lago, utili vie di raccordo con la città. L'area era stata delimitata da cancellate nel punto in cui vi convergevano le strade e ora poteva contenere sino a ottomila persone. Quando vi arrivammo era ancora praticamente deserta. La gente camminava avanti e indietro alla vana ricerca di acqua. Era una giornata bella e calda di tarda estate. Il cielo grigio azzurro pareva si accingesse a trasformarsi in cenere nel calore che saliva dal terreno calpestato e dai muri abbacinanti degli edifici. La luce implacabile del sole strizzava fuori dai corpi stremati le ultime gocce di sudore. Ai margini del centro di raccolta, nel punto in cui arrivava una delle strade, c'era uno spazio vuoto che tutti scansavano accuratamente. Non vi si avvicinavano, ma si limitavano a lanciare occhiate terrorizzate in quella direzione, verso i cadaveri delle persone uccise il giorno prima per chissà qual crimine commesso, magari solo per aver tentato di fuggire. Tra i corpi senza vita di uomini c'erano anche quelli di una giovane donna e di due ragazze col cranio fracassato. Il muro sotto il quale giacevano recava chiare tracce di sangue e di tessuto cerebrale. I bambini erano stati uccisi con il sistema preferito dai tedeschi: afferrati per le gambe, le teste sbattute con violenza contro il muro. Grosse mosche nere si muovevano su quei corpi inanimati e sulle pozze di sangue sul terreno, e i cadaveri sempre più gonfi erano in uno stato di putrefazione per il calore. Ci eravamo sistemati alla bell'e meglio e aspettavamo l'arrivo del treno. Mia madre stava seduta sull'involto che conteneva la nostra roba, Regina era per terra accanto a lei e io in piedi, mentre mio padre camminava nervosamente, le mani dietro la schiena, facendo quattro passi avanti e quattro passi indietro. Solo in quel momento, nella luce violenta del sole, quando ormai non aveva più senso preoccuparsi di escogitare inutili piani per salvarci, ebbi modo di osservare con attenzione mia madre. Aveva un aspetto terribile, anche se all'apparenza
sembrava mantenere appieno il controllo di sé. I suoi capelli, un tempo belli e sempre ben curati, erano ingrigiti e ricadevano a ciocche sul volto solcato da rughe e contratto dall'ansia. La luce nei suoi occhi di un nero vivido sembrava essersi spenta. Un tic nervoso le storceva il volto dalla tempia destra lungo la guancia, fino all'angolo della bocca. Non me ne ero mai accorto prima e questo mi fece capire quanto mia madre fosse sconvolta per ciò che ci stava succedendo. Regina piangeva, le mani sul viso, le lacrime che scorrevano tra le dita. I veicoli si fermavano a intervalli regolari davanti al cancello dell'Umschlagplatz dove venivano raggruppate le persone destinate al trasferimento. I nuovi arrivati non si peritavano di celare la propria disperazione. Gli uomini parlavano a voce alta, le donne alle quali erano stati portati via i figli gemevano e singhiozzavano convulsamente. Presto la cappa di greve apatia che opprimeva il centro di raccolta calò anche su di loro. Di colpo si acquietarono e solo ogni tanto scoppiavano brevi crisi di panico quando a un soldato delle SS veniva l'uzzolo di sparare a qualcuno che non gli si era tolto di mezzo abbastanza rapidamente o la cui espressione del viso non gli pareva abbastanza sottomessa. Una giovane era seduta per terra poco distante da noi. Aveva il vestito lacero e i capelli arruffati come se si fosse accapigliata con qualcuno. Ora, però, se ne stava calma, il volto simile alla morte, gli occhi fissi nel vuoto. Teneva le dita serrate attorno alla gola. Di tanto in tanto chiedeva con monotona regolarità: «Perché l'ho fatto? Perché l'ho fatto?» Un uomo giovane in piedi al suo fianco, chiaramente il marito, cercava di consolarla e di persuaderla di qualcosa, parlandole a bassa voce, ma le sue parole non sembravano penetrarle nella mente. Continuavamo a incontrare conoscenti tra la gente che veniva ammassata nel centro di raccolta. Ci si avvicinavano, ci salutavano e, per mera abitudine, cercavano di avviare una sorta di conversazione. Ma di lì a poco si interrompevano e si allontanavano, nel tentativo di padroneggiare da soli la loro ansia. Il sole si levava sempre più alto, il suo calore si abbatteva su di noi che soffrivamo la tortura sempre più violenta della fame e della sete. La sera prima avevamo mangiato l'ultimo tozzo di pane e un piatto di minestra. Era difficile rimanere fermi e così decisi di muovermi un po', forse sarebbe stato meglio.
Via via che arrivavano persone, il posto diveniva sempre più affollato. Bisognava scansare gruppi di gente in piedi, distesa per terra. Discutevano tutti dello stesso argomento: dove ci avrebbero portato e se saremmo stati effettivamente mandati in un campo di lavoro, che era quanto la polizia ebraica cercava di darci a intendere. Alcuni anziani erano sdraiati in una parte della piazza, probabilmente uomini e donne evacuati da un ricovero per vecchi. Erano di una magrezza paurosa, stremati dalla fame e dal caldo, chiaramente esausti. Alcuni se ne stavano con gli occhi chiusi: difficile capire se fossero già morti o moribondi. Se noi eravamo destinati a un campo di lavoro, che cosa ci facevano qui quei vecchi? Donne con bambini in braccio si trascinavano da un gruppo all'altro, supplicando per avere un goccio d'acqua. I tedeschi ne avevano sospeso, a bella posta, l'erogazione nell'Umschlagplatz. Gli occhi dei bambini erano spenti e le palpebre già abbassate: le loro testoline ondeggiavano sui colli magri e le labbra aride erano dischiuse come le bocche di pesciolini abbandonati sulla riva dai pescatori perché considerati di scarto. Quando ritornai vicino ai miei familiari, non erano più soli. Vicino a mia madre stava seduta una sua amica, mentre il marito di lei, un tempo proprietario di un grande negozio, si era sistemato accanto a mio padre e un altro loro conoscente. L'uomo d'affari era abbastanza ottimista. L'altro, un dentista, che aveva lo studio in via Sliska, poco distante dal nostro appartamento, aveva una visione catastrofica della situazione. Era nervoso e sconfortato. «E' un'infamia per tutti noi!» sbottò quasi urlando. «Permettiamo che ci portino a morire come pecore al macello! Se attaccassimo i tedeschi... siamo mezzo milione di persone, potremmo fuggire dal ghetto, o per lo meno morire con onore, invece di coprirci di vergogna di fronte alla storia!» Mio padre ascoltava un po' imbarazzato ma con un sorriso mite. Si strinse leggermente nelle spalle e chiese: «Come puoi essere tanto sicuro che ci stanno mandando a morire?» Il dentista si torse le mani. «Be', naturalmente non lo so per certo. Come potrei? Credi che lo diranno? Però è certo al novanta per cento che intendono eliminarci tutti!» Mio padre sorrise di nuovo, quasi che dopo quella risposta si sentisse ancora più sicuro di sé. «Guarda», disse, indicando la gente che affollava la Umschlagplatz. «Non siamo eroi! Siamo persone assolutamente
normali, ed è proprio per questo che preferiamo attaccarci a quel dieci per cento di probabilità che abbiamo di vivere!» L'uomo d'affari si dichiarò d'accordo con papà. Lui aveva un'opinione diametralmente opposta a quella del dentista. I tedeschi, pensava, non potevano essere così stupidi da sprecare l'enorme potenziale di forza lavoro rappresentata dagli ebrei. Secondo lui ci avrebbero trasferiti in campi di lavoro, dove con tutta probabilità ci avrebbero fatti lavorare duramente ma dove non ci avrebbero ammazzati. Intanto sua moglie raccontava alla mamma e a Regina come era riuscita a murare l'argenteria di casa in cantina. Dei begli oggetti d'argento di valore, che sperava di ritrovare al ritorno dalla deportazione. Era già pomeriggio quando vedemmo un nuovo gruppo di ebrei venire sospinto nel campo. Fu con orrore che scorgemmo tra questi anche Halina e Henryk. Dunque avrebbero condiviso il nostro destino... E noi ci eravamo cullati nella speranza che almeno loro due si sarebbero salvati! Mi affrettai a raggiungere Henryk. Ero sicuro che doveva essere stato il suo atteggiamento stupidamente rigido ad averlo condotto lì con Halina. Lo bombardai di domande e di rimproveri prima che riuscisse a spiccicare una parola di spiegazione. Ma, in ogni caso, non intendeva degnarsi di rispondermi. Scrollò le spalle, si tolse dalla tasca un'edizione tascabile di Shakespeare, si scostò da noi e cominciò a leggere. Fu Halina a dirci quello che era accaduto. Si trovavano al lavoro quando avevano sentito che eravamo stati portati via. Così avevano deciso di offrirsi come volontari e di venire all'Umschlagplatz per stare insieme con noi. Che stupida reazione sentimentale! Decisi che dovevo allontanarli da lì a qualsiasi costo. Dopo tutto, non si trovavano sull'elenco di quanti erano destinati alla deportazione. Potevano restare a Varsavia. Il poliziotto ebreo che li aveva scortati mi conosceva per avermi sentito suonare al Café Sztuka e io contavo di riuscire facilmente a muoverlo a compassione, visto che non c'era un motivo ufficiale per cui i miei due fratelli fossero lì. Purtroppo mi sbagliavo. Lui non volle saperne di lasciarli andare. Come ogni poliziotto aveva l'obbligo di consegnare ogni giorno, personalmente, cinque persone all'Umschlagplatz, pena la propria deportazione se non avesse ottemperato all'ordine. Halina e Henryk completavano la quota di cinque ebrei per quel giorno. Era stanco, non aveva la minima intenzione di liberarli e di rimettersi a dare la caccia ad altri due, e Dio solo sapeva dove. Il suo compito
era tutt'altro che facile. La gente non si presentava quando la polizia la convocava, ma si nascondeva e, in ogni caso, lui non ne poteva più di tutta quella faccenda. Tornai dai miei genitori, sconfitto. Anche quest'ultimo tentativo di salvare almeno due di noi era fallito così come erano falliti tutti i miei tentativi precedenti. Mi sedetti vicino a mia madre, molto abbattuto. Erano già le cinque del pomeriggio, ma faceva più caldo che mai. Il numero delle persone continuava ad aumentare di ora in ora. La gente si perdeva in mezzo alla calca e continuava a chiamarsi inutilmente. Si udirono spari e urla, il che significava che nelle strade vicine erano in atto delle retate. L'agitazione cresceva via via che si avvicinava il momento in cui si supponeva dovesse arrivare il treno. La donna accanto a noi continuava a chiedere: «Perché l'ho fatto?» facendoci tendere i nervi fino allo spasimo. Ora sapevamo cosa significasse quella domanda. Lo aveva scoperto il nostro amico, l'uomo d'affari. Quando era stato ordinato a tutti di lasciare il caseggiato, quella donna, suo marito e il loro bambino si erano nascosti in un posto che avevano preparato tempo prima. Quando la polizia vi era passata davanti, il bambino era scoppiato a piangere, e la madre terrorizzata lo aveva soffocato con le sue stesse mani. Ma nemmeno questo era servito. Il pianto del piccino e poi il suo rantolo di morte erano stati sentiti e il nascondiglio era stato scoperto. A un tratto un ragazzo si fece largo in mezzo alla folla e si avvicinò a noi. Portava appesa al collo con una cordicella una scatola di dolci. Li vendeva a prezzi ridicoli anche se solo il Cielo sa che cosa pensava di farsene del denaro. Mettendo insieme le ultime monetine che ci restavano comperammo un'unica crème caramel. Papà la suddivise in sei parti con il temperino. Quello fu l'ultimo pasto che consumammo insieme, Verso le sei, il centro di raccolta fu pervaso da un clima di tensione nervosa. Erano sopraggiunte alcune automobili tedesche e la polizia stava passando in rassegna quelli che erano destinati a essere portati via, scegliendo fra loro i più giovani e forti. Era ovvio che i fortunati sarebbero stati usati per altri scopi. Una folla di molte migliaia di persone cominciò a premere in quella direzione: la gente urlava, cercava di travolgere gli altri per arrivare in prima fila e ostentare le proprie doti fisiche. La reazione dei tedeschi fu quella di sparare. Il dentista che era
ancora con il nostro gruppo riuscì a stento a frenare la propria indignazione. Sbottò furiosamente contro mio padre, quasi che fosse stata colpa sua. «Adesso mi crederai quando dico che ci ammazzeranno tutti! La gente abile al lavoro resterà qui, la morte sta da quell'altra parte!» La voce gli si spezzò nel tentativo di urlare quelle parole al di sopra del fragore della folla e degli spari, mentre indicava la direzione in cui sarebbero andati i mezzi di trasporto. Abbattuto e sconvolto, mio padre non rispose. L'uomo d'affari scrollò le spalle e sorrise ironicamente, continuava a essere ottimista. Secondo lui, la scelta di un qualche centinaio di persone non significava nulla. Dopo avere finalmente selezionato la loro forza lavoro i tedeschi si allontanarono ma l'agitazione della folla non si placò. Subito dopo udimmo il fischio di una locomotiva in lontananza e lo sferragliare di vagoni sui binari farsi sempre più vicino. Dopo qualche minuto il treno comparve alla vista. Oltre una dozzina di carri bestiame e merci avanzavano lentamente verso di noi. La brezza serotina soffiava nella nostra direzione, recando con sé una zaffata soffocante di cloro. Nel frattempo il cordone di poliziotti ebrei e di SS che circondavano il campo di raccolta serrò ancora di più le file e prese a farsi strada verso il centro. Di nuovo udimmo spari che miravano a impaurirci. Dalla folla stipata si levavano i gemiti strazianti delle donne e i pianti dei bambini. Ci apprestammo ad andarcene. Perché rinviare? Prima fossimo saliti sui vagoni meglio sarebbe stato. Una fila di poliziotti si era disposta a pochi passi dal treno e lasciava aperto un varco per far passare la gente. Quel varco conduceva alle portiere dei vagoni cosparsi di cloro. Quando arrivammo davanti al binario i primi vagoni erano già pieni: la gente stava in piedi, ammassata fino all'inverosimile. Le SS continuavano a spingere con i calci dei fucili benché dall'interno dei carri si levassero grida disperate e lamenti per la mancanza d'aria. L'odore del cloro rendeva difficile respirare perfino a una certa distanza. Che cosa sarebbe successo là dentro se il fondo dei vagoni era stato irrorato in quel modo di cloro? Ci eravamo spinti a circa metà del treno quando improvvisamente udii qualcuno gridare: «Qui, qui, Szpilman!» Una mano mi afferrò per il bavero e fui scaraventato all'indietro, fuori del cordone della polizia. Chi osava fare una cosa simile? Io non volevo essere separato dalla mia
famiglia, volevo stare con i miei. Davanti a me vedevo i poliziotti che avevano serrato i ranghi. Mi avventai contro di loro ma non mi fecero passare. Al di là delle loro teste, riuscii a scorgere Halina e Henryk che aiutavano mia madre e Regina a salire sui vagoni, mentre mio padre si guardava attorno a cercarmi. «Papà!» gridai! Mi vide e fece per avvicinarmisi, poi esitò e si bloccò. Era pallido, con le labbra che gli tremavano. Si sforzo di sorridere, un'espressione di impotenza e di sofferenza sul viso, poi sollevò una mano in un gesto di addio, come se lui dall'oltretomba prendesse congedo da me, che partivo verso la vita. Quindi si voltò e si diresse verso i vagoni. Mi avventai con tutta la forza che avevo in corpo contro le spalle dei poliziotti. «Papà! Henryk! Halina!» Urlavo quasi fossi stato posseduto. Ero inorridito all'idea che proprio in quell'ultimo istante così decisivo in cui avrei potuto unirmi a loro, saremmo stati separati per sempre. Un poliziotto si girò e mi fissò con aria adirata. «Che cosa diavolo pensi di fare? Vai via, salvati!» Salvarmi? Da che cosa? In un lampo mi resi conto quale sorte aspettava la gente una volta salita sui carri bestiame. Mi si rizzarono i capelli in testa. Mi guardai alle spalle e vidi il campo di raccolta, i binari e le pensiline e, oltre a queste, le strade. Corsi in quella direzione, spinto da una paura irrazionale, mi infilai in mezzo a una colonna di persone che lavoravano per il Consiglio ebraico e che si stavano allontanando di lì e varcai il cancello. Quando di nuovo riuscii a pensare lucidamente, mi trovai su un marciapiede in mezzo a caseggiati. Una SS stava uscendo da uno di questi edifici in compagnia di un poliziotto ebreo. Il viso della SS esprimeva al contempo indifferenza e arroganza. Accanto a lui il poliziotto gli si rivolgeva in modo servile, sorridendogli, facendogli salamelecchi. Indicandogli il treno fermo nella Umschlagplatz disse al tedesco con familiarità cameratesca in tono sarcastico: «Eccoli diretti in fonderia!» Guardai nella direzione della sua mano: le portiere dei vagoni erano oramai chiuse e il treno si stava mettendo in moto a rilento. Mi voltai e mi avviai barcollando lungo la via deserta, singhiozzando convulsamente, inseguito dalle grida sempre più flebili delle persone rinchiuse in quei vagoni. Sembravano il frullo d'ali di uccelli in
gabbia ormai agonizzanti.
CAPITOLO 10. Una probabilità di sopravvivenza.
Continuai a camminare. Non mi importava dove andavo. Alle mie spalle avevo lasciato la Umschlagplatz e i vagoni che portavano via la mia famiglia. Non udivo più il rumore del treno ormai lontano dalla città di parecchi chilometri. Eppure mentre si allontanava continuavo a sentirlo dentro di me. A ogni passo provavo un senso di solitudine sempre più profondo. Ero consapevole di essere stato strappato in modo definitivo da tutto ciò che fino a quel momento aveva costituito la mia vita. Ignoravo quello che mi aspettava. Avevo solo la certezza che sarebbe stato orribile come nei miei pensieri più foschi. Non c'era per me alcun modo di tornare nella casa in cui la nostra famiglia aveva abitato negli ultimi tempi. Le SS mi avrebbero ucciso subito o riportato all'Umschlagplatz considerandomi una persona che non era stata deportata solo per errore. Non avevo idea di dove avrei passato la notte ma in quel momento mi era del tutto indifferente, anche se la paura dell'imminente crepuscolo covava nel mio subconscio. Era come se tutte le strade fossero state ripulite; le porte delle case erano state sbarrate o lasciate spalancate nei caseggiati dai quali gli inquilini erano stati strappati. Un poliziotto ebreo mi si avvicinò. Non gli badai ma non gli avrei nemmeno prestato attenzione se non mi avesse bloccato esclamando: «Wladek!» Mi fermai e lui soggiunse, stupito: «Che cosa ci fai qui a quest'ora?» Solo allora lo riconobbi. Era un conoscente dei miei, ma non godeva della nostra simpatia. Lo ritenevamo un uomo di dubbia moralità e cercavamo di evitarlo. Era abile nel togliersi dagli impicci e nel cadere sempre in piedi usando metodi che altri avrebbero giudicato severamente. La sua entrata nella polizia non aveva fatto che confermare quella cattiva reputazione. Non appena lo riconobbi con indosso l'uniforme tutti questi pensieri mi tornarono alla mente. Subito però mi resi conto che lui era il mio conoscente più stretto, anzi il mio unico conoscente. E, in ogni caso,
l'unico che mi legava al ricordo della mia famiglia. «E' andata così», cominciai a dire. Volevo raccontargli che i miei genitori, mio fratello e le mie sorelle erano stati portati via ma le parole non mi uscivano dalle labbra. Lui però comprese ugualmente, mi si avvicinò e mi afferrò per un braccio. «Forse è meglio», mormorò con un gesto rassegnato. «Prima è, meglio è. E quello che aspetta tutti noi.» Dopo un momento di silenzio aggiunse: «Comunque vieni a stare a casa mia. Servirà a tirarti un po' su di morale.» Accettai e trascorsi la mia prima notte di solitudine con quei conoscenti. Il mattino seguente andai a trovare Mieczyslaw Lichtenbaum, il figlio del nuovo presidente del Consiglio ebraico, che avevo conosciuto bene quando suonavo ancora il pianoforte nei caffè del ghetto. Mi suggerì di andare a suonare nel casinò del comando del campo di sterminio tedesco dove la Gestapo e gli ufficiali delle SS la sera si riposavano dopo una giornata faticosa trascorsa a uccidere gli ebrei. Lì erano serviti da ebrei che presto o tardi sarebbero stati uccisi a loro volta. Naturalmente mi rifiutai di accettare quell'offerta anche se Lichtenbaum non capì e si sentì offeso per il mio rifiuto. Senza discutere ulteriormente mi mandò a lavorare con un gruppo di operai adibiti alla demolizione delle mura di quello che un tempo era stato il ghetto grande e che ora sarebbe stato incorporato nella parte ariana della città. Il giorno seguente lasciai, per la prima volta dopo due anni, il quartiere ebraico. Era una giornata bella e calda, intorno al 20 agosto. Bella come lo era da molti giorni e bella come l'ultima passata con la mia famiglia nell'Umschlagplatz. Camminavamo in file di quattro al comando di guardie ebree e sorvegliati da due SS. Ci fermammo in piazza Zelazna Brama. Dunque esistevano luoghi dove scorreva ancora la vita! I venditori ambulanti con cesti pieni di mercanzie stavano fuori della piazza del mercato che i tedeschi avevano chiuso e trasformato in una sorta di deposito. La luce accecante del sole ravvivava i colori della frutta e della verdura, rendeva scintillanti le scaglie dei pesci e mandava riflessi abbacinanti sui coperchi di latta dei barattoli di marmellata. Le donne camminavano, si aggiravano attorno agli ambulanti, contrattando, spostandosi da un cesto all'altro, facendo i loro acquisti per poi dirigersi verso il centro della città. I trafficanti d'oro e di
valuta ripetevano con voce monotona: «Comperate oro, dollari, rubli!» A un certo punto, dal fondo di una via secondaria, giunse un suono di clacson e la sagoma grigio verde di un furgone della polizia comparve alla vista. Gli ambulanti furono colti dal panico. Raccolsero in fretta le loro mercanzie nel tentativo disperato di fuggire. In tutta la piazza si levarono urla e si diffuse la confusione. Dunque in realtà nemmeno lì le cose andavano bene, Decidemmo di procedere il più lentamente possibile alla demolizione del muro in modo che il lavoro durasse più a lungo. I capisquadra ebrei non ci facevano troppe pressioni e nemmeno le SS si comportavano male come all'interno del ghetto. Se ne stavano un po' discoste a chiacchierare fitto fitto, guardandosi attorno distrattamente. Il furgone della polizia attraversò la piazza e scomparve. Gli ambulanti tornarono ai loro posti e fu come se non fosse accaduto nulla. I miei compagni lasciarono il nostro gruppo a uno a uno per andare alle bancarelle a fare acquisti, che cacciavano nelle borse che si erano portati appresso oppure nei calzoni e nelle giacche. Sfortunatamente io non avevo denaro e non potevo fare altro che guardare benché mi sentissi venir meno per la fame. Una giovane coppia si avvicinò al nostro gruppo. Proveniva da Ogròd Saski. Erano entrambi molto eleganti. La donna era affascinante, non riuscivo a distogliere lo sguardo da lei. Un sorriso aleggiava sulle sue labbra dipinte. Camminava facendo ondeggiare leggermente i fianchi, i biondi capelli illuminati dal sole sembravano oro e formavano un alone scintillante attorno alla sua testa. Nel passarci davanti rallentò il passo ed esclamò: «Guarda, oh ti prego, guarda!» L'uomo non capì, la fissò con espressione interrogativa. Lei ci indicò. «Ebrei!» Il suo compagno parve sorpreso. «E allora?» Scrollò le spalle. «Sono i primi ebrei che vedi in vita tua?» La donna sorrise, un po' imbarazzata, gli si strinse addosso, poi entrambi proseguirono in direzione del mercato. Quel pomeriggio riuscii a farmi prestare da uno del gruppo cinquanta zloty con i quali comperai pane e patate. Mangiai un pezzo di pane e portai il resto e le patate nel ghetto. Quella sera conclusi il primo affare della mia vita. Avevo pagato il pane venti zloty. Nel ghetto lo vendetti per cinquanta.
Le patate erano costate tre zloty il chilo, le vendetti per diciotto. Per la prima volta, dopo un'eternità, avevo abbastanza da mangiare e un piccolo capitale liquido ancora nelle mani per fare acquisti il giorno seguente. Il lavoro di demolizione del muro era assai monotono. Lasciavamo il ghetto il mattino di buon'ora per metterci attorno a un cumulo di mattoni, fingendo di lavorare fino alle cinque del pomeriggio. I miei compagni passavano il tempo impegnati in ogni sorta di transazioni, acquistando merci e discutendo su che cosa comperare, su come contrabbandare quella roba nel ghetto e su come venderla nel modo più proficuo. Io compravo le cose più semplici, giusto il necessario al sostentamento. Il mio unico pensiero era per la mia famiglia: dove si trovavano, in quale campo erano stati portati e in quali condizioni erano. Un giorno, un mio vecchio amico passò davanti a noi. Si chiamava Tadeusz Blumenthal. Era ebreo ma i suoi lineamenti erano così «ariani» che non aveva bisogno di dichiarare le proprie origini e poteva benissimo vivere fuori delle mura del ghetto. Fu felice di vedermi ma sconvolto nel rendersi conto della mia situazione. Mi diede un po' di denaro e promise che avrebbe cercato di aiutarmi. Mi disse che il giorno seguente sarebbe venuta una donna la quale, se io fossi riuscito a sgattaiolare via senza dare nell'occhio, mi avrebbe portato in un luogo dove avrei potuto nascondermi. In effetti la donna venne, purtroppo, però, per recarmi la notizia che le persone presso le quali avrei potuto stare non volevano accettare di prendersi in casa un ebreo. Un altro giorno il direttore della Filarmonica di Varsavia, Jan Dworakowsky, mi vide mentre attraversava la piazza. Parve sinceramente commosso, mi abbracciò e cominciò a chiedermi come stavamo io e la mia famiglia. Quando gli dissi che i miei erano stati portati via da Varsavia mi fissò con una espressione che a me parve di profonda pena, aprì la bocca come a dire qualcosa, ma all'ultimo momento, ci ripensò. «Secondo te che cosa è successo ai miei?» gli chiesi in preda a una profonda angoscia. «Wladyslaw...» Mi prese le mani e le strinse calorosamente. «Forse è meglio che tu sappia... in modo da poter stare in guardia.» Esitò per un attimo. Mi strinse di nuovo la mano quindi soggiunse a bassa voce, quasi
in un bisbiglio. «Non li vedrai mai più.» Si girò di scatto e si allontanò in fretta. Fece un paio di passi, si voltò e tornò indietro ad abbracciarmi, ma io non avevo abbastanza forza per ricambiare la sua cordialità. Nel mio subconscio avevo capito fin dall'inizio che la favola raccontata dai tedeschi riguardo alle buone condizioni di lavoro riservate agli ebrei era una menzogna e che da loro ci saremmo solo dovuti aspettare la morte. Eppure, come gli altri ebrei del ghetto, avevo carezzato fino a quel momento l'illusione che le cose sarebbero potute essere diverse e che questa volta le promesse tedesche avrebbero trovato riscontro nella realtà. Quando pensavo ai miei famigliari cercavo di immaginarmeli vivi, sia pure in condizioni terribili, ma comunque vivi. Così, un giorno, quando tutto fosse finito, ci saremmo potuti rivedere. Dworakowsky aveva distrutto di colpo l'impalcatura che avevo eretto con tanta fatica per illudermi. Solo molto più tardi mi convinsi che aveva avuto ragione a comportarsi in quel modo: la certezza della morte dei miei mi diede l'energia per salvarmi nel momento cruciale. Trascorsi i giorni successivi immerso in una sorta di sogno, alzandomi dal letto al mattino come un automa, aggirandomi come un automa, distendendomi la sera come un automa per dormire su un tavolaccio, nel magazzeno ebraico di mobili che era stato assegnato al Consiglio. In qualche modo dovevo accertare quella che ormai sapevo essere la verità: la morte certa della mamma, di papà, di Regina, di Halina e di Henryk. Poi vi fu una incursione aerea sovietica su Varsavia. Tutti si precipitarono nei rifugi. I tedeschi erano allarmati e adirati, gli ebrei felici anche se non potevano darlo a vedere. Ogni volta che sentivamo il rombo dei bombardieri il nostro volto si illuminava. Per noi quello era il segno che di lì a poco sarebbero arrivati gli aiuti e ci sarebbe stata la sconfitta della Germania, l'unica possibilità per noi di salvezza. Io non scendevo nel rifugio. Per me era indifferente vivere o morire. Nel frattempo le nostre condizioni di lavoro erano peggiorate. I lituani messi ora a sorvegliarci ci proibivano di fare acquisti al mercato. Ci perquisivano in modo sempre più accurato al posto di guardia centrale e al nostro rientro nel ghetto. Un pomeriggio, del tutto inaspettatamente, nel nostro gruppo fu effettuata una selezione. Un poliziotto giovane si dispose fuori del posto di guardia centrale, con le maniche rimboccate e prese a suddividerci in modo casuale, come se si trattasse di una estrazione a sorte, seguendo una sua logica. Quelli sulla sinistra
dovevano morire, quelli sulla destra vivere. A me ordinò di passare sulla destra. Fece distendere quelli sulla sinistra sul terreno, poi li uccise a colpi di rivoltella. Dopo circa una settimana sui muri del ghetto comparvero annunci che ci sarebbe stata una nuova selezione degli ebrei rimasti ancora a Varsavia. Dal momento che trecentomila erano già stati «trasferiti» ne restavano all'incirca ancora centomila, dei quali venticinquemila sarebbero rimasti in città, professionisti o lavoratori di cui i tedeschi avevano bisogno. I funzionari del Consiglio dovettero presentarsi nel cortile dell'edificio del Consiglio ebraico il giorno stabilito, il resto della popolazione nell'area del ghetto tra via Nowolipky e via Gesia. Per rendere le cose doppiamente sicure, uno dei poliziotti ebrei, un funzionario al quale avevano dato il soprannome di Blaupapier, se ne stava fermo davanti all'edificio con una frusta in mano che usava senza alcuna remora su chiunque tentasse di entrare. A coloro ai quali era stato concesso di restare nel ghetto furono distribuiti dei numeri stampati su foglietti di carta. Il Consiglio aveva il diritto di tenersi cinquemila dei propri funzionari. Quel primo giorno a me non venne dato alcun numero, cionondimeno dormii per tutta la notte, rassegnato al mio destino, benché i miei compagni fossero quasi impazziti per l'ansia. Il mattino seguente mi fu dato un numero. Eravamo disposti in fila per quattro e dovemmo attendere fino a quando la commissione di controllo delle SS comandata dall'Unterstururmfùhrer Brandt accondiscese a venire a contarci onde evitare che troppi di noi potessero sfuggire alla morte. Marciando a quattro per quattro, tenuti sotto stretta sorveglianza dalla polizia, ci dirigemmo verso il cancello della sede del Consiglio per raggiungere via Gesia dove saremmo dovuti essere alloggiati. Alle nostre spalle le persone condannate a morte si sbattevano da tutte le parti, urlando, gemendo e imprecando contro di noi che eravamo sfuggiti miracolosamente a quella condanna, mentre i lituani, che sovrintendevano al loro passaggio dalla vita alla morte, sparavano sulla folla per ristabilire la calma in un modo che era diventato loro abituale. Mi era stata data un'ulteriore possibilità di vivere. Ma per quanto tempo ancora?
CAPITOLO 11. Tiratori scelti, insorgete!
Avevo cambiato alloggio ancora una volta, l'ultimo di non so quanti traslochi da quando abitavamo in via Sliska e da quando era scoppiata la guerra. Questa volta ci furono assegnate stanze in coabitazione o meglio, celle contenenti solo lo stretto necessario e dei tavolacci. Dividevo la mia con tre membri della famiglia Pròzariski e con la signora A., una persona silenziosa ed estremamente riservata, a dispetto della coabitazione alla quale era stata costretta. Già la prima notte che trascorsi lì feci un sogno che mandò in fumo le mie ultime illusioni, Sembrava la conferma definitiva di ciò che presumevo fosse il destino della mia famiglia. Sognai mio fratello Henryk che mi si avvicinava e si chinava sul mio letto dicendo: «Ora siamo morti.» Alle sei del mattino fummo svegliati da un continuo andirivieni nel corridoio. Si sentiva parlare a voce alta, ferveva una grande attività. Erano gli operai privilegiati adibiti alla ristrutturazione del palazzo del comandante delle SS di Varsavia in Aleje Ujazdowskie che stavano andando al lavoro. La loro condizione «privilegiata» significava che, prima di allontanarsi, ricevevano una zuppa sostanziosa con carne, sufficiente a fornir loro energia per qualche ora. Noi uscimmo quasi subito dopo, il ventre pressoché vuoto dopo una ciotola di brodaglia. Il suo irrilevante valore nutritivo era pari all'importanza del nostro lavoro: dovevamo ripulire il cortile dell'edificio del Consiglio ebraico. Il giorno seguente, mandarono me, Pròzariski e il figlio adolescente nella struttura in cui si trovavano i magazzini del Consiglio e gli appartamenti dei suoi funzionari. Erano le due del pomeriggio quando si udirono l'ormai famigliare fischio e il solito urlo dei tedeschi che chiamavano tutti a raccolta nel cortile. Benché avessimo già sofferto abbastanza per mano loro, ci si gelò il sangue e ci immobilizzammo come statue di sale. Solo due giorni prima c'erano stati assegnati dei numeri che significavano «la vita.» Tutti in quell'edificio ne avevano uno, quindi non poteva certamente trattarsi di un'altra selezione. E in questo caso, di che cosa si trattava? Ci affrettammo a scendere. In effetti era proprio una selezione. E, ancora una volta, vidi persone disperarsi mentre gli uomini delle SS con urla colleriche separavano
brutalmente le famiglie e sceglievano quanti dovevano andare a destra e quanti a sinistra, bestemmiando e picchiandoci. Invece, di nuovo il nostro gruppo di lavoro era stato risparmiato, a parte qualche eccezione. Come il figlio di Pròzariski, un ragazzo adorabile col quale avevo stretto amicizia. Gli volevo già molto bene, anche se condividevamo la stessa stanza da appena due giorni. Non voglio descrivere la disperazione dei suoi genitori. Nel corso di quei mesi migliaia di altre madri e di altri padri avevano vissuto la stessa disperazione. La selezione presentava poi anche un'altra peculiarità: le famiglie più in vista della comunità ebraica comperavano la propria libertà dai cosiddetti incorruttibili ufficiali della Gestapo. Per raggiungere la quota stabilita, falegnami, camerieri, parrucchieri, barbieri e altra manodopera qualificata che sarebbe realmente potuta essere utile ai tedeschi, furono mandati al posto loro all'Umschlagplatz e condotti alla morte. Tra parentesi, il giovane Pròzariski riuscì a fuggire e sopravvisse un po' più a lungo. Un giorno, di lì a poco, il capo del nostro gruppo mi disse che era riuscito a farmi assegnare a quello che lavorava nell'edificio della caserma delle SS nel lontano quartiere di Mokotow. Mi assicurò che lì avrei avuto cibo migliore e che in generale mi sarei trovato molto meglio. La realtà si dimostrò tutto affatto diversa. Dovevo alzarmi due ore prima e percorrere una dozzina di chilometri per arrivare al lavoro in tempo. Quando vi giungevo, stremato per la lunga camminata, dovevo mettermi subito all'opera, una fatica molto superiore alle mie forze perché ero costretto a portare mattoni, impilati l'uno sull'altro, su un'asse appoggiata sulla schiena. Negli intervalli trasportavo secchi pieni di calce e barre di ferro. Me la sarei potuta cavare bene se non fosse stato per i sorveglianti delle SS, i futuri occupanti di quella caserma, i quali ritenevano che noi lavorassimo troppo lentamente. Ci ordinarono di trasportare le pile di mattoni e le barre di ferro di corsa e se qualcuno si sentiva mancare le forze e si fermava lo colpivano con fruste di cuoio su cui erano fissate delle palle di piombo. Di fatto non so come sarei riuscito a sopravvivere a questo immane sforzo fisico se non fossi tornato dal capogruppo per scongiurarlo, ottenendo da lui una risposta positiva, di essere trasferito al complesso di edifici dove si trovava il palazzetto del comandante delle SS, in Aleje Ujazdowskie. Lì le condizioni di lavoro erano più
sopportabili e in qualche modo riuscivo a cavarmela. Sopportabili soprattutto perché lavoravamo con capomastri tedeschi e artigiani polacchi specializzati, alcuni dei quali erano ai lavori forzati, anche se qualcuno tra loro era assunto a contratto. Di conseguenza non eravamo troppo in evidenza e questo ci consentiva di fare ogni tanto delle soste, tanto più che il nostro gruppo non si limitava ad annoverare solo ebrei. Inoltre i polacchi facevano causa comune con noi contro i sorveglianti tedeschi e ci aiutavano. Un altro elemento a nostro favore era costituito dal fatto che l'architetto incaricato della ristrutturazione dell'edificio, un certo ingegner Blum, era a sua volta ebreo e sotto di sé aveva altri ingegneri ebrei, tutti di eccezionale professionalità. I tedeschi però non riconoscevano ufficialmente questa situazione e il capomastro Schuitke, un vero e proprio sadico che, per salvare la forma, veniva fatto passare per «architetto responsabile dei lavori», aveva il diritto di picchiare gli ingegneri tutte le volte che gli pareva. In realtà senza gli abili artigiani ebrei non si sarebbe conseguito un bel nulla. Per questo venivamo trattati in modo abbastanza gentile, a parte ovviamente le frustate cui ho accennato, ma questi dettagli contavano ben poco nel clima di quei tempi. Io lavoravo come manovale per un muratore di nome Bartczak, un polacco, tutto sommato una brava persona, anche se logicamente nascevano fra noi anche dei contrasti. A volte i tedeschi ci stavano addosso e noi dovevamo cercare di lavorare come loro volevano. Io facevo del mio meglio ma era inevitabile che a volte rovesciassi la scala o la calce dal secchio, oppure che facessi cadere i mattoni dalle impalcature; in questi casi anche Bartczak veniva redarguito. Così finiva per prendersela con me, diventava paonazzo in volto e bofonchiava, ma non appena i tedeschi si allontanavano scuoteva la testa quasi sconfortato per la mia inettitudine e dava inizio alla sua tirata. «E osi anche dire che suonavi alla radio, Szpilman?» mi chiedeva stupito. «Un musicista come te... non sa nemmeno maneggiare una vanga e raschiare la calce da un'asse... scommetto che li facevi addormentare tutti!» Poi si stringeva nelle spalle, mi guardava con sospetto, sputava e, dando sfogo un'ultima volta alla sua collera, urlava a pieni polmoni: «Idiota!» Comunque, ogni volta che sprofondavo nelle mie cupe riflessioni e
smettevo di lavorare, dimenticandomi dove mi trovavo, lui non mancava mai di avvertirmi in tempo se vedeva avvicinarsi un sorvegliante tedesco. «Malta!» tuonava e quella parola echeggiava nell'aria. Afferravo il primo secchio che mi veniva a tiro, o una cazzuola e fingevo di lavorare di buona lena. La prospettiva dell'inverno ormai incombente su di noi mi rendeva particolarmente ansioso. Non avevo indumenti pesanti e ovviamente nemmeno guanti. Ero stato sempre piuttosto sensibile al freddo e temevo che se le mie mani si fossero congelate mentre svolgevo quel genere di lavoro così pesante, avrei potuto dire addio a qualsiasi futura carriera di pianista. Sempre più incupito guardavo le foglie sugli alberi di Aleje Ujazdowskie cambiare colore nel vento che sferzava di giorno in giorno più freddo. A quel punto i numeri che erano stati assegnati a ciascuno di noi e che ci avevano consentito provvisoriamente di aver risparmiata la vita ci furono confermati ufficialmente. Al contempo io fui trasferito nei nuovi alloggi del ghetto in via Kurza e ci venne cambiato anche posto di lavoro, nella parte ariana della città. La ristrutturazione del palazzetto nella Aleje ormai stava per finire e servivano meno operai. Alcuni di noi furono trasferiti al numero otto di via Narbutt, per predisporre alloggi per un'unità di ufficiali delle SS. Il freddo aumentava di giorno in giorno e le mie dita si intorpidivano sempre di più durante il lavoro. Non so come sarebbe finita se il caso non mi fosse venuto in aiuto; un colpo fortunato di sfortuna, se così si può dire. Un giorno inciampai mentre portavo il secchio con la malta e mi slogai la caviglia. Ora non ero più abile a quel lavoro e l'ingegner Blum mi assegnò ai magazzeni. Era la fine di novembre, il termine utile entro il quale potevo sperare di salvare le mie mani. In ogni caso nei magazzeni faceva più caldo che all'esterno. Un numero crescente di operai, che avevano lavorato in Aleje Ujazdowskie, vennero ora trasferiti da noi, mentre un numero crescente delle SS che avevano l'incarico di sorvegliarci furono spostate in via Narbutt. Un mattino comparve tra costoro l'uomo che sarebbe diventato la rovina della nostra vita: un sadico di cui non conoscevo il cognome ma che avevano battezzato Cric-Crac. Provava un piacere quasi erotico nel torturare le persone in un certo modo. Ingiungeva al malcapitato di turno di chinarsi, si spingeva la sua testa fra le cosce, schiacciava
forte e frustava il poveretto sui glutei con un kourbash. Livido di furia, sibilava tra i denti: «Cric crac!» Non mollava la preda fino a quando il poveretto non perdeva i sensi per il dolore. Di nuovo presero a circolare nel ghetto voci di ulteriori trasferimenti. Se quelle voci erano vere, significava che dopo tutto, i tedeschi non avevano altro scopo se non quello di eliminarci. Infatti eravamo rimasti in poco meno di sessantamila e per quale altro scopo, se non quello di sterminarci, avrebbero preso la decisione di evacuare questo numero esiguo di persone dalla città? L'idea di opporre resistenza ai tedeschi cominciò a circolare con sempre maggior frequenza. Erano soprattutto gli ebrei giovani a mostrarsi decisi a lottare. All'interno del ghetto vennero preparati in gran segreto dei luoghi fortificati che avrebbero consentito di difendersi dall'interno qualora fosse accaduto il peggio. Evidentemente i tedeschi ne avevano avuto sentore perché sui muri del ghetto comparvero proclami nei quali si assicurava in tutti i modi che non esisteva alcun piano per procedere a ulteriori trasferimenti. Gli uomini adibiti alla sorveglianza del nostro gruppo ci ammannivano spontaneamente ogni giorno le stesse rassicurazioni e, per renderle ancor più convincenti, da quel giorno ci permisero di acquistare cinque chili di patate e una pagnotta a testa nella parte ariana della città e di portarli nel ghetto. La benevolenza tedesca arrivò al punto di consentire a un rappresentante del nostro gruppo di girare liberamente tutti i giorni per la città e di procedere agli acquisti per conto nostro. Scegliemmo un ragazzo giovane e coraggioso al quale decidemmo di dare il soprannome di «Majorek», piccolo maggiore. I tedeschi ignoravano del tutto che. seguendo le nostre istruzioni, Majorek sarebbe diventato l'anello di collegamento tra il movimento di resistenza clandestina del ghetto e analoghe organizzazioni polacche all'esterno. L'autorizzazione ufficiale da parte dei tedeschi di far entrare un certo quantitativo di cibo diede l'avvio a un commercio segreto molto attivo nel nostro gruppo. Ogni giorno quando uscivamo dal ghetto c'era una folla di borsaneristi ad attenderci. Barattavano ciuchy (abiti usati) con i miei compagni in cambio di cibo. Io non ero tanto interessato a questo commercio quanto ad avere notizie dai borsaneristi. Gli alleati erano sbarcati in Africa. Stalingrado era ormai al terzo mese di resistenza e c'era stata una cospirazione a Varsavia. Bombe a mano erano state lanciate nel Circolo tedesco. Queste erano notizie che risollevavano il nostro morale, rafforzando la nostra capacità di
resistenza e la nostra convinzione che la Germania sarebbe stata presto sconfitta. Ben presto nel ghetto iniziarono le prime rappresaglie armate. Anzitutto contro i corrotti. Uno tra i più crudeli elementi della polizia ebraica fu ucciso: Lejkin, noto per la sua operosità nel catturare la gente e consegnare la propria quota di vittime all'Umschlagplatz- Subito dopo venne eliminato un altro individuo, un certo First, che fungeva da intermediario tra la Gestapo e il Consiglio ebraico. Morì per mano di ebrei. Per la prima volta le spie all'interno del ghetto cominciarono ad avere paura. A poco a poco recuperai forza d'animo e volontà di sopravvivere. Un giorno andai da Majorek e lo pregai di telefonare quando fosse andato in città a dei miei conoscenti per chiedere loro se fossero disposti a farmi uscire in qualche modo dal ghetto e a tenermi nascosto. Quel pomeriggio attesi con il cuore in gola il ritorno di Majorek. Lui arrivò recando però brutte notizie: i miei conoscenti gli avevano detto che non se la sentivano di rischiare a nascondere un ebreo e si erano addirittura indignati perché avevo anche solo osato proporre una cosa simile, che era passibile di pena di morte! Capii che sarebbe stato inutile insistere. Loro avevano rifiutato: forse altri si sarebbero mostrati più umani. Non dovevo assolutamente perdere le speranze. Il nuovo anno era imminente. Il 31 dicembre 1942 giunse, del tutto inaspettato, un imponente convoglio che trasportava carbone. Dovevamo scaricarlo tutto in quello stesso giorno e sistemarlo nella cantina dello stabile di via Narbutt. Era un lavoro duro e stremante e impiegammo più tempo del previsto. Invece di metterci in movimento per raggiungere il ghetto alle sei di sera, ce ne andammo solo quando fu quasi buio. Facevamo sempre lo stesso percorso, camminando a gruppi di tre, da via Polna a via Chalubiriski, proseguendo poi per via Zelazna fino al ghetto. Avevamo già raggiunto via Chalubiriski quando, in testa alla colonna, si udirono delle urla tremende. Ci fermammo. Un momento dopo ci rendemmo conto di quello che era accaduto. Per puro caso ci eravamo imbattuti in due uomini delle SS, sbronzi fradici. Uno di loro era Cric-Crac. Si avventarono contro di noi, colpendoci con le fruste dalle quali non si separavano nemmeno quando facevano baldoria e si ubriacavano. Colpirono sistematicamente ogni gruppo di tre persone a turno, a cominciare dai primi. Quando ebbero finito, si disposero a pochi passi di distanza l'uno dall'altro
sul marciapiede, estrassero le pistole e CricCrac urlò: «Intellettuali, rompete le righe!» Non c'era da illudersi riguardo alle loro intenzioni, ci avrebbero ucciso subito. Mi riuscì difficile decidere il da farsi. Se non avessimo rotto le righe li avremmo solo fatti infuriare ulteriormente. Avrebbero finito col trascinarci fuori della colonna per darci altre frustate prima di ucciderci come punizione per non avere ubbidito. Il dottor Zajczyk, storico e lettore all'università, che mi stava a fianco, tremava come una foglia, proprio come me e proprio come me non riusciva a decidere il da farsi. Ma al secondo ordine urlato uscimmo dalla colonna. Eravamo complessivamente in sette. Mi ritrovai di nuovo, faccia a faccia, con Cric-Crac che ora si era messo a inveire proprio contro di me. «Vi insegnerò io la disciplina! Perché ci avete messo tanto?» Agitava la pistola sotto il mio naso. «Dovevate essere qui per le sei e adesso sono le dieci!» Non dissi nulla, sicuro che comunque di lì a un secondo mi avrebbe sparato. Mi fissò con gli occhi annebbiati, barcollò sotto il lampione stradale poi, del tutto inaspettatamente, annunciò con voce ferma: «Voi sette siete personalmente responsabili di riportare la colonna nel ghetto. Potete andare.» C'eravamo già voltati quando, a un tratto, tuonò: «Tornate indietro!» Questa volta davanti a sé aveva il dottor Zajczyk. Lo afferrò per il collo, lo scosse, e ringhiò: «Sapete perché vi pestiamo?» Il dottore non disse nulla. «Be', sapete perché?» ripetè. Un uomo che stava un po' discosto, manifestamente allarmato, chiese con voce tremula: «Perché?» «Per rammentarvi che è l'anno nuovo.» Ci eravamo appena incolonnati quando udimmo un ulteriore ordine. «Cantate!» Fissammo Cric-Crac, attoniti. Lui barcollò di nuovo, ruttò e aggiunse: «Cantate qualcosa di allegro.» Poi, ridendo della propria battuta, si girò e si allontanò barcollando per la via. Dopo qualche passo si bloccò ed esclamò in tono minaccioso: «Cantate bene e forte.» Non so chi sia stato il primo a intonare il canto o perché gli fosse venuta alla mente quella particolare canzone militare. Ci unimmo a lui. In fin dei conti quello che cantavamo non aveva alcuna importanza.
Solo oggi, ripensando a quell'incidente, mi rendo conto di quanto di tragico vi fosse in quella pagliacciata. Quell'ultimo dell'anno un gruppetto di ebrei esausti percorsero le vie di una città in cui da anni erano state vietate, pena la morte, manifestazioni di patriottismo polacco, cantando a squarciagola e con la certezza di non subire ritorsioni, la canzone patriottica Hey, strzelcy wraz! Ehi, tiratori scelti, insorgete!
CAPITOLO 12. Majorek. 1 gennaio 1943. L'anno in cui Roosevelt annunciò che i tedeschi sarebbero stati sconfitti. In effetti, sulle linee del fronte ora risultava chiaro che le cose per loro andavano peggiorando. Se solo quelle linee fossero state più vicine a noi! Era giunta la notizia delle sconfitta tedesca a Stalingrado, una notizia troppo importante perché potesse venir messa a tacere o quanto meno minimizzata con la solita dichiarazione stampa atta a sostenere che nemmeno questo era significativo per l'andamento vittorioso della guerra. Stavolta i tedeschi dovettero ammetterlo e proclamarono tre giorni di lutto. Fu il primo momento di relativa tranquillità di cui godevamo da mesi. I più ottimisti tra noi si sfregavano le mani allegramente, del tutto persuasi che la guerra sarebbe finita di lì a poco. I pessimisti invece la pensavano in modo diverso: ritenevano che la guerra sarebbe durata ancora per un po'. Quanto meno, però, non potevano esserci più dubbi riguardo al risultato finale. Di pari passo con le notizie politiche sempre più positive, le organizzazioni clandestine del ghetto intensificarono le loro attività. Anche il mio gruppo ne fu coinvolto. Majorek faceva quotidianamente la spola dalla città per consegnare al nostro gruppo sacchi di patate e munizioni nascoste sul fondo. Ce le distribuivamo e le portavamo nel ghetto occultandole nei pantaloni. In realtà era rischioso e un giorno per poco non finì tragicamente per tutti noi. Come al solito Majorek aveva consegnato i sacchi al magazzeno in cui io lavoravo. Avrei dovuto svuotarli, nascondere le munizioni e la sera distribuirle tra i miei compagni. Ma Majorek aveva appena posato i
sacchi e lasciato il magazzeno, quando la porta venne spalancata e l'Unterstururmfùhrer Young irruppe all'interno. Si guardò attorno, notò i sacchi e vi si avvicinò a grandi passi. Mi sentii cedere le ginocchia. Se avesse ispezionato il loro contenuto, per noi sarebbe finita e 10 sarei stato il primo a prendermi una pallottola in testa. Young si fermò davanti ai sacchi e cercò di slegarne uno. Ma la corda si era impigliata ed era difficile disfare il nodo. La SS bestemmiò, spazientita, e mi guardò. «Slegalo tu!» sbottò. Mi avvicinai cercando di restare calmo, disfeci il nodo con voluta lentezza, all'apparenza assolutamente tranquillo. 11 tedesco osservava, le mani sui fianchi. «Cosa c'è dentro?» chiese. «Patate. Ci è stato concesso di portarne un po' nel ghetto tutti i giorni.» Ora il sacco era aperto. Lui mi diede l'ordine successivo. «Tirale fuori e fammi vedere.» Infilai la mano nel sacco. Non c'erano patate. Per fortuna Majorek, invece di patate aveva portato un piccolo quantitativo di avena e di fagiolini, che aveva sistemato sopra le patate. Mostrai una manciata di fagiolini gialli piuttosto lunghi. «Patate, eh?» Young sbottò in una risata sarcastica, poi ordinò «Prova più sotto!» Questa volta estrassi una manciata di avena. Da un momento all'altro il tedesco mi avrebbe picchiato perché lo avevo ingannato. Di fatto speravo che lo facesse. Forse così non avrebbe più pensato al resto del contenuto del sacco. Invece non mi diede nemmeno un ceffone. Girò sui tacchi e se ne andò. Di lì a poco irruppe di nuovo nel locale, come a volermi sorprendere nell'atto di commettere qualche nuovo «reato.» Io ero immobile al centro del magazzeno e cercavo di riprendermi dallo spavento. Dovevo calmarmi. Solo quando udii i passi di Young che si allontanavano lungo il corridoio mi affrettai a svuotare i sacchi e a nascondere le munizioni sotto un mucchio di calce che era stata
rovesciata in un angolo del magazzeno. Quella sera, quando ci avvicinammo al ghetto, lanciammo come al solito al di là del muro i nostri nuovi carichi di munizioni e di granate a mano. L'avevamo scampata bella! Il 14 gennaio, un venerdì, furiosi per le sconfitte al fronte e per la gioia che manifestamente ciò suscitava nei polacchi, i tedeschi ricominciarono la caccia all'uomo, questa volta in tutta Varsavia. Andarono avanti così ininterrottamente per tre giorni. Ogni giorno, quando andavamo al lavoro e quando tornavamo, vedevamo persone braccate e catturate per la strada. Convogli di furgoni della polizia carichi di prigionieri si allontanavano verso il carcere e ritornavano vuoti, pronti a caricare altre «infornate» di nuovi reclusi da trasferire nei campi di concentramento. Un certo numero di ariani venne a rifugiarsi nel ghetto. In quei giorni difficili ci trovammo davanti a un altro paradosso del periodo dell'occupazione: la fascia al braccio con la stella di Davide, una volta uno dei simboli più minacciosi, dalla sera al mattino divenne una protezione, una forma di assicurazione poiché gli ebrei non costituivano più la preda. Dopo due giorni, però, venne il nostro turno. Quando lunedì mattina uscimmo dall'edificio, in strada non trovai il nostro gruppo al completo, ma solo alcuni operai chiaramente considerati indispensabili. Io ero tra questi, in quanto «responsabile del magazzeno.» Ci mettemmo in movimento, scortati da due poliziotti e ci avviammo verso il cancello del ghetto. Di solito era sorvegliato solo da funzionari della polizia ebraica, ma quel giorno un'intera unità di polizia tedesca controllava con attenzione i documenti di chiunque lasciava il ghetto per andare a lavorare. Un ragazzo di una decina d'anni arrivò di corsa lungo il marciapiedi. Era pallidissimo e tanto spaventato da dimenticare di togliersi il berretto davanti a un poliziotto tedesco che gli si stava avvicinando. Il tedesco si fermò. Senza parlare estrasse una pistola, la appoggiò alla tempia del ragazzo e fece fuoco. Questi cadde a terra, agitando le braccia, si irrigidì e morì. Lentamente, il poliziotto ripose l'arma nella fondina e proseguì. Lo guardai: non aveva lineamenti particolarmente crudeli e nemmeno appariva adirato. Era un uomo normale, tranquillo, che aveva eseguito uno dei suoi tanti irrilevanti doveri quotidiani, per passare subito dopo ad altre più
«importanti» faccende. Il nostro gruppo era già sul lato ariano quando udimmo alle nostre spalle dei colpi d'arma da fuoco. Provenivano dagli altri gruppi di lavoratori ebrei che trovatisi circondati nel ghetto rispondevano alla ferocia tedesca sparando per la prima volta. Proseguimmo per la nostra strada molto abbattuti, ci chiedevamo tutti che cosa ora sarebbe accaduto nel ghetto. Non ci potevano essere dubbi sul fatto che fosse iniziata una nuova fase della sua liquidazione. Il piccolo Pròzariski che mi camminava al fianco era preoccupato per i suoi genitori, rimasti nella nostra stanza. Si chiedeva se sarebbero riusciti a nascondersi da qualche parte e a sfuggire alla deportazione. Per quanto mi riguardava le mie preoccupazioni erano di altra natura, molto particolare. Avevo lasciato sul tavolo della nostra stanza la mia stilografica e il mio orologio, tutto quello che possedevo al mondo. Se fossi riuscito a sopravvivere avevo progettato di trasformarli in denaro contante per potere continuare a vivere ancora per qualche giorno, il tempo sufficiente a trovare un nascondiglio con l'aiuto dei miei amici. Quella sera non rientrammo nel ghetto. Fummo provvisoriamente alloggiati in via Narbutt. Solo più tardi venimmo a sapere quello che era successo dietro le mura del ghetto dove la gente si era difesa come meglio aveva potuto, prima di essere portata a morire. Si era nascosta in luoghi già predisposti. Le donne rovesciavano acqua sui gradini delle scale affinchè gelasse e rendesse più difficoltoso ai tedeschi raggiungere i piani superiori. In alcuni edifici erano state erette solo delle barricate e gli abitanti avevano avuto scontri a fuoco con le SS. Erano ormai decisi a morire combattendo, le armi in pugno, piuttosto che a perire nelle camere a gas. I tedeschi avevano fatto evacuare i pazienti dell'ospedale ebraico e li avevano caricati sui pianali di camion scoperti, spedendoli tutti senza vestiti addosso, all'addiaccio verso Treblinka. Grazie però a questa prima dimostrazione di resistenza ebraica i tedeschi riuscirono a portare via solo circa cinquemila persone nel corso di cinque giorni, invece delle diecimila che avevano programmato. La quinta sera Cric-Crac ci informò che l'azione scattata per «ripulire il ghetto da elementi inabili al lavoro» si era ormai conclusa. Noi potevamo farvi ritorno. Il cuore prese a batterci violentemente in petto nel percorrere le strade del ghetto. Lo spettacolo era sconvolgente. I
marciapiedi erano coperti dai vetri infranti delle finestre. Le piume dei cuscini squarciati ostruivano i canali di scolo: erano dappertutto e a ogni folata di vento turbinavano in aria formando grandi nuvole. Pareva una fitta nevicata alla rovescia, che salisse dalla terra al cielo. Di continuo vedevamo cadaveri di gente assassinata. Il silenzio attorno a noi era tale che i nostri passi riecheggiavano dai muri degli edifici come se stessimo attraversando una gola rocciosa tra le montagne. Anche se nella nostra stanza non era rimasto più nessuno, non era però stata razziata. Tutto era come lo avevano lasciato; ma i genitori di Pròzariski, erano stati caricati sui camion. I tavolacci erano ancora in disordine dalla notte precedente. Sulla stufa spenta c'era un bricco di caffè che non avevano finito di bere. La mia stilografica e il mio orologio stavano sul tavolo dove li avevo lasciati. Dovevo agire con decisione e tempestivamente. Probabilmente al più presto sarebbe scattata un'altra operazione di trasferimento e forse anch'io questa volta ero sulla lista di quanti sarebbero stati portati via. Mi misi in contatto con degli amici, una giovane coppia di artisti, attraverso Majorek. Andrzej Bogucki faceva l'attore, sua moglie, invece, era una cantante e si esibiva con il nome da nubile, Janina Godlewska. Un giorno Majorek mi disse che sarebbero venuti verso le sei del pomeriggio. Nel momento in cui gli operai ariani tornavano alle loro case, ne approfittai per sgattaiolare fuori dal cancello. Erano lì entrambi. Scambiammo solo poche parole. Porsi loro le mie composizioni, la penna e l'orologio e tutto quello che volevo prendere con me. Avevo già portato queste cose fuori dal ghetto e le avevo nascoste in un magazzeno. Ci accordammo in modo che Bogucki venisse a prendermi alle cinque del sabato pomeriggio nell'ora in cui un generale delle SS sarebbe arrivato a compiere un'ispezione dell'edificio. Speravo che lo scompiglio che questo avrebbe creato mi avrebbe facilitato la fuga. Nel ghetto si respirava ormai un'aria di tensione, di nervosismo. Si percepiva l'incombere di una tragedia. Il colonnello Szeryriski, comandante della polizia ebraica, si tolse la vita. Doveva davvero aver ricevuto notizie terribili se persino lui, che più di chiunque altro era vicino ai tedeschi, l'uomo di cui loro avevano maggiormente bisogno e che sicuramente avrebbero deportato per ultimo, non aveva visto altra soluzione per sé se non quella di darsi la morte. Quando ci recavamo ogni giorno al lavoro altri ebrei si
mescolavano a noi nel tentativo di riparare nella parte ariana del muro. Non sempre vi riuscivano. Là c'erano spie in attesa dei fuggiaschi, agenti prezzolati e volontari disponibili che aspettavano al varco, disposti in qualche strada secondaria, l'ebreo di turno di cui osservavano le mosse per costringerlo a consegnare a loro denaro e gioielli che si portavano addosso, minacciando di denunciarlo ai tedeschi se non l'avesse fatto. Il più delle volte, poi, consegnavano comunque ai tedeschi le persone che avevano derubato. Quel sabato, sin dal mattino, avevo i nervi a fior di pelle. La cosa avrebbe funzionato? Qualsiasi passo falso significava la morte immediata. Nel pomeriggio il generale arrivò puntualmente per compiere l'ispezione. Per il momento le SS, molto impegnate per quella visita, non si occuparono di noi. Verso le cinque gli operai ariani smisero di lavorare. Mi infilai il cappotto, per la prima volta da tre anni a quella parte mi tolsi dal braccio la fascia con la stella azzurra e sgattaiolai con loro fuori del cancello. Bogucki era in attesa all'angolo di via Visniowa, il che stava a significare che tutto fino a quel momento procedeva secondo il piano stabilito. Non appena mi vide prese ad allontanarsi in fretta. Lo seguii a qualche passo di distanza con il bavero del cappotto rialzato, cercando di non perderlo di vista nell'oscurità. Le strade erano deserte e solo fiocamente illuminate in ottemperanza ai regolamenti in vigore dall'inizio della guerra. Dovevo solo fare attenzione a non trovarmi davanti a un tedesco sotto la luce di un lampione dove costui avrebbe potuto facilmente vedere la mia faccia. Prendemmo la strada più breve, camminando molto di fretta, ciononostante il tragitto sembrava non finire mai. Finalmente arrivammo al termine del nostro viaggio, al numero 10 di via Noakowski, dove mi sarei dovuto nascondere nello studio di un artista al quinto piano. Il locale era a disposizione di Piotr Perkowski, all'epoca uno dei musicisti che cospiravano contro i tedeschi. Salimmo in fretta le scale facendo tre gradini alla volta. Janina Godlewska ci aspettava nello studio. Appariva nervosa e preoccupata. Nel vederci trasse un sospiro di sollievo. «Oh, eccovi, finalmente!» Intrecciò le mani sopra la testa, poi rivolta a me soggiunse: «Solo dopo che Andrzej è uscito per venirti a prendere mi sono resa conto che oggi è il tredici febbraio e il tredici porta
sfortuna!»
CAPITOLO 13. Guai e litigi alla porta accanto. Lo studio dell'artista dove ora mi trovavo, e dove sarei dovuto rimanere per qualche tempo, era molto spazioso: una stanza ampia con il soffitto a lucernario. Nascoste da porte c'erano nicchie prive di finestre su ambedue i lati. I Bogucki mi avevano procurato una branda che, in confronto ai tavolacci sui quali per tanto tempo avevo dormito, mi sembrava incredibilmente confortevole. Mi sentivo al settimo cielo per il solo fatto di non vedere tedeschi. Ora non dovevo più sentire le loro urla, temere di essere picchiato o ucciso in qualunque momento da una SS. In quei giorni cercai di non pensare a quello che mi aspettava prima che finisse la guerra, sempre che fossi riuscito a sopravvivere fino ad allora. Un giorno la signora Bogucka mi portò una notizia che mi rallegrò. Le truppe sovietiche avevano riconquistato Kharkow. Tuttavia, che ne sarebbe stato di me? Mi rendevo conto che non sarei potuto restare lì per molto. Nei giorni successivi Perkowski avrebbe dovuto trovare un inquilino se non altro perché i tedeschi avevano preannunciato un censimento che avrebbe comportato una perquisizione della polizia in tutte le case, per verificare che tutti gli occupanti fossero stati registrati regolarmente e avessero diritto di risiedervi. Aspiranti inquilini si presentavano quasi ogni giorno per vedere il locale e, quando venivano, io dovevo nascondermi in una delle due nicchie e chiudere la porta dall'interno. Dopo due settimane Bogucki si accordò con Edmund Rudnicki, l'ex direttore del settore musicale della Radio polacca, che prima della guerra era stato il mio capo. Questi si presentò una sera in compagnia di un ingegnere, un tale Gebezyriski. Io mi sarei dovuto trasferire in casa sua e di sua moglie al pianoterra dello stesso caseggiato. Quella sera per la prima volta dopo sette mesi, misi di nuovo le dita sulla tastiera di un pianoforte. Sette mesi durante i quali avevo perso tutti i miei cari, ero sopravvissuto alla liquidazione del ghetto, avevo aiutato a demolirne le mura, trasportato calce e pile di mattoni. Per un po' opposi resistenza alle insistenze della signora Gebezyriska, ma alla fine mi arresi. Le mie dita irrigidite si muovevano con riluttanza sui
tasti ricavandone un suono strano e irritante. La stessa sera appresi un'altra notizia allarmante. Gebezyriski aveva ricevuto una telefonata da un amico in genere ben informato, il quale gli aveva detto che il giorno seguente avrebbe avuto luogo una caccia all'uomo in tutta la città. Eravamo tutti terribilmente inquieti. Tuttavia, la notizia risultò essere un falso allarme. Di quei tempi capitava spesso. Il giorno seguente si fece vivo un ex collega della radio, il direttore d'orchestra Czeslaw Lewicki che in seguito sarebbe diventato un mio amico intimo. Aveva a sua disposizione un appartamento da scapolo al numero 83 di via Pulawska, ma non vi abitava ed era disposto a lasciare che lo occupassi io. Erano le sette di sera di sabato 27 febbraio quando lasciammo l'appartamento dei Gebezyriski. Grazie al cielo l'oscurità era totale. Prendemmo un risciò in Plac Unii, raggiungemmo abbastanza agevolmente via Pulawska e salimmo al quarto piano, sperando di non incontrare nessuno per le scale. L'appartamento risultò confortevole e arredato con una certa eleganza. Per andare al bagno si attraversava un ingresso dove su un lato c'era un grande armadio a muro e sull'altro un fornello a gas. La stanza, invece, era ammobiliata con un comodo divano, un armadio, una piccola libreria, un tavolino e delle poltrone confortevoli. Sulla piccola libreria c'erano fogli di musica, spartiti e testi universitari. Avevo l'impressione di essere in paradiso. Quella prima notte non dormii molto: volevo assaporare il piacere di star disteso su un letto vero e ben molleggiato. Il giorno dopo Lewicki venne con un'amica, la moglie di un medico, la signora Malczewska, a portare la mia roba. Parlammo del modo in cui sarebbero riusciti a procurarmi cibo e di quello che avrei dovuto fare il giorno seguente quando avrebbe avuto luogo il censimento: cioè trascorrere tutta la giornata in bagno, con la porta chiusa dall'interno esattamente come avevo chiuso a chiave le porte delle nicchie nello studio. Arrivammo alla conclusione che, anche se i tedeschi avessero fatto irruzione nell'appartamento nel corso del censimento, non avrebbero notato la porticina dietro la quale io stavo nascosto. Tutt'al più l'avrebbero scambiata per il pannello di un armadio a muro. Mi attenni scrupolosamente a questo piano strategico. Al mattino mi chiusi in bagno con tanti libri e vi restai in paziente attesa fino a sera. Rimanere lì per tante ore non era oltremodo agevole e a quel punto
l'unica cosa che sognavo di fare era di poter distendere le gambe. Tutte quelle manovre risultarono però inutili perché non arrivò nessuno, all'infuori di Lewicki che comparve verso sera, curioso e al contempo preoccupato di appurare come stessi. Mi portò vodka, salame, pane, burro e facemmo una cena da re. Il censimento mirava a permettere ai tedeschi di stanare definitivamente tutti gli ebrei che si nascondevano a Varsavia. Non mi avevano trovato e io ora provavo un rinnovato senso di fiducia. Con Lewicki che abitava poco distante restammo d'accordo che sarebbe venuto a trovarmi solo due volte la settimana per portarmi da mangiare. Nell'intervallo di tempo che passava da una sua visita attesa con impazienza all'altra dovevo tenermi occupato e imparai a cucinare dei piatti deliziosi, seguendo i consigli culinari della moglie del dottore. Costretto a non fare il minimo rumore, mi muovevo al rallentatore nella stanza, camminando in punta di piedi nella malaugurata eventualità che andassi a sbattere contro qualcosa con una mano o con un piede. Le pareti erano sottili e qualsiasi movimento incauto avrebbe potuto rivelare la mia presenza ai vicini. Riuscivo a sentire fin troppo chiaramente quello che facevano, in particolar modo le persone che abitavano nell'appartamento a sinistra. A giudicare dalle loro voci, si trattava di una giovane coppia di sposi che di solito iniziava la conversazione tutte le sere chiamandosi con vezzeggiativi come «Gattinà» e «Cagnolino.» Ma di lì a un quarto d'ora la pace domestica veniva turbata, il tono delle voci si alzava e gli epiteti che uscivano dalle loro labbra, ora attinti a tutte le specie degli animali domestici, si concludevano con «Maiale.» A quel punto avveniva presumibilmente una riconciliazione; le voci si azzittivano per un po' e si poteva sentire una terza voce: le note di un pianoforte che la donna suonava con trasporto, anche se spesso steccava. Tuttavia nemmeno quel suo strimpellare era di lunga durata. La musica cessava e una voce femminile e irritata riprendeva a litigare. «Oh, bene, allora. Non suonerò più! Quando mi metto a suonare, te ne vai!» Dopodiché ricominciavano a volare epiteti che si riferivano al regno animale. Mentre ascoltavo pensavo spesso con tristezza a quanto avrei dato e a quanto sarei stato felice di poter anche solo posare le mani su quel vecchio pianoforte scordato dal suono metallico, fonte di tanti guai e di tante liti per i miei vicini. I giorni passavano. La signora Malczewska o alternativamente Lewicki venivano a trovarmi regolarmente due volte la settimana. Mi portavano cibo e notizie degli ultimi sviluppi politici, che non erano affatto
incoraggianti. Le truppe sovietiche si erano di nuovo ritirate da Kharkow e gli alleati si stavano ritirando dall'Africa. Condannato all'inattività, costretto a passare la maggior parte dei giorni da solo, immerso nei miei cupi pensieri, continuavo a rimuginare sulla terribile sorte toccata alla mia famiglia, mi rendevo conto che i miei dubbi e la mia depressione non facevano che aumentare. Quando guardavo fuori della finestra, vedevo il traffico stradale sempre eguale e i tedeschi che giravano tranquilli come al solito per la via, avevo l'impressione che quello stato di cose sarebbe continuato in eterno. E, in tal caso, che ne sarebbe stato di me? Dopo anni di inutili sofferenze un giorno sarei stato scoperto e ucciso. Il massimo che potevo sperare era di riuscire a togliermi la vita per non cadere vivo in mano tedesca. Il mio umore cominciò a migliorare solo quando ebbe inizio la grande offensiva degli alleati in Africa, coronata da continui successi. In un caldo giorno di maggio, mentre mi stavo preparando un piatto di minestra per il pranzo, comparve Lewicki. Ansimante per aver fatto di corsa quattro piani di scale, rimase in silenzio per alcuni minuti per riprendere fiato, quindi con voce strozzata mi diede la notizia tanto attesa: la resistenza tedesco-italiana in Africa era finalmente crollata. Se solo tutto questo fosse iniziato prima! Se gli eserciti alleati avessero riportato la vittoria in Europa, piuttosto che in Africa, forse a questo punto, sarei riuscito a ritrovare dentro di me un po' di entusiasmo. Forse la rivolta tramata e organizzata da quei pochi ebrei rimasti nel ghetto di Varsavia avrebbe avuto quanto meno una piccola possibilità di riuscita. Insieme con le notizie sempre più positive che Lewicki mi portava a lui erano pervenute anche voci sempre più terrificanti riguardanti le azioni eroiche compiute dai miei confratelli, da quel pugno di ebrei che aveva deciso di opporre per lo meno una qualche resistenza attiva ai tedeschi in quell'ultimo stadio disperato. Dai giornali clandestini che ricevevo appresi della loro insurrezione, dei combattimenti ingaggiati edificio per edificio a ogni tratto di strada e delle gravi perdite subite dai tedeschi. Benché l'artiglieria, i carri armati e l'aviazione fossero stati mobilitati durante gli scontri che avvenivano nel ghetto, passarono settimane prima che i tedeschi riuscissero a eliminare i ribelli che erano tanto più deboli di loro. Nessun ebreo era più disposto a lasciarsi catturare vivo. Una volta, dopo che i tedeschi
avevano preso possesso di un edificio, le donne che ancora si trovavano all'interno erano salite con i bambini all'ultimo piano e da lì si erano gettate insieme ai figli nella strada sottostante. La sera quando sopraggiungeva l'ora di andare a dormire se mi sporgevo dalla finestra, vedevo, a nord di Varsavia, la notte rischiarata a giorno dagli incendi e spesse volute di fumo che salivano nel cielo limpido e stellato. Un giorno, all'inizio di giugno, Lewicki si presentò inaspettatamente, non alla solita ora, bensì a mezzogiorno. Questa volta non portava buone notizie. Aveva la barba lunga, cerchi scuri sotto gli occhi, come se avesse passato una notte insonne e appariva manifestamente angosciato. «Vestiti», mi bisbigliò. «Che cosa è successo?» «Ieri sera la Gestapo ha sigillato la mia stanza presso i signori Malczewski. Potrebbero arrivare qui da un momento all'altro. Dobbiamo andarcene immediatamente.» Andarcene? In piena luce del giorno, a mezzogiorno? Equivaleva a un suicidio. Quanto meno per quanto mi riguardava. Lewicki si stava spazientendo. «Andiamo, andiamo!» mi sollecitò, mentre io me ne stavo lì immobile, invece di fare quello che lui si aspettava e di preparare una sacca. Decise che bisognava darmi coraggio e tirarmi su di morale. «Non preoccuparti», prese a dire, innervosito. «E' stato predisposto tutto. Poco lontano di qui c'è qualcuno che ti aspetta per portarti in un luogo sicuro.» Io però continuavo a non muovermi. Pensavo: sarà quel che sarà! Lewicki sarebbe riuscito in ogni caso a fuggire e la Gestapo non l'avrebbe trovato. Se si fosse arrivati al peggio preferivo porre fine alla mia vita piuttosto di rischiare andando di nuovo in giro per la città. Non avevo assolutamente più la forza per farlo. Spiegai tutto questo in qualche modo al mio amico, quindi ci abbracciammo nella certezza che non si saremmo mai più rivisti. Poi Lewicki se ne andò. Cominciai a camminare avanti e indietro per quella stanza che a me era parsa uno dei luoghi più sicuri sulla terra e che ora era diventata una gabbia. Ero intrappolato lì come un animale, era solo questione di tempo, ma prima o poi i miei carnefici sarebbero venuti a cercarmi e a uccidermi. Sarebbero stati entusiasti all'idea della preda che erano riusciti a catturare. Io non avevo mai fumato in vita mia ma quel giorno, mentre aspettavo la morte, consumai l'intera stecca di cento
sigarette che Lewicki mi aveva lasciato. La morte, però, rinviava di ora in ora il proprio arrivo. Sapevo che in genere la Gestapo giungeva la sera o al mattino presto. Non mi spogliai, non accesi la luce, ma rimasi a guardare il parapetto del balcone attraverso i vetri, in attesa di sentire se dalle scale o dalla strada pervenisse anche il minimo rumore. Le parole pronunciate da Lewicki, prima di congedarsi mi continuavano a echeggiare nelle orecchie. Con la mano posata sulla maniglia della porta si era girato ancora una volta, mi si era avvicinato, mi aveva abbracciato e aveva detto: «Se arrivano e irrompono nell'appartamento gettati dal balcone, non farti prendere vivo!» Poi aveva aggiunto, per rendermi più accettabile l'idea del suicidio: «Io mi porto sempre addosso del veleno. Non prenderanno vivo nemmeno me.» Ormai era tardi. Nelle strade non c'era più traffico e dietro le finestre del caseggiato di fronte le luci si erano spente. E ancora i tedeschi non arrivavano. Avevo i nervi tesi fino allo spasimo. Mi ritrovai ad augurarmi che, se dovevano venire, lo facessero al più presto. Non volevo più sopportare le torture di quell'attesa. Durante la notte cambiai idea riguardo al modo in cui mi sarei tolto la vita. All'improvviso avevo pensato che, invece di buttarmi dal balcone, avrei potuto impiccarmi e, pur non sapendo spiegare perché, questo tipo di morte mi sembrava più accettabile, un modo silenzioso per andarmene. Continuando a restare al buio presi a cercare nella stanza qualcosa che potesse fungere da corda finché ne trovai un pezzo abbastanza lungo e robusto dietro i libri sugli scaffali. Tolsi il quadro appeso sopra la libreria, controllai che il gancio fosse ben fissato nella parete, approntai il nodo e mi misi di nuovo in attesa. Ma la Gestapo non arrivò. Non arrivò nemmeno il mattino dopo e nei giorni successivi. Alle undici del venerdì mattina, però, mentre me ne stavo disteso sul divano dopo una notte quasi insonne, udii degli spari in strada. Mi precipitai alla finestra. Un cordone di poliziotti era disposto lungo tutta la via, inclusi i marciapiedi e sparava all'impazzata sulla gente in fuga. Di lì a un po' sopraggiunsero alcuni camion delle SS, un gran tratto di strada fu circondato, proprio quello in cui si trovava il mio caseggiato. Gruppi di ufficiali della Gestapo entrarono in tutti gli edifici su quel lato, trascinando fuori gli uomini che si trovavano all'interno, poi entrarono anche nel mio. Era indubbio che ora avrebbero trovato il mio nascondiglio. Spinsi una
sedia vicino allo scaffale per poter arrivare più facilmente al gancio che reggeva il quadro, preparai il cappio e mi avvicinai alla porta, mettendomi in ascolto. Sentivo i tedeschi urlare per le scale. Ma erano un paio di piani sotto di me. Mezz'ora dopo calò di nuovo il silenzio. Guardai fuori della finestra. Il blocco era stato rimosso, i camion delle SS se ne erano andati. Non erano venuti.
CAPITOLO 14.
Il tradimento di Szala.
Dalla fuga di Lewicki era trascorsa una settimana e ancora la Gestapo non era arrivata; a poco a poco i miei nervi si distesero. Incombeva però un'altra minaccia: le mie scorte di cibo andavano esaurendosi. Mi erano rimasti solo un po' di fagioli e della farina d'avena. Ridussi i pasti a due al giorno e, quando mi cucinavo la minestra, usavo solo dieci fagioli e un cucchiaio di avena, ma anche con quel razionamento le provviste sarebbero finite di lì a breve. Un mattino un'altra macchina della Gestapo si fermò davanti alla casa in cui stavo nascosto. Due SS scesero con un foglio in mano ed entrarono nel portone. Convinto che stessero cercando me, mi preparai a morire. Ma ancora una volta non ero io la loro preda. A questo punto non avevo più nulla da mangiare. Mi restava solo una riserva d'acqua per due giorni. Le alternative erano due: o morire di fame o correre il rischio di uscire a comperare una forma di pane dal fornaio più vicino. Optai per la seconda. Mi rasai con cura, mi vestii e uscii di casa alle otto del mattino, cercando di camminare in modo disinvolto. Nessuno parve notarmi, nonostante i miei lineamenti chiaramente non ariani. Comperai il pane e tornai a casa. Questo avveniva il 18 luglio del 1943. Grazie a quell'unica pagnotta - non avevo altro denaro, sopravvissi per dieci interi giorni, fino al 28 luglio. Il 29 luglio, nelle prime ore del pomeriggio, udii bussare leggermente. Non mi mossi. Di lì a un po' una chiave fu girata con molta cautela nella serratura, la porta si aprì ed entrò un giovane che non
conoscevo. Si affrettò a chiudersi la porta alle spalle e bisbigliò: «C'è pericolo?» «No.» Solo allora rivolse la propria attenzione a me, fissandomi dalla testa ai piedi con un'espressione attonita negli occhi. «Dunque sei vivo!» Scrollai le spalle. Ritenevo di esserlo a sufficienza per non dovere rispondere. Lo sconosciuto sorrise e, con un po' di ritardo, si presentò: era il fratello di Lewicki ed era venuto a dirmi che il giorno seguente mi sarebbe stato portato del cibo. Di lì a qualche giorno sarei stato condotto altrove, perché la Gestapo stava ancora ricercando Lewicki e avrebbe potuto tornare nel mio nascondiglio. Infatti, il giorno successivo, l'ingegner Gebezyriski arrivò in compagnia di un'altra persona, che mi presentò come un radiotecnico di nome Szala, un attivista del movimento clandestino, persona del tutto degna di fiducia. Gebezyriski mi si buttò tra le braccia; aveva fino a quel momento dato per certo che io ormai dovessi essere morto di fame e per deperimento organico. Mi spiegò che tutti i nostri comuni amici erano preoccupati per me, ma che non potevano azzardarsi ad avvicinarsi al caseggiato in quanto era costantemente sorvegliato da agenti segreti. Gli era stato detto che, non appena questi se ne fossero andati, lui si sarebbe dovuto occupare delle mie spoglie mortali e accertarsi che avessi una sepoltura decente. Da quel momento Szala si sarebbe occupato di me in modo continuativo, un compito che gli era stato assegnato dalla nostra organizzazione clandestina. In realtà lui si dimostrò un protettore molto ambiguo: compariva ogni dieci giorni con una esigua quantità di provviste spiegando che non era riuscito a raggranellare il denaro sufficiente per acquistarne di più. Io gli diedi da vendere alcuni degli oggetti che ancora mi restavano, ma quasi sempre saltava fuori che gli erano stati rubati, e lui tornava a ripresentarsi con provviste appena sufficienti per due o tre giorni, anche se a volte ero costretto a farle durare per due settimane. E, quando ormai giacevo sul letto totalmente stremato dalla fame, convinto di essere in punto di morte, Szala si ripresentava con cibo che bastava a stento a mantenermi in vita e a darmi la forza per continuare a soffrire. Con espressione raggiante e aria chiaramente distratta era solito chiedere: «Allora sei ancora vivo, eh?»
Io ero ancora vivo, sebbene lo stato di denutrizione abbinato allo sconforto mi avessero provocato l'itterizia. Szala non prese la cosa troppo seriamente e, per consolarmi, mi raccontò la storia di suo nonno che, piantato dalla sua donna, si era di colpo ammalato dello stesso male. Secondo Szala non era assolutamente una malattia grave. Per tirarmi su di morale poi mi disse che gli alleati erano sbarcati in Sicilia, quindi mi salutò e se ne andò. Fu l'ultima volta che ci vedemmo perché non ricomparve nemmeno dopo dieci giorni, poi dodici e quindici. Non mangiavo nulla e non avevo nemmeno la forza sufficiente per trascinarmi fino al rubinetto dell'acqua. Se quelli della Gestapo fossero arrivati non ce l'avrei fatta a impiccarmi. Per quasi l'intera giornata ero in preda al torpore, quando mi svegliavo ero subito colto da insostenibili crampi causati dalla fame. Le braccia, le gambe e la faccia avevano già cominciato a gonfiarsi quando insperatamente si presentò la signora Malczewska. Sapevo che lei, suo marito e Lewicki erano stati costretti a lasciare Varsavia e a nascondersi. Lei aveva seriamente creduto che io stessi benissimo ed era venuta lì solo per fare due chiacchiere e a bere una tazza di tè. Appresi così che Szala era andato in giro per tutta Varsavia a raccogliere denaro. E, dato che nessuno glielo aveva lesinato visto che c'era da salvare la vita di una persona, era riuscito a racimolare una grossa cifra di denaro. Aveva assicurato i miei amici che veniva a trovarmi quasi tutti i giorni e che non mi mancava nulla. La moglie del dottore lasciò di nuovo Varsavia qualche giorno più tardi, ma prima di andarsene, mi portò una ricca provvista di cibo, promettendo che mi avrebbe mandato persone più affidabili. Purtroppo quella manna non durò a lungo. A mezzogiorno del dodici agosto, proprio mentre mi stavo preparando come al solito la minestra, udii qualcuno che cercava di introdursi nell'appartamento. Quello non era il modo in cui gli amici bussavano quando venivano a trovarmi. Era un martellamento sulla porta. Allora erano i tedeschi! Di lì a poco, mi resi conto che le voci che accompagnavano quei colpi erano femminili. Una donna gridava: «Aprite subito questa porta o chiamiamo la polizia!» Il martellamento si faceva sempre più insistente. Non potevano esserci dubbi al riguardo. Le altre persone del caseggiato avevano scoperto che ero nascosto lì e avevano deciso di consegnarmi a evitare il rischio di
essere accusati di proteggere un ebreo. Mi vestii in fretta e furia, buttai in una sacca le mie composizioni e altre poche cose. I colpi si interruppero per un momento. Sicuramente quelle donne arrabbiate e irritate per il mio silenzio avevano deciso di mettere in atto la loro minaccia e con tutta probabilità in quello stesso istante stavano raggiungendo il posto di polizia più vicino. Aprii silenziosamente la porta, scivolai fuori e raggiunsi la scala. Subito mi ritrovai faccia faccia con una delle donne. Era chiaro che si era appostata lì fuori per assicurarsi che io non fuggissi. Mi sbarrò la strada. «Lei sta in quell'appartamento?» Mi indicò la porta. «Non è registrato.» Risposi che l'inquilino dell'appartamento in realtà era un mio collega e che, quando ero arrivato, lui era già uscito. Era una spiegazione priva di senso e naturalmente non convinse affatto quella donna aggressiva. «Mi faccia vedere il suo permesso, per favore! Subito il suo permesso», ripetè con voce ancora più forte. Alcuni inquilini del caseggiato, sporsero la testa fuori della porta dei loro appartamenti, allarmati da quei rumori. Scostai di forza la donna e mi precipitai giù per le scale. La udii urlare alle mie spalle. «Chiudete il portone! Non fatelo uscire!» Al pianoterra passai di corsa davanti alla custode. Per fortuna non era riuscita a sentire quello che l'altra donna urlava dalle scale. Raggiunsi l'androne e corsi fuori. Ancora una volta ero sfuggito alla morte che, però, era sempre in agguato. Era l'una del pomeriggio e me ne stavo in strada, la barba incolta, i capelli che da molti mesi non avevo più tagliato, con addosso un vestito stazzonato e logoro. Anche se non avessi avuto tratti semiti, fatalmente avrei attirato l'attenzione. Svoltai in una via laterale e continuai a camminare con passo affrettato. Dove andare? Gli unici conoscenti che avevo nei pressi erano i Boldok, che abitavano in via Narbutt. Ma ero così nervoso che non riuscivo a trovare la strada benché conoscessi bene il quartiere. Vagai per quasi un'ora attraverso stradine fino a quando, finalmente, arrivai a destinazione. Esitai a lungo prima di decidermi a suonare il campanello nella speranza di trovare riparo dietro quella porta: sapevo fin troppo bene quanto la mia presenza sarebbe stata pericolosa per i miei amici. Se mi avessero trovato lì anche loro sarebbero stati uccisi. Tuttavia non avevo alternative. Non appena ebbero aperto mi affrettai ad assicurarli che non mi sarei trattenuto a lungo: volevo
solo fare qualche telefonata per vedere se sarei riuscito a trovare un nuovo e duraturo nascondiglio. Ma le mie telefonate non ebbero successo. Alcuni miei amici risposero che non potevano accogliermi, altri che non potevano lasciare la loro casa perché quel giorno le nostre organizzazioni clandestine avevano assalito con successo una delle banche più importanti di Varsavia e tutto il centro della città era sorvegliato dalla polizia. Visto come stavano le cose, i Boldok, lui era ingegnere, per quella notte decisero di mettermi a disposizione un appartamento al piano sottostante del quale possedevano le chiavi. Il mattino seguente si presentò il mio ex collega della radio, Zbigniew Jaworski. Mi avrebbe fatto stare con lui per qualche giorno. Dunque per un po' potevo considerarmi al sicuro in casa di gente di buon cuore che mi voleva bene. Quella prima sera feci un bagno e poi consumammo una cena deliziosa che innaffiammo con degli schnaps i quali purtroppo non fecero affatto bene al mio fegato. Tuttavia, malgrado l'atmosfera piacevole e, soprattutto, la possibilità di parlare quanto volevo dopo mesi di silenzio forzato, ero determinato a lasciare al più presto i miei ospiti per il timore di metterli in pericolo benché Zofia Jaworska e la sua coraggiosa madre, la signora Bobrownicka, una signora di settant'anni, insistessero perché restassi da loro fintanto che fosse stato necessario. Frattanto tutti i miei ripetuti tentativi per trovare un nuovo nascondiglio fallivano miseramente. Ricevevo rifiuti da tutte le parti. La gente aveva paura di accogliere in casa un ebreo. Dopo tutto, quello era considerato un reato punibile con la pena di morte. Ero più depresso che mai allorché la Provvidenza venne di nuovo in mio aiuto all'ultimo momento e questa volta nelle sembianze di Helena Lewicka, la cognata della signora Jaworska. Non ci eravamo mai conosciuti, quella era la prima volta che ci incontravamo, ma quando fu messa al corrente delle mie precedenti esperienze, accettò immediatamente di accogliermi. Si commosse per la mia situazione benché la sua stessa vita non fosse facile e a sua volta avesse una quantità di motivi per piangere il destino toccato a molti suoi amici e conoscenti. Il 21 agosto, dopo avere passato l'ultima notte in casa Jaworski, mentre la Gestapo che si aggirava nei dintorni teneva tutti sulle spine e in preda alla preoccupazione e all'ansia, io mi trasferii in un grande edificio adibito ad appartamenti in Aleja Niepodleglosci. Quello sarebbe
stato il mio ultimo nascondiglio prima della rivolta polacca e della totale distruzione di Varsavia: uno spazioso appartamento da scapolo al quarto piano, al quale si accedeva direttamente dalla scala. C'erano luce elettrica, gas, ma niente acqua. L'acqua veniva attinta a un rubinetto comune sul pianerottolo dove si trovava anche un gabinetto comune. I miei vicini erano intellettuali, di una classe sociale più elevata di quanto non fossero gli inquilini di via Pulawska. Quelli dell'appartamento attiguo erano una coppia sposata attiva nel movimento clandestino. Non dormivano mai in casa, perché erano ricercati. Il che comportava rischi anche per me. In ogni caso preferivo aver loro come vicini piuttosto che dei rozzi polacchi servi dei loro padroni e che per paura avrebbero potuto denunciarmi. Gli altri caseggiati adiacenti erano per lo più occupati da tedeschi e ospitavano diverse autorità militari. Un grande edificio, destinato a diventare ospedale ma non ultimato, con una specie di magazzeno, era situato di fronte alle mie finestre. Ogni giorno vedevo prigionieri di guerra bolscevichi che portavano all'interno e all'esterno pesanti casse. Questa volta ero capitato in uno dei quartieri di Varsavia dove si trovava il maggior numero di tedeschi, proprio nella tana del leone, il che forse avrebbe potuto renderlo un nascondiglio migliore e più sicuro. Mi sarei anche trovato discretamente in quel nuovo rifugio se la mia salute non fosse peggiorata molto rapidamente. Avevo gravi problemi al fegato tanto che, ai primi di dicembre, ebbi un attacco così violento che riuscii a stento a non urlare. La crisi durò per tutta la notte. Helena Lewicka mandò a chiamare un medico che diagnosticò un'infiammazione acuta alla vescica e mi raccomandò di seguire una dieta ferrea. Per fortuna questa volta non era una persona come Szala a occuparsi di me ma Helena, la migliore e la più generosa delle donne. Grazie al suo aiuto recuperai a poco a poco la salute. Poi giunse il 1944. Io facevo di tutto per condurre una vita il più regolare possibile, studiavo inglese al mattino dalle nove alle undici, leggevo dalle undici all'una, poi pranzavo e riprendevo a studiare l'inglese e a leggere dalle tre alle sette del pomeriggio. Nel frattempo i tedeschi stavano subendo una sconfitta dopo l'altra. Ormai non si parlava più di contrattacchi da parte loro, che invece effettuavano ritirate strategiche da tutti i fronti, un'operazione che veniva descritta sui giornali come abbandono di zone di scarso rilievo al fine di ridurre la linea del fronte a vantaggio tedesco. Tuttavia, a
dispetto delle sconfitte che subivano al fronte, il terrore che riuscivano a seminare nei Paesi da loro occupati non faceva che aumentare. Le esecuzioni pubbliche iniziate in autunno nelle strade di Varsavia ora avevano luogo quasi ogni giorno. Col loro solito sistematico approccio a ogni cosa, avevano ancora il tempo di demolire le murature del ghetto, ora «ripulito» dai suoi abitanti. Distruggevano un edificio dopo l'altro, una strada dopo l'altra e facevano portare i detriti fuori della città su treni a scartamento ridotto. I «padroni del mondo» il cui orgoglio era stato offeso dalla sollevazione ebraica, erano decisi a non lasciare in piedi nemmeno una pietra. All'inizio dell'anno un avvenimento del tutto inaspettato sconvolse la monotonia delle mie giornate. Un giorno qualcuno decise di introdursi nella mia abitazione armeggiando sulla porta accuratamente e con determinazione. Ogni tanto faceva delle pause. In un primo momento non capii di che cosa potesse trattarsi. Solo dopo lunga riflessione mi resi conto che doveva essere un ladro. Questo mi pose un problema: agli occhi della legge eravamo entrambi dei criminali. Io per il semplice fatto biologico di essere ebreo, e lui in quanto ladro. Avrei dovuto minacciarlo di denunciarlo alla polizia, se fosse riuscito a entrare? O non avrebbe piuttosto essere lui a fare a me la stessa minaccia? Ci saremmo dovuti consegnare reciprocamente alla polizia o non avremmo dovuto piuttosto stringere un patto di non aggressione tra criminali? Alla fine non fece alcuna effrazione, perché un inquilino della casa lo spaventò mettendolo in fuga. Il 6 giugno 1944 Helena Lewicka venne a trovarmi nel pomeriggio. Era raggiante e mi portava la notizia che americani e inglesi erano sbarcati in Normandia, avevano spezzato la resistenza tedesca e stavano avanzando. Ora notizie sensazionali si susseguivano con frequenza sempre maggiore; la Francia era stata liberata, l'Italia si era arresa, l'Armata rossa era ai confini della Polonia, Lublino era stata liberata. Le incursioni aeree dei russi erano sempre più ravvicinate. Riuscivo a vedere gli incendi dalla finestra della mia stanza. Da est proveniva un rumore sordo, in un primo momento quasi inavvertibile, poi sempre più forte. Era l'artiglieria sovietica. I tedeschi evacuarono Varsavia portandosi appresso anche quanto conteneva l'ospedale non ultimato. Osservavo speranzoso, con la certezza crescente che sarei sopravvissuto e sarei stato libero. Il 29 luglio Lewicki irruppe nell'appartamento a portarmi la notizia che la rivolta sarebbe scattata a Varsavia da un giorno all'altro. Le nostre organizzazioni compravano
affannosamente armi dai tedeschi in rotta e demoralizzati. L'acquisto di una partita di mitragliatrici era stato affidato al mio indimenticabile padrone di casa di via Falat, Zbgniew Jaworski. Purtroppo lui ebbe la sventura di incappare in ucraini che si rivelarono anche peggio dei tedeschi. Con il pretesto di consegnare le armi che aveva acquistato, lo portarono nel cortile della facoltà di Agraria e gli spararono. Il 1° di agosto Helena Lewicka comparve alle quattro del pomeriggio trattenendosi solo per un momento. Voleva portarmi in cantina perché la rivolta sarebbe iniziata di lì a un'ora. Guidato da un istinto che già molte volte mi aveva salvato la vita decisi di restare in casa. La mia protettrice si congedò da me con le lacrime agli occhi, quasi fossi stato suo figlio. Con voce rotta chiese: «Ci rivedremo ancora, Wladek?»
CAPITOLO 15. In un edificio in fiamme.
Nonostante le assicurazioni di Helena Lewicka che la rivolta sarebbe iniziata alle cinque, ovvero nel giro di pochi minuti, io non riuscivo assolutamente a crederci. Negli anni dell'occupazione erano di continuo circolate voci di eventi politici che non si erano mai verificati. Negli ultimi giorni l'evacuazione di Varsavia da parte dei tedeschi, cosa che io stesso avevo visto dalla mia finestra, e la fuga verso ovest di tutti quei soldati in preda al panico su camion e veicoli privati sovraccarichi, aveva subito una battuta d'arresto. E il rombo dell'artiglieria sovietica, che solo poche notti prima sembrava tanto vicina, ora si era fatto più indistinto e distante. Mi avvicinai alla finestra: nella strada regnava la calma. Il viavai pedonale era normale, anzi persino un po' meno frenetico del solito. Del resto in quella parte di Aleja Niepodleglosci non era mai stata molto convulso. In strada, un tram proveniente dal Politecnico si arrestò alla fermata. Era pressoché vuoto. Ne scesero poche persone, alcune donne, un vecchio con un bastone da passeggio, tre uomini giovani che tenevano in mano degli oggetti oblunghi avvolti in fogli di giornale. Si fermarono accanto alla prima vettura del tram. Uno di loro diede un'occhiata all'orologio poi si guardò attorno, a un tratto si mise in ginocchio
nella strada e appoggiò l'involto che teneva sulla spalla, una serie di colpi d'arma di fuoco si susseguirono veloci. Il foglio di giornale all'estremità dell'involto prese fuoco, mettendo a nudo la canna di una mitragliatrice. Al contempo gli altri due uomini imbracciarono con gesto nervoso le proprie armi. I colpi sparati dal primo erano un segnale convenuto dato al quartiere. Subito dopo si udirono spari dappertutto. Quando le esplosioni nelle immediate vicinanze si acquietarono vi furono altri colpi provenienti dal centro della città. Si ripetevano senza sosta, parevano acqua che ribolle in un grande bricco. Era come se la strada fosse stata sgombrata. Solo il signore anziano arrancava faticosamente appoggiato al bastone e ansimava nello sforzo di affrettarsi. Gli era difficile correre. Finalmente riuscì anche lui a riparare nell'androne di un edificio e scomparve all'interno. Mi avvicinai alla porta e vi appoggiai l'orecchio. Sul pianerottolo e dalle scale si udiva il rumore di movimenti confusi. Porte venivano spalancate e richiuse con forza, la gente fuggiva in tutte le direzioni. Una donna gridava: «Gesù, Maria!» Un'altra implorava in direzione delle scale: «Fai attenzione, Jerzy.» Dai piani sottostanti giunse una risposta, «sì, d'accordo.» Si levarono urla di donne che piangevano. Una di queste evidentemente incapace di controllarsi prese a singhiozzare istericamente. Una voce profonda di basso cercò di calmarla in tono sommesso: «Non durerà molto. In fin dei conti è quello che ognuno di noi si augurava succedesse.» Questa volta Helena Lewicka aveva visto giusto: la rivolta era iniziata. Stavo disteso sul divano a riflettere sul da farsi. Quando lei se ne era andata aveva chiuso come al solito la porta dall'esterno, con la chiave e con il lucchetto. Tornai alla finestra. Davanti ai portoni stazionavano gruppi di tedeschi. Altri sopraggiunsero da Fole Mokotowskie e si unirono a loro. Avevano tutti armi semiautomatiche, portavano elmetti e granate a mano infilate nelle cinture. In quella parte della strada dove noi ci trovavamo non avvenivano scontri. Ogni tanto i tedeschi sparavano ma solo in direzione delle finestre dove c'era gente che li osservava. Nessuno però rispondeva al fuoco. Solo quando raggiunsero l'angolo di via Sei Agosto i tedeschi presero a sparare sia in direzione del Politecnico sia in direzione opposta, verso i «depuratori» dell'acqua. Forse se fossi uscito dal retro dell'edificio sarei riuscito a trovare la strada per raggiungere il centro della città e a dirigermi verso l'acquedotto. Ma non possedevo armi e, in ogni caso, ero chiuso dentro.
Se avessi picchiato sulla porta i vicini se ne sarebbero accorti, preoccupati com'erano per i loro problemi? In quel caso avrei dovuto chieder loro di scendere a cercare l'amica di Helena Lewicka, la sola persona in tutto il caseggiato al corrente del fatto che io ero nascosto in quella stanza. Era lei che aveva le chiavi, quindi se fosse accaduto il peggio avrebbe potuto aprire la porta e farmi uscire. Pensai di attendere fino al mattino prima di decidere il da farsi, sulla base di quello che fosse accaduto nel frattempo. A questo punto la sparatoria si faceva sempre più fitta. I colpi di fucile erano inframmezzati dalle esplosioni più violente delle granate a mano. O forse, quello che io stavo sentendo, erano proiettili, se l'artiglieria era stata messa in azione. La sera, con l'oscurità, vidi i primi bagliori degli incendi. Le fiamme si riflettevano ancora in modo discontinuo e parziale nel cielo illuminandolo di bagliori violenti che subito si spegnevano. A poco a poco gli spari si acquietarono. Si udivano solo alcune esplosioni isolate e il secco crepitio delle mitragliatrici. Anche l'agitazione sulle scale ormai si era placata, era chiaro che gli inquilini si erano barricati nei loro appartamenti al fine di poter riflettere in privato su quel primo giorno di insurrezione. Era tardi quando mi addormentai di colpo, ancora vestito, sprofondando in un sonno pesante causato dalla spossante tensione nervosa. Mi svegliai al mattino, di soprassalto. Era molto presto. Era appena sorta l'alba. Il primo rumore che udii fu quello di un veicolo tirato da un cavallo sul selciato. Andai alla finestra. La carrozza passò a un trotto tranquillo, il soffietto abbassato come se non fosse successo nulla. La strada era pressoché deserta. Solo un uomo e una donna camminavano sul marciapiede sotto le mie finestre, le mani in alto. Da dove mi trovavo non riuscivo a vedere i tedeschi che li scortavano. All'improvviso entrambi fecero un balzo in avanti e cominciarono a correre. La donna urlò: «A sinistra! Gira a sinistra!» L'uomo fu il primo a scostarsi e poi scomparve alla vista. In quel momento partì una raffica di colpi di arma da fuoco. La donna si fermò, si compresse il ventre, quindi stramazzò silenziosamente, come un sacco, le gambe ripiegate sotto il corpo. Non fu tanto una caduta quanto un cedimento delle ginocchia. La guancia destra si posò sull'asfalto e lei rimase in quella assurda posizione acrobatica. Più la luce del giorno aumentava, più sentivo sparare. Quando il sole comparve nel cielo, un cielo tersissimo in quei giorni, in tutta la città riecheggiarono spari
inframmezzati con sempre maggiore frequenza dal rombo dell'artiglieria pesante. Verso mezzogiorno l'amica della signora Lewicka salì a portarmi cibo e notizie. Le notizie riguardanti il nostro quartiere non erano buone: quasi fin dall'inizio era stato nelle mani dei tedeschi e quando era iniziata la rivolta i giovani appartenenti alle organizzazioni della Resistenza avevano appena avuto il tempo di attraversare il centro della città. Adesso era impensabile cercare di uscire in strada. Avremmo dovuto attendere fino a quando i distaccamenti provenienti dal centro della città ci avessero liberato. «Ma io potrei tentare di sgattaiolare all'esterno», protestai. Lei mi lanciò un'occhiata di compatimento. «Ma se non esci di casa da un anno e mezzo! Ti cederebbero le gambe ancor prima di arrivare a metà strada.» Scosse la testa, mi strinse la mano e aggiunse, a mo' di consolazione: «Sarà meglio che resti qui. In qualche modo ce la caveremo.» Nonostante tutto, il suo morale era alto. Mi condusse alla finestra sulle scale e questo mi diede modo di vedere il lato del caseggiato di fronte alla mia finestra. Tutto il complesso residenziale di villette che sorgevano sulla proprietà Staszic, fino all'acquedotto, era in fiamme. Si poteva udire il sibilo di travi che bruciavano, il rumore dei soffitti che crollavano, le urla della gente e i colpi d'arma da fuoco. Una coltre rossastra di fumo ricopriva il cielo. Quando, per qualche minuto il vento la sospingeva, si distinguevano all'orizzonte le bandiere bianche e rosse. I giorni passavano. Dal centro non giungeva più alcun soccorso. Ormai da anni mi ero abituato a nascondermi da tutti, tranne che da un gruppo di amici che sapeva che ero vivo e dove mi trovavo Non riuscivo a decidermi a lasciare la mia stanza, rendendo nota la presenza alle altre persone che abitavano lì. Sarei stato costretto a prendere parte alla loro vita comunitaria nei nostri appartamenti assediati. Essere informati della mia presenza li avrebbe fatti sentire ancor peggio. Se i tedeschi, oltre a tutto il resto, avessero anche scoperto che loro tenevano nascosto nell'edificio un «non ariano», li avrebbero puniti ancor più severamente. Decisi di continuare a stare confinato là dentro, origliando attraverso la porta le conversazioni che avevano luogo sulle scale. Le notizie non miglioravano: in centro si svolgevano aspri combattimenti. Da fuori Varsavia non arrivava alcun sostegno e nella nostra zona della città il terrore seminato dai tedeschi
non faceva che aumentare. In via Langiewicz gli ucraini avevano lasciato bruciare e morire tra le fiamme gli inquilini di un edificio e avevano sparato a quelli che occupavano un altro caseggiato. Il famoso attore Mariusz Mszyriski era stato assassinato poco lontano dal nostro quartiere. L'inquilina che abitava sotto di me smise di venirmi a trovare. Forse qualche tragedia familiare le aveva fatto dimenticare che esistevo. Le mie provviste di cibo si erano esaurite. Mi erano rimaste solo poche fette di pane biscottato. L'11 agosto la tensione nervosa nell'edificio aumentò in modo palpabile. L'orecchio teso alla porta, non riuscivo a capire che cosa stesse accadendo. Tutti gli inquilini che si trovavano ai piani sottostanti, parlavano a voce alta e poi l'abbassavano di colpo. Dalla finestra vedevo gruppetti di persone che uscivano di tanto in tanto dagli edifici vicini e furtivamente si facevano strada fino al nostro caseggiato, poi se ne allontanavano. Verso sera gli inquilini dei piani sottostanti salirono inaspettatamente di corsa le scale. Alcuni erano sul mio pianerottolo. Dai loro bisbigli impauriti mi resi conto che nell'edificio erano entrati gli ucraini. In quell'occasione, però, non erano venuti per ucciderci. Trafficarono per un po' nello scantinato e portarono via le provviste che erano state nascoste, poi scomparvero di nuovo. Quella sera udii la chiave girare nella serratura della mia porta, poi lo scatto del lucchetto. Qualcuno lo aveva aperto ma non era entrato. Chiunque fosse stato, subito dopo si avventò all'impazzata giù per le scale. Che cosa significava? Quel giorno le strade erano piene di volantini. Qualcuno li aveva buttati, ma chi? Il 12 agosto, verso mezzogiorno, il panico si diffuse di nuovo per le scale. Gente stravolta continuava a correre su e giù. Da frasi colte al volo capii che la casa era stata circondata da tedeschi e doveva essere sgombrata al più presto perché l'artiglieria si accingeva a raderla al suolo. Come prima reazione ebbi l'impulso di vestirmi, ma subito dopo mi resi conto che non potevo uscire in strada data la presenza delle SS, a meno che non volessi essere ucciso sul colpo. Sentii sparare, poi una voce dura, in tono innaturalmente stridulo, gridò: «Tutti fuori, subito! Lasciate i vostri appartamenti.» Diedi un'occhiata alle scale. C'era silenzio e non vidi nessuno. Scesi qualche gradino e mi avvicinai alla finestra per guardar fuori, su via Sedziowska. Un carro armato stava puntando la mitragliatrice sulla
nostra casa. Subito dopo seguì una fiammata, la mitragliatrice rimbalzò all'indietro, si udì un rumore e un muro crollò. Soldati con maniche rimboccate, con delle lattine in mano correvano avanti e indietro. Nuvole di fumo nero cominciarono a salire su per il muro esterno dell'edificio e sulla scala, dal pianoterra fino al quarto piano dove io mi trovavo. Alcuni uomini delle SS irruppero nell'edificio precipitandosi su per le scale. Mi chiusi a chiave nella stanza, rovesciai sul palmo il contenuto del tubetto contenente i potenti sonniferi che avevo preso quando avevo sofferto di attacchi di fegato e sistemai a portata di mano la boccetta di oppio. Intendevo inghiottire le pastiglie e bere l'oppio nel momento stesso in cui i tedeschi avessero cercato di sfondare la porta. Subito dopo, però, guidato da un istinto che riuscivo a stento a razionalizzare in quel momento, cambiai idea. Uscii dalla stanza, corsi su per la scaletta che portava al solaio, mi ci arrampicai, la tolsi e chiusi la botola alle mie spalle. Nel frattempo i tedeschi stavano già martellando con i calci dei fucili le porte degli appartamenti del terzo piano, Uno di loro salì al quarto piano ed entrò nella mia stanza. I suoi compagni, pensando che fosse pericoloso indugiare nell'edificio cominciarono a chiamarlo. «Muoviti, Fischke!» Quando i passi precipitosi per le scale si allontanarono strisciai fuori della soffitta dove il fumo che saliva dal condotto di aerazione dell'appartamento sottostante mi aveva quasi soffocato e tornai nella mia stanza. Mi cullavo nella speranza che solo gli appartamenti al pianoterra ai quali era stato appiccato il fuoco sarebbero bruciati e che gli occupanti vi avrebbero fatto ritorno non appena i loro documenti fossero stati controllati. Presi un libro, mi distesi comodamente sul divano e cominciai a leggere, ma non riuscivo a capire neanche una parola. Posai di nuovo il libro, chiusi gli occhi e decisi di aspettare fino a che non avessi udito delle voci per le scale. Avevo deciso di avventurarmi sul pianerottolo solo quando fosse calato il crepuscolo. Ora la mia stanza era invasa da vapori e dal fumo e dalle finestre filtrava il bagliore rossastro degli incendi. Il fumo sulle scale era così spesso che non si riusciva a scorgere la balaustra. Il forte e secco crepitio delle fiamme si levava con sempre maggior violenza dai piani sottostanti e a questo si accompagnava il rumore di legno che si spaccava e il tonfo di mobili che cadevano. Usare le scale ormai era impossibile. Andai alla finestra. L'edificio era circondato da un cordone di SS disposto a una certa distanza. Non si vedevano civili.
Evidentemente tutto il caseggiato adesso era in fiamme e i tedeschi si limitavano ad attendere che il fuoco raggiungesse i piani superiori e i travi del tetto. Dunque alla fin fine questa sarebbe stata la mia morte, quella cui ero riuscito fino a quel momento a sfuggire giorno dopo giorno fino a quando finalmente mi aveva raggiunto. Avevo tentato spesso di immaginarmi come sarebbe stato, mi aspettavo di esser catturato e torturato, poi fucilato o soffocato nella camera a gas. Mai avevo pensato che sarei bruciato vivo. Avevo voglia di ridere dell'ingegnosità del fato. Mi sentivo perfettamente calmo, di una calma che nasceva dalla persuasione che ormai non potevo far più nulla per cambiare il corso degli eventi. Mi guardai attorno nella stanza: i suoi contorni erano divenuti sempre più sfocati mano mano che il fumo la invadeva. Nel crepuscolo calante appariva quasi irreale. Mi riusciva sempre più difficile respirare. La testa mi girava e il cervello mi scoppiava. Erano quelli i primi effetti di avvelenamento da ossido di carbonio. Mi distesi di nuovo sul divano. Perché lasciarmi bruciar vivo quando potevo evitarlo prendendo dei sonniferi? Quanto sarebbe stata più facile la mia morte in rapporto a quella dei miei genitori, delle mie sorelle e di mio fratello, morti nella camera a gas a Treblinka! In quegli ultimi istanti cercavo di pensare soltanto a loro. Presi il tubetto di sonnifero, ne vuotai il contenuto in bocca e l'ingoiai. Mi accinsi a bere l'oppio, pur di avere la certezza di morire. Ma non ne ebbi il tempo. Il sonnifero aveva agito immediatamente sul mio stomaco vuoto. Mi addormentai.
CAPITOLO 16. Morte di una città.
Non morii. Evidentemente le pastiglie non avevano avuto un effetto letale. Mi svegliai alle sette del mattino in preda alla nausea. Avvertivo un rombo nelle orecchie, le tempie mi pulsavano in modo martellante e doloroso, avevo l'impressione che gli occhi schizzassero
fuori delle orbite, sentivo le braccia e le gambe intorpidite. Di fatto, ero stato svegliato da una sensazione di solletico sul collo. Una mosca vi si stava arrampicando, anche lei intontita come me da quanto era accaduto quella notte e come me mezza morta. Dovetti concentrarmi e chiamare a raccolta tutte le mie forze per muovere la mano e scacciarla. La prima sensazione che provai non fu di delusione per non essere sfuggito alla morte, ma di gioia perché ero ancora vivo. Una brama illimitata e animalesca di vivere a qualsiasi prezzo. Ero sopravvissuto per una notte in un edificio in fiamme. Ora la cosa essenziale era riuscire a salvarmi in qualche modo. Rimasi disteso dove mi trovavo ancora per un po' per riprendere meglio i sensi, poi mi lasciai scivolare giù dal divano e strisciai fino alla porta. La stanza era ancora avvolta nel fumo e, quando alzai la mano ad afferrare la maniglia, era così rovente che dovetti lasciarla andare di colpo. Al secondo tentativo mi sforzai di padroneggiare il dolore e aprii la porta. Sulle scale c'era meno fumo di quanto ve ne fosse nella mia stanza perché poteva uscire dagli infissi carbonizzati dei finestroni sul pianerottolo. Riuscivo a vedere le scale, ora mi sarebbe stato possibile scenderle. Chiamando a raccolta tutta la mia forza di volontà mi costrinsi ad alzarmi, afferrai la balaustra e cominciai a scendere. Il piano sottostante era già bruciato tutto e lì le fiamme si erano spente. Gli stipiti delle porte ardevano ancora e l'aria nelle stanze luccicava per il calore. Resti di mobili e di altri oggetti continuavano a bruciacchiare sui pavimenti, lasciando mucchi bianchi di cenere mano mano che le braci si spegnevano. Mentre scendevo al primo piano trovai disteso sulle scale il cadavere bruciato di un uomo, privo dei vestiti che gli si erano carbonizzati addosso. Era color marrone e orribilmente gonfio. Per proseguire fui costretto a scavalcarlo. Temevo di non riuscire a sollevare le gambe quel tanto che bastava per farlo ma, come mosse da un forza autonoma, loro mi trascinavano in avanti. Al primo tentativo il mio piede colpì lo stomaco del cadavere e inciampai. Persi l'equilibrio, caddi e rotolai giù per metà scala insieme con il corpo carbonizzato. Lasciato finalmente il cadavere alle mie spalle, riuscii a risollevarmi e scesi al piano terra. Uscii nel cortile che era cinto da un muretto ricoperto da rampicanti. Strisciai fin lì e mi nascosi in una nicchia nell'angolo a due metri dall'edificio che bruciava, mimetizzandomi tra i viticci dell'edera e le foglie e gli steli di alcune piantine di pomodoro che
crescevano in una aiuola tra il muro e la casa. Gli spari non erano cessati. Proiettili mi volavano sopra la testa. Udivo voci di tedeschi vicinissimi a me dall'altra parte del muro e li sentivo camminare sul marciapiedi. Verso sera nel muro del caseggiato in fiamme comparvero delle crepe. Se fosse crollato per me sarebbe stata la fine. Tuttavia attesi a muovermi finché non fu del tutto buio e fino a quando non mi fui un po' ripreso dall'avvelenamento della notte. Ritornai al buio alle scale, ma non mi azzardai a risalirle. L'interno degli appartamenti continuava a bruciare proprio come al mattino, e il fuoco avrebbe potuto raggiungere il mio appartamento in qualsiasi momento. Riflettei a lungo e ideai un piano diverso: l'enorme edificio non ultimato dell'ospedale dove la Wehrmacht teneva i suoi depositi di provviste era situato sull'altro lato di Aleja Niepodleglosci. Decisi che avrei tentato di arrivarvi. Uscii in strada dall'altro ingresso di casa mia. Benché fosse sera non era ancora del tutto buio. L'ampia strada era illuminata dai bagliori rossi delle fiamme. Era coperta di cadaveri e tra questi c'era la donna uccisa il secondo giorno della rivolta. Mi distesi e presi a strisciare sul ventre verso l'ospedale. I tedeschi continuavano a passare, da soli o in gruppi, e in quei momenti io smettevo di muovermi e fingevo di essere anch'io morto. Dai corpi senza vita si levava un fetore di carne in putrefazione che si mischiava con l'odore di bruciato aleggiante nell'aria. Cercavo di strisciare il più in fretta possibile ma la strada era così larga che mi pareva non finisse mai. Impiegai un'eternità, ma finalmente raggiunsi il buio edificio dell'ospedale. Superai barcollando il primo ingresso che vidi poi crollai a terra e mi addormentai di colpo. Il mattino seguente decisi di esplorare il posto. Con mia grande costernazione scoprii che era pieno di divani, di materassi, di pentole, di padelle, di vasellame, di oggetti di uso quotidiano. Ciò stava a significare che i tedeschi si sarebbero fatti vivi spesso per venire a prenderseli. Non trovai provviste, ma solo un ripostiglio in un angolo lontano, zeppo di ferri vecchi, di tubi e di stufe. Mi distesi per terra e lì trascorsi i due giorni successivi. Il 15 agosto, secondo il calendario tascabile che mi portavo sempre appresso, e sul quale cancellavo via via i giorni che passavano, gli spasmi per la fame erano così insopportabili che decisi di andare a cercare qualcosa da mangiare a qualunque costo. Fu tutto vano. Mi
arrampicai sul davanzale della finestra sbarrata da assi e mi misi a osservare la strada attraverso una piccola fenditura. Le mosche sciamavano sui cadaveri stesi nella via. Poco distante, all'angolo di via Filtrowa, sorgeva una villa dalla quale gli abitanti non erano ancora stati cacciati. Conducevano una vita straordinariamente normale, standosene seduti sulla terrazza a bere il tè. Un distaccamento di soldati di Wlassov, comandati dalle SS, venivano avanti da via Sei Agosto. Raccoglievano i cadaveri dalla strada, li ammucchiavano, vi versavano sopra petrolio e li bruciavano. D'un tratto lungo il corridoio dell'ospedale, udii dei passi avvicinarsi. Scesi dal davanzale della finestra e mi nascosi dietro una cassa. Una SS entrò nella stanza in cui io mi trovavo, si guardò attorno e uscì di nuovo. Corsi per il corridoio, raggiunsi le scale, le salii velocemente fino in cima e mi nascosi nel ripostiglio. Poco dopo un intero distaccamento entrò nell'edificio dell'ospedale per perquisire tutte le stanze l'una dopo l'altra. Non trovarono il mio nascondiglio benché io li sentissi ridere, canticchiare e fischiettare, mi pervenne alle orecchie anche la domanda di importanza vitale: «Allora, abbiamo guardato dappertutto?» Due giorni più tardi, cinque da quando avevo mangiato per l'ultima volta, mi misi nuovamente alla ricerca di cibo e di acqua. Nell'edificio non c'era acqua corrente, ma c'erano solo secchi disposti qua e là nel caso fossero scoppiati incendi. Erano riempiti di un'acqua ricoperta da uno strato iridescente, piena di mosche, di moscerini e di ragni morti. Ciononostante bevvi avidamente, ma fui costretto subito a smettere perché l'acqua puzzava e non riuscivo a non ingoiare insetti morti. Poi, nell'officina di un falegname trovai dei tozzi di pane. Erano ammuffiti, coperti di polvere e di deiezioni di topi. Ma per me rappresentavano un bene prezioso. Un qualche falegname sdentato non avrebbe mai immaginato che lasciando quegli avanzi mi avrebbe salvato la vita. Il 19 agosto, i tedeschi buttarono fuori la gente che abitava nella villa sull'angolo di via Filtrowa, in mezzo a urla e a colpi di arma da fuoco. Adesso ero solo in quel quartiere della città. Le SS facevano sempre più spesso ispezioni nell'edificio dove mi nascondevo. Quanto sarei riuscito a sopravvivere in quelle condizioni? Una settimana? Due? Dopo di che, di nuovo il suicidio sarebbe stata la mia unica via di scampo e questa volta non avrei avuto altro modo di togliermi la vita se non con una lametta di rasoio. Mi sarei dovuto tagliare le vene. In una
delle stanze trovai un po' di orzo e lo feci cuocere sulla stufa nel locale del falegname. L'accendevo di notte e questo mi permise di nutrirmi ancora per qualche giorno. Il 30 agosto decisi di tornare alle rovine dell'edificio di fronte, dato che sembrava essere andato completamente distrutto dalle fiamme. Portai con me una brocca d'acqua dall'ospedale e, all'una di notte, attraversai furtivamente la strada, In un primo momento pensai di scendere in cantina, ma lì il combustibile, coke o carbone, non aveva ancora smesso di bruciare perché i tedeschi avevano continuato ad alimentarlo e così mi nascosi tra le macerie di un appartamento al terzo piano. La vasca da bagno era piena di acqua fino all'orlo. Sporca, ma pur sempre acqua. Le fiamme avevano risparmiato la dispensa dove trovai un sacchetto con delle fette biscottate. Di lì a una settimana, colto da una terribile premonizione, lasciai di nuovo il mio nascondiglio e salii in solaio, o piuttosto a quello che era rimasto delle nude assi, perché il tetto sovrastante era crollato. Quello stesso giorno gli ucraini entrarono nell'edificio per tre volte a razziare quegli appartamenti rimasti solo parzialmente danneggiati. Non appena se ne furono andati io scesi di nuovo nell'appartamento dove ero rimasto nascosto nell'ultima settimana. Le fiamme avevano divorato tutto a eccezione della stufa di maiolica che gli ucraini avevano spaccato mattonella per mattonella probabilmente alla ricerca di oggetti d'oro. Il mattino successivo tutta l'Aleja Niepodleglosci fu circondata da soldati. La gente con involti sulle spalle, madri che stringevano a sé i bambini, tutti furono spinti entro il cordone dei militari. Le SS e gli ucraini fecero venire avanti molti degli uomini e li uccisero senza alcun motivo, esattamente come avevano fatto nel ghetto prima della sua distruzione. Questo significava forse che la rivolta si era conclusa con la nostra sconfitta? No. Giorno dopo giorno il pesante fuoco di artiglieria lacerava l'aria con un sibilo simile a quello di tafani in volo, ma per me, da più vicino, era come il rumore di vecchie pendole che venivano caricate. Dal centro della città arrivavano esplosioni forti e continue a intervalli regolari. Poi, il 18 settembre, squadriglie aeree sorvolarono Varsavia paracadutando rifornimenti ai rivoltosi. Ignoro se si trattasse di uomini o di materiale bellico. Poi gli aerei bombardarono quella parte ancora in mano ai tedeschi e lanciarono paracadutisti di notte nel
centro. Contemporaneamente il fuoco di artiglieria dalla parte orientale si faceva sempre più violento. Il 5 di ottobre distaccamenti di rivoltosi furono fatti marciare fuori della città, tenuti sotto tiro dagli uomini della Wehrmacht. Alcuni erano in uniforme altri avevano solo fasce bianche e rosse sulla manica. Costituivano un contrasto curioso rispetto ai tedeschi che li scortavano e che, oltre a indossare uniformi impeccabili, apparivano ben nutriti, sicuri di sé e beffardi nel prendersi gioco di quei nuovi prigionieri per il fallimento della rivolta. Li filmavano e li fotografavano. I rivoltosi, per parte loro, erano magri, sporchi e spesso laceri. Riuscivano a malapena a reggersi in piedi. Non prestavano alcuna attenzione ai tedeschi, li ignoravano completamente, come se avessero scelto di loro spontanea volontà di marciare lungo l'Aleja Niepodleglosci. Mantenevano la disciplina nelle loro file aiutando quanti avevano difficoltà a camminare, non degnando di un'occhiata le macerie circostanti, ma continuando a camminare, gli occhi fissi davanti a sé. Benché costituissero uno spettacolo miserevole rispetto ai loro conquistatori, si aveva la sensazione che non fossero loro gli sconfitti. Dopo questo episodio l'esodo dei civili che erano ancora rimasti si svolse in gruppi sempre più esigui e si prolungò per altri otto giorni. Era come vedere il corpo di un uomo che stesse morendo dissanguato, col sangue che sgorgava dapprima a fiotti poi fuoriusciva sempre più lentamente. Gli ultimi civili lasciarono la città il 14 ottobre. Il crepuscolo era calato da molto tempo quando un manipolo di straccioni, scortato dalle SS che intimava loro di affrettarsi, passò davanti al caseggiato dove io mi tenevo nascosto. Mi sporsi dalla finestra bruciata dalle fiamme e rimasi lì a guardare le figure che procedevano incurvate dal peso dei loro fagotti fino che l'oscurità non le ebbe inghiottite. Adesso ero rimasto solo con una esigua quantità di fette biscottate sul fondo del sacchetto e con parecchie vasche di acqua sporca come mio unico sostentamento. Per quanto tempo avrei ancora potuto resistere in quelle condizioni, visto che l'autunno era imminente, le giornate si facevano sempre più corte e la minaccia dell'inverno incombeva?
CAPITOLO 17.
La vita in cambio di alcol.
Ero solo, non soltanto nell'edificio in cui mi trovavo o in una zona della città, ma solo in un'intera città che appena due mesi prima contava una popolazione di un milione e mezzo di abitanti ed era una delle più ricche d'Europa. Degli edifici bruciati erano rimasti solo i comignoli che si stagliavano contro il cielo e quelle poche mura che i bombardamenti avevano risparmiato. Una città di macerie e di ceneri sotto le quali erano sepolte la cultura secolare del mio popolo e centinaia di migliaia di cadaveri di vittime assassinate, i cui corpi andavano putrefacendosi nel calore di quegli ultimi giorni di un autunno tardivo, ammorbando l'aria. La gente veniva a vedere le macerie solo di giorno, gentaglia che arrivava da fuori città e che si aggirava furtivamente con pale sulle spalle, sparpagliandosi nelle cantine alla ricerca di qualcosa da rubare. Uno di costoro scelse la mia casa distrutta. Bisognava che non mi trovasse. Nessuno doveva sapere della mia presenza tra quelle mura. Quando prese a salire le scale, ormai solo due piani ci separavano, tuonai con un tono di voce di minacciosa violenza: «Che cosa succede? Fuori! Rrraus!» Schizzò via come un topo in fuga spaventato dalla voce dell'ultimo povero diavolo rimasto lì ancora in vita. Verso la fine di ottobre dal solaio vidi i tedeschi che arrestavano uno di questi branchi di iene. I ladri cercavano di contrattare la loro libertà in cambio di denaro. Li sentivo ripetere di continuo: «Da Pruszkòw! Da Pruszkòw!» mentre indicavano in direzione ovest. I soldati ne costrinsero quattro al muro più vicino e fecero fuoco, ignorando le loro suppliche di aver salva la vita. Ordinarono agli altri di scavare una fossa nel giardino di una delle ville, di seppellire i cadaveri e di andarsene. Dopo questo episodio anche i ladri si tennero alla larga da questa parte della città. Adesso ero rimasto io l'unica creatura ancora viva. Il primo di novembre si stava avvicinando e cominciava a far freddo, soprattutto di notte. Per non impazzire in quel mio isolamento decisi di condurre una vita il più regolata possibile. Avevo sempre il mio
orologio, l'Omega d'anteguerra che per me era un bene prezioso come la pupilla dei miei occhi e la penna stilografica. Erano gli unici averi che mi fossero rimasti. Davo coscienziosamente la carica all'orologio e basandomi su questo avevo tracciato una sorta di orario. Stavo disteso immobile tutto il giorno per conservare quel poco di forze che mi erano rimaste. Protendevo la mano solo verso mezzogiorno per sostenermi con una fetta biscottata e con un bicchiere d'acqua che cercavo di far durare il più a lungo possibile. Dal mattino presto fino a quando consumavo questo pasto me ne stavo sdraiato a occhi chiusi, continuando a riandare con la mente a tutte le composizioni che avevo suonato, battuta dopo battuta. In seguito questo esercizio mentale mi tornò utile. Quando ricominciai a lavorare ricordavo ancora il mio repertorio, l'avevo quasi del tutto nella testa come se durante tutto il periodo della guerra avessi continuato a esercitarmi. Poi, dal pasto di mezzogiorno fino al crepuscolo, andavo sistematicamente con la mente a tutti i libri che avevo letto, ripetendo tutti i vocaboli inglesi che conoscevo. Davo a me stesso lezioni di inglese, rispondevo alle domande che mi ponevo cercando di farlo in modo corretto e preciso. Quando calava l'oscurità mi addormentavo. Mi svegliavo verso l'una di notte, accendevo un fiammifero e partivo alla ricerca di cibo. Avevo trovato una piccola scorta di fiammiferi in un appartamento del caseggiato che non era andato del tutto distrutto. Scendevo nelle cantine e tra le rovine bruciate degli appartamenti trovavo da una parte un po' di farina di avena, dall'altra qualche tozzo di pane, da un'altra ancora farina umida, acqua nelle vasche, nei secchi e nei barattoli. Non so quante volte durante queste mie spedizioni mi capitò di scavalcare il cadavere annerito dalle fiamme sulle scale. Era l'unico compagno della cui presenza non avessi paura. Una volta in una cantina rinvenni un tesoro inatteso: mezzo litro di alcol. Decisi che lo avrei conservato fino alla fine della guerra. Di giorno, mentre me ne stavo disteso per terra, tedeschi e ucraini entravano spesso nell'edificio in cerca di bottino. Ciascuna di queste visite mi faceva tendere i nervi fino allo spasimo. Avevo una paura terribile che potessero scoprirmi e uccidermi. Ma, in un modo o nell'altro, non salivano mai in solaio, benché avessi contato che avevano fatto più di trenta fugaci incursioni nella casa. Poi con il 15 novembre cadde la prima neve. Il freddo mi riusciva sempre più insopportabile sotto il mucchio di stracci che avevo messo insieme
per ripararmi. Al mattino, quando mi svegliavo li trovavo coperti da uno spesso strato di soffice neve bianca. Avevo sistemato il letto in un angolo sotto una parte ancora intatta del tetto che per il resto era andato distrutto al punto che una gran quantità di neve entrava da ogni parte. Un giorno applicai un pezzo di tessuto che avevo trovato dietro il vetro rotto di una finestra e mi guardai in quello specchio improvvisato. In un primo momento stentai a capacitarmi che l'immagine orrenda che vi vedevo riflessa fosse la mia. I capelli non erano più stati tagliati da mesi ed erano arruffati e sudici. La barba incolta, sporca e folta nascondeva quasi completamente il volto e, nel punto in cui lo lasciava scoperto, la pelle appariva quasi nera. Le palpebre erano arrossate e il cuoio capelluto era coperto di croste. Ma ciò che più mi angosciava era ignorare che cosa stesse accadendo, sia al fronte sia tra i rivoltosi. A Varsavia la rivolta era stata sedata. Non potevo farmi illusioni. Ma forse in città c'erano ancora sacche di resistenza, a Praga sull'altra riva della Vistola. Ogni tanto udivo il fuoco dell'artiglieria e l'esplosione delle granate tra le macerie. Spesso molto vicino a me, echeggiavano con violenza nel silenzio tra gli edifici distrutti dalle fiamme. Che ne era della resistenza nel resto della Polonia? Dove erano le truppe sovietiche? Come progrediva nella parte occidentale l'offensiva alleata? La mia vita o la mia morte dipendevano dalle risposte a questi interrogativi e, anche se i tedeschi non avessero scoperto il mio nascondiglio, io sarei morto presto di freddo, se non di fame. Dopo essermi visto allo specchio della finestra decisi di usare una parte della mia scarsa riserva d'acqua per darmi una lavata e al tempo stesso di accendere il fuoco di uno dei pochi fornelli ancora integri per cucinarmi il resto della farina di avena. Da quasi quattro mesi non mangiavo nulla di caldo e, mano mano che il freddo autunnale avanzava, pativo sempre più per la mancanza di cibo caldo. Se volevo lavarmi e cucinarmi qualcosa, dovevo uscire di giorno dal mio nascondiglio. Solo quando fui già sulle scale, fuori dell'ospedale militare di fronte a me, scorsi un manipolo di tedeschi che stava riparando lo steccato di legno. Ero però così bramoso di mangiare un po' di avena calda che non tornai indietro. Mi rendevo conto che mi sarei ammalato se non avessi messo nello stomaco qualcosa di caldo. Stavo già armeggiando davanti al fornello quando udii delle SS salire a grandi passi le scale. Lasciai l'appartamento il più in fretta possibile e corsi in soffitta. Ce l'avevo fatta! Ancora una volta i tedeschi si
limitarono a fiutare un po' attorno e poi se ne andarono. Ridiscesi in cucina. Per accendere il fuoco, dovetti raschiare schegge da una porta di legno con un coltello arrugginito che avevo trovato. Nel farlo una scheggia lunga un centimetro si infilò sotto l'unghia del pollice destro. Si era conficcata in modo tale e così in profondità che non riuscii a estrada. Quel piccolo incidente avrebbe potuto avere conseguenze gravi, non avevo disinfettanti, vivevo nella sporcizia e mi sarebbe facilmente potuta venire una setticemia. Anche se cercavo di rassicurarmi dicendomi che l'infezione si sarebbe limitata al pollice, tuttavia avrebbe potuto restare deforme mettendo a rischio la mia carriera di pianista, sempre che fossi sopravvissuto sino alla fine della guerra. Decisi di aspettare fino al giorno successivo, poi avrei tagliato l'unghia con la lametta del rasoio. Me ne stavo lì in piedi a guardare con aria mesta il mio pollice quando di nuovo udii dei passi. Mi apprestai a salire rapidamente in solaio ancora una volta, ma ormai era troppo tardi. Mi ritrovai davanti a un soldato con l'elmetto e un fucile tra le mani. Il suo volto aveva un'espressione vacua e un po' ottusa. Si allarmò quanto me per quell'incontro imprevedibile in mezzo alle macerie, ma cercò di assumere un'espressione minacciosa. In uno stentato polacco mi chiese che cosa io facessi lì. Gli risposi che ora vivevo fuori Varsavia e che ero tornato a prendere alcune delle mie cose. Considerato il mio aspetto, quella era una spiegazione assolutamente ridicola. Il tedesco mi puntò addosso il fucile e mi ordinò di seguirlo. Gli dissi che lo avrei fatto, ma che la mia morte gli sarebbe pesata sulla coscienza e che se mi avesse lasciato andare, gli avrei dato in cambio mezzo litro di alcol. Si dichiarò d'accordo su quella forma di pagamento, ma mi fece chiaramente capire che sarebbe tornato e che avrei dovuto dargli dell'altro alcol. Non appena se ne fu andato ritornai velocemente in soffitta, ritirai la scaletta e chiusi la botola. Come prevedibile, di lì a un quarto d'ora tornò, questa volta accompagnato da diversi altri soldati e da un sottufficiale. Quando udii i passi e le voci cercai riparo sul pezzo di tetto ancora integro, che era molto inclinato. Mi distesi appiattendomi sul ventre, appoggiando i piedi contro la grondaia. Se si fosse piegata o avesse ceduto, sarei scivolato sulla lamiera del tetto e sarei caduto dall'altezza di cinque piani nella strada sottostante. La grondaia fortunatamente resse e ancora una volta grazie a questo insolito e disperato espediente riuscii a sfuggire
alla morte. I tedeschi perquisirono tutto l'edificio, impilando tavole e sedie a mo' di scala, salendo persino in soffitta, soff itta, tralasciando però di guardare sul tetto. Probabilmente ritenevano impossibile che qualcuno potesse nascondervisi. Se ne andarono a mani vuote, bestemmiando e coprendomi di insulti. Quell'incontro con i tedeschi mi sconvolse così profondamente che decisi che da allora in poi di giorno sarei rimasto disteso sul tetto, solo al calare della notte sarei sceso in solaio. La lamiera la miera di metallo mi faceva gelare. Avevo gambe e braccia irrigidite, il corpo intorpidito per quella posizione scomoda e contratta, ma avevo già patito tanto che valeva la pena di soffrire ancora un po' anche se trascorse una settimana prima che i soldati tedeschi, i quali sapevano che mi nascondevo là, finissero i lavori all'ospedale e abbandonassero di nuovo questa parte della città. Poi un giorno le SS portarono un gruppo di civili a lavorare all'ospedale. Erano quasi le dieci del mattino e io ero appiattito sul tetto rigido quando, all'improvviso, udii una raffica di colpi vicinissimi a me, sparati da un fucile o un mitra. Era un rumore ru more che stava tra il sibilo e il cinguettio, come se uno stormo s tormo di passeri stesse volando sopra la mia testa e i colpi mi cingevano d'assedio d'ogni lato. Mi guardai attorno. Due tedeschi, in piedi sul tetto dell'ospedale, mi stavano sparando addosso. Scivolai di nuovo in soffitta e mi precipitai verso la botola, tenendomi chino per non essere colpito. Quei due urlavano alle mie spalle: «Fermo! Fermo!» mentre i proiettili pro iettili mi passavano sopra la testa. Riuscii però ad arrivare alla scala sano e salvo. Non c'era tempo per fermarsi a pensare: il mio ultimo nascondiglio in quell'edificio era stato scoperto e dovevo abbandonarlo al più presto. Mi avventai giù per le scale, raggiunsi via Sedziowska, feci di corsa tutta la strada e mi buttai fra le rovine delle villette che un tempo erano state la proprietà Staszic. Ancora una volta la mia situazione era disperata. Vagavo tra i muri di edifici rasi al suolo dalle fiamme, dove non ci poteva essere acqua, avanzi di cibo e tanto meno un nascondiglio. Tuttavia, di lì a un po' scorsi in lontananza un edificio alto di fronte ad Aleje Niepodleglosci dietro via Sedziowska, l'unico edificio a più piani di quel quartiere. Mi avvicinai. Guardando più attentamente vidi che il centro dello stabile era stato bruciato ma che le pareti laterali erano pressoché intatte. Negli appartamenti c'erano ancora mobili, nelle vasche ancora
l'acqua dai giorni della rivolta; nelle dispense i saccheggiatori avevano lasciato qualche provvista. Secondo la mia abitudine mi sistemai in solaio. Il tetto era praticamente integro, c'era solo qualche buco causato dalle schegge degli shrapnel. Vi faceva molto più caldo che nel mio nascondiglio precedente, anche se di lì sarebbe stato impossibile fuggire. Non avrei nemmeno potuto trovare la morte saltando giù dal tetto. All'ultimo piano del caseggiato c'era una finestrella di vetro piombato dalla quale potevo osservare il vicinato. Per quanto confortevole fosse il mio nuovo rifugio non mi sentivo a mio agio, perché mi ero abituato ormai a quello precedente. Ma non avevo scelta, dovevo restarvi. Scesi all'ammezzato e guardai fuori della finestra. Sotto di me c'erano centinaia di ville bruciate, un'intera parte della città ormai morta. Nei giardinetti vidi cumuli di innumerevoli fosse. Un gruppo di operai in abiti civili, con vanghe e piccozze sulle spalle, percorrevano via Sedziowska, marciando in fila per quattro. Con loro non c'era nemmeno un tedesco in uniforme. Ancora nervoso e agitato per la mia precipitosa fuga, fui colto dal desiderio improvviso di ascoltare una voce umana e di sentirmi rispondere. Qualsiasi cosa potesse succedere avrei quanto meno scambiato qualche parola. Scesi di corsa le scale e uscii in strada. Ma ormai il gruppetto degli uomini aveva proseguito. Mi affrettai a raggiungerli, «Siete polacchi?» Si fermarono e mi fissarono sbalorditi. Il loro capo rispose di sì. «Che cosa ci fate qui?» Mi riusciva difficile parlare dopo quattro mesi di silenzio totale, fatta eccezione per le frasi scambiate con il tedesco al quale avevo pagato con l'alcol il mio riscatto e adesso ero profondamente commosso. «Stiamo scavando fortificazioni. Tu che ci fai qui?» «Mi nascondo.» Il capo mi guardò con quella che mi parve una punta di compassione. «Vieni con noi», disse. «Sei in grado di lavorare e potrai avere un po' di minestra.» Minestra! La sola idea di un piatto di minestra veramente vera mente calda mi fece provare dei crampi allo stomaco così forti che per un momento quasi decisi di andar con loro, anche se questo poteva mettere a rischio la mia vita. Volevo quella minestra. Una volta tanto volevo solo mangiare a sufficienza. Il buon senso però, alla fine prevalse.
«No, io non vado dai tedeschi.» Il capo sorrise, un sorriso in parte cinico, in parte sarcastico. «Oh, non saprei», protestò. «I tedeschi non sono poi tanto malvagi.» Solo in quel momento mi resi conto di quello che in certo qual modo non avevo notato prima; il capo era stato l'unico a rivolgermi la parola, tutti gli altri erano rimasti in silenzio. Sulla manica portava una fascia colorata sulla quale era impresso un marchio. Sul suo volto c'era un'espressione sgradevole, sfuggente e abietta. Mentre parlava non guardava me negli occhi, ma al di sopra della mia spalla destra. «No», ripetei. «Grazie, ma no.» «Come vuoi», borbottò. Mi voltai per andarmene. Quando il gruppetto si rimise in marcia, salutai. Colto da un presentimento, o forse guidato dall'istinto di autoconservazione che si era affinato negli anni di clandestinità, non tornai nel solaio dell'edificio che avevo scelto come rifugio. Scelsi la villa attigua, come a significare che lì mi tenevo nascosto in cantina. Quando raggiunsi la porta carbonizzata mi voltai: il manipolo di uomini uo mini proseguiva, ma il loro capo continuava a girarsi per vedere dove mi fossi diretto. Solo dopo che furono scomparsi alla vista tornai nel mio solaio, o meglio al piano del mezzanino per guardar fuori della finestra. Di lì a dieci minuti l'uomo in borghese con la fascia al braccio era di ritorno con due poliziotti. Indicò la villa in cui mi aveva visto entrare. La perquisirono e così le altre case vicine, ma non entrarono nell'edificio in cui stavo io. Forse temevano di trovarsi davanti un folto gruppo di ribelli ancora appostati in agguato a Varsavia. Un certo numero di persone, durante la guerra, ebbe salva la vita per la codardia dei tedeschi, che amavano mostrarsi coraggiosi solo quando la loro superiorità numerica sopravanzava quella dell'avversario. Dopo due giorni andai a cercare cibo. Questa volta intendevo fare una discreta provvista per non dover lasciare troppo spesso il mio nascondiglio. Dovevo andare a cercare di giorno, dato che non conoscevo abbastanza bene quell'edificio per ritrovare la strada di notte. Trovai una cucina, quindi una dispensa contenente diverse scatolette, dei sacchetti e delle scatole. Dovevo controllare con cura il loro contenuto. Disfeci cordicelle e sollevai coperchi. Ero così assorto in quella mia ricerca da non badare assolutamente ad altro, fino a che mi pervenne una voce alle spalle: «Che diavolo ci fai qui?» Un ufficiale tedesco, alto ed elegante, era appoggiato alla credenza
della cucina, le braccia conserte. «Che cosa ci fai qui?» ripetè. «Non lo sai che l'Unità di comando della piazzaforte di Varsavia si insedierà in questo edificio da un momento all'altro?»
CAPITOLO 18.
Notturno in do diesis minore.
Mi accasciai sulla sedia vicino alla porta della dispensa. Con la certezza di un sonnambulo avvertii all'improvviso che se avessi cercato di sfuggire a quella nuova trappola, le forze mi sarebbero venute meno. Me ne stavo seduto lì, a gemere, e guardavo con occhi spenti l'ufficiale. Solo dopo un bel po' riuscii a balbettare a stento: «Faccia di me quello che vuole. Di qui non mi muovo!» «Non ho intenzione di farti niente.» L'ufficiale si strinse nelle spalle. «Che cosa fai per vivere?» «Il pianista.» Mi osservò più attentamente con evidente sospetto. Poi il suo sguardo si posò sulla porta che dalla cucina conduceva alle altre stanze. Parve colpito da un'idea. «Vieni con me, su.» «Andammo nella stanza adiacente che chiaramente doveva essere stata la sala da pranzo e poi nell'altra successiva dove, accosto alla parete, c'era un pianoforte. Mi indicò lo strumento.» «Suona qualcosa!» Possibile che non gli fosse venuto in mente che il suono del pianoforte avrebbe attirato immediatamente l'attenzione delle SS che si trovavano nelle immediate vicinanze? Lo guardai con aria interrogativa e non mi mossi. Lui avvertì i miei timori dato che aggiunse, in tono rassicurante: «Stai tranquillo. Puoi suonare. Se arriva qualcuno nasconditi nella dispensa. Dirò che lo stavo provando io, il pianoforte.» Quando posai le dita sulla tastiera, tremavano. Dunque questa volta avrei dovuto pagare un prezzo per la mia vita suonando il pianoforte! Non mi esercitavo più da due anni e mezzo, avevo le dita irrigidite e coperte da uno spesso strato di sporcizia. Non mi ero più tagliato le
unghie da quando il caseggiato in cui mi nascondevo era andato in fiamme. Non solo, ma la stanza in cui si trovava il pianoforte era priva di vetri alle finestre, cosicché i meccanismi si erano gonfiati per l'umidità e resistevano alla pressione dei tasti. Eseguii il Notturno in do diesis minore di Chopin. Il suono duro e metallico delle corde scordate echeggiava attraverso l'appartamento vuoto, per le scale, fluttuava sulle macerie della villa sull'altro lato della strada e tornava indietro in un'eco sommessa e malinconica. Quando ebbi finito, il silenzio parve ancora più cupo e più sovrannaturale di prima. Da qualche parte in strada un gatto miagolava. Fuori si udì uno sparo. Un colpo secco, violento, tedesco. L'ufficiale mi guardò in silenzio. Poi trasse un sospiro e bofonchiò: «Comunque faresti bene ad andartene! Ti porterò fuori città, in un paese dove potrai stare più al sicuro.» Scossi la testa. «Non posso lasciare questo posto, risposi in tono fermo.» Solo in quel momento parve capire la vera ragione per cui mi nascondevo tra le macerie. Sobbalzò, innervosito. «Sei ebreo?» chiese. «Sì.» Se fino a quel momento se ne era stato con le braccia conserte sul petto, adesso le abbassò e si sedette sulla poltrona accanto al pianoforte, quasi che quella scoperta richiedesse un'accurata riflessione. «Sì, be'», mormorò, «adesso capisco perché non puoi andartene.» Di nuovo per un po' parve assorto in pensieri profondi, poi si girò verso di me per pormi un'altra domanda. «Dove stai nascosto?» «In soffitta.» «Fammi vedere com'è lassù.» Salimmo. Lui ispezionò il solaio con occhi attenti ed esperti. Nel farlo scoprì qualcosa che a me era sfuggito. Un sottotetto di assi, sotto la conversa e direttamente sopra l'ingresso del solaio stesso. A una prima occhiata era quasi impossibile notarlo: la luce in quel punto era molto fioca. L'ufficiale mi convinse a nascondermi lì e mi aiutò a cercare una scala negli appartamenti sottostanti. Dopo che me ne fossi servito per salire avrei dovuto ritirarla, aggiunse. Finimmo di mettere a punto il piano quindi mi chiese se avevo provviste. «No», gli risposi. In fin dei conti mi aveva colto alla sprovvista proprio mentre stavo cercando del cibo. «Be', non preoccuparti!» si affrettò ad aggiungere, quasi vergognandosi di essere entrato di sorpresa. «Ti porterò io da mangiare.»
Solo allora mi arrischiai a fargli una domanda. Non riuscivo assolutamente più a trattenermi. «Lei è tedesco?» Avvampò. E, in preda all'agitazione, quasi urlando, mi rispose come se lo avessi insultato. «Sì, e me ne vergogno dopo tutto quello che è successo!» Con un movimento brusco si alzò, mi strinse la mano e se ne andò. Passarono tre giorni prima che ricomparisse. Arrivò che era sera. L'oscurità era totale quando dal basso udii un bisbiglio. «Ehi, sei lì?» «Sì, sono qui», risposi. Subito dopo mi venne lanciato qualcosa di pesante e finì accanto a me. Tastai la carta e mi resi conto che l'involto conteneva alcune forme di pane e qualcosa di morbido che in seguito risultò essere marmellata avvolta in carta oleata. Misi subito da parte il pacchetto e dissi: «Aspetti un momento!» La voce nell'oscurità sembrava spazientita. «Che cosa c'è? Sbrigati! Le guardie mi hanno visto entrare e non posso trattenermi.» «Dove sono le truppe sovietiche?» «Sono già a Varsavia. Nel sobborgo Praga. Sull'altra riva della Vistola. Cerca di resistere ancora per qualche settimana. La guerra finirà al massimo entro la primavera.» La voce si azzittì. Non sapevo se l'ufficiale fosse ancora lì o se ne fosse andato, ma a un tratto parlò di nuovo: «Devi resistere. Mi hai sentito?» Il tono era duro, come se stesse dandomi un ordine a persuadermi che lui aveva assolutamente ragione e la guerra sarebbe finita bene per noi. Solo dopo che ebbe pronunciato quelle parole udii la porta del solaio chiudersi silenziosamente. Trascorsero settimane monotone e disperate. Il fuoco d'artiglieria proveniente dalla direzione della Vistola aveva perso di intensità. Passavano giorni in cui il silenzio non era infranto neppure da un singolo sparo. Forse questa volta avrei finito davvero per arrendermi e togliermi la vita, come avevo programmato tante altre volte prima di allora, se non fosse stato per i giornali in cui il tedesco aveva avvolto il pane che mi aveva portato. Erano recentissimi e li lessi più e più volte traendo speranza dalle notizie delle sconfitte riportate dai tedeschi su tutti i fronti. Fronti che si addentravano sempre più rapidamente nel Reich. Gli uomini dell'unità tedesca continuavano il loro lavoro nelle ali laterali dell'edificio. Soldati salivano e scendevano le scale portando spesso grossi involti in soffitta e trasportandone altri
in basso. Ma il mio nascondiglio era stato ben scelto. A nessuno passò mai per la mente di perquisire il sottotetto. Fuori dell'edificio, lungo la strada, c'erano sentinelle che marciavano di continuo avanti e indietro. Udivo sempre i loro passi di giorno e di notte, li udivo pestare i piedi gelati. Quando avevo bisogno di acqua, sgattaiolavo di notte negli appartamenti distratti, dove le vasche erano colme fino all'orlo. L'ufficiale venne per l'ultima volta il 12 dicembre. Mi aveva portato una provvista di pane ancora più generosa della volta precedente e una coperta pesante. Mi disse che stava per lasciare Varsavia con il suo distaccamento e che non dovevo assolutamente perdermi d'animo perché l'offensiva sovietica era attesa ormai da un momento all'altro. «A Varsavia?» «Sì.» «Ma riuscirò a sopravvivere ai combattimenti in strada?» chiesi preoccupato. «Se siamo riusciti a sopravvivere più di cinque anni a questo inferno», rispose, «è evidente che Dio vuole che noi continuiamo a vivere. In ogni caso non possiamo far altro che crederci.» Ci eravamo già salutati e lui stava per andarsene, quando all'ultimo momento mi venne un'idea. Era un po' che mi stavo lambiccando il cervello per trovare il modo di mostrargli la mia riconoscenza e lui aveva già rifiutato di accettare l'unico bene che mi era rimasto, l'orologio. «Mi stia a sentire», gli presi la mano e cominciai a parlare in tono pressante. «Non le ho mai detto come mi chiamo... non me lo ha mai chiesto, ma voglio che se lo tenga bene in mente. Non si sa mai cosa potrebbe succedere. Lei deve fare un lungo viaggio per tornare a casa. Se sopravviverò lavorerò sicuramente di nuovo per la Radio polacca. Era lì che lavoravo prima che scoppiasse la guerra. Se le accadesse qualcosa e io potessi in qualche modo aiutarla, si ricordi il mio nome: Szpilman, Radio polacca.» Lui mi rivolse il suo solito sorriso, in parte di disapprovazione e in parte timido e imbarazzato. Ma io capii che in quel momento gli avevo fatto un gran piacere a manifestargli il mio desiderio di essergli d'aiuto. A metà dicembre giunse il primo gelo. Quando la notte del 13 dicembre uscii a far provviste di acqua trovai che era ghiacciata dappertutto. Andai a cercare un bricco e una pentola in un appartamento vicino all'ingresso di servizio, sul retro dell'edificio che era stato
risparmiato dalle fiamme poi tornai nel mio sottotetto. Raschiai un po' del ghiaccio contenuto nella pentola e me lo ficcai in bocca, ma non mi fece passare la sete. Allora mi venne un'altra idea. Mi cacciai sotto la coperta e mi appoggiai la pentola del ghiaccio sul ventre nudo. Di lì a un po' il ghiaccio prese a sciogliersi e io riuscii ad avere l'acqua. Nei giorni seguenti feci la stessa cosa, dato che la temperatura continuava a restar sotto zero. Venne Natale e poi il nuovo anno del 1945: il sesto Natale, il sesto Capodanno dall'inizio della guerra, i peggiori che avessi mai vissuto. Non ero in condizione di celebrarli. Me ne stavo disteso nell'oscurità ad ascoltare il vento che sferzava sulla lamiera del tetto e sulle grondaie malconce che penzolavano lungo le mura degli edifici, rovesciando mobili in quegli appartamenti solo parzialmente distrutti. Negli intervalli fra una raffica e l'altra tra le macerie sentivo lo squittio e il fruscio di topi che scorrazzavano per il solaio. A volte zampettavano addirittura sopra la mia coperta e quando dormivo mi correvano sul volto graffiandomi con le unghie. Ricordavo tutti i Natali trascorsi prima e durante la guerra. All'inizio avevo una famiglia, genitori, due sorelle e un fratello, poi non avevamo più avuto una casa nostra, ma avevamo continuato a vivere insieme. In seguito ero rimasto solo, ma circondato da altre persone. Ora mi sentivo più solo che chiunque altro al mondo. Perfino il personaggio creato da Defoe, Robinson Crusoe, il prototipo dell'uomo solitario, poteva sperare di incontrare un altro essere umano. Crusoe si dava coraggio pensando che un giorno o l'altro ciò potesse accadere, un pensiero che lo aiutava a tirare avanti. Ma se ora qualcuno che mi stava attorno mi si fosse avvicinato, sarei dovuto fuggire e nascondermi in preda a un terrore mortale. Se volevo vivere, dovevo star solo, totalmente solo, Il 14 gennaio fui svegliato da rumori insoliti in strada e nell'edificio. Automobili si fermavano poi si allontanavano, soldati correvano su e giù per le scale, sentivo voci concitate e nervose. Si continuavano a portare fuori dell'edificio oggetti, probabilmente per caricarli su veicoli. All'alba del 15 gennaio si udì il rombo dell'artiglieria provenire dal fronte sulla Vistola, fino ad allora silenzioso. I proiettili non colpivano quella parte della città in cui mi tenevo nascosto. In ogni caso il terreno e i muri della casa tremavano sotto i colpi sordi e continui, le lamiere metalliche del tetto vibravano e dalle pareti interne si staccava l'intonaco. Quel
rumore doveva essere causato dai famosi razzi Katiuscia sovietici che ci avevano tanto magnificato già prima della rivolta. Travolto dall'eccitazione e dall'entusiasmo commisi quello che nelle circostanze in cui mi trovavo si rivelò un'imperdonabile follia: bevvi un'intera pentola d'acqua. Tre ore dopo il pesante fuoco dell'artiglieria cessò nuovamente ma io ero più nervoso che mai. Non riuscii a chiudere occhio per tutta la notte. Se i tedeschi avessero continuato a difendere le rovine di Varsavia gli scontri nelle strade sarebbero potuti iniziare da un momento all'altro e io sarei stato ucciso a conclusione di tutte le mie precedenti tribolazioni. Invece la notte passò tranquillamente. Verso l'una i tedeschi ancora rimasti nell'edificio se ne andarono. Seguì il silenzio. Un silenzio così totale che neppure Varsavia, una città ormai morta da tre mesi, aveva mai conosciuto. Non sentivo più i passi delle sentinelle fuori dell'edificio. Non capivo cosa stesse accadendo. C'erano in atto combattimenti? Solo alle prime ore del giorno seguente il silenzio fu infranto da un rumore forte e risonante. L'ultima cosa che mi sarei aspettato di sentire. Gli altoparlanti della radio, collocati poco lontano, stavano diffondendo annunci in lingua polacca, annunci della disfatta della Germania e della liberazione di Varsavia. I tedeschi si erano ritirati senza combattere. Non appena cominciò ad albeggiare mi preparai febbrilmente per avventurarmi per la prima volta fuori. Il mio ufficiale mi aveva lasciato un pastrano militare tedesco che doveva ripararmi dal gelo quando andavo a cercare l'acqua. Lo indossai e, in quel momento, all'improvviso udii i passi ritmati dei soldati di guardia ancora in strada. Ma allora i polacchi e i sovietici si erano ritirati? Mi lasciai cadere sul materasso, mortalmente sconfortato, e rimasi così finché qualcosa di nuovo non mi giunse alle orecchie. Voci di donne e di bambini che non sentivo da mesi. Donne e bambini che parlavano in tono calmo come se nulla fosse successo. Come ai vecchi tempi quando le madri potevano camminare tranquillamente per strada con i loro figli. Dovevo assolutamente ottenere informazioni. Quello stato di incertezza mi stava diventando insopportabile. Mi precipitai giù per le scale, sporsi la testa fuori dell'androne dell'edificio abbandonato e guardai in Aleje Niepodleglosci. Era un mattino grigio e nebbioso. Non molto lontano, alla mia sinistra, scorsi una donna.
Indossava un'uniforme che però a quella distanza mi fu difficile identificare. Un'altra donna con un fagotto sulle spalle alla mia destra mi si stava avvicinando. Quando mi fu accanto mi arrischiai a rivolgerle la parola. «Salve, mi scusi», dissi con voce sommessa facendole un cenno. Lei mi fissò, lasciò cadere il fagotto e si mise a correre urlando: «Un tedesco!» Subito la donna soldato si girò, mi vide, alzò la mitraglietta e sparò. I proiettili colpirono il muro e mi fecero piombare addosso dei calcinacci. Senza riflettere mi avventai su per le scale e corsi a rifugiarmi in solaio. Quando qualche minuto più tardi guardai fuori dalla finestrella vidi che l'intero edificio era già stato circondato. Udii i soldati chiamarsi l'un l'altro mentre scendevano nelle cantine e, subito dopo, degli spari ed esplosioni di granate a mano. La mia situazione era veramente assurda. Stavo per essere ucciso da soldati polacchi in una Varsavia liberata per un equivoco. Cominciai a chiedermi febbrilmente come far capire loro senza ulteriori indugi che ero polacco prima che mi mandassero all'altro mondo ritenendo che fossi un tedesco in fuga. Nel frattempo un altro distaccamento di militari in uniforme blu era arrivato fuori dell'edificio. In seguito appresi che si trattava di militi della polizia ferroviaria che stavano passando di lì per caso, che eran stati reclutati per dare una mano ai soldati. Quindi ora due unità armate mi stavano dando la caccia. Presi a scendere lentamente le scale urlando con tutta la forza che avevo in corpo: «Non sparate, sono polacco!» Subito dopo udii dei passi precipitosi su per le scale. Mi sporsi dalla balaustra e scorsi un giovane ufficiale con l'uniforme polacca e un'aquila sul berretto. Mi puntò la pistola contro e gridò: «Mani in alto!» Ripetei la mia invocazione disperata: «Non sparate! Sono polacco!» Il tenente avvampò d'ira: «E perché in nome di Dio non scendi?» tuonò. «Che cosa ci fai con addosso un pastrano tedesco?» Solo dopo che i soldati mi ebbero esaminato più da vicino e considerato la situazione si convinsero finalmente che non ero tedesco. Decisero quindi di portarmi al loro quartiere generale affinchè potessi lavarmi e mangiare benché io non fossi ancora sicuro di quello che intendessero fare di me. In ogni caso non potevo andare con loro in quello stato: prima dovevo mantenere la promessa che avevo fatto a me stesso: baciare
il primo polacco che avrei incontrato dopo la fine dell'occupazione nazista. Ma adempiere a quel voto fu tutt'altro che facile. Il tenente oppose molta resistenza alla mia richiesta adducendo ogni sorta di pretesto, all'infuori di quello che non voleva dirmi per cortesia. Solo dopo che finalmente lo ebbi baciato lui estrasse uno specchietto e me lo accostò al volto dicendo con un sorriso: «Vedi che buon patriota sono!» Due settimane più tardi, assistito nel modo migliore dai militari, pulito e riposato, passeggiavo tranquillamente per le strade di Varsavia. Un uomo libero, per la prima volta, dopo quasi sei anni. Ero diretto a est, verso la Vistola, volevo raggiungere Praga, un tempo un sobborgo povero di Varsavia, ma che ora era tutto quello che restava in piedi della città dato che i tedeschi non lo avevano completamente distrutto. Stavo percorrendo la larga strada principale, in passato affollata di gente e intasata dal traffico e ora completamente deserta. A perdita d'occhio non c'era un solo edificio ancora intero. Continuavo a camminare attorno a montagne di macerie, costretto a volte ad arrampicarmici neanche fossero stati pendii sassosi di montagna. I miei piedi restavano impigliati in un intricato groviglio di cavi divelti del telefono e di binari del tram e di brandelli di tessuti che un tempo avevano abbellito appartamenti o vestito esseri umani morti ormai da tempo. Uno scheletro giaceva vicino al muro di un edificio sotto una barricata eretta dai rivoltosi. Non era di grandi dimensioni e la struttura ossea appariva delicata. Doveva essere lo scheletro di una ragazza dato che sul cranio erano ancora attaccati lunghi capelli biondi. Il tempo di decomposizione dei capelli è più lungo rispetto a quello delle altre parti del corpo. Accanto, una carabina arrugginita e attorno alle ossa del braccio destro quanto restava di un vestito con una fascia bianca e rossa dalla quale un proiettile aveva strappato via le lettere AK. Non sono rimasti neppure questi resti delle mie sorelle, la bella Regina e la seria Halina nel fiore degli anni e non mi sarà mai possibile trovare una tomba dove andare a pregare per le loro anime. Mi fermai un po' per riposare, per tirare il fiato. Guardai nella direzione nord della città, dove un tempo esisteva il ghetto e dove erano stati trucidati mezzo milione di ebrei. Non restava più nulla. I tedeschi avevano spianato persino i muri degli edifici bruciati. Il giorno seguente sarebbe cominciata per me una nuova vita. Come avrei fatto a riaffrontarla, avendo alle spalle soltanto morte? Quale energia
vitale potevo trarre dalla morte? Ripresi a camminare. Un vento violento faceva sbattere i rottami di ferro in mezzo alle macerie, fischiando e ululando attraverso le cavità annerite delle finestre. Scese il crepuscolo. La neve prese a cadere da un cielo plumbeo, sempre più buio.
CAPITOLO 19. Poscritto.
Circa due settimane più tardi uno dei miei colleghi della Radio polacca, il violinista Zygmunt Lednicki, che aveva partecipato alla rivolta, dopo tanto errare tornò a Varsavia. Come molti altri era venuto a piedi, desideroso di ritrovarsi al più presto possibile nella sua città. Durante il viaggio di ritorno era passato davanti a un campo di internamento provvisorio per prigionieri di guerra tedeschi. Quando in seguito me lo raccontò, si affrettò ad aggiungere che non approvava il proprio comportamento ma che non era assolutamente riuscito a trattenersi: si era avvicinato a un intrico di filo spinato e aveva detto ai tedeschi: «Avete sempre sostenuto di essere un popolo colto, invece avete portato via a me, musicista, tutto quello che avevo, il mio violino!» Un ufficiale si era alzato faticosamente dal punto in cui giaceva e si era avvicinato, barcollando, al fino spinato. Aveva un aspetto malconcio, la barba lunga e le sue vesti erano lacere. Fissando il mio collega con occhi disperati gli aveva chiesto: «Conosce per caso un certo signor Szpilman?» «Sì, certo.» «Io sono tedesco» aveva bisbigliato febbrilmente l'uomo. «Ho aiutato Szpilman quando si teneva nascosto nel solaio dell'unità di commando della piazzaforte di Varsavia. Gli dica che sono qui, che cerchi di tirarmi fuori, la supplico...» In quel momento era sopravvenuta una delle sentinelle. «Non è consentito parlare con i prigionieri. Per favore, se ne vada.» Lednicki se ne era andato ma, un attimo dopo, si era reso conto che non conosceva il nome di quel tedesco. Allora si era voltato, ma ormai la guardia aveva allontanato l'ufficiale dal reticolato.
«Come ti chiami?» aveva gridato. Il tedesco si era girato e aveva urlato qualcosa, ma Lednicki non era riuscito a capire. Quanto a me, non conoscevo il nome di quell'ufficiale. Avevo di proposito preferito ignorarlo in modo che se mi avessero catturato, interrogato e la polizia tedesca mi avesse chiesto chi mi aveva rifornito di pane, preso dai depositi militari, io non avrei potuto rivelare il suo nome nemmeno sotto tortura. Feci tutto quanto era in mio potere per rintracciare il prigioniero tedesco, ma non riuscii mai a trovarlo. Il campo dei prigionieri di guerra era stato evacuato e il luogo dove ora si trovava era un segreto militare. Ma forse quel tedesco, l'unico essere umano con indosso l'uniforme tedesca che io abbia mai conosciuto, era riuscito a tornare a casa sano e salvo. Qualche volta do concerti nell'edificio n. 8 di via Narbutt, a Varsavia, dove avevo trasportato mattoni e malta, e dove lavorava la brigata ebraica: uomini ai quali i tedeschi avevano sparato non appena i lavori degli appartamenti degli ufficiali erano stati ultimati. Questi ultimi, però, non hanno potuto godersi a lungo le loro belle case nuove. Nell'edificio rimasto ancora in piedi ora ha sede una scuola. Io suono per i bambini polacchi che ignorano quante sofferenze umane e quale mortale paura un tempo siano passate in quelle loro aule assolate. Prego perché possano non apprendere mai cosa significhino queste paure e queste sofferenze.
CAPITOLO 20. Estratti dal diario del capitano Wilm Hosenfeld. 18 gennaio 1942 La Rivoluzione nazionalsocialista appare bifronte sotto tutti gli aspetti. La storia ci racconta di fatti orrendi e di atroci barbarie durante la Rivoluzione francese. E anche la Rivoluzione bolscevica ha consentito che terribili atrocità fossero perpetrate sulla classe dominante per mano di esseri di una razza inferiore, dagli istinti animaleschi, esseri pieni di odio. Per quanto si possano esplorare e
condannare simili azioni, da un punto di vista umano dobbiamo pur riconoscerne la natura incondizionata determinata, impietosa e irriducibile. Non furono fatti accordi, non vi furono finzioni, e nemmeno concessioni. Ciò che quei rivoluzionari hanno fatto, l'hanno fatto con generosità, risolutezza, incuranti della coscienza, della morale e delle usanze. Tanto i giacobini quanto i bolscevichi hanno massacrato le classi superiori dominanti e giustiziato le loro famiglie reali. Hanno tagliato i ponti con il cristianesimo e l'hanno combattuto, decisi a cancellarlo dalla faccia della terra. Sono riusciti a coinvolgere i loro compatrioti nelle guerre rivoluzionarie combattute con energia e con entusiasmo: le guerre rivoluzionarie del passato, la guerra odierna contro la Germania, Le loro teorie e le loro idee rivoluzionarie hanno avuto un'influenza enorme oltre le frontiere dei loro stessi Paesi. I metodi dei nazionalsocialisti, per quanto diversi, anch'essi fondamentalmente perseguono uno stesso scopo: lo sterminio e l'annientamento di persone che non la pensano come loro. Così, ogni tanto un certo numero di tedeschi viene ucciso, ma la notizia è taciuta e tenuta segreta al pubblico. Gente viene imprigionata in campi di concentramento e lasciata lì a deperire e morire. Il popolo non ne sa nulla. Se si ha intenzione di arrestare nemici dello Stato bisognerebbe avere il coraggio di farlo pubblicamente e di consegnarli alla giustizia pubblica. Da un lato si alleano con le classi dominanti capitalistiche e industriali e sostengono il principio capitalista, dall'altro predicano il Socialismo. A parole si dichiarano favorevoli al diritto alla libertà personale e religiosa, ma in realtà distruggono le chiese cristiane e conducono contro di esse una battaglia segreta, clandestina. Parlano dei princìpi del Fùhrer, del diritto di sviluppare liberamente i propri talenti, ma fanno dipendere tutto dall'appartenenza al partito. Anche le persone più capaci e più brillanti vengono ignorate se ne restano fuori. Hitler sostiene che sta offrendo la pace mondiale, ma al tempo stesso arma la nazione in modo preoccupante. Racconta al mondo di non avere intenzione di inglobare altre nazioni entro gli Stati tedeschi ma nega loro il diritto alla propria sovranità. Ma allora i cechi? Allora i polacchi e i serbi? Soprattutto in Polonia non può esservi stata la necessità di derubare una nazione della propria sovranità entro la propria area autonoma di insediamento. E guardate gli stessi nazionalsocialisti, osservate quanto vivono
lontani dai princìpi del Nazionalsocialismo: lontani, per esempio, dall'idea che il bene comune venga prima del bene individuale. Chiedono alla gente di osservare questo principio ma, quanto a loro, non hanno alcuna intenzione di farlo. Chi affronta il nemico? La gente, non il partito. Ora stanno richiamando al servizio militare gli invalidi, mentre si vedono giovani sani e vigorosi, che lavorano negli uffici del partito, nella polizia lontano dal fronte. Perché sono esentati? Si impadroniscono dei beni dei polacchi e degli ebrei per goderseli loro. Ora polacchi e ebrei non hanno nulla da mangiare, vivono in miseria, soffrendo il gelo, senza che i nazionalsocialisti vedano alcunché di male nel portarsi via tutto. Varsavia, 17 aprile 1942 Ho trascorso alcuni giorni sereni, qui alla facoltà di Educazione fisica. Quasi non mi avvedo che c'è la guerra, ma non posso sentirmi felice. Di tanto in tanto ci arrivano notizie di vario genere. Ma sono soprattutto gli eventi che accadono nella zona dietro le linee del fronte a fare notizia: le sparatorie, gli incidenti e così via. In Lieszmannstadt (Lòdz) sono stati uccise un centinaio di persone, giustiziate anche se innocenti, si potrebbe dire, perché dei banditi hanno fatto fuoco su tre ufficiali della polizia. Lo stesso è avvenuto a Varsavia. Il risultato non è tanto quello di suscitare paura e terrore, ma aspra determinazione, ira e fanatismo crescenti. Sul ponte di Praga due appartenenti alla Gioventù hitleriana stavano molestando un polacco. E, quando lui si è difeso, hanno chiamato in loro aiuto un poliziotto tedesco. Dopo di che il polacco ha sparato uccidendoli tutti e tre. Un grosso veicolo militare ha travolto nella piazza dell'ufficio postale un risciò con tre persone a bordo. Il portatore del risciò è stato ucciso sul colpo. Il veicolo militare ha continuato a procedere trascinandosi appresso il risciò sul quale stava ancora seduto un passeggero che è scivolato fuori e ne è stato travolto. Si è radunata una gran folla, ma la macchina ha continuato a proseguire. Un tedesco ha cercato inutilmente di fermarla, poi il risciò si è incastrato nelle ruote dell'auto che è stata costretta a fermarsi. Gli uomini sono scesi, hanno spostato il risciò poi sono ripartiti. Alcuni polacchi di Zakopane si sono rifiutati di consegnare i loro sci. Le loro case sono state perquisite e duecentoquaranta uomini sono stati mandati ad Auschwitz, il tanto paventato campo di concentramento a est.
Lì la Gestapo tortura a morte le persone. Trascinano i disgraziati nelle celle e li eliminano in tutta fretta gasandoli. Nel corso degli interrogatori, le persone vengono picchiate selvaggiamente. Vi sono speciali celle di tortura. Ad esempio, una in cui le mani e le braccia delle vittime sono legate a un palo, che viene sollevato e al quale la vittima viene lasciata appesa fino a quando non perde i sensi. Oppure viene messa in una cassa dove riesce a stare solo accovacciata e lì viene abbandonata fino a che non perde conoscenza. Quali altre diavolerie hanno escogitato? Quante persone del tutto innocenti sono chiuse nelle loro prigioni? Il cibo scarseggia sempre più di giorno in giorno, la carestia a Varsavia aumenta. Tomaszwow, 26 giugno 1942. Dalla chiesa cattolica mi perviene un suono di musica d'organo e canti. Entro. Ragazzini con i vestiti bianchi della prima comunione sono in piedi davanti all'altare. La chiesa è affollata. Tutti cantano il Tantum ergo. Viene impartita la benedizione. Lascio che il prete benedica anche me. Bambinetti innocenti, qui in una città polacca, là in una città tedesca o in qualche altro Paese, pregano tutti Dio. E, tra pochi anni, combatteranno e si uccideranno con odio cieco. Persino ai vecchi tempi quando le nazioni erano più sensibili alla religione e chiamavano i loro governanti maestà cristiane, la situazione era identica a oggi, anche ora la gente si allontana dal cristianesimo. L'umanità sembra condannata a fare più male che bene. Il più grande ideale sulla terra è l'amore fra gli esseri umani. Varsavia, 23 luglio 1942. Se si leggono i giornali e se si ascoltano i notiziari alla radio, si potrebbe pensare che tutto sta andando benissimo, che la pace è sicura, la guerra già vinta e il futuro del popolo tedesco roseo e luminoso. Ma io proprio non riesco a crederci, sia per il semplice fatto che l'ingiustizia alle lunghe non può prevalere, sia per il modo in cui i tedeschi dominano i Paesi che hanno conquistato e che prima o poi scatenerà, per reazione, la Resistenza. Mi basta guardare quali sono le condizioni qui in Polonia, per rendermene conto anche se nemmeno qui si capisce granché da qual poco che ci viene detto. Tuttavia ci possiamo fare ugualmente un quadro chiaro della situazione in base a tutte le osservazioni, le conversazioni e le informazioni che ascoltiamo quotidianamente. Se qui i metodi per amministrare e governare, opprimere
la popolazione e l'operato della Gestapo sono particolarmente brutali, suppongo avvenga più o meno lo stesso negli altri Paesi conquistati. Dappertutto ci sono paura e terrore, uso della forza, arresti. Ogni giorno la gente viene portata via e uccisa. La vita di un essere umano, per non parlare della sua libertà personale, è priva di valore. Ma l'amore per la libertà è innato in ogni essere umano e in ogni nazione e alle lunghe non può essere soppresso. La storia ci insegna che la tirannide ha sempre avuto vita breve. E ora noi abbiamo sulla coscienza sanguinosi crimini causa delle orribili ingiustizie commesse nell'assassinare i cittadini ebrei. C'è in atto un'azione per sterminare gli ebrei. Questo è l'obiettivo dell'amministrazione civile tedesca da quando sono state occupate le regioni orientali, con l'aiuto della polizia e della Gestapo ma evidentemente ora deve essere attuato su vasta scala e in modo radicale. Ci vengono riferite voci incredibili da fonti tutt'affatto diverse fra loro, secondo le quali il ghetto di Lublino è stato sgombrato, gli ebrei portati via e sterminati en masse, o ricacciati nelle foreste, alcuni di loro sono stati internati in campi di concentramento. A quanto dicono persone di Lietzmannstadt e di Kutno, gli ebrei, donne, uomini e bambini, vengono avvelenati a bordo di veicoli in cui è immesso del gas, i morti vengono denudati, gettati in fosse comuni e i loro indumenti mandati a industrie tessili per essere rigenerati. Si dice che avvengano scene spaventose. Ora, a quanto riferiscono i rapporti, stanno svuotando allo stesso modo il ghetto di Varsavia, dove si trovano circa quattrocentomila persone, e allo scopo vengono usati battaglioni di poliziotti ucraini e lituani al posto della polizia polacca. Si stenta a credere a cose simili e io mi sforzo di non crederci. Non tanto per la preoccupazione in vista del futuro del nostro Paese, che un giorno dovrà pagare per questi crimini mostruosi, ma perché non riesco a convincermi che Hitler voglia una cosa simile e che esistano tedeschi che diano tali ordini. Se è vero, ci può essere una sola spiegazione: sono persone malate, anormali o pazze. 25 luglio 1942. Se quello che si dice in città è vero, lo riferiscono fonti affidabili, allora non è assolutamente un onore essere un ufficiale tedesco e nessuno potrebbe accettare quello che sta accadendo. Io però non posso crederci. Corre voce che questa settimana trentamila ebrei saranno portati via dal
ghetto e mandati da qualche parte a est. Nonostante si cerchi di mantenere la segretezza c'è chi sostiene di sapere quello che succederà dopo: nei dintorni di Lublino sono state costruite strutture con stanze che possono essere riscaldate elettricamente con alta corrente elettrica come si procede nei crematori. I poveretti vengono spinti in quelle stanze surriscaldate e bruciati vivi. Così in un giorno se ne possono eliminare a migliaia risparmiandosi il disturbo di scavare fosse comuni che poi dovranno essere riempite. Neppure la ghigliottina dei tempi della Rivoluzione francese può competere con simili orrori e nemmeno nelle celle della polizia segreta russa sono stati escogitati metodi così perfezionati di massacri di massa. Ma questa certamente è follia. Non può essere possibile. Vien da chiedersi perché gli ebrei non si difendano. Il fatto è che molti, sicuramente la maggior parte di loro, sono così debilitati dalla fame e dalle sofferenze, da non essere in grado di opporre alcuna resistenza. Varsavia, 13 agosto 1942. Un negoziante polacco espulso da Posen all'inizio della guerra, esercita la sua attività qui a Varsavia. Mi vende spesso frutta e verdura, eccetera. Durante la Prima guerra mondiale, ha combattuto per quattro anni sul fronte occidentale come soldato tedesco. Mi ha mostrato il suo libro paga. Quest'uomo nutre forti simpatie per i tedeschi ma è un polacco e lo sarà sempre. E' disperato per le orribili crudeltà, per la brutalità animalesca, per quello che i tedeschi stanno compiendo nel ghetto. Non si può fare a meno di continuare a stupirsi di come sia possibile che tra la nostra gente esistano tante canaglie. Criminali e pazzi sono stati forse lasciati uscire dalle prigioni e dai manicomi e mandati qui a comportarsi come cani sanguinari? No. Sono persone di una certa rilevanza, che fan parte dello Stato che hanno insegnato ai loro compatrioti, peraltro innocui, a comportarsi in siffatta maniera. Nell'animo umano si annidano malvagità e brutalità. Se si consente a questi sentimenti di svilupparsi liberamente essi fioriscono, mettono orribili germogli, quel genere di idee atte a convincere la gente che ebrei e polacchi debbano essere assassinati in questo modo. Il negoziante polacco cui ho accennato ha conoscenze ebree nel ghetto, dove spesso si reca. Dice che lì si verificano scene intollerabili, che ormai ha paura perfino di tornarci. Una volta, mentre viaggiava su un risciò, ha visto un agente della Gestapo costringere un gruppo di ebrei,
uomini e donne, a entrare nell'androne di un edificio quindi sparare a caso su di loro. Dieci persone sono rimaste uccise o ferite. Un uomo è riuscito a sfuggire e l'agente della Gestapo ha puntato l'arma contro di lui ma non aveva più proiettili in canna. I feriti sono morti, nessuno è venuto in loro soccorso. I medici erano già stati deportati o uccisi e comunque erano condannati a morire. Una donna ha raccontato al mio conoscente polacco che parecchi uomini della Gestapo hanno fatto irruzione nel reparto maternità di un ospedale ebraico, hanno portato via i neonati, li hanno ficcati in un sacco, se ne sono andati e li hanno gettati su un carro funebre. Questi malvagi non si sono fatti impietosire neppure dai pianti dei bambini e dai gemiti strazianti delle loro madri. Si stenta a credere che sia possibile ma è la verità. Due simili bestie viaggiavano ieri con me sul tram. Avevano in mano delle fruste e provenivano dal ghetto. Avrei voluto gettarli sotto le ruote del tram. Come siamo codardi a pensare innanzitutto a noi stessi e a permettere che ciò accada. Dovremmo esser puniti per questo. Come lo saranno i nostri figli innocenti perché noi permettiamo che vengano commessi simili crimini, rendendocene complici.
Dopo il 21 agosto 1942. La menzogna è il peggiore di tutti i mali. Tutto ciò che è diabolico deriva dalla menzogna. E a noi hanno mentito: l'opinione pubblica viene costantemente ingannata. Non esiste una sola pagina di giornale scevra da menzogne, sia che si parli di politica, di economia, di storia, di eventi sociali e culturali. La verità è ovunque sotto pressione. I fatti vengono distorti, stravolti e capovolti. Questo può dare buoni risultati? No, non si può andare avanti così, per il bene della natura umana e per la libertà di spirito dell'uomo. I bugiardi e quanti distorcono la verità devono perire ed essere privati del loro potere di governare con la forza. Solo allora potrà esservi spazio per un genere umano più libero e più nobile. 1 settembre 1942. Perché è dovuta scoppiare questa guerra? Perché bisognava mostrare all'umanità dove la stava conducendo la sua mancanza di fede. Innanzitutto il Bolscevismo ha ucciso milioni di uomini col
pretesto di introdurre un nuovo ordine mondiale. Ma i bolscevichi potevano agire in questo modo solo perché si erano allontanati da Dio e dall'insegnamento cristiano. Ora il Nazionalsocialismo sta facendo lo stesso in Germania. Vieta alla gente di praticare la propria religione. I giovani vengono cresciuti senza fede, la Chiesa viene combattuta, espropriata dei propri beni. Tutti coloro che la pensano in modo diverso sono perseguitati. Lo spirito libero del popolo tedesco viene avvilito, uomini e donne sono ridotti a schiavi terrorizzati. La verità è bandita. Nessuno conta più nulla nel destino del proprio Paese. L'omicidio, il furto e la menzogna non sono più passibili di pena, neppure quando vanno contro lo stesso interesse del popolo. E questa negazione dei comandamenti divini che porta a tutte queste manifestazioni immorali di avidità, di arricchimento illecito, di odio, di frode, di libertinaggio, causa di infertilità e di degrado del popolo tedesco. Dio permette che tutto ciò avvenga, lascia che queste forze abbiano il sopravvento e che periscano tanti innocenti per dimostrare al genere umano che senza di lui siamo solo animali feroci convinti di doversi reciprocamente distruggere. Non vogliamo ascoltare il comandamento divino «Ama il prossimo tuo come te stesso.» Bene, dice allora Dio, prova a seguire il comandamento del diavolo «Odia il prossimo tuo.» Noi conosciamo la storia del Diluvio universale dalle Sacre scritture. Perché i primi esseri umani hanno fatto una fine tanto tragica? Perché avevano abbandonato Dio e dovevano morire, innocenti o colpevoli che fossero. E della loro punizione dovevano incolpare solo se stessi. Ed è quanto avviene anche oggi.
6 settembre 1942. Un ufficiale dell'Unità di comando speciale che partecipava al torneo di scherma mi ha raccontato le cose orribili che questa Unità ha fatto nella città di Sielce, un centro amministrativo. Era tanto sconvolto e indignato da scordarsi totalmente che ci trovavamo in una compagnia molto numerosa che comprendeva perfino un pezzo grosso della Gestapo. Un giorno gli ebrei furono spinti fuori del ghetto e trascinati per le strade: uomini, donne, bambini. Parecchi di loro vennero poi uccisi pubblicamente davanti ai tedeschi e alla popolazione polacca. Le donne vennero lasciate a contorcersi nel loro sangue, abbandonate nel calore
estivo, senza che venisse dato loro alcun aiuto. I bambini che avevano cercato di nascondersi furono scaraventati fuori delle finestre. Poi, tutte quelle migliaia di persone furono portate in un posto vicino alla stazione ferroviaria, dove dei treni avrebbero dovuto tenersi pronti per caricarli. Per tre giorni quei poveretti rimasero lì in attesa, nell'afa estiva, senza cibo e senza acqua. Se qualcuno osava alzarsi veniva immediatamente ucciso e anche questo sotto gli occhi di tutti. Infine furono portate via duecento persone, stipate in un carro bestiame, appena sufficiente a contenerne quarantadue. Che ne è stato di loro? Nessuno ammetterà mai che lo sapeva, ma la verità non può più essere tenuta nascosta. Aumenta sempre più il numero di persone che riescono a fuggire e che rendono note queste cose terribili. Quel luogo si chiama Treblinka e si trova nella parte orientale del territorio polacco occupato dai tedeschi. E' lì che vengono scaricati i carri bestiame; molte persone sono già morte. L'intero luogo è circondato da muri e i camion vengono fatti entrare per poi essere subito scaricati. I cadaveri sono accatastati accanto ai binari ferroviari. Gli uomini in buone condizioni fisiche vengono costretti a sgombrare montagne di cadaveri, a scavare nuove fosse e a coprirle quando sono piene. Subito dopo vengono uccisi a loro volta. Quindi arrivano altri carichi, e altri uomini dovranno occuparsi di chi li ha preceduti. Migliaia di donne e di bambini prima vengono costretti a spogliarsi, quindi fatti salire su un autocarro per essere gasati. Il veicolo viene portato davanti a un pozzo, un congegno spalanca la fiancata laterale e solleva il fondo, rovesciando i cadaveri in quella che diventa la loro fossa. E questo avviene da molto tempo. Poveri disgraziati vengono rastrellati in tutta la Polonia. Alcuni vengono uccisi sul posto perché sul veicolo non c'è spazio sufficiente a contenerli, ma, se sono troppi per essere uccisi, vengono portati via. Tutta la zona di Treblinka è invasa dall'orribile fetore dei cadaveri. Questo è quanto mi ha raccontato un mio buon amico che a sua volta l'ha saputo da un ebreo riuscito a sfuggire a questo destino. Con lui altri sette sono riusciti a scappare, e ora quest'uomo vive a Varsavia. In città pare che ce ne siano parecchi. Ha mostrato al mio amico una banconota da venti zloty che aveva preso dalla tasca di un morto, l'ha avvolta con molta cura in modo che l'odore di cadavere vi restasse impregnato. Questo al fine di ricordarsi perennemente di vendicare i suoi fratelli.
Domenica 14 febbraio 1943. La domenica, quando puoi dare libero corso ai tuoi pensieri, e dimenticare l'esercito e gli obblighi che ti richiede, tutte le idee che di solito nascondi nel tuo subconscio, riaffiorano. Il pensiero del futuro mi riempie di sgomento, se poi ripenso a questo periodo bellico, non riesco assolutamente a capacitarmi di come abbiamo potuto commettere crimini del genere contro civili indifesi, contro gli ebrei. Continuo a chiedermi come è possibile? Può esservi solo una spiegazione: coloro che lo hanno fatto, che hanno impartito gli ordini e hanno permesso che tutto ciò accadesse, hanno perso ogni senso di decenza e di responsabilità. Sono esseri estremamente malvagi, volgari, egoisti, spregevoli materialisti. Quando l'estate scorsa vennero compiuti i terribili eccidi di massa degli ebrei, e tante donne e bambini furono massacrati, ho capito con assoluta certezza che avremmo perso la guerra perché ormai una guerra simile non aveva più senso, come avrebbe potuto averlo un tempo nella giustificazione della ricerca di un'esistenza libera e di uno spazio vitale: è degenerata in un'enorme, disumana carneficina di massa negatrice di tutti i valori culturali e priva di alcuna giustificazione agli occhi del popolo tedesco. Una guerra totalmente condannata dall'intera nazione. Così come non potranno mai trovare alcuna giustificazione le torture inflitte ai polacchi arrestati, l'uccisione di prigionieri di guerra e il trattamento bestiale loro inflitto.
16 giugno 1943. Questa mattina è venuto a trovarmi un giovanotto. Avevo conosciuto suo padre a Obersig. Lui lavora qui in un ospedale da campo ed è stato testimone oculare dell'uccisione di un civile compiuta da parte di ufficiali di polizia tedeschi. Costoro gli hanno chiesto i documenti e hanno scoperto che era ebreo, al che l'hanno condotto in un androne e gli hanno sparato. Si sono portati via il suo cappotto lasciando a terra il cadavere. Questa è un'altra testimonianza oculare, da parte di un ebreo: «Ci trovavamo in un edificio del ghetto. Ci hanno rinchiuso in cantina per sette giorni. L'edificio era in fiamme, sopra di noi, le donne scappavano all'esterno e così anche noi uomini, ad alcuni di noi hanno
sparato. Poi ci hanno portati nella Umschlagplatz e rinchiuso nei carri bestiame. Mio fratello si è avvelenato, le nostre mogli sono state condotte a Treblinka e lì sono state gasate. Io sono stato mandato in un campo di lavoro. Eravamo trattati in un modo spaventoso, non ci davano quasi niente da mangiare e dovevamo lavorare come bestie.» Ha scritto ai suoi amici: «Mandatemi del veleno. Non posso sopportare tutto questo. Qui muoiono tante persone.» La signora Jait ha lavorato per un anno come domestica per il Servizio segreto. Vedeva spesso l'orribile modo in cui venivano trattati gli ebrei che lavoravano lì. Erano picchiati selvaggiamente, un ebreo è stato costretto a stare in piedi per una mezza giornata su un cumulo di carbone, con un freddo spaventoso, senza indumenti addosso. Uno del Servizio segreto, che passava di lì, gli ha sparato. Tantissimi ebrei sono stati uccisi in questo modo, senza alcuna ragione, insensatamente. Tutto questo è al di là della comprensione umana. Ora gli ultimi abitanti ebrei del ghetto stanno per essere sterminati. Uno Sturmfuhrer delle SS si è vantato del modo in cui sparavano agli ebrei, in fuga dagli edifici in fiamme. Tutto il ghetto è stato raso al suolo dal fuoco. Questi bruti pensano che in tal modo vinceremo la guerra. Invece l'abbiamo persa con questo spaventoso eccidio di massa degli ebrei. Ci siamo coperti di onta, di un'onta che non potrà mai essere cancellata, è una maledizione dalla quale non ci libereremo mai. Non meritiamo alcuna pietà. Siamo tutti colpevoli. Provo vergogna ad andare in città. Qualsiasi polacco ha il diritto di sputarci addosso. Tutti i giorni soldati tedeschi vengono uccisi, la situazione non farà che peggiorare e non abbiamo alcun diritto di lamentarci perché è solo il giusto castigo per le nostre colpe. Ogni giorno che passa mi sento peggio.
6 luglio 1943. Perché Dio permette questa guerra terribile che esige tanti spaventosi sacrifici umani? Pensiamo alle spaventose incursioni aeree, alla micidiale paura dell'innocente popolazione civile, al trattamento disumano riservato ai prigionieri nei campi di concentramento, all'assassinio di centinaia di migliaia di ebrei per mano tedesca. E forse colpa di Dio? Perché non interviene? Perché lascia che questo accada? Sono domande inutili alle quali non è possibile avere risposta.
Siamo pronti a dare la colpa agli altri ma non a noi stessi. Dio consente che il male si abbatta sull'umanità perché l'umanità ha abbracciato il male. E ora stiamo cominciando ad avvertire il peso della nostra stessa malvagità e delle nostre imperfezioni. Quando i nazisti sono saliti al potere non abbiamo fatto nulla per fermarli. Abbiamo tradito i nostri ideali, gli ideali di libertà personale, democratica, religiosa. La classe lavoratrice ha sposato la causa nazista, la Chiesa è stata impassibile a guardare, il ceto medio era troppo vile per reagire e lo eravamo anche noi, gli intellettuali di maggior spicco. Abbiamo consentito che si abolissero i sindacati, che venissero soppresse le diverse confessioni religiose, e introdotta la censura nella stampa o alla radio. Da ultimo, ci siamo lasciati trascinare in guerra. Abbiamo accettato che la Germania non avesse una rappresentanza democratica e abbiamo affidato la pseudo rappresentanza a gente che non poteva realmente avere alcun peso. Non si possono tradire impunemente gli ideali e ora noi tutti dobbiamo accettarne le conseguenze. Dicembre 1943. L'anno scorso abbiano subito uno scacco dopo l'altro. Ora stiamo combattendo sul Dnieper. Tutta l'Ucraina è andata perduta. Anche se riuscissimo a conservare quello che ancora abbiamo in quella zona, non ne trarremmo sicuramente alcun guadagno economico. I Russi sono così forti che riusciranno sempre a scacciarci dai loro territori. In Italia è iniziata l'offensiva inglese e anche lì cediamo posizioni su posizioni. Una dopo l'altra, le città tedesche vengono distrutte: ora è la volta di Berlino, e dal 2 settembre sono iniziate le incursioni anche su Lipsia. La guerra degli U-boat è un fallimento totale. Che cosa pensano di potersi aspettare coloro che ancora parlano di vittoria? Non abbiamo conquistato alla nostra causa un solo Paese di quelli che abbiamo occupati. I nostri alleati, la Bulgaria, la Romania e l'Ungheria possono fornire solo aiuto locale. Si possono ritenere soddisfatti anche solo se riescono a gestire i loro problemi interni e si aspettano che le potenze nemiche attacchino i loro confini. L'unico aiuto che possono darci è un sostegno economico, come, ad esempio, forniture di petrolio romeno. Dal punto di vista militare il loro aiuto è praticamente nullo. Da quando in Italia è stato rovesciato il governo fascista, il Paese è diventato per noi teatro di guerra solo fuori dei confini del Reich dove
al momento la guerra continua. La superiorità numerica dei nostri avversari ci toglie un'arma dalle mani. Chiunque cerchi di reggersi in piedi viene abbattuto. Questo è lo stato attuale delle cose, quindi come possiamo illuderci di riuscire a far sì che la guerra valga a nostro favore? Nessuno in Germania crede più che la vinceremo. Ma qual è la via d'uscita che abbiamo? In patria non ci sarà alcuna rivoluzione perché nessuno ha il coraggio di rischiare la propria vita opponendosi alla Gestapo. E poi, a che cosa servirebbe provarcisi? In maggioranza la gente potrebbe anche essere d'accordo ma questa maggioranza è impossibilitata a farlo. Negli ultimi dieci anni i singoli individui non hanno avuto alcuna opportunità, tanto meno il popolo in generale, di esprimere la propria volontà in modo libero. Immediatamente la Gestapo reagirebbe. E non possiamo sperare nemmeno in una rivolta dell'esercito. L'esercito è disposto a lasciarsi condurre alla morte e qualsiasi idea di opposizione che potrebbe scatenare un movimento di massa viene subito soppressa. Siamo così costretti a bere fino in fondo l'amaro calice. Tutta la nostra nazione dovrà pagare per tutte le ingiustizie e l'infelicità, per tutti i crimini che abbiamo commesso. Molte persone dovranno essere sacrificate prima che i nostri misfatti possano essere cancellati. Questa è una legge inesorabile insita sia nelle cose piccole sia in quelle grandi.
1 gennaio 1944. I giornali tedeschi riportano in tono indignato la confisca e il trafugamento di opere d'arte fatta dagli americani nell'Italia meridionale. Tanto scalpore per crimini commessi da un altro popolo mi sembra davvero assurdo, quasi che il nemico non sapesse che noi ci siamo appropriati di tesori artistici portandoli fuori della Polonia, o di quelli che abbiamo distrutto in Russia. Anche se adottiamo il punto di vista che «il mio Paese qualsiasi cosa faccia ha sempre ragione» e giustifichiamo quanto abbiamo fatto, una simile ipocrisia è fuori luogo e ci può solo far apparire ridicoli.
11 agosto 1944. Il Fùhrer sta per promulgare un decreto in base al quale Varsavia dovrà
essere rasa al suolo. Già si sta cominciando a farlo. Tutte le strade liberate durante la rivolta sono state distrutte dalle fiamme. Le persone che vi abitavano sono state costrette a lasciare la città e parecchie migliaia di loro inviate a est. Se questa notizia è vera allora mi è chiaro che abbiamo perso Varsavia e con Varsavia, la Polonia e la guerra stessa. Stiamo rinunciando a un luogo che abbiamo tenuto per cinque anni, lo abbiamo espanso dicendo al mondo che si trattava di confisca di guerra. Qui abbiamo usato metodi mostruosi. Ora non possiamo fare a meno di renderci conto che tutto è andato perduto. Stiamo distruggendo con le nostre mani il nostro stesso lavoro, tutto quello di cui l'amministrazione civile andava così orgogliosa: riteneva che l'essere qui fosse un grande compito culturale della cui necessità voleva darne prova al mondo. La nostra politica a est è allo sbando e con la distruzione di Varsavia le stiamo erigendo un monumento funebre.
CAPITOLO 21. Un ponte tra Wladyslaw Szpilman e Wilm Hosenfeld di Wolf Biermann. A questo libro non necessitano prefazioni o postfazioni, e di fatto, nemmeno commenti. Tuttavia l'autore, Wladyslaw Szpilman, cinquant'anni dopo gli eventi da lui descritti, mi ha chiesto alcune annotazioni per i lettori. La storia, come qui riportata, è stata da lui scritta a Varsavia subito dopo la guerra, «a botta calda» quando quello per cui era passato era ancora vivo nella sua mente, o meglio quando era ancora in stato di terribile shock. Sono moltissimi i libri in cui le persone hanno fissato il loro ricordo della storia. Molti resoconti di sopravvivenza però sono stati scritti parecchi anni o decenni dagli avvenimenti. Credo che le ragioni di questo silenzio siano evidenti a tutti. Così come credo che i lettori si rendano conto di quanto il linguaggio e lo stile di questo libro, scritto quando le ceneri della Seconda guerra mondiale erano ancora incandescenti, siano incredibilmente distaccati. Wladyslaw Szpilman, infatti, descrive le sue sofferenze ancora brucianti
con una presa di distanza quasi malinconica. Si ha come l'impressione che non sia ancora riemerso dal viaggio in cui ha attraversato i diversi gironi dell'inferno, quasi stesse scrivendo con una sorta di stupore, quasi si trattasse di un'altra persona. Della persona che lui è diventata dopo l'invasione tedesca della Polonia. Il suo libro è stato pubblicato per la prima volta in Polonia nel 1946 con il titolo di uno dei capitoli, Morte di una città, e subito è stato s tato tolto dalla circolazione dai tirapiedi polacchi di Stalin. Da allora non è più stato ristampato, né in Polonia né altrove. Mano mano che i Paesi conquistati dall'Armata rossa venivano sempre più stretti nella morsa dei loro liberatori, la nomenclatura dei Paesi dell'Est non poteva assolutamente tollerare testimonianze oculari autentiche come quelle contenute in questo libro. Vi si elencavano troppe verità dolorose riguardanti la collaborazione degli sconfitti russi, polacchi, ucraini, lettoni ed ebrei con i nazisti. Persino in Israele la gente non voleva sentir parlare di queste cose. Per quanto strano possa apparire, è però comprensibile. L'argomento era intollerabile per tutti coloro che erano stati protagonisti di quella tragedia, sia vittime sia carnefici, benché ovviamente per ragioni diverse. Colui che contava le nostre ore continuava a contare. Ditemi, che cosa sta contando? Continua a contare... Paul Celan. Numeri. Ancora numeri. Dei tre milioni e mezzo di ebrei ebr ei che una volta vivevano in Polonia solo duecentoquarantamila sono sopravvissuti al nazismo. L'antisemitismo era già diffuso molto prima dell'invasione tedesca. Tuttavia circa trequattrocentomila polacchi hanno messo a rischio la propria vita per salvare gli ebrei. Dei sedicimila ariani ricordati a Yad Vashem, il luogo delle rimembranze per antonomasia a Gerusalemme, un terzo erano polacchi. Perché tanta precisione nell'elencarli? Perché tutti sanno quanto si fosse propagato tra i polacchi il virus dell'antisemitismo ma pochi al tempo stesso sanno che nessun'altra nazione ha aiutato tanti ebrei a sfuggire ai nazisti come i polacchi. In Francia nascondere un ebreo significava il carcere o il campo di concentramento, in Germania equivaleva alla propria morte, in Polonia perfino a quella di tutta la
famiglia. Una cosa mi colpisce: nel registro emotivo di Szpilman non traspare alcun desiderio di vendetta. Una volta a Varsavia abbiamo avuto una conversazione: lui era reduce dal giro del mondo per una tournée di concerti e se ne stava seduto spossato al suo vecchio pianoforte a coda che aveva bisogno di essere accordato. Fece un'osservazione quasi infantile, per metà ironica per metà molto seria: «Quando ero molto giovane ho studiato per due anni musica a Berlino. Non riesco a capire c apire i tedeschi... Erano tanto amanti della musica.» Questo libro dà un'immagine della vita nel ghetto di Varsavia, è un grande affresco. Wladyslaw Szpilman la descrive in modo tale da offrirci of frirci la possibilità di vedere più in profondità qualcosa che già sospettavamo: carcere, ghetti, campi di concentramento con i loro veicoli mobili per gasare la gente, le torri di controllo, le camere ca mere a gas non sono intesi a nobilitare il carattere. La fame f ame non irradia una luce interiore. Per dirla schiettamente: un farabutto resta farabutto anche dietro il filo spinato ma non sempre questa esemplificazione corrisponde a verità. Certi squallidi truffatori e molti rei confessi si sono comportati in modo più coraggioso e solidale nei ghetti o nei campi di concentramento di altre persone istruite e rispettabili della media borghesia. A volte Wladyslaw Szpilman descrive la Shoah in una prosa semplice, ma con la medesima intensità della poesia. Penso alla scena nella Umschlagplatz quando Szpilman era già condannato a morire, destinato a un futuro incerto che tutti sospettavano sarebbe stata la morte sicura. I genitori dell'autore, lui stesso, il fratello le due sorelle, dividono una crème caramel tagliata in sei parti, il loro ultimo pasto insieme e ricordano l'impazienza del dentista, mentre aspettavano l'arrivo del treno della morte. «E' un'infamia per tutti noi! Permettiamo loro che ci portino alla morte come pecore al macello! Se noi attaccassimo i tedeschi, siamo mezzo milione di persone, potremmo fuggire dal ghetto, o, per lo meno, morire con onore invece di coprirci di onta di fronte alla storia.» E la risposta data dal padre di Szpilman: «Guarda, non siamo eroi, siamo sia mo persone assolutamente normali.» Come può accadere in una vera tragedia, tanto il dentista quanto il padre di Szpilman avevano ragione. Gli ebrei hanno dibattuto questa
questione irrisolta sulla Resistenza migliaia e migliaia di volte. E lo faranno ancora per generazioni e generazioni. Mi viene alla mente una considerazione ancora più concreta: come avrebbero potuto queste persone, tutte civili, come avrebbero potuto donne, bambini e vecchi abbandonati da Dio e dal mondo, come avrebbero potuto uomini affamati e ammalati, di fatto difendersi contro una macchina di sterminio tanto perfetta? La Resistenza era impossibile. Ciononostante fu una Resistenza ebraica. La lotta armata nel ghetto di Varsavia e migliaia di atti coraggiosi compiuti dai partigiani ebrei, mostrano che si è trattato di una Resistenza molto efficace. Vi sono state le sollevazioni a Sobibòr e persino a Treblinka. La storia di Wladyslaw Szpilman ci mostra la parte attiva da lui avuta in quella eroica Resistenza. Era tra quelli che, incolonnati, venivano condotti ogni giorno a lavorare nel lato ariano della città e che contrabbandavano, non soltanto pane e patate, ma munizioni destinate alla Resistenza ebraica, facendole entrare nel ghetto. Lui accenna a questo atto coraggioso con modestia e solo fugacemente. In appendice vengono pubblicati per la prima volta brani dal diario di Wilm Hosenfeld, un ufficiale della Wehrmacht senza il cui aiuto, Szpilman, ebreo polacco, non sarebbe sopravvissuto. Hosenfeld era un insegnante e aveva già combattuto col grado di tenente durante la Prima guerra mondiale. E forse per questa ragione era stato ritenuto troppo vecchio per essere inviato al fronte all'inizio della seconda. Questo potrebbe forse essere il motivo per cui era stato nominato ufficiale responsabile di tutti gli impianti sportivi di cui la Wehrmacht si era impadronita al fine di garantire ai soldati tedeschi la possibilità di mantenersi in forma con attività sportive e agonistiche. Il capitano Hosenfeld fu catturato dall'esercito sovietico negli ultimi giorni della guerra e morì sette anni dopo ancora in stato s tato di prigionia. All'inizio delle peregrinazioni di Szpilman, un odiato membro della polizia ebraica lo aveva salvato. E, alla fine, era stato s tato il capitano Hosenfeld a trovarlo, mezzo morto, tra le macerie della città di Varsavia, svuotata dei suoi abitanti, e non lo aveva ucciso. Il capitano Hosenfeld gli aveva addirittura portato nel nascondiglio, cibo, una coperta e un pastrano. Questa sembra una sorta di favola hollywoodiana, eppure è la verità. In questa terribile storia, un individuo appartenente alla odiata razza padrona ha svolto il
ruolo di angelo custode. Poiché la Germania di Hitler, con tutta evidenza aveva comunque perso la guerra, il fuggiasco previdentemente diede al suo anonimo soccorritore un'informazione utile: «Se dovesse accaderle qualcosa e se mi sarà possibile aiutarla in qualsiasi modo, si ricordi del mio nome: Szpilman della Radio polacca.» So da Szpilman che lui cominciò a cercare subito il suo salvatore, dal 1945, ma senza successo e quando si recò nel luogo dove il suo amico violinista aveva visto Hosenfeld, il campo di internamento era stato trasferito altrove. Hosenfeld morì prigioniero in un campo di prigionia a Stalingrado, un anno prima della morte di Stalin. In cattività era stato torturato perché gli ufficiali sovietici pensavano che la sua affermazione di avere salvato un ebreo fosse una menzogna particolarmente vergognosa. Dopodiché Wilm Hosenfeld fu colpito da diversi ictus in seguito ai quali si ritrovò in uno stato di confusione mentale, come un bambino che viene picchiato e che non capisce perché. Al momento della morte, la sua forza morale era totalmente distrutta. Hosenfeld riuscì però a mandare i suoi diari in Germania. Aveva avuto un'ultima licenza durante la Pentecoste del 1944, esiste una bella foto dell'ufficiale tornato a casa dalla sporca guerra nella sua splendente uniforme bianca attorniato dalla moglie e dagli amati figli. Sembra l'immagine idilliaca della pace eterna. La famiglia Hosenfeld ha conservato i due blocchi di appunti fitti fitti che costituiscono il diario. L'ultima annotazione sul diario reca la data dell'11 agosto 1944, il che significa che Hosenfeld mandò i suoi commenti così esplosivi per normale posta militare. E se quei due quaderni fossero caduti nelle mani dei tanto paventati gentiluomini dai giubbotti di cuoio? E' quasi insopportabile pensarlo. Costoro avrebbero annientato quest'uomo! Il figlio di Hosenfeld mi ha fatto un resoconto che offre un'immagine vivida del padre: «Mio padre era un insegnante pieno di entusiasmo e di generosità. Nel periodo successivo alla Prima guerra mondiale, quando picchiare i bambini era ancora il metodo disciplinare usato nelle scuole, la gentilezza nei confronti dei suoi allievi non era affatto formale. Nella scuola del villaggio di Spessart era solito prendere i bambini delle elementari che avevano difficoltà con l'alfabeto e metterseli sulle ginocchia. Teneva sempre due fazzoletti nella tasca dei pantaloni: uno per sé e uno per i nasi colanti dei bambini più piccoli.
«Nell'inverno tra il 1939 e il 1940 l'Unità di mio padre, che aveva lasciato Fulda per la Polonia nell'autunno del 1939, si trovava di stanza nella città di Wegrow, a est di Varsavia. Un po' prima il commissariato tedesco aveva requisito provviste di fieno che appartenevano all'esercito polacco. In una fredda giornata invernale mio padre si imbattè in una SS che stava portando via un alunno. Il ragazzino era stato colto a rubare in un granaio un po' del fieno requisito, probabilmente solo quel tanto che potevano contenere le sue braccia. Era chiaro che il piccolo sarebbe stato fucilato e che la sua morte sarebbe stata usata come deterrente per gli altri. «Mio padre mi ha raccontato che si è avventato sulla SS urlando: "Non puoi ammazzare questo bambino!" L'altro ha estratto la pistola, l'ha puntata contro mio padre e ha detto in tono minaccioso: "Se non sparisci subito ammazziamo anche te!" «Mio padre ci impiegò molto per riprendersi da quell'esperienza. Me ne parlò una sola volta, due o tre anni più tardi, quando venne in congedo. Io sono stato l'unico membro della famiglia che ha sentito questa storia.» Wladyslaw Szpilman riprese a lavorare subito come pianista per Radio Varsavia. Alla fine della guerra aprì la trasmissione con lo stesso brano di Chopin che stava eseguendo dal vivo alla radio quell'ultimo giorno, sotto una grandine di proiettili e di bombe tedesche. Era come se la trasmissione del Notturno di Chopin in do diesis minore fosse stata interrotta solo brevemente per dar modo nei sei anni successivi a Herr Hitler di recitare la propria parte sul palcoscenico del mondo. Wladyslaw Szpilman non ebbe più notizie del suo salvatore fino all'anno 1949. Ma nel 1950 vi fu un ulteriore sviluppo. Un ebreo polacco, un certo Leon Warm, emigrò dalla Polonia e strada facendo andò a far visita agli Hosenfeld nella Germania Occidentale. Uno dei figli di Hosenfeld scrive di Leon Warm: «Nei primi anni del dopoguerra mia madre viveva con mio fratello e mia sorella minori in una parte della nostra precedente residenza nella scuola di Thalau, una piccola località nella Rhòn. Il 14 Novembre 1950 si presentò da noi un simpatico giovane polacco che chiese notizie di mio padre conosciuto a Varsavia durante la guerra. «Durante il viaggio verso il campo di sterminio di Treblinka quest'uomo era riuscito ad aprire il portello, chiuso con del filo spinato, del carro bestiame in cui era rinchiuso con i suoi compagni di sventura. Poi è saltato giù dal treno in corsa. Ha incontrato nostro padre tramite una
famiglia di conoscenti di Varsavia. Mio padre gli ha fatto avere un lasciapassare con un falso nome e lo ha assunto come operaio al centro sportivo. Da allora lui aveva lavorato come chimico in Polonia e ora intendeva impiantare una sua ditta in Australia.» Quest'uomo, Leon Warm, apprese durante la sua visita resa a Frau Hosenfeld che suo marito era ancora vivo e che aveva ricevuto alcune lettere e cartoline da lui. Frau Hosenfeld gli mostrò persino un elenco di ebrei e di polacchi salvati dal marito e scritto su una cartolina postale datata 15 luglio 1946. Pregava sua moglie di mettersi in contatto con queste persone per chiedere aiuto. Il quarto nome sulla lista potè essere decifrato come Wladyslaw Szpilman, pianista alla Radio di Varsavia. Così Leon aveva cercato e trovato l'indirizzo del pianista e si era presentato a casa della sua famiglia. Tre membri di una famiglia di nome Cieciora hanno una loro storia da raccontare su Hosenfeld. Nei primi giorni del Blitzkrieg tedesco, si verificò la scena seguente. La moglie di un polacco, Stanislaw Cieciora, si recò in un campo di prigionieri di guerra a Pabianice, dove si diceva fosse rinchiuso il marito ferito, un soldato dell'esercito sconfitto. Probabilmente l'uomo temeva di essere ucciso dai vincitori. Durante il tragitto la donna incontrò un ufficiale tedesco in sella a una bicicletta. Questi le chiese dove stesse andando. Paralizzata dalla paura lei balbettò: «Mio marito è un militare. Si trova ammalato in quel campo. Presto avrò un figlio... temo per lui.» Il tedesco si annotò il nome dell'uomo e mandò indietro la donna promettendole: «Suo marito tornerà a casa entro tre giorni.» E così infatti fu. In seguito Hosenfeld andò a visitare, qualche volta, la famiglia Cieciora e strinse amicizia con loro. Questo tedesco straordinario cominciò a studiare il polacco. Poiché era un devoto cattolico a volte Hosenfeld andava addirittura in chiesa con i suoi nuovi amici, con indosso la divisa della Wehrmacht e assisteva alla funzione religiosa polacca. Che spettacolo! Un tedesco, correttissimo nella divisa degli assassini, si inginocchia davanti a un prete polacco, questo «schiavo appartenente a una razza inferiore» che posa sulla lingua di un tedesco l'ostia che rappresenta il corpo di Cristo. Una cosa tira l'altra. La famiglia Cieciora era in ansia per il fratello del marito, un prete del movimento clandestino ricercato dai tedeschi. Hosenfeld riuscì a salvare anche lui. E così pure salvò un conoscente
dei Cieciora tirandolo fuori da un camion militare. Io ho scoperto come si erano svolti questi due salvataggi in un racconto fattomi da una delle figlie del capitano Hosenfeld. «Nella primavera del 1973 ricevemmo la visita di Maciej Cieciora di Posnari. Suo zio, un prete cattolico, era stato costretto a mettersi in salvo dalla Gestapo dopo l'invasione tedesca nell'autunno del 1939. Mio padre, allora ufficiale incaricato agli impianti sportivi della città di Varsavia, di cui si era appropriata la Wehrmacht, lo salvò facendolo lavorare nel proprio ufficio sotto il falso nome di "Cichocki". Fu proprio padre Cieciora di cui egli presto divenne amico intimo, a far fare a mio padre conoscenza di Koschel, il cognato del religioso. «Maciej Cieciora ci ha raccontato che probabilmente nel 1943 i rivoltosi polacchi avevano ucciso dei soldati tedeschi nella parte di Varsavia in cui abitava la famiglia Koschel. Per questo motivo un'unità delle SS di stanza in quel quartiere aveva arrestato diversi uomini, incluso il signor Koschel, e li aveva caricati su un camion. Quei poveretti dovevano essere uccisi appena fuori della città in rivolta. «Per puro caso mio padre vide quel veicolo a un incrocio mentre stava attraversando il centro della città. Il signor Koschel riconobbe un ufficiale che lui conosceva sul marciapiede e gli fece cenni scomposti e disperati. Mio padre capì subito la situazione e con grande presenza di spirito si avvicinò e ordinò all'autista di fermarsi. Questi obbedì. "Mi serve un uomo", disse mio padre in tono perentorio al capo del gruppo di SS. Si avvicinò al camion, passò in rassegna i prigionieri e scelse, come a caso, Koschel. Questi fu lasciato scendere e così ebbe salva la vita.» Il mondo è piccolo. Oggi, otto anni dopo il crollo del blocco orientale, il figlio di Stanislaw Cieciora è console polacco ad Amburgo. Mi ha raccontato un aneddoto commovente. I suoi genitori, che vivevano a Samter-Karolin, avevano inviato come segno di riconoscenza ai figli di Hosenfeld, rimasti orfani di padre, pacchi dono contenenti burro e salame, dalla Polonia affamata alla Germania di Hitler, anche durante la guerra. E' proprio uno strano mondo! Leon Warm si mise in contatto con Szpilman a Varsavia, attraverso la Radio polacca, dandogli l'elenco dei nomi e delle persone salvate da Hosenfeld e trasmettendogli la sua pressante richiesta di aiuto. Questo accadeva circa mezzo secolo fa. Nel 1957 Wladyslaw Szpilman fece una tournée nella Germania Occidentale insieme con l'illustre violinista Gimpel. I due
musicisti si recarono a trovare a Thaiau la famiglia di Wilm Hosenfeld, la moglie Anne Marie e i due figli Helmut e Detlef. La signora diede a Szpilman una fotografia del marito, pubblicata in questo volume. L'estate scorsa, quando fu deciso che questo libro ormai quasi dimenticato sarebbe stato ristampato in tedesco, io domandai all'anziano signore di darmi qualche particolare sulla vicenda Hosenfeld. «Sa, non mi va di parlarne, non ne ho mai parlato con nessuno, nemmeno con mia moglie e con i miei due figli. Vuol sapere perché?» mi chiese. «Perché provavo vergogna. Vede, quando finalmente nel 1950 sono venuto a sapere qual era il nome dell'ufficiale tedesco, ho combattuto le mie paure, e ho superato il disgusto e sono andato come un umile questuante da un criminale con il quale nessuna persona decente in Polonia avrebbe voluto avere a che fare: Jakub Berman. «Berman era l'uomo più potente della Polonia a capo della NKWD polacca e, come tutti sapevano, un vero bastardo. Aveva poteri anche maggiori del ministro degli Interni. Ma io ero deciso a tentare e così mi sono presentato e gli ho raccontato tutto, aggiungendo che io non ero l'unico cui Hosenfeld aveva salvato la vita. Aveva salvato anche bambini ebrei all'inizio della guerra, comperato scarpe per i bambini polacchi e dato loro cibo. Gli ho anche parlato di Leon Warm e della famiglia Cieciora ponendo l'accento sul fatto che moltissime persone dovevano la vita a questo tedesco. «Berman si è mostrato disponibile e ha promesso di occuparsene. Dopo qualche giorno ha addirittura telefonato a casa nostra. Ha detto di essere dispiaciuto, ma di non poter far nulla. "Se il suo amico tedesco fosse ancora in Polonia potremmo tirarlo fuori, ma i nostri compagni dell'Unione Sovietica non lo vogliono liberare. Sostengono che il suo ufficiale apparteneva a un distaccamento che aveva a che fare con lo spionaggio. Quindi noi, in quanto polacchi, non possiamo far niente e io non ho alcun potere", ha concluso quest'uomo onnipotente grazie a Stalin. «Quindi io avevo avvicinato il peggior farabutto di tutta quella gentaglia, ma inutilmente.» Subito dopo la guerra in Polonia era impossibile pubblicare un libro che rappresentasse un ufficiale tedesco come un uomo coraggioso e generoso. Forse per i lettori può essere di qualche interesse sapere che nell'edizione polacca Wladyslaw Szpilman si era visto costretto a far passare per austriaco il suo salvatore tedesco