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13 Il teologo di Giotto
Sulla controfacciata, al di sopra della sommità ricurva dell’architrave del portale, sotto il grandioso affresco del Giudizio Universale, Giotto ritrae Enrico Scrovegni, la gamba sinistra genuflessa, nell’atto di offrire alla Madonna un modellino della Cappella: con la destra stringe la bianca piattaforma semicircolare in pietra d’Istria con quattro scalini, mentre la sinistra si protende verso la mano di Maria e arriva quasi a sfiorarla. È ritratto di profilo, con le sue vere sembianze. Due sculture presenti nella Cappella lo confermano. La prima è la statua orante che lo mostra in età ancora giovane ed è con buona probabilità coeva alla realizzazione della Cappella: scolpita a tutto tondo, colpisce per il realismo, la semplicità dell’impostazione, la composta sobrietà del panneggio. Oggi si trova in un posto non suo, nella nicchia all’interno della sacrestia, dove il pubblico non può accedere, ma un tempo doveva essere collocata all’interno della Cappella, in un punto non ancora individuato.1 La seconda è la maschera funebre utilizzata per il sepolcro dello Scrovegni e databile al mese di agosto del 1336, quando Enrico morì, esule, nell’isola veneziana di Murano. Giotto ritrae il padrone di casa con un elegante copricapo e una veste viola, simbolo liturgico di umiliazione e penitenza (è tuttora il colore dei paramenti sacerdotali nei riti funebri, comprese le cerimonie e messe in commemorazione dei defunti, e in tempo d’Avvento e di Quaresima). 194
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Monumento funebre di Enrico Scrovegni, particolare. Statua di Enrico Scrovegni, particolare. Giudizio Universale, particolare.
Anche questo particolare ha contribuito alla nascita dell’ipotesi che la Cappella sia stata commissionata per impetrare dal Cielo il perdono per le colpe del padre Rinaldo, che Dante, l’abbiamo ricordato più volte, pone tra gli usurai (Inferno XVII, 64-75). Abbiamo ampiamente dimostrato che ben altri erano gli intenti di Enrico. Al momento dell’uscita dalla Cappella, lo sguardo dei visitatori si posava sulla scena che lo vedeva «dialogare» con la Madonna e giungere quasi a «toccarla», ricevendone in cambio 195
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un dolce sorriso. Oggi si definirebbe una brillante operazione di marketing, cui non erano estranee, come sappiamo, personali ambizioni politiche. I padovani del tempo riconoscevano benissimo anche il religioso in ginocchio, che regge sulla spalla il modellino della Cappella. Nessun documento ufficiale, nessuna fonte ci aiutano oggi a identificarlo. Di lui non sappiamo nulla, tranne che questo è il suo preciso ritratto. Quanto al suo ruolo, potrebbe trattarsi o di un’autorità ecclesiastica locale, la cui presenza sottolineerebbe l’approvazione della Chiesa all’operato di Enrico Scrovegni, oppure del teologo che ha collaborato con Giotto all’impaginazione della Cappella. Non c’è spazio, a nostro avviso, per altre ipotesi, che pure sono state formulate dalla critica giottesca.2 La prima ipotesi è poco credibile, perché sarebbe logico aspettarci il ritratto della massima autorità religiosa cittadina, e cioè del vescovo Ottobono de’ Razzi, che aveva
Giudizio Universale, particolare.
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dato la sua approvazione al progetto prima di essere nominato patriarca di Aquileia (29 aprile 1302), o del vescovo Pagano della Torre, che gli subentrò e che era in carica nell’arco di tempo in cui furono eseguiti gli affreschi. Ultimamente è stata proposta l’identificazione con Altegrado de’ Cattanei, arciprete del collegio dei canonici del Capitolo della cattedrale di Padova nel marzo del 1303, quando vi fu la prima dedicazione della Cappella. Le motivazioni poggiano essenzialmente sul fatto che i paramenti sacri dipinti da Giotto presenterebbero analogie tipologiche con quelli presenti in una miniatura degli Statuti del Capitolo della cattedrale patavina e che i canonici indossavano in occasione di particolari solennità o durante il divino ufficio, e cioè una cotta bianca usque ad tallos (lunga fino ai talloni), zucchetto e cappuccio (almucia) foderato internamente d’azzurro.3 Questa argomentazione, però, non è decisiva. Il religioso indossa una veste liturgica solenne, come prova la cotta, che per la Chiesa è comunque esclusivamente bianca (perché il bianco è il colore di Dio, del Cristo risorto e degli eletti – Apocalisse di Giovanni 7, 1314) e fin dalla sua introduzione, nel corso del XIII secolo, si presenta maestosamente ampia e lunga fino a terra (manterrà tali caratteristiche fino al XVII secolo, quando, soprattutto per esigenze pratiche, fu progressivamente accorciata e arricchita con merletti e trine). Dalla cotta spuntano le tracce, appena visibili, di un cappuccio nero-blu, particolare che collega il religioso alla regola di sant’Agostino.4 La sua presunta appartenenza al collegio dei canonici della cattedrale non aggiunge invece granché: osservando la processione degli eletti (martiri, santi, notabili, religiosi e popolo) nel lato sinistro della controfacciata, si distinguono altri personaggi vestiti nello stesso modo: in particolare uno, il secondo da sinistra in primo piano, indossa anche lui l’ampia cotta bianca sopra una veste di colore azzurro e porta sul capo lo zucchetto (anche questo religioso ha un volto «vero» e la sua importanza è rilevata 197
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da un altro personaggio, alla sua destra in secondo piano, che lo sta fissando). Di altri religiosi si intravedono le teste, anch’esse con lo zucchetto. L’identificazione con Altegrado è smentita anche dalle notizie che conosciamo sulla sua vita. Nato a Lendinara in un anno imprecisato intorno alla metà del secolo XIII, forse da una famiglia di origini veronesi, aveva studiato a Bologna, ove fu poi docente di diritto canonico. Alcuni documenti attestano che era canonico di Ravenna nel 1294 e del Capitolo padovano nel 1296; eletto protonotario apostolico da Bonifacio VIII, era rimasto a Roma almeno fino al 1301, quando ricevette la nomina di arciprete della cattedrale patavina. Nel dicembre del 1303 papa Benedetto XI lo nominò vescovo di Vicenza, anche se la consacrazione fu ritardata almeno di qualche mese. La città berica era allora soggetta a Padova e la designazione di Altegrado rispondeva a evidenti fini politici, tant’è che nel 1311, quando Vicenza, con l’aiuto di Cangrande della Scala, si ribellò con successo al giogo patavino, il vescovo «fu costretto a fuggire travestito in preda al terrore (metu profugus, sub ignoto celatus habitu): evidentemente, nonostante tutto il suo zelo, non s’era mostrato il vescovo di tutti, bensì soltanto degli odiati Padovani».5 Tornato a Padova, vi morì tre anni dopo, il primo ottobre del 1314 e fu sepolto nella chiesa domenicana, oggi scomparsa, di Sant’Agostino.6 Di Altegrado, giurista esperto e stimato, non si conoscono né opere né titoli: è nota soltanto una sua opinione in materia di adulterio.7 Sono invece documentati i suoi rapporti con la potente famiglia Scrovegni, ampiamente giustificati «anche» dal suo ruolo «politico». Altegrado non è un teologo ed è difficile pensare che potesse esercitare un influsso sulla definizione del programma della Cappella di Giotto. Ma c’è un altro elemento decisivo per escludere tale identificazione. Il religioso che regge sulla spalla destra il modellino della Cappella è un personaggio vero, che i contemporanei ri198
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conoscevano, ma di cui si è persa la memoria. Che età ha quest’uomo, di cui si vedono soltanto il profilo e la mano sinistra? Gli elementi a nostra disposizione sono i capelli castani, con lievi sfumature verso il biondo, e il volto solcato da rughe sia sulla fronte, sia ai lati dell’occhio (le cosiddette «zampe di gallina»). Non si tratta di rughe d’età: lo si può escludere sia per il contrasto con i capelli sia per l’assenza del solco labio-mentale. L’insieme fa propendere per un uomo giovane, tra i trenta e i quarant’anni, ma Altegrado, la cui nascita è posta intorno alla metà del secolo XIII, avrebbe avuto nel 1303 almeno cinquant’anni (o addirittura sessanta, se valesse l’ipotesi che la anticipa al 1242).8 Con quelle rughe d’espressione, che evocano quelle dipinte sul volto del maestro di tavola nel riquadro delle Nozze di Cana, Giotto intende evidenziare, con il consueto realismo e forse anche con un pizzico di sorridente ironia, la trepidazione con cui il religioso attende il giudizio della Madonna, di san Giovanni e di santa Caterina d’Alessandria sul «contenuto» della Cappella, di cui ha l’onere «metaforico» di reggere tutto il peso. È l’ipotesi più credibile: il religioso sulle cui spalle Giotto pone il modellino della Cappella è colui al quale Enrico Scrovegni ha affidato il compito di ideare il programma teologico della cappella degli Scrovegni, colui che ha suddiviso lo spazio e impaginato il tutto, operando in stretta collaborazione con Giotto. La valenza simbolica dell’immagine è inequivoca: quel religioso, ci sta dicendo Giotto, è l’ideatore del «suo» capolavoro. L’artista toscano, all’apice della fama e consapevole del proprio talento e della radicale innovazione che sta apportando all’arte del suo tempo, sta rendendo omaggio a chi ha impostato, anche nei minimi dettagli, quel programma sacro, la cui realizzazione ha comportato quasi due anni di lavoro a lui e alla sua numerosa e qualificata bottega. Giotto ha tra i trentasei e i trentotto anni, pressappoco la stessa età dell’ignoto, cui tributa gli onori dovuti a un maestro. 199
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Ma chi è costui? Il tempo e l’oblio ne hanno oscurato l’identità, ma i dati in nostro possesso ci consentono di tracciarne un identikit abbastanza preciso: è un religioso; indossa paramenti liturgici solenni; ha tra i trenta e i quarant’anni; è un teologo raffinato, che mostra di padroneggiare non solo l’Antico e il Nuovo Testamento, i vangeli apocrifi e gli scritti dei Padri della Chiesa, ma anche commenti e testi antichi, tardo antichi o della tradizione medievale, antica o recente (come il Fisiologo, le Meditationes dello Pseudo-Bonaventura, la Legenda aurea). È uno studioso di rigorosa formazione agostiniana, che si muove con disinvoltura anche in un ambito filosofico classico (Cicerone, Seneca). Il contesto in cui agisce è tra i più colti e stimolanti d’Europa. Padova è in questi anni un centro culturale d’eccellenza, dove si studia e si dibatte, talora con spregiudicatezza, il pensiero degli antichi. L’università, fondata nel 1222, vanta ottant’anni di vita. È il momento glorioso del preumanesimo padovano, che vede la compresenza di personalità come Lovato de’ Lovati, Albertino Mussato, Pietro d’Abano e Marsilio da Padova.9 In città erano da tempo attive anche alcune importanti scuole teologiche (la più antica era ovviamente legata alla cattedrale) e non si può neppure escludere l’esistenza di una facoltà teologica coeva alla nascita dell’università.10 I primi maestri operarono probabilmente nel monastero domenicano di sant’Agostino, dove avrebbe insegnato nel 1228-29 anche Alberto Magno, ma centri altrettanto importanti furono la scuola dei frati minori conventuali di sant’Antonio nel convento di S. Maria Mater Domini o S. Marie Dei Genitricis ubi quiescit s. Antonius (dove operava il beato Luca Belludi, che risulta essere ancora vivo nel 1285) e il monastero dei frati eremitani di sant’Agostino, con la chiesa dedicata ai santi Filippo e Giacomo, dove, a un passo dal palazzo dello Scrovegni e dall’annessa cappella, sullo scorcio del Trecento è ricordata la presenza di teologi illustri.11 200
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È verosimile che Enrico Scrovegni, ottenute le dovute autorizzazioni, abbia richiesto a un’autorità o a una comunità religiosa che gli fosse indicato un ecclesiastico in grado di concepire il programma sacro che aveva deciso di affidare all’esecuzione di Giotto e della sua bottega. In città, dicevamo, c’erano scuole teologiche importanti e maestri di reputata dottrina. Una di queste era proprio a un passo dall’erigenda cappella, nel confinante monastero dei frati eremitani. Niente di più facile dunque, se non altro per ragioni di buon vicinato, che Enrico Scrovegni si rivolgesse a loro e che un agostiniano eremitano fosse incaricato di elaborare il programma. La fama degli Eremitani era già prestigiosa all’epoca e tale rimase anche nei secoli successivi, tanto che il Portenari, nel 1623, scriveva: Non cede il monastero de gli Heremitani ad alcun altro della città di Padova in haver prodotto huomini chiarissimi, e dottissimi in tutte le scienze che sono stati, e sono lo splendore, e l’ornamento della patria. Imperoche ha havuto Cardinali, Vescovi, Generali, & altri prelati dell’Ordine, Teologi, Filosofi, Predicatori, e Lettori famosissimi nelli Studij publici di Europa.12
L’Ordine degli eremitani di Sant’Agostino era nato ufficialmente nel marzo del 1256 a Roma, quando nella chiesa di Santa Maria del Popolo si riunirono, per volere di papa Alessandro IV, i delegati delle grandi congregazioni eremitiche agostiniane e di altri istituti di minore consistenza, che approvarono la costituzione di un unico grande ordine. Il 9 aprile successivo, con la bolla Licet Ecclesiae catholicae il papa sanciva la nascita di una nuova famiglia religiosa, chiamata «Ordine dei frati eremiti di S. Agostino», che fu annoverata tra gli Ordini «mendicanti» o «di fraternità apostolica», sul modello dei francescani e dei domenicani, già sorti da alcuni decenni e approvati dalla Chiesa. 201
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La presenza nell’area dell’antica Arena romana di Padova di una chiesa dedicata ai santi Filippo e Giacomo è attestata in alcuni documenti della prima metà del Duecento. Altri informano dell’esistenza di un monastero di Santa Maria della Carità dell’Arena. Pochi anni dopo l’emanazione della Licet Ecclesiae, una lapide murata sull’abside della chiesa attuale di San Filippo e Giacomo, ancor oggi visibile, fissa la data del primo maggio 1264 come momento fondante del nuovo edificio religioso: Hec capella fundata fuit anno Domini millesimo CC LXIIII die prima Madii. Nel 1275 la chiesa e l’annesso monastero presero ufficialmente il nome dei santi Filippo e Giacomo, perdendo quello di Santa Maria della Carità (che fu poi trasferito alla vicina Cappella degli Scrovegni).13 Nello studio teologico degli eremitani operava in quegli anni un religioso di grande carisma, passato alla storia come Alberto da Padova o Alberto eremitano, che è il primo citato dal Portenari tra i grandi maestri eremitani (riprendiamo la testimonianza da dove l’avevamo lasciata): […] e Lettori famosissimi nelli Studij publici di Europa, tra li quali li seguenti sono di gran grido. Alberto Padovano d’honorata famiglia prese abito dell’Ordine Heremitano di S. Agostino in Padova l’anno 1293 il giorno di S. Marco a di 25 di Aprile [e nella nota a margine scrive di aver attinto la notizia ex Manuali pergamena antiqua eiusdem monasterii]. Studiò a Parigi le humane, e le sacre lettere, hebbe precettore Egidio Colonna Romano Dottore celebratissimo discepolo di S. Tomaso d’Aquino, che fu poi fatto da Bonifacio VIII Arcivescovo Bituricese, e Primate d’Aquitania, & anco fu designato Cardinale, ma non publicato per essere stato prevenuto dalla morte. Sotto dunque la disciplina di tanto Maestro Alberto divenne dottissimo in Filosofia, Metafisica, e Teologia, quali scienze lesse anco molti anni nello Studio publico di Parigi. Fu naturalmente inclinato all’arte del dire, onde fece profitto mirabile nelle predicationi, e fu il primo, che ritrovasse la 202
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bella maniera di predicare, & in questa professione diventò tanto eccellente, che papa Bonifacio VIII lo chiamò in Italia per udirlo. Ritornato poi in Francia si diede a scrivere molte opere sacre. Morì in Parigi all’età di quarantasei anni il giorno secondo di Aprile [e anche qui fa riferimento nella nota a margine a un’antica pergamena a mano del monastero degli eremitani a Padova], e fu sepelito nella chiesa di S. Agostino di Parigi del suo Ordine, e lasciò tanta celebrità di nome sì per la sua santa vita, sì per la grandezza del suo sapere, che li Padovani a singolare ornamento, & immortal decoro della patria loro gli eressero una statua sopra una delle quattro porte del palazzo del pretorio con quello elogio magnifico, che habbiamo riferito nel capitolo sesto del libro sesto.14
La testimonianza del Portenari, avvalorata dal rinvio a una pergamena originale del monastero degli eremitani, è da incrociare con notizie che ci vengono da altre fonti. Ossinger, per esempio, riferisce che Alberto indossò l’abito agostiniano degli eremitani il 25 aprile del 1285 (coincide quindi la data 25 aprile citata dal Portenari, che però parla del 1293), all’età di sedici anni.15 Di qui si ricava con buona attendibilità il suo anno di nascita, 1269.16 Concluso il prescritto anno di noviziato, i superiori lo mandarono a Parigi a frequentarvi quella prestigiosa scuola di teologia, dove insegnava tra gli altri un celebre maestro, Egidio Colonna, più noto come Egidio Romano. Qui Alberto prese il dottorato e mise nel contempo in luce un così straordinario talento oratorio, che papa Bonifacio VIII – particolare importantissimo – lo chiamò a Roma a predicare alla presenza sua e del collegio cardinalizio e lo nominò predicatore apostolico.17 La sua vita scorreva tra l’insegnamento (in numerose città italiane, prima fra tutte Padova, e infine a Parigi, sede fissa del suo insegnamento dopo il 1318), la stesura delle sue numerose opere e la predicazione, in cui eccelleva al punto che i contemporanei vedevano in lui un novello san Paolo.18 Un regesto inedito del 203
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Fondo degli Eremitani, conservato nell’Archivio di Stato di Padova, attesta che il 19 marzo del 1316 Alberto era nella sua città natale e rivestiva il ruolo di lector fratrum Heremitarum, cioè di colui che insegnava e commentava ai fratelli le Sacre Scritture.19 Un suo allievo, Giordano di Sassonia (Jordan von Quedlinburg), un religioso tedesco, nato forse nel 1299, che fu tra i più insigni esponenti dell’Ordine eremitano agostiniano, nonché a sua volta scrittore autorevole (la sua opera principale è il Liber Vitasfratrum, ampio trattato sulla vita agostiniana, illustrata con esempi tratti dalla vita dei religiosi dell’Ordine distintisi per santità), testimonia che Alberto era lettore e baccelliere nello studio generale agostiniano di Bologna tra il 1317 e il 1318: quanti elogi e insieme quanto rimpianto per il maestro che l’anno dopo, 1318-1319, sarebbe andato a insegnare a Parigi e che lo stesso Giordano avrebbe poi deciso di seguire.20 Vasta eco destò l’insegnamento di Alberto nell’ateneo parigino, tant’è che nel 1668 è ancora annoverato tra i docenti più insigni di quell’università.21 «L’aver insegnato con tanto plauso a Parigi ci fa ritenere che a Padova non abbia atteso esclusivamente alla predicazione, ma abbia illustrato anche la cattedra teologica del suo monastero. Era questo del resto lo scopo per cui i religiosi si portavano all’università di Parigi per diventar poi nelle scuole della loro patria largitori generosi dei saperi di cui si erano arricchiti».22 Alla sua morte, che le fonti letterarie fanno oscillare tra l’aprile del 1323 e il luglio del 1328,23 i concittadini, che lo salutavano studiorum columna as summus reipublicae Christianae splendor, gli attribuirono solenni onoranze e riconoscimenti, considerandolo una delle loro glorie più grandi, come attesta il cronista padovano Michele Savonarola.24 Nel Calendario dei morti per le celebrazioni liturgiche, conservato in un registro inedito del Fondo degli Eremitani, trova conferma che la scomparsa di Alberto avvenne nel mese di aprile dell’anno 1328 (o 1329). Sotto la sigla APL (Aprilis), si leggono infatti queste 204
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parole, vergate in un’elegante grafia gotica: Obitus Reverendi Magistri Fratris Alberti de Padua Sacre Pagine Dignissimi Professoris.25 Nel 1420, quasi un secolo dopo la sua scomparsa, un incendio disastroso colpì il Palazzo della Ragione, cancellando per sempre il ciclo astrologico giottesco. La città, che nel 1405 era stata conquistata da Venezia ed era entrata a far parte della Serenissima Repubblica di san Marco, reagì elevandolo ancora più imponente, nelle dimensioni attuali. Alle quattro porte che si aprivano sulle due logge esterne i padovani decisero di porre i bassorilievi di quattro concittadini che incarnavano esemplarmente la grandezza e la tradizione della città: la scelta cadde su due antichi, Tito Livio, celeberrimo storico di Roma, e Giulio Paolo, importante giurista dell’età dei Severi (I metà del III secolo d.C.), e due moderni, Pietro d’Abano e, appunto, Alberto eremitano. Il rilievo collocato sulla porta ovest della loggia settentrionale, probabilmente opera di uno scultore di scuola emiliana del primo quarto del XV secolo, ritrae Alberto in uno studiolo con un libro aperto in mano, su cui a lettere capitali è scritto il versetto 3 del Salmo 106 (105): Beati qui custodiunt iudicium et faciunt iusticiam in omni tempore (Beati coloro che osservano il giudizio e praticano la giustizia in ogni tempo). Nell’iscrizione posta sotto l’immagine si ricordano le sue grandi qualità di uomo e di religioso e come rifulse tra i contemporanei per la sua competenza teologica e le doti di predicatore.26 I suoi numerosi scritti teologici ed esegetici ebbero varie edizioni a stampa in tutta Europa a partire dal 1476, quando uscì a Venezia l’Expositio evangeliorum dominicalium et festorum. Dalla lettura dei suoi sermoni si colgono ancor oggi la vastità delle conoscenze dottrinali e l’incisività dell’eloquio. Alberto nutriva una devozione particolare per la Santa Vergine. Nel 1648 Pedro de Alva y Astorga gli rivendica il merito di aver introdotto nella Chiesa cat205
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Fra Alberto eremitano, Padova, Palazzo della Ragione.
tolica l’uso di iniziare le prediche con l’Ave Maria, il saluto angelico alla Madonna,27 da Alberto definita «oriens Aurora, ex qua processit Sol iustitiae» («aurora nascente, da cui sorse il Sole della giustizia»).28 Nessun documento, nessuna notizia collegano Alberto alla vicina Cappella degli Scrovegni. Non abbiamo prove per identificarlo come il teologo ispiratore di Giotto, ma gli indizi non mancano. Stiamo cercando un agostiniano, dotato di una grande preparazione dottrinale e di una ric206
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ca cultura generale, attivo verosimilmente nel vicino monastero degli eremitani e di età compresa tra i trenta e i quarant’anni (come si deduce dal ritratto giottesco). Alberto da Padova, principe dei teologi, è un frate agostiniano eremitano, è nato verosimilmente intorno al 1269 e ha dunque poco più di trentacinque anni all’epoca in cui Giotto conclude la decorazione della Cappella. La sua fama era già consolidata, se è vero che Bonifacio VIII (che fu papa dal 1295 al 1303) lo aveva invitato, ancor giovane, a predicare alla corte papale. Quest’ultimo particolare, dicevamo, è di grande interesse per noi, perché crea un collegamento esplicito con il Giubileo del 1300, e dunque con quelle istanze di riconciliazione, di giustizia, di nuova fratellanza tra gli uomini che sono alla base del programma della Cappella. Altro dato significativo è la sua devozione per la Madonna, che è comune in questa età, ma che in lui, come testimonia Pedro de Alva, è particolarissima. Nella Cappella intitolata a santa Maria della Carità il culto mariano è testimoniato non solo dal primo registro, dove si raccontano le storie dei genitori di Maria e la vita della Vergine fino al matrimonio con Giuseppe, ma anche dagli affreschi dell’abside, in cui un ignoto pittore, il cosiddetto Maestro del coro Scrovegni (1320 circa.), descrive le vicende della Madonna dopo l’Ascensione di Cristo fino al momento della sua Assunzione e Incoronazione. Se tanti indizi convergenti fanno una prova, il teologo della Cappella degli Scrovegni potrebbe essere il principe dei teologi della sua epoca, Alberto da Padova. Tutta l’impostazione della Cappella degli Scrovegni, lo abbiamo più volte evidenziato, è rigorosamente agostiniana, compresa la preferenza accordata, nella narrazione dei medesimi episodi delle storie di Gesù, al Vangelo di Giovanni rispetto a quelli sinottici (esemplari, in tal senso, il Battesimo di Cristo, l’Ultima cena e il Noli me tangere). La stessa scelta degli episodi evangelici risponde a criteri ben individuabili e in sintonia con lo spirito giovanneo (le Nozze di 207
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Cana, la Resurrezione di Lazzaro, la Lavanda dei piedi sono solo in Giovanni). Quel Vangelo di Giovanni che per sant’Agostino vede la luce della verità immutabile con gli occhi acutissimi e sicurissimi del cuore e più di ogni altro descrive «il mistero della divinità di Cristo, attingendolo dallo stesso petto del Signore sul quale nella cena gli fu consentito di reclinare il capo».29 Sulla scia di Agostino, Alberto afferma che Giovanni spicca tra gli evangelisti nella profondità dei divini misteri e lo paragona all’aquila che vola più in alto di tutti gli uccelli e riesce a reggere la vista dei raggi del sole.30 Altro significativo elemento è la frequenza con cui negli scritti di Alberto si interpretano in chiave allegorica e di prefigurazione vari episodi dell’Antico Testamento, secondo lo schema, di ascendenza agostiniana, che nella Cappella degli Scrovegni ispira i dieci quadrilobi della parete nord. Un esempio. Alberto interpreta in chiave prefigurativa la genealogia di Gesù nel primo capitolo del Vangelo di Matteo, e a proposito della nona generazione (Aminabad generò Naason) scrive che il nome di quest’ultimo, che guidò le tribù di Giuda quando lasciarono l’Egitto e per primo fece loro attraversare il mar Rosso, significa «serpentino». Di lì, prosegue Alberto, derivano l’immagine del serpente salvatore e la sua identificazione con Gesù: «Serpentino è Cristo, perché come un serpente fu appeso al legno, perché chiunque guardi a lui sia salvo. Lui stesso attraversò il mar rosso della passione e liberò i fedeli dalla schiavitù del diavolo».31 È il motivo del quadrilobo del serpente di bronzo, che abbiamo visto posto nella Cappella degli Scrovegni tra L’Ascesa al Golgota e la Crocifissione. C’è infine l’uso introdotto da Alberto di recitare l’Ave Maria prima di commentare la sacra scrittura, pratica che fu adottata dagli agostiniani: e sul leggio di sant’Agostino – particolare che assume ora un significato nuovo e decisivo – troviamo scritta proprio un’Ave Maria. Un secolo dopo la morte i padovani lo considerano uno 208
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dei quattro figli illustri della città e lo affiancano a due antichi, Tito Livio e Giulio Paolo, e a un contemporaneo, Pietro d’Abano, lo studioso «laico», la cui vicenda fu segnata anche da accuse di magia. Pietro impostò il programma astrologico eseguito da Giotto proprio nel Palazzo della Ragione: un altro padovano, frate Alberto eremitano, fu secondo noi il geniale ideatore di quello della Cappella degli Scrovegni. È lui il religioso ritratto da Giotto con il modellino della Cappella sulla spalla. È lui che trepida in attesa del giudizio di santa Caterina d’Alessandria. Santa Caterina d’Alessandria Osserviamo il volto della Madonna nella scena in cui Enrico Scrovegni le dedica il modellino della cappella. È lo stesso di quando Gabriele le dà l’annuncio, di quando, incinta, si reca in visita da Elisabetta, di quando guarda il suo bambino nella notte di Betlemme. Il tempo dell’eterno fissa il senso della sua esistenza terrena: essere madre di chi viene in nome di Dio a riscattare l’umanità dal peccato. Ai lati di Maria ci sono san Giovanni, anche lui eternamente giovane, e santa Caterina d’Alessandria. L’identificazione di quest’ultima è certa, perché nella Cappella degli Scrovegni tutto ha un senso perfetto (cfr. fig. 26). Martirizzata secondo la tradizione il 25 novembre del 305, il culto di santa Caterina ebbe subito grande diffusione nel mondo cristiano. La sua popolarità si accrebbe ulteriormente in Europa quando, nella prima metà del secolo XI, le sue reliquie furono trasportate nel monastero benedettino di La-Trinité-au-Mont, vicino a Rouen, divenendo oggetto di venerazione per i prodigi di cui erano accreditate.32 Caterina apparteneva a una nobile famiglia. Giovane coltissima e di vivaci qualità intellettuali, sfidò Massimino 209
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Daia, governatore di Egitto e di Siria, rifiutando di partecipare alla celebrazione del sacrificio rituale in onore dell’imperatore Massenzio e invitando piuttosto Massimino a convertirsi. Colpito dalla determinazione della vergine, e dalla sua straordinaria bellezza, il governatore la fece condurre a palazzo e affidò a cinquanta retori e filosofi pagani l’incarico di convincerla dell’errore della sua fede. Ma la sapienza della giovane trionfò sugli anziani maestri, che si convertirono a Cristo e affrontarono il martirio. Né valsero a piegarla lusinghe e torture; mandata a supplizio, le ruote dentate che dovevano straziarla si spezzarono miracolosamente. Gli aguzzini ne spensero la vita decapitandola. Gli angeli trasportarono il corpo di Caterina sul monte Sinai, dove ancor oggi l’altura vicina alla Montagna di Mosè (gebel Musa) porta il suo nome (gebel Katherin) e sovrasta il cenobio a lei consacrato.33 La sapienza e la fermezza di Caterina divennero la personificazione del trionfo del cristianesimo non solo sui culti pagani, ma anche sul loro retaggio culturale. Fin dal primo Medioevo gli ambienti più culturalmente elevati della società la elessero a loro patrona e la santa fu accolta come particolare protettrice degli studenti di filosofia e di teologia. Sul sigillo della Sorbona è tuttora impressa la sua immagine e il giorno della sua festa, il 25 novembre, era scelto per la discussione delle tesi di laurea, che in suo onore erano chiamate catherinettes.34 Nelle vicinanze dell’università parigina c’era la chiesa a lei consacrata, frequentata da maestri e studenti. Venerata dai benedettini, anche gli Ordini mendicanti, che fin dalla loro costituzione mostrarono particolare attenzione agli studi nei più diversi campi, la scelsero come patrona dei loro centri di cultura e contribuirono a un’ulteriore diffusione del suo culto in tutta Europa. All’interno degli Ordini mendicanti, la santa fu oggetto di grande venerazione da parte di domenicani e agostiniani.35 Molti artisti la ritrassero nei secoli, prevalentemente su 210
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committenza agostiniana:36 gli elementi caratterizzanti della sua iconografia sono la corona regale sul capo, la palma del martirio, il libro in mano, gli abiti raffinati ed eleganti, una duplice ruota, generalmente vista nel momento in cui si spezza, o una sola ruota o una sua parte, posta accanto alla sua figura (particolare così diffuso che le è valso la definizione di santa Caterina della ruota). Quando non è ritratta da sola, appare solitamente in un contesto di «conversazione tra santi», in atto di adorare Cristo o di venerare la santa Vergine. Ne testimoniano la popolarità le diverse versioni della sua storia nei dialetti ligure, veronese, franco-veronese, toscano, abruzzese, umbro, e anche tosco-venetolombardo e umbro-senese. Le sue vicende ispirarono una vasta produzione letteraria e drammatica, con canti, laudari, sacre rappresentazioni. Il 25 novembre, giorno del martirio della santa, assunse in varie regioni europee le caratteristiche di una festa dedicata ai giovani (Caterina era anche patrona delle nubili, perché solo le ragazze non maritate potevano coronarne di fiori la statua, in ricordo del suo sposalizio mistico con Dio). In vari ospedali furono erette cappelle in suo onore, perché nell’ultima preghiera prima di porgere il collo al carnefice aveva chiesto a Dio di allontanare ogni malattia da chi l’avesse invocata.37 La presenza di santa Caterina accanto alla Madonna e a san Giovanni è dunque giustificata dal suo ruolo di patrona dei filosofi e dei teologi, e in tal senso anche degli ordini agostiniani. Alla santa è dedicato all’interno della Cappella il piccolo altare laterale, che si trova sulla destra della parete dell’arco trionfale, guardando in direzione dell’abside.38 Ora comprendiamo anche il gesto della santa, che poggia rassicurante la mano sul tetto del modellino della cappella, a significare la sua approvazione al programma teologico della Cappella e a togliere qualunque trepidazione ad Alberto.
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14 Il Giudizio Universale
Il Giudizio Universale occupa tutta la controfacciata (cfr. fig. 10). Al centro esatto c’è la mandorla iridata con Cristo Giudice. Ai due lati i dodici apostoli, seduti in trono, creano un piano che taglia la scena in orizzontale: nella parte superiore Giotto dipinge le schiere angeliche, in quella inferiore, a destra, l’orrore dell’Inferno e, a sinistra, due processioni di eletti disposte in parallelo su piani sovrapposti. La grande croce crea una linea verticale che prosegue idealmente fino alla vetrata centrale della grande finestra trilobata, simbolo della trinità divina. In alto due angeli stanno arrotolando il cielo, come fosse un tappeto, mostrando in tutto il loro splendore le porte della Gerusalemme celeste. Sulla croce una tabella porta questa iscrizione a caratteri d’oro: «Hic est Jesus Nazarenus rex Iudeorum», «Costui è Gesù Cristo Nazareno, re dei Giudei», formula attestata solo in opere di Cimabue e che appare anche sulla croce lignea che Giotto realizzò per la Cappella e che si trova ora nel vicino Museo Civico agli Eremitani. Ai piedi della croce, come abbiamo visto, Enrico Scrovegni porge alla Madonna, accompagnata da san Giovanni e santa Caterina d’Alessandria, il modellino della Cappella, poggiato sulla spalla di un religioso in cotta bianca, il teologo ispiratore di Giotto, frate Alberto da Padova. In basso si aprono le tombe e fuoriescono i defunti, nudi, già in carne e ossa, destati dallo squillo delle lunghe trombe 215
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con cui quattro angeli, ai quattro punti estremi della mandorla di Cristo, annunciano l’ora solenne del giudizio. Il riferimento evangelico alla fine del mondo e al Giudizio Universale è nei capitoli 24 e 25 del Vangelo di Matteo. Gli apostoli sono appena usciti dal tempio di Gerusalemme quando Gesù annuncia loro che non ne sarebbe rimasta pietra su pietra. Poco dopo, sul Monte degli Ulivi, rivela loro l’ininterrotta catena di catastrofi e di lutti che un giorno s’abbatterà sulla terra e porterà alla catastrofe finale. Subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, gli astri cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte. Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli con una grande tromba e raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli (24, 29-31).
In quel momento Cristo si manifesterà in tutta la sua potenza: Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti ab216
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biamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». Rispondendo, il re dirà loro: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Poi dirà a quelli alla sua sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito?». Ma egli risponderà: «In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me». E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna (25, 31-46).
In Matteo c’è l’essenziale per la creazione di un codice di immagini: il tribunale celeste con gli angeli e il giudice supremo, Cristo in trono, che accoglie gli eletti alla sua destra premiandoli con il regno preparato per loro fin dalla creazione del mondo, e allontana da sé i reprobi facendoli scorrere alla sua sinistra e precipitandoli nelle pene eterne di quel fuoco che già era predisposto per tormentare il diavolo e gli angeli ribelli. Un apporto marginale per la storia figurativa del Giudizio Universale ha invece l’Apocalisse di Giovanni (20, 11-15): Vidi poi un grande trono bianco e Colui che sedeva su di esso. Dalla sua presenza erano scomparsi la terra e il cielo senza lasciar traccia di sé. Poi vidi i morti, grandi e piccoli, ritti davanti al trono. Furono aperti dei libri. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri, ciascuno secondo le sue opere. Il mare restituì i morti che 217
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esso custodiva e la morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere. Poi la morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E chi non era scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco.
La percezione stessa dell’Apocalisse in epoca medievale è diversa dalla nostra, perché allora vi si leggeva la rivelazione simbolica del millennio, l’arco temporale che inizia con la fondazione della Chiesa e si conclude escatologicamente con il ritorno di Cristo e la fine del mondo. Nell’alto Medioevo il Giudizio Universale coincideva con la resurrezione e la gioia della vita eterna, e il cristiano vi si preparava praticando una fede attenta e continuamente rinnovata, per evitare che la morte lo cogliesse nel peccato e gli fosse pregiudicata la possibilità della salvezza. La paura di rimanere esclusi dalla Chiesa era così forte, che l’espiazione stessa dei peccati non aveva nulla di simbolico, ma avveniva attraverso penitenze umilianti e talora gravose, non di rado scontate in pubblico, come pubbliche erano spesso anche le confessioni. La morte era sentita come liberazione dai travagli dell’esistenza e la fine del mondo come trepida attesa del premio assegnato ai fedeli dalla giustizia divina. Per questo le rappresentazioni del Cristo Giudice e del Giudizio Universale furono in Occidente relativamente tarde (IX secolo) e assai meno ricorrenti rispetto a quelle del Cristo Trionfante, la cosiddetta Maiestas Domini, il soggetto più ampiamente frequentato dagli artisti medievali. Un cambiamento epocale di mentalità e di rapporto con il divino si verificò intorno all’anno Mille e assunse proporzioni sempre più evidenti nei secoli successivi, fino a tutto il Trecento. Il fenomeno è molto complesso e va di pari passo con la trasformazione del cristianesimo in una religione popolare, più ingenua e più rozza, facile preda di 218
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suggestioni e presenze miracolistiche. Si aveva la sensazione che le forze del male si stessero imponendo nel mondo e l’umanità si dibattesse in un oscuro deragliamento morale. I giusti ora erano ben pochi e l’unica speranza era l’imperscrutabile misericordia divina. La società del basso Medioevo guarda alla morte con paura, teme il giorno del Giudizio e le parole di Cristo: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli!». Le rappresentazioni del Giudizio Universale si intensificarono intorno al Mille, specie nelle miniature e nelle decorazioni di testi liturgici. Nelle chiese furono inizialmente collocate sulla controfacciata, per fungere da monito (o da intimidazione) ai fedeli all’uscita dal tempio, ma con l’avvento dell’arte gotica (XII e XIII secolo) si spostarono di norma sulle facciate: Notre-Dame a Parigi o la cattedrale di Amiens ne danno ancor oggi mirabile testimonianza. Il Giudizio Universale di Giotto sulla controfacciata della Cappella degli Scrovegni è la più straordinaria rappresentazione di questa umanità e di questa sensibilità. L’Inferno La croce separa in verticale lo spazio dei giusti da quello dei reprobi. Un fiume di fuoco, diviso in quattro braccia che squarciano d’una luce sinistra il regno di Satana, si stacca dalla mandorla iridata del Cristo e trascina all’ingiù, con la violenza di un vortice, i dannati, nudi, abbrancati e straziati da diavoli irsuti e orrendi. Un gigantesco, osceno Lucifero domina la scena: dalla bocca gli pende la parte posteriore di un uomo che sta ingurgitando, un altro gli fuoriesce dall’ano. È l’orco disgustoso delle favole! Il suo colore, come quello di tutti i diavoli, è il blu ciano, il blu nerastro della morte (lo ritroviamo anche nel Satana del 219
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Giudizio Universale della basilica dell’isola veneziana di Torcello). Siede su due draghi che addentano e ingoiano altri corpi. Dalle orecchie gli fuoriescono serpenti che a loro volta afferrano e addentano i dannati, uno dei quali – ma la scena si legge a malapena per i danni subiti dall’affresco – pare avere in testa una tiara papale. Tutt’intorno è un’orgia di orrori, con uomini e donne sottoposti a torture così efferate che indurrebbero gli inesperti a supporre nel pittore componenti sadiche, mentre in realtà si tratta di tormenti e modalità di esecuzione ampiamente praticati in quell’epoca. Le nudità maschili e femminili sono rappresentate con un realismo crudo e un’evidenziazione inusuale degli organi sessuali. Impressionante l’abilità con cui Giotto dipinge i corpi di scorcio, a testa in giù, di sbieco o piegati in avanti, in un fluire inesausto e inesauribile. Alcuni peccati sono chiaramente indicati, altri invece sono suggeriti dalle pene attraverso allusioni simboliche o per contrappasso: nello spazio tra le prime due lingue di fuoco ci sono dannati con al collo un sacchetto bianco, a sottolinearne l’avidità e l’attaccamento al denaro (cfr. In drammatica solitudine, poco sotto un gruppo di impiccati, Giuda Iscariota è appeso per il collo, le braccia abbandonate penzoloni, come se il suicidio della disperazione lo marchiasse per l’eternità: unico fra i dannati indossa una veste bianca che si apre sul davanti e scopre il ventre squarciato e gli intestini penzolanti. Colpevoli di lussuria sono probabilmente il monaco cui un diavolo sta strappando i genitali con una tenaglia, o il religioso addentato al pene da un lucertolone, o quello che sta pattuendo una prestazione con una prostituta (il suo peccato terreno, che pare continuare anche all’Inferno cfr. fig. 14) mentre un diavolo lo afferra per i capelli e un altro gli strazia la schiena con uno strumento irto di lunghe punte metalliche. La medesima colpa pare riguardare la donna e il religioso appesi a testa in giù, con ganci che li artigliano nei genitali. Accanto a loro una donna e un uomo 220
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sono ugualmente appesi, lei per i capelli, lui per la lingua. La gola potrebbe essere il peccato della donna cui un diavolo versa nella bocca un liquido o dell’uomo infilato in uno spiedo che gli penetra dalla bocca e gli fuoriesce dall’ano, mentre un diavolo gira la manovella del girarrosto (cfr. fig. 12). Lì accanto, le braccia legate in alto a due pali, un dannato è tranciato in due da una sega da falegname che gli ha squarciato in verticale la testa ed è arrivata a intaccare il petto (cfr. fig. 13). Una donna si aggrappa disperatamente al bordo esterno della fossa infernale, ma è arpionata da un raffio, mentre un altro diavolo la strattona tirandola giù per una gamba. Le è vicino un uomo, ancora vestito e incappucciato, riverso supino a terra e trascinato per un braccio, mentre altri due diavoli, sul ciglio roccioso esterno, sfilano il camiciotto a un dannato e ne mettono a nudo i genitali. Avvinghiato alla croce un uomo, di cui si intravedono soltanto mani, piedi e capelli, pare implorare un ormai impossibile perdono. 221
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Giotto dipinge la concezione medievale dell’Inferno, luogo di pene e tormenti strazianti e indicibili. È la coeva visione di Dante. Il primo maggio dell’anno 1304, proprio mentre il pittore è impegnato ad affrescare la Cappella degli Scrovegni, il borgo fiorentino di San Friano organizzò una carnevalesca rappresentazione dei tormenti dell’Inferno, allo scopo, evidentemente, di esorcizzare le paure. Ma la farsa si mutò in tragedia per il crollo del ponte della Carraia e molti fiorentini annegarono o rimasero feriti.1 Potenti della terra, sovrani con la corona in testa, vescovi con la tiara, sacerdoti e ricchi signori, giudici e popolani, mugnai imbroglioni con il sacco di farina sulle spalle, tutti s’avviano in fila verso le meritate pene percorrendo la sommità ricurva dell’architrave del portale, che pare trasformarsi in una sorta di ponte per l’Inferno. La corruzione della Chiesa e le sue pratiche lussuriose e simoniache sono messe in evidenza più volte, secondo un topos ricorrente nelle rappresentazioni dei dannati in ma-
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noscritti religiosi del tempo. Incurante di essere seduto sulla schiena di un diavolo, un vescovo alza la mano in un gesto di benedizione, mentre con l’altra si fa consegnare un sacchetto di denaro da un ecclesiastico in ginocchio. E volti di religiosi con la chierica spuntano anche in due delle quattro bolge che stanno inghiottendo i dannati, in un groviglio scomposto di corpi. La composizione è straordinariamente nuova, audace, impressionante. Giotto mostra debiti iconografici con i mosaici della cupola del Battistero di San Giovanni a Firenze (databili al 1270 circa), in particolare nella composizione della figura di Lucifero: anche il modello fiorentino lo mostra seduto su due draghi, con due corna in testa e orecchie di capro da cui fuoriescono serpenti, mentre afferra, ingurgita ed evacua dannati. Ma Giotto conferisce anatomia, carnalità, peso, alla Bestia, la fa, se così si può dire, più realistica, più orrendamente credibile. Le processioni degli eletti Dall’altro lato della croce, vero spartiacque dell’eternità, ecco il mondo degli eletti. Una doppia processione di beati, disposta in parallelo in verticale, muove scortata dagli angeli con dolce ritmo ascensionale. La processione superiore, purtroppo gravemente compromessa dalle infiltrazioni d’umidità conseguenti al crollo del protiro e soprattutto alla incauta rimozione dell’intonaco dalla facciata esterna operata nel restauro del 1881, è aperta dalla Madonna, avvolta in un grande mantello bianco e in una mandorla d’oro, che porge la mano a una donna anziana e l’aiuta a rialzarsi da terra. Eva, la prima donna, colei che per superbia disobbedì a Dio e commise il peccato originale, è risollevata dall’umile ancella del Signore, la prima e unica donna concepita senza la macchia di quel peccato. Maria è l’antitesi di Eva, così come la pa223
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rola Ave, il saluto che le rivolge l’angelo, era interpretata dalla Chiesa come il rovescio del nome Eva. La progenitrice dell’umanità è madre della vita naturale degli uomini decaduti, come Maria lo è della vita spirituale degli uomini redenti, lei che fu la sola donna a essere insieme, nello spirito e nel corpo, madre e vergine. «Nello spirito non fu madre del nostro capo, vale a dire del nostro Salvatore, da cui anche lei ebbe vita spirituale, come tutti coloro che credono in lui» e lei è tra loro «e sono giustamente chiamati figli dello sposo; ma senza dubbio è madre delle sue membra, che siamo noi, perché cooperò mediante l’amore a generare nella Chiesa i fedeli, che sono le membra di quel capo; nel corpo, invece, è realmente madre del nostro capo. Egli doveva infatti, con un insigne miracolo, nascere secondo carne da una vergine, per significare che le sue membra sarebbero nate secondo spirito da una vergine, cioè dalla Chiesa.»2 Eva ha l’aureola, come tutti i componenti di questo corteo. È suddiviso in due gruppi distinti, il primo formato da patriarchi e profeti dell’Antico Testamento, il secondo da santi e padri della Chiesa. L’aureola li accomuna tutti nella santità e ne indica l’appartenenza al Regno dei Cieli. Nessuno di loro è in attesa del Giudizio finale, ma godono già delle gioie del Paradiso. Patriarchi e profeti furono liberati da Cristo dal Limbo e ascesero in cielo insieme a lui, tema che Giotto, sulla scorta del Vangelo di Nicodemo, ha già illustrato nel riquadro dell’Ascensione. L’unico riconoscibile con sicurezza, in primo piano in seconda fila, è Mosè: lo rivela il particolare delle piccole corna, che costituisce la sua iconografia più tradizionale (si pensi, per esempio, alla solenne statua michelangiolesca della chiesa romana di San Pietro in Vincoli). Curiosamente, questo attributo gli deriva da una svista di san Girolamo: nel tradurre in latino il testo di Esodo 34, 29-35, dove si descrive Mosè che scende dal Sinai con le tavole della Legge e il volto raggiante di luce dopo l’incontro con la parola di Dio, il 224
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termine ebraico qeren – che significa «corno» o «raggio» – è reso per tre volte nel contesto con l’espressione, variamente declinata, cornuta facies. Il secondo gruppo è aperto da san Paolo, l’apostolo delle genti, l’unico che si riesca a identificare con precisione. Più articolata la schiera sottostante, anch’essa scortata da angeli. Qui nessuno ha l’aureola, nemmeno coloro che la Chiesa aveva già proclamato santi. In prima fila il protomartire Stefano, un giovane con la chierica da diacono e la dalmatica, e due vergini che levano la palma del martirio, antico simbolo pagano della vittoria, con il quale il testimone della fede indica il suo trionfo sulla morte. «Il giusto fiorirà come palma» dice il Salmo 92 (91), 13. Accanto a Stefano vediamo un centurione romano: è Cornelio, centurione della coorte Italica di stanza a Cesarea, protagonista di un significativo passo degli Atti degli Apostoli (10, 1-43). Uomo «giusto e timorato di Dio, stimato da tutto il popolo dei Giudei», animato da spirito di 225
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carità per i bisognosi, ricevette la visita di un angelo, che lo invitò a incontrarsi con Pietro. Cornelio è il simbolo dell’umanità altra rispetto al mondo ebraico, quella che Cristo illumina e guida sulla strada della salvezza, «a qualunque popolo appartenga», purché abbia timore di Dio e pratichi la giustizia. Questo è il nuovo patto, la buona novella della pace, la missione stessa del cristianesimo come religione di salvezza universale. Con Cornelio inizia di fatto l’evangelizzazione dei Gentili e la loro accoglienza nella famiglia di Dio. Frate Alberto ha in mente una pagina di sant’Agostino, dove Cornelio è accostato proprio a san Paolo.3 Altri, meno opportunamente, pensano che si tratti di Costantino, l’imperatore che con l’editto di Milano del 313 legittimò la religione cristiana e ricevette lui stesso il battesimo in punto di morte. Il secondo gruppo, formato da ecclesiastici, è aperto da san Domenico (1170-1221), con il saio bianco e il mantello nero, fondatore dell’ordine dei frati Predicatori (1216), e da san Francesco (circa 1182-1226), che mostra nella destra i segni delle stimmate. Li seguono san Benedetto (480547), patriarca del monachesimo occidentale, ritratto con il libro della Regula in mano, che richiama la celebre formula Ora, lege et labora, la preghiera e la lettura meditata della parola di Dio alternata con il lavoro al servizio della comunità e dei fratelli, e san Romualdo da Ravenna, morto intorno al 1027, fondatore dell’Ordine dei monaci camaldolesi. Accanto e intorno a loro altri santi, vescovi con la tiara e uomini di chiesa. Il terzo gruppo vede in prima fila una giovane martire, elegantissima nella sua veste rossa con ricami in oro, con corona e velo trasparente che le avvolge il capo, seguita da fanciulle in abito bianco ricamato in oro, alcune coronate, altre con una fascetta bianca: potrebbero essere sant’Orsola, bellissima principessa bretone, e le vergini che con lei, secondo la leggenda, subirono il martirio a Colonia ad 226
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opera degli Unni di Attila. La santa fu oggetto di grande devozione nel Medioevo come simbolo di castità muliebre. Abbiamo già ricordato come Enrico Scrovegni avesse finanziato nel 1294 la costruzione di un monastero cistercense dedicato a sant’Orsola. Altri la identificano invece con santa Giustina, giovanissima e nobile fanciulla padovana, martirizzata nella sua città durante la persecuzione del 304. Il quarto e ultimo gruppo è costituito da nobili, ricchi borghesi ed ecclesiastici, cui si accompagnano esponenti del mondo delle arti e delle professioni. Non ci sono donne tra loro, dato il ruolo marginale che ricoprivano nella società del tempo. Le fisionomie appaiono meno stereotipate, più vere, e si è supposto che in qualche caso possano essere ritratti autentici di personalità illustri della Padova del tempo o quanto meno della cerchia di Enrico Scrovegni. Anche le vesti e i copricapi costituiscono un repertorio della moda di quegli anni. Chiudono la schiera semplici popolani, maschi e femmine. L’ultimo personaggio – bastone da viaggio, copricapo a larghe falde e pellicciotto grezzo di pecora – è da qualcuno identificato con il beato Pellegrino, al secolo Antonio Manzoni, un padovano che fu così soprannominato per il viaggio felicemente compiuto in Terrasanta; morto nel 1266, i concittadini lo onorarono nel 1275 erigendo in suo onore una chiesetta che ne accolse le spoglie, con annesso monastero di monache benedettine, in una via che ancor oggi porta il suo nome. Una tradizione vuole che Giotto si sia autoritratto in prima fila in un lungo abito rosa, cappello giallo e collare di pelliccia di vaio. Tale identificazione è stata recentemente rilanciata dalle indagini scientifiche condotte da un gruppo di ricercatori guidati da Francesco Mallegni, docente di paleontologia umana e antropologia nelle università di Pisa e Palermo: l’esame dei resti umani ritrovati negli anni Settanta in Santa Maria del Fiore a Firenze ha portato a una ricostruzione in gesso del volto, che mostrereb227
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be notevoli affinità con il presunto autoritratto degli Scrovegni (testa sproporzionata per grandezza rispetto a un fisico di modesta altezza, fronte sfuggente, occhi bovini, naso piccolo e alto, collo taurino e mascella possente). L’ipotesi, pur suggestiva, pare smentita dal collare di pelliccia, che rimanda piuttosto a un notabile o a un professore dello Studio patavino. I dodici apostoli Simmetricamente disposti alla sinistra e alla destra di Cristo ci sono i dodici apostoli (cfr. figg. 15-16). Li abbiamo visti più volte nei riquadri con le storie evangeliche, a partire dall’apparizione del primo apostolo, Andrea, nella scena del Battesimo di Cristo. In due riquadri sono presentati tutti insieme: nell’Ultima cena, quando ancora era tra loro Giuda Iscariota, e nella Pentecoste, dove Mattia ha appena preso il posto del traditore suicida. Fedele al principio del realismo, Giotto li ritrae sempre con gli stessi tratti somatici e le stesse vesti, tunica e manto, con gli stessi colori e gli stessi decori, sicché si possono individuare facilmente.4 Il primo alla nostra sinistra è Tommaso, giovane, vestito di bianco. Gli è accanto Matteo, anziano, stempiato, barba bianca, completamente vestito di rosa; tra le mani ha un rotolo di papiro. Terzo è Giacomo Minore, manto blu su tunica verde, di mezza età, capelli e barba fluenti di colore castano. Segue l’apostolo Filippo, volto giovane e veste che il degrado dell’affresco ha scolorito, ma che in origine era rosso mattone (tracce del colore sono ancora visibili). Nella scena della Pentecoste sedeva di fronte, al centro, tra Giacomo Minore e Giacomo Maggiore, come qui, perché Giacomo Maggiore, simile nell’aspetto e nelle vesti a Cristo (tunica rossa e manto blu) è il penultimo della fila di sinistra. Ultimo della fila di sinistra, e quindi primo alla destra di Cristo (la nostra sinistra), è Pietro, an228
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ziano, barba e capelli bianchi, tunica azzurra e manto giallo scuro. Osserviamo ora la fila alla nostra destra, procedendo da destra verso sinistra. Il primo è Mattia, l’apostolo che ha preso il posto di Giuda: giovane, barba rada e capelli castani, completamente vestito di giallo. Ha accanto Giuda Taddeo, un giovane con i capelli castano chiaro, in abiti blu; anche nella scena della Pentecoste sedeva, come qui, vicino a Mattia. Terzo da destra è un uomo anziano, barba e capelli bianchi, vestito di rosa, con in mano uno stilo bianco: è Simone, detto il Cananeo o lo Zelota (appellativi che in realtà hanno lo stesso significato di «osservante, ligio alla legge», senza che il secondo lo ponga necessariamente in rapporto con il ribellismo degli zeloti) per distinguerlo dall’altro Simone, Cefa o Pietro. Quarto da destra, capelli e barba castani, tunica bianca e il manto elegantemente ricamato che abbiamo avuto modo di ammirare più volte, anche se qui si intravede appena per le deteriorate condizioni dell’affresco, è Bartolomeo. In mano ha anche lui, come Matteo, un rotolo di papiro. Andrea, fratello di Pietro e primo apostolo di Gesù secondo il Vangelo di Giovanni, è il penultimo da destra; riconoscibile per la tunica rossa, il manto verde, i capelli fluenti e lunga barba grigia; anche nell’Ultima cena e nella Pentecoste sedeva vicino a Bartolomeo. Ultimo, alla sinistra di Gesù (la nostra destra) è Giovanni evangelista, tunica blu e manto rosa, l’apostolo più frequentemente ritratto nella Cappella (anche perché fu l’unico a non abbandonare Cristo sul Golgota); qui però non ha il solito aspetto di giovane senza barba e con i capelli castano chiari (come peraltro appare poco sotto nella scena in cui Enrico Scrovegni offre alla Madonna il modellino della Cappella). Giovanni ha il volto di un anziano, stempiato e con la barba bianca, una novità iconografica che si collega alla Legenda aurea, che, sulla scorta di Isidoro di Siviglia, lo fa morire a novantanove anni e diretta229
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mente accolto in cielo da Gesù (un’immagine che lo stesso Giotto tratterà una quindicina d’anni più tardi nell’Ascensione di san Giovanni, all’interno del ciclo dedicato a Giovanni evangelista e a Giovanni Battista nella Cappella Peruzzi della basilica fiorentina di Santa Croce).5 Le gerarchie angeliche Al di sopra, Giotto dipinge la meravigliosa sinfonia cromatica delle gerarchie angeliche (cfr. figg. 17-18). Specchio e prisma della luce di Dio, emanazioni radiose dello splendore dell’Uno, creature di puro spirito, esse godono della contemplazione del Signore. «Vedono sempre il volto del Padre mio che è nei cieli» dice Gesù in Matteo 18, 10. Pronti alla sua voce, potenti esecutori dei suoi comandi, gli angeli muovono incessantemente lungo l’invisibile scala del sogno di Giacobbe, ponte tra cielo e terra. Angeli è il nome che tutti li accomuna, ma l’Antico e il Nuovo Testamento, pur senza entrare in particolari, parlano anche di Arcangeli e Serafini, di Cherubini e Troni, di Dominazioni e Principati, di Potestà e Virtù.6 Nel Manuale sulla fede, la speranza e la carità, sant’Agostino confessa la difficoltà di districarsi in una materia tanto complessa: Quale sia la struttura di quella società beatissima e superna, come si configurino le differenze gerarchiche, tanto che tutti sono definiti con il nome collettivo di Angeli – come leggiamo nella Lettera agli Ebrei (1, 13): A quale degli Angeli poi ha detto: Siedi alla mia destra? (in questo modo significò che tutti indistintamente sono chiamati angeli) – ma ci sono anche gli Arcangeli; e questi stessi Arcangeli sono chiamati Virtù – e infatti usando l’espressione: Lodatelo, voi tutti, suoi Angeli; lodatelo, voi tutte sue Virtù (Salmo 148, 2), è come se fosse detto: «Lodatelo, Angeli tutti; lodatelo Arcangeli tutti». E alla domanda su come si differenzino quei quattro titoli, con cui l’Apostolo sembra aver abbracciato tutta quanta la so230
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cietà celeste dicendo: «E Troni, e Dominazioni, e Principati, e Potestà» (Colossesi 1, 16), rispondano quelli che ne sono capaci, purché possano provare le loro affermazioni: quanto a me, confesso la mia ignoranza.7
La tradizione ebraica menziona dieci gerarchie angeliche, ridotte a nove dalla speculazione cristiana nel corso del V secolo. All’inizio del VI secolo Dionigi, detto l’Aeropagita, scrisse La gerarchia celeste, un trattato destinato a grande fortuna, fissando la suddivisione delle schiere angeliche in tre triadi, tra loro strettamente collegate: la prima, la più vicina a Dio, è formata da Serafini, Cherubini e Troni; la seconda da Dominazioni, Potenze e Potestà; la terza da Principati, Arcangeli e Angeli. La prima triade riceve l’illuminazione direttamente da Dio, la seconda svolge una funzione intermedia tra la prima e l’ultima, cui in particolare compete di comunicare agli uomini la volontà divina. Il testo di Dionigi fu conosciuto in Occidente dopo le traduzioni dal greco e i commentari di Ilduino di Saint Denis e di Giovanni Scoto Eriugena (IX secolo), ma la fama gli fu assicurata soprattutto dal commento di Ugo di san Vittore (XII secolo). A sancirne l’attendibilità c’era, tra l’altro, l’erronea identificazione del suo autore con l’esponente dell’Areopago ateniese di cui gli Atti degli Apostoli (17, 34) dicono che si fece discepolo di san Paolo dopo averne ascoltata la parola. Chi meglio di lui poteva dunque conoscere quell’arcana realtà, se il suo maestro era stato rapito «fino al terzo cielo», come afferma lui stesso nella Seconda lettera ai Corinzi (12, 3-4), e aveva goduto della visione del Paradiso? All’inizio del VII secolo anche papa Gregorio Magno aveva proposto una diversa successione ascendente delle nove schiere, e cioè Angeli, Arcangeli, Virtù (le Potenze di Dionigi), Potestà, Principati, Dominazioni, Troni, Cherubini e Serafini, delineandone anche le caratteristiche e le diverse funzioni.8 I ranghi più bassi (Angeli, Arcangeli, 231
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Virtù) si prendono cura dell’umanità, quelli intermedi (Dominazioni, Principati e Potestà) governano il mondo angelico, mentre Troni, Cherubini e Serafini sono al diretto servizio di Dio. Dante segue Gregorio nel Convivio,9 ma poi considera Dionigi colui «che più a dentro vide / l’angelica natura e ’l ministero» (Paradiso X, 116-7) e il suo schema triadico è illustrato da Beatrice nel XXVIII canto del Paradiso (97105): E quella che vedea i pensier dubi ne la mia mente, disse: «I cerchi primi t’hanno mostrato Serafi e Cherubi. Così veloci seguono i suoi vimi, per somigliarsi al punto quanto ponno; e posson quanto a veder son soblimi. Quelli altri amori che ‘ntorno li vonno, si chiaman Troni del divino aspetto, per che ‘l primo ternaro terminonno.
Serafini e Cherubini, cerchi primi del primo ternaro, seguono con moto velocissimo i vincoli («vimi») d’amore che li legano a Dio e li spingono a identificarsi con lui (il punto); il terzo cerchio è formato dai Troni, cui spetta il compito di promulgare i decreti divini («onde refulge a noi Dio giudicante», di Paradiso IX, 62). Il secondo «ternaro» è dato da «Dominazioni, e poi Virtudi; l’ordine terzo di Podestadi». Poscia ne’ due penultimi tripudi Principati e Arcangeli si girano; l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.
Gli angeli hanno tra loro diversità di funzione, non di natura, e ciò dipende dalla maggiore o minore vicinanza a Dio. La tradizione iconografica medievale li distingue soprattutto attraverso il cromatismo delle ali, delle vesti e 232
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delle armature. Un passo di Ezechiele (28, 12-13), che la tradizione cristiana interpretava come la descrizione di Lucifero – anche se in realtà si riferiva al principe di Tiro –, fu collegato nel IX secolo dal vescovo Rabano Mauro Magnenzio ai nove ordini angelici: Tu eri un modello di perfezione, pieno di sapienza, perfetto in bellezza; in Eden, giardino di Dio, tu eri coperto d’ogni pietra preziosa: sardònica, topazio, diaspro, crisòlito, ònice, berillo, zaffìro, carbonchio e smeraldo; e d’oro era il lavoro dei tuoi castoni e delle tue legature, preparato nel giorno in cui fosti creato.
Nel Medioevo si attribuivano poteri magici alle pietre preziose, perché si pensava che la loro luce racchiudesse in sé quella delle stelle, e alle diverse tonalità cromatiche si associavano precisi valori simbolici. I Serafini, la schiera angelica più vicina a Dio, sono caratterizzati dal rosso scarlatto, simbolo di amore acceso (saraph in ebraico significa «ardere»). Sono i fuochi pii di Dante (Paradiso IX, 77). La loro pietra è la sardonica rossa, un’agata che il Medioevo vedeva come simbolo del sangue di Cristo. L’azzurro intenso (o blu-azzurro) è costantemente associato ai Cherubini, gli angeli della Sapienza, estatici contemplatori di Dio, fonte inesausta di illuminazione e conoscenza, mentre il verde è solitamente il colore dei Troni, che rappresentano la Giustizia e la Potenza del trono del Signore e sovrintendono alla corretta collocazione nello spazio e nel tempo dell’elemento creato (e il verde è il colore della creazione, perché frutto della fusione tra il giallo, l’oro spirituale, riflesso diretto della luce del Verbo, e il blu della Sapienza divina). Il diaspro verde è la loro pietra preziosa, mentre ai Cherubini blu-azzurri corrisponde il topazio giallo, simbolo della mitezza. 233
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Dominazioni, Virtù e Potestà sono le intelligenze mediane. Le Dominazioni, caratterizzate dal giallo del crisolito, gemma che risplende come oro e infiamma come fuoco, rappresentano la pienezza del dominio di sé, l’elevazione libera e consapevole al di sopra di ogni servitù umiliante, il rifiuto di qualunque desiderio vano, la totale adesione intellettuale all’Essere sovrano. Hanno il compito di garantire l’ordine cosmico vigilando sull’esecuzione delle disposizioni loro trasmesse dalla triade superiore e che a loro volta comunicano a quella inferiore. Sfera e scettro sono gli elementi con cui li identifica la tradizione iconografica medievale. Le Virtù (o Potenze), riflesso e immagine della Somma Virtù, ne attuano con costanza e determinazione i benefici impulsi, definendo le caratteristiche proprie di ogni elemento del creato e governando i grandi mutamenti storici. Il loro colore è il blu zaffiro, simbolo della purezza. Le Potestà conferiscono agli elementi del creato l’energia vitale più adatta alla loro natura e sono direttamente impegnati nella lotta tra il bene e il male. Giotto li ritrae con il colore azzurro tenue del berillo acquamarina. L’ultima triade è formata dai Principati, cui compete il compito di guidare le potenze terrene, facendo da ponte tra Spirito e manifestazione materiale. La loro pietra è l’onice giallo o alabastro egizio. Gli Arcangeli sovrintendono direttamente l’attività degli Angeli, che sono a loro volta i custodi di ogni singola entità esistente, sia essa umana, animale, vegetale o minerale, per garantire in ogni momento il rispetto della volontà divina. Il verde smeraldo è il colore degli Angeli, l’arancione acceso del carbonchio, simbolo della vita, quello degli Arcangeli. Guardiamo ora a Giotto. Dobbiamo immaginare che le schiere angeliche siano disposte in cerchio attorno a Dio. Sono – ovviamente – nove, tutte riconoscibili dai colori e da altri elementi. Partendo dal basso, a sinistra, e risalendo verso l’alto, abbiamo le Virtù (blu zaffiro), le Dominazioni (giallo crisolito), i Troni (verde diaspro delle armature e 234
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bandiera con effigiato un trono) e i Serafini (piumaggio rosso e fiaccola ardente). Ai due lati della finestra appaiono i Cherubini (azzurro-blu, simbolo della Sapienza, con scudi tondi umbonati o con motivi a croce), mentre scendendo dall’altro lato ecco gli Angeli (verde smeraldo, con scudi tondi ornati con eleganti e variegati motivi vegetali), gli Arcangeli (vestiti di arancione tenue con scudi esagonali di arancione acceso variamente ornati con motivi vegetali, leoni rampanti e una strana figura umana incappucciata, che tiene in mano una fiaccola, è dotata di ali e ha corpo di quadrupede, forse di cavallo, cfr. fig. 19), i Principati (in giallo onice, muniti di scudo tondo, umbonato o con grifo rampante, cinti di una corona d’alloro sul capo) e infine le Potestà, con manti del colore del berillo acquamarina, spade, elmi e scudi, che si intravedono appena all’estremo limite della parete. Ecco lo schema giottesco: Partendo dai Serafini (i più vicini a Dio e centro della prima triade) si procede in senso antiorario: troviamo subito i Troni, quindi la seconda triade (Dominazioni, Virtù e Potestà) e di seguito la terza (Principati, Arcangeli, Angeli), per arrivare in alto ai Cherubini (prima triade). In tal modo i Serafini sono al centro della prima triade, la punta più alta. Cherubini
Cherubini Angeli
Serafini Troni
Arcangeli
Dominazioni
Principati Potestà
Virtù
Cristo Giudice Cristo Giudice
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Cristo Giudice Al centro esatto della controfacciata, apice e sintesi della storia umana, Giotto dipinge l’ovale perfetto di una mandorla con i colori dell’iride, dentro cui si staglia solenne la figura di Cristo Giudice, seduto su un trono di cielo (cfr. fig. 20). Le schiere angeliche gli fanno corona, mentre quattro angeli suonano le lunghe trombe dell’annuncio supremo. Cristo è raffigurato con estrema precisione nella sua duplice natura di uomo e di Dio. La sua umanità è evidenziata dalla tunica rossa con ricami in oro, la stessa che indossava quando era in vita: il rosso simboleggia il sangue, l’oro rappresenta la regalità. Nel momento supremo del Giudizio Universale il dramma della sofferenza e della morte sulla croce è eternamente presente: lo evoca la lacerazione della veste all’altezza del costato, sotto cui si coglie la cicatrice prodotta dalla lancia del centurione romano, mentre sul dorso della mano sinistra (con la quale respinge con gesto perentorio i reprobi) e nel palmo della destra (aperta ad accogliere i giusti), e infine su ambo i piedi si distinguono chiare le stimmate, i segni dei chiodi che l’avevano infisso alla croce. La natura divina di Cristo è simboleggiata dall’aureola d’oro e dal mantello blu, colore del cielo, drappeggiato sulle sue ginocchia. L’aureola presenta all’interno tre incavi circolari in cui erano posti degli specchietti (sono state trovate tracce di stagno) che dovevano evidentemente produrre qualche effetto spettacolare, facendo rimbalzare la luce del sole attraverso un gioco complesso, verosimilmente collegato con l’apertura dello sportello di legno di pioppo, su cui è dipinta l’immagine dell’Eterno Padre, che si trova sopra l’arco trionfale. Sotto il trono di cielo, si intravedono delle figure simmetricamente disposte, a destra e a sinistra di Cristo, generalmente identificate con i simboli dei quattro evangelisti. Il passo di riferimento è l’Apocalisse di Giovanni (4, 1-7): 236
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Ed ecco c’era un trono nel cielo, e sul trono uno stava seduto. Colui che stava seduto era simile nell’aspetto a diaspro e cornalina. Un arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il trono. Attorno al trono, poi, c’erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano seduti ventiquattro vegliardi avvolti in candide vesti con corone d’oro sul capo. Dal trono uscivano lampi, voci e tuoni; sette lampade accese ardevano davanti al trono, simbolo dei sette spiriti di Dio. Davanti al trono vi era come un mare trasparente simile a cristallo. In mezzo al trono e intorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni d’occhi davanti e di dietro. Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello, il terzo vivente aveva l’aspetto d’uomo, il quarto vivente era simile a un’aquila mentre vola. I quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi.
L’evangelista riprende a sua volta la visione del carro del Signore in un passo di Ezechiele (1, 1-28), dove Dio appare al profeta su un carro con quattro «esseri animati», ciascuno dotato di quattro ali e quattro facce: «ognuno dei quattro aveva fattezze d’uomo, poi fattezze di leone a destra, fattezze di toro a sinistra e, ognuno dei quattro, fattezze d’aquila».10 I quattro viventi dell’Apocalisse furono associati ai quattro evangelisti da sant’Ireneo,11 morto intorno all’anno 200, e poi dai Padri della Chiesa. La codificazione definitiva risale a san Girolamo (IV-V secolo), che nel prologo del suo commento al Vangelo di Matteo identifica in Matteo l’uomo alato (perché all’inizio del suo vangelo pone la genealogia umana di Cristo), in Marco il leone alato (perché il suo vangelo inizia con la predicazione di Giovanni Battista nel deserto e presenta Gesù tra le fiere), in Luca il bue, o toro, o vitello (perché il suo vangelo comincia con la visione di Zaccaria, che si prepara ad entrare nel tempio per offrire l’incenso prima del sacrificio del mattino, e il toro è l’animale sacrificale per eccellenza) e in Gio237
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vanni l’aquila (perché, indossate le penne dell’aquila, discute della Parola di Dio levandosi in volo verso la luce e le sommità celesti, librandosi nelle regioni più alte della conoscenza).12 Sant’Agostino non concordò con san Girolamo, sostenendo una diversa identificazione di Matteo con il leone e di Marco con l’uomo.13 Il dibattito rimase vivo, ma alla fine la tesi di Girolamo prevalse e divenne universalmente condivisa. Giotto ritrae i quattro evangelisti all’inizio e alla fine delle due pareti laterali, dove si narrano gli episodi della vita di Gesù. Non li presenta con i loro simboli, che si trovano invece sul retro della grande croce che un tempo pendeva dall’alto in un punto imprecisato della Cappella (forse al centro esatto della navata, in corrispondenza dei monocromi della Giustizia e dell’Ingiustizia) e che è oggi conservata nel vicino Museo Civico agli Eremitani. In mancanza dei simboli, si possono individuare con certezza solo gli evangelisti che furono anche apostoli, e cioè Giovanni (comunque riconoscibile, perché più giovane degli altri) e Matteo (per analogia con altri suoi ritratti all’interno della Cappella), mentre non si hanno elementi per distinguere Luca e Marco. Sotto il trono di Cristo Giudice – opinione tradizionale e consolidata – sono dunque dipinti i simboli dei quattro evangelisti, o tetramorfo dell’Apocalisse, e cioè, da sinistra a destra, l’aquila di Giovanni, il bue di Luca, l’uomo alato di Matteo, il leone alato di Marco. Osservando le immagini riprodotte sui libri non riuscivo tuttavia a vedere il bue di Luca. Mi sembrava a tutti gli effetti un centauro. Incuriosito, presi a scorrere la bibliografia. Prima sorpresa. Nel 1921 lo storico dell’arte Aldo Foratti parla espressamente della presenza di un centauro: «La presenza de’ corpi mostruosi, che sostengono l’aereo sedile, chiede qualche chiarimento. Ammesso che sia un cherubino, o piuttosto il simbolo evangelico dell’angelo la prima figura a destra, andiamo circospetti nel definire le 238
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restanti. Dopo il presunto angelo, ne’ pochi tratti del muso d’un felino s’immagina il simbolo del leone; vedesi, invece, a riscontro e nettamente, una specie di centauro, ovvero d’ippocampo. Il leone ed il bove stanno sulla cattedra del Redentore anche nel ricordato Giudizio di Nicola d’Apulia a Pisa; più vari sono, peraltro, gli esempi plastici di animali immaginari, come il basilisco della porta di mezzo nella cattedrale d’Amiens ed il grottesco centauro del portale di Rouen con la testa di profeta o di mago. Dovremo, forse, riconoscere nel mostro giottesco il “pallido cavallo” della morte unificato col suo cavaliere?».14 Nel 2005 ricorreva il settimo centenario dalla realizzazione della Cappella degli Scrovegni e uscirono pregevoli edizioni e accurati studi. In due di questi si ribadiva la presenza di un centauro. «Il firmamento è letteralmente sulle teste dei quattro esseri viventi dei quali tre corrispondono ai simboli degli evangelisti, ma invece del toro di san Luca vediamo un centauro. Si tratta forse di uno dei misteriosi daemonia onocentauris del Giudizio contro Edom? (Isaia 34, 14)». Così Irene Hueck, mentre Chiara Frugoni osserva che Cristo siede «su di un trono di nubi sostenuto dai simboli dei quattro evangelisti, l’aquila, Giovanni, il bue, Luca, ma rappresentato nell’ibrido aspetto di una specie di centauro; Matteo, un angelo tutto chiuso nelle sue ali; Marco, un leone alato».15 Giotto ha dipinto un centauro insieme ai simboli degli altri tre evangelisti. Nessun dubbio possibile: esaminando le immagini, si vede chiaramente un essere dalla doppia natura, umana fino alla cintola ed equina nella parte inferiore, con busto slanciato, loricato, brache rosse, mano destra aperta e piegata sul petto, volto di profilo sinistro (la nuca è coperta dalla gamba destra di Cristo e la parte superiore del capo è nascosta dal cielo che funge da trono), barba bionda e zampe anteriori sollevate. Le zampe presentano conformazione e ginocchia equine, mentre il solo elemento non equino è dato dagli zoccoli a unghia fessa.16 239
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Ma se non c’è il bue (o toro o vitello), non c’è più san Luca. Resterebbero invece gli altri tre evangelisti, Matteo, Marco e Giovanni, e i loro simboli, un uomo, un leone e un’aquila. Mi chiedevo il perché della rimozione di san Luca, e per di più sostituito da un centauro. E non in un punto qualsiasi, ma sotto il trono di Cristo Giudice, nel momento del Giudizio Universale! Che cosa voleva dire frate Alberto? Che cosa rappresentano i centauri? Il centauro di Cristo Narra il mito che Issione, re dei Làpiti, una popolazione della Tessaglia, bramasse a tutti i costi di congiungersi carnalmente con la sposa di Zeus, Era. Deciso a vedere fin dove avrebbe osato spingersi, Zeus plasmò una donna fatta di nebbia, cui diede nome Nefèle (Nuvola), in tutto identica alla moglie, e lo invitò a banchetto sull’Olimpo. Tradendo i suoi doveri di ospite, Issione ne approfittò per stuprare la finta Era. L’ira di Zeus lo fulminò e lo scaraventò nell’Ade, dove sconta in eterno la pena, legato a una ruota circondata da serpenti e in perenne movimento. Da quello stupro nacquero i centauri, esseri dalla doppia natura, umana dalla cintola in su, equina nella parte inferiore del corpo, caratterizzati da un’indole selvaggia e violenta, evocata in gran parte dei miti che li riguardano. Il più famoso dei quali è la centauromachia, la lotta mortale sostenuta con i Làpiti durante il banchetto nuziale in onore di Piritoo e Laodamia, che il Maestro di Olimpia scolpì sul frontone occidentale del tempio di Zeus e Fidia nelle metope del lato meridionale del Partenone. Analogo il comportamento di un altro celebre centauro, Nesso. Quando Eracle gli affidò la sua sposa, Deianira, perché la portasse in groppa al di là di un fiume, tentò di rapirla per usarle violenza. L’eroe lo abbatté con una freccia, ma 240
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Nesso, poco prima di spirare, donò alla donna la sua tunica intrisa di sangue, facendole credere che fosse un potente filtro d’amore. Invece era un tossico mortale, che causò la morte di Eracle, quando Deianira, gelosa di Iole, gliela fece indossare nell’ingenua speranza di riconquistarne l’amore. Accanto a questa versione dei centauri come esseri deformi, lascivi, ubriaconi, rissosi e violenti, i Greci ne elaborarono una di tenore opposto, di cui è protagonista il centauro Chirone. Nato dallo stupro perpetrato dal dio Crono ai danni di un’oceanina, Filira, Chirone era immortale e dotato di perfetta saggezza e sapienza. Esperto di erbe medicamentose e di portentosi rimedi, nonché delle arti della caccia e della musica, gli fu affidata la tutela di Asclepio, il dio della medicina, figlio di Apollo, e di eroi e semidei come Giasone, Achille, Eracle. Colpito accidentalmente da una freccia scagliata da quest’ultimo, freccia che era stata intinta nel sangue avvelenato dell’Idra di Lerna e che gli provocò un irrimediabile e atroce dolore, Chirone chiese a Zeus, suo fratellastro, di poter trovare pace, lui immortale, nella morte. Zeus accettò a patto che Chirone scambiasse la sua immortalità con Prometeo, rendendolo immortale al suo posto.17 Il padre degli dèi collocò allora Chirone in cielo come costellazione del Centauro. Per il mito greco i centauri rappresentano dunque, nella loro natura ibrida, due simboli antitetici, barbarie e saggezza. L’ambiguità continuò anche in epoca cristiana. Da un lato erano considerati manifestazioni del demonio per la loro lussuria e sfrenatezza, e per la loro violenza cieca e bestiale: nella Basilica Inferiore di Assisi, per esempio, l’Allegoria dell’Obbedienza rappresenta un angelo che impedisce l’ingresso a un centauro, simbolo di violenza, mentre nell’Allegoria della Castità un centauro è tra le rappresentazioni delle passioni tentatrici vinte da san Francesco. Della vitalità di questa tradizione è testimone Dante, che pone i centauri, capeggiati da Chirone («il gran Chiron, il qual nodrì Achille»), a guardia dei dannati nel primo giro241
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ne del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro il prossimo, soprattutto gli omicidi (Inferno XII, 71). Dall’altro lato, invece, a partire dall’anno Mille, l’arte romanica cominciò a rappresentare i centauri in ambienti monastici ed ecclesiastici, intravedendo nella loro doppia natura, umana ed equina, l’allegoria della doppia natura, umana e divina, di Cristo. Il centauro-sagittario, nono segno dello zodiaco, diventò a sua volta un simbolo cristiano e nell’atto di scagliare la freccia era allegoricamente identificato con Cristo, il divino cacciatore di anime. Già gli antichi Greci avevano associato il centauro-sagittario ad Apollo, il divino arciere, identificandolo con il sole, e questi valori allegorici erano stati fin dall’inizio trasferiti a Cristo, fonte di luce, di vita, di conoscenza. Perfino l’aspetto astrologico del sagittario si prestava a essere collegato al battesimo: come l’influenza astrale del sagittario conduce gli spiriti dal piano materiale inferiore alle regioni poste su in alto, dove regna l’eterno, così, mediante il battesimo, Cristo, sagittario e centauro, diviene psicopompo, guida delle anime, liberandole dallo stato inferiore in cui erano prima di ricevere il sacramento ed elevandole alla luce del mondo superiore. Il centauro-sagittario era allegoricamente interpretato anche come simbolo della lotta dell’uomo per liberarsi dalla sfera passionale e istintiva, che lo avvince al mondo inferiore, e librarsi in alto con lo slancio dell’altra sua componente, la sfera spirituale, verso l’incontro con il divino. Questa lotta interiore è talora evidenziata anche dall’immagine del centauro che punta l’arco contro la sua stessa coda.18 Il centauro rappresenta insomma valori simbolici precisi, collegati con la doppia natura di Cristo e con la sua funzione di redenzione e salvezza: Cristo centauro rinuncia alla sua immortalità donandola all’umanità e rinasce dalla morte salendo in cielo, come Chirone aveva scambiato la sua immortalità con la mortalità di Prometeo, ricevendo il permesso di morire e ottenendo in cambio la collocazione in cielo come costellazione. 242
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Questo poteva giustificare la presenza di un centauro sotto il trono di Cristo Giudice nel momento del Giudizio Universale, ma non risolveva il fatto che fosse accostato ai simboli di tre evangelisti, Matteo, Marco e Giovanni. Il rigore della concezione teologica di Alberto non lo consentiva. Tentai diverse strade, ma tutte infruttuose. Un giorno decisi di rovesciare la prospettiva, chiedendomi non che cosa ci facesse un centauro insieme ai simboli dei tre evangelisti, ma chi rappresentassero le creature che Alberto aveva fatto dipingere accanto a un centauro. Davo ancora per scontato che fossero un leone, un uomo e un’aquila. Presi ad esaminarle con molta attenzione, anche con l’ausilio di una lente di ingrandimento. Sulla destra si vede un essere in posizione eretta con muso di leone: si distinguono chiaramente il naso, l’occhio destro, la bocca, la criniera; il corpo è sfumato, ma caratterizzato dagli stessi elementi angelici della figura che gli sta accanto, che è una creatura con corpo d’uccello, penne e ali di vari colori, e un viso di giovane uomo, i cui capelli, come la parte superiore del leone, sono nascosti dal cielo che funge da trono a Cristo. Possibile dunque la loro identificazione con Marco (il leone alato) e Matteo (l’uomo alato). Dall’altra parte, alla sinistra del centauro, doveva esserci il simbolo del terzo evangelista, e cioè l’aquila di san Giovanni. Ma nelle riproduzioni cartacee non riuscivo a vederla. Non che vedessi dell’altro: non vedevo l’aquila, ma solo qualcosa di confuso. Né mi aiutava l’osservazione dal vivo, all’interno della Cappella. Chiesi allora al Gabinetto fotografico del Museo di poter analizzare le immagini con l’ausilio di un computer. Quando l’operatore ingrandì la figura di quella che doveva essere un’aquila, sullo schermo apparve la testa di un pesce, con la bocca spalancata. Pensieri tumultuosi in una frazione di secondo. Un pesce nella Cappella degli Scrovegni? Impossibile. Stavo per dire che 243
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c’era un errore, quando l’effetto zoom svanì e le immagini si rimpicciolirono: il punto inquadrato era giusto, ma l’aquila non c’era! Al suo posto si vedevano invece due creature. Della più grande, in posizione eretta, con corpo umano e veste che gli arrivava fino al collo, era visibile la parte inferiore del volto: si trattava inequivocabilmente del muso di un orso (la parte superiore, invece, era completamente celata dal trono-cielo). L’orso teneva davanti a sé, come avvolto in un mantello, il pesce che m’era apparso un istante prima e di cui si scorgeva in primo piano la testa con la bocca spalancata. A sinistra si distingueva ancora qualcosa, forse gli unghioni dell’orso. L’aquila dunque non c’era, non c’era mai stata! L’unica spiegazione possibile è che qualcuno ha creduto di averla vista e ha indotto in inganno tutti gli altri, che, per inerzia, si sono fidati. Non c’entra il recente restauro della Cappella: ora che sappiamo che cosa Giotto ha dipinto, lo si distingue chiaramente anche nelle più antiche immagini in bianco e nero. È un caso esemplare di psicologia della forma: si vede quello che si pensa di dover vedere. Si vede il desiderio. Così, all’interno di uno dei più noti capolavori dell’arte universale, la Cappella degli Scrovegni, capitava a me di «vedere» per la prima volta, dopo settecento anni, ciò che Giotto aveva veramente dipinto. E non in un punto marginale, ma nel cuore pulsante dell’intero ciclo, nella mandorla di Cristo Giudice! Era il primo pomeriggio del 1° marzo 2007. Fu un’emozione difficile da spiegare, un autentico brivido. Sotto il trono di cielo di Cristo Giudice, nell’atto supremo del Giudizio Universale, sintesi e culmine della storia del mondo e dell’umanità, là dove si riteneva ci fossero i simboli degli evangelisti, Giotto ha dipinto un centauro, un orso con un pesce, un uomo con muso di leone e un uccello con volto di uomo. 244
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La scomparsa dell’aquila comportava l’uscita di scena di un altro evangelista, san Giovanni. Esclusi Luca e Giovanni, era difficile pensare che potessero rimanere Marco e Matteo. Per capire chi fossero e che cosa rappresentassero queste immagini bisognava pensare a un’altra chiave di interpretazione. Bisognava entrare nella mente di frate Alberto da Padova. La doppia natura di Cristo Giotto raffigura Cristo Giudice nella sua duplice natura, umana e divina: in quanto Dio sta giudicando, ma la veste rossa e lacerata, le stimmate, la ferita al costato, lo identificano nella sua umanità. Si segue ancora una volta sant’Agostino, e precisamente un luogo del Commento al Salmo 46 (47): «Dio siede sul suo trono santo. Qual è il suo trono santo? Forse i cieli; ed è interpretazione corretta. Cristo è asceso al cielo, come sappiamo, con il corpo in cui è stato crocifisso, e siede alla destra del Padre; di là aspettiamo che venga per giudicare i vivi e i morti. Siede sul suo santo trono. I cieli sono dunque il suo trono santo? Vuoi anche tu essere il suo trono? Non credere di non poterlo essere; prepara per lui un posto nel tuo cuore; egli viene, e volentieri vi si stabilisce».19 Cristo si è fatto uomo per riscattare l’umanità attraverso il sacrificio della croce. Morendo ha vinto la morte e ridato la speranza della vita eterna, che era stata perduta dopo la disobbedienza di Adamo. Quel perdono che l’umanità invocava nel Salmo 85 (84) si è realizzato. La missione che Dio Padre affida all’arcangelo Gabriele nella grande scena in alto sull’arco trionfale della Cappella degli Scrovegni e da cui tutto ha inizio è definitivamente conclusa. La riconciliazione tra Dio e l’uomo è compiuta. Il Giudi245
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zio Universale è avvenuto, premi e castighi sono stati assegnati: l’umanità sarà accolta nella Gerusalemme celeste o tra le torture dell’Inferno. Nella parte superiore della controfacciata, a lato della grande finestra trilobata, due angeli stanno richiudendo il sipario del tempo, come fosse un tappeto che si arrotola. Dobbiamo essere in questo spirito per capire che cosa rappresentino le quattro creature che stanno sotto il trono di cielo. L’orso e il pesce Che il pesce sia simbolo di Cristo è acquisizione notissima, collegata all’acronimo della parola greca che significa «pesce», che veniva interpretato come I(esùs) X(ristòs) Th(eoû) Y(iòs) S(otèr), cioè «Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore». Il pesce è dunque simbolo del Salvatore, perché – annota sant’Agostino – «ebbe il potere di rimanere vivo, cioè senza peccato, nell’abisso della nostra mortalità, simile al profondo delle acque».20 Il pesce dipinto da Giotto (cfr. fig. 21) sembra un luccio, il lucius dei latini, il pesce-luce, cui già i primi cristiani attribuivano simbolici accostamenti al Signore, «luce del mondo» (Giovanni 13, 47). Ma il pesce è anche simbolo dell’umanità, «pescata» dagli inviati del Signore, i pescatori di anime di Matteo 4, 19: « Seguitemi, vi farò pescatori di uomini», dice Cristo ai discepoli. E la Chiesa è pescatrice di anime con la rete del vangelo: «In questo mondo malvagio» scrive sant’Agostino «in questi giorni tremendi, in cui attraverso l’avvilimento presente la Chiesa si procura l’elevazione futura ed è istruita dallo sprone dei timori, dai tormenti delle sofferenze, dalle pene dei travagli e dai pericoli delle tentazioni, gioendo della sola speranza, quando gioisce sano, molti malvagi sono mescolati ai buoni ed entrambi sono, per così dire, raccolti nella pescagione del Vangelo e chiusi 246
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nelle reti nuotano, senza distinzione, in questo mondo come in un mare, fino a che si giunga alla riva, dove i cattivi sono separati dai buoni».21 Ma se il mare è il mondo e gli uomini sono i pesci, Dio, che scese sulla terra per loro, deve trarli fuori da questo mondo per salvarli. Cristo pescatore di anime è qui simboleggiato dall’orso, che è a sua volta simbolo della Chiesa e della Provvidenza divina. In questa funzione l’iconografia giottesca sostituisce quella ben altrimenti attestata dell’aquila-pescatrice, simbolo di Cristo redentore e pescatore di anime. L’aquila significa il figlio di Santa Maria, che è un re di tutti gli uomini senza alcun dubbio, sta in alto e vede lontano, sa bene che cosa deve fare. Il mare significa questo mondo, i pesci gli uomini che ci vivono; Dio venne in terra per noi, per redimere le nostre anime; accorse a noi volando, e in questo modo ci trascinò fuori del mondo, come fa l’aquila con i pesci. Il fatto che l’aquila guardi così fissamente il sole quando è più luminoso senza socchiudere gli occhi significa dunque, prestatevi attenzione, che allo stesso modo Cristo vede il Padre suo apertamente; e che tutti gli uomini del mondo che sono veri cristiani, quando moriranno, egualmente vedranno Iddio.
Questi versi sono tratti dal Bestiario di Philippe de Thaün (2067ss), che risale all’inizio del XII secolo, ma l’identifi247
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cazione di Cristo con l’aquila pescatrice è già presente in Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo d.C.).22 L’orso rappresenta, specie in area centro-europea, un’idea di forza, di coraggio, di spirito guerriero (coprendo in parte gli attributi altrove ascritti al leone), ma in età cristiana diventa simbolo della resurrezione, perché risorge dopo la morte apparente del lungo letargo invernale. Particolare fortuna nei bestiari medievali ha anche l’immagine, già in Plinio il Vecchio e giunta forse attraverso la mediazione di Isidoro di Siviglia,23 dell’orsa che plasma leccandoli amorevolmente i suoi orsacchiotti, che alla nascita sarebbero solo un ammasso informe di carne. Ecco il testo di Plinio: Si accoppiano all’inizio dell’inverno, e non nel modo abituale dei quadrupedi, ma tutti e due coricati e abbracciati; poi si separano e si ritirano ciascuno in una caverna, dove la femmina partorisce, al trentesimo giorno, al massimo cinque cuccioli. Questi sono una massa di carne bianca e informe, poco più grossi di un topo, senza occhi e senza peli; si distinguono solo le unghie. Leccando questa massa a poco a poco le danno forma. Non c’è evento più raro di vedere un’orsa che partorisce. Così mentre i maschi restano nascosti quaranta giorni, le femmine quattro mesi.24
L’animale diventa così simbolo della Provvidenza divina e della stessa Chiesa, che plasma mediante la forza vivificante del battesimo il popolo di Cristo e con amore materno lo alleva. Lo conferma l’anonimo Bestiario moralizzato di Gubbio, datato tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento, che così descrive l’orsa (sonetto 18): Tanto fa l’orsa el parto divisato k’a nulla creatura resimillia; vedendolo cusì dissemegliato, mantenente ’a la bocca lo ripiglia, 248
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tanto lo mena enfin ke l’à formato. Amico, ne l’exemplo t’asutiglia: ki [nasce] con original peccato di lunga è da la forma mille miglia; la eclesia è la madre ke riface lo suo filiolo co lo sacramento de lo santo batismo virtuoso, ove s’afina kome auro in fornace e piglia forma e resimigliamento de lo suo dolze padre pretioso.
L’orsa con il pesce rappresenta dunque la Chiesa, pescatrice di anime, strumento di redenzione e di salvezza dell’umanità, che toglie l’uomo, il pesce, dal mare dell’ignoranza e del peccato e lo eleva, attraverso il battesimo di Cristo, a nuova vita. Questa concezione convive tranquillamente con un’altra, pure attestata in età medievale, che vede nell’orso un simbolo di violenza e una rappresentazione del demonio. Entrambe sono presenti, per esempio, nel De rerum naturis del vescovo Rabano Mauro Magnenzio (IX secolo), che prima trascrive il passo di Isidoro di derivazione pliniana e poi di seguito aggiunge che l’orso è il diavolo, che insidia il gregge di Dio.25 Il leone alato Prendiamo ora in esame la figura alata con corpo umano e muso di leone (il corpo, in verità, si intuisce più che vedersi, perché la veste si intreccia e confonde con quella dell’uomo alato che le sta accanto, cfr. fig. 22). Nella simbologia antica il leone rappresenta la regalità, la forza, il coraggio. Posto frequentemente sulle porte principali delle città, anche in funzione apotropaica (notissimi gli esempi di Micene e della capitale ittita, Hattusas), in età cristiana lo si ritrova a guardia dei portali di molte chiese. L’eroe della for249
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za, Eracle, ha come simbolo la pelle di leone, la leonté, che appare anche nella rappresentazione giottesca della Fortitudo. Il leone era spesso associato alla divinità (la dea egizia Sekhmet, moglie di Ptah e divinità della guerra, ha corpo di donna e testa di leone; Mitra, il dio solare siriaco, è raffigurato anch’esso con una testa di leone su corpo umano). Lo si considerava anche simbolo di giustizia, perché è animale che uccide solo per sfamarsi, mai per puro gusto di farlo: questa idea di giustizia, collegata alla sua regalità, passò poi nella concezione cristiana, che vide nel leone anche i simboli della misericordia e della resurrezione di Cristo. Abbiamo già evidenziato come sia stato utilizzato, nell’immagine del quadrilobo che sta tra i due riquadri del Compianto sul Cristo morto e del Noli me tangere, un testo di età protocristiana, il Fisiologo, da cui derivarono nel Medioevo cristiano numerosi bestiari, manuali utili a interpretare gli elementi naturali inquadrandoli come manifestazione di Dio o come segni del male. È la scena del leone che alita sui suoi cuccioli destandoli alla vita. Per il Fisiologo il leone ha tre nature, che lo identificano con il Salvatore. Ricordiamolo. Prima natura: quando vaga sui monti ed è inseguito dai cacciatori, cancella con la coda le impronte che lascia sul terreno, ingannando gli inseguitori; così fece anche il Salvatore, «leone spirituale della tribù di Giuda, radice di Jesse, figlio di David», che nascose le impronte della sua divinità per salvare il genere umano che si era smarrito. Seconda natura: come il leone, quando dorme, non chiude mai gli occhi, così il Signore dormiva sulla Croce e nel sepolcro, ma la sua natura divina vegliava. Terza natura: il cucciolo di una leonessa nasce morto e la madre lo veglia morto per tre giorni, finché arriva il padre, soffia sul volto del figlio e gli dona la vita; così Dio padre onnipotente il terzo giorno resuscitò dai morti nostro Signore Gesù Cristo suo figlio, come dice Giacobbe: «Dormirà come un leone e come un giovane leone. Chi lo desterà?» (Genesi 49, 9). 250
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Il leone, infine, è presentato anche come simbolo di clemenza e di giustizia: «E si dice che l’uomo ha parte della natura del leone poiché, se non è ferito, non si adira facilmente. La loro clemenza si manifesta in effetti attraverso numerosi esempi: risparmiano infatti chi si prostra davanti a loro, permettono ai prigionieri che incontrano di tornare al luogo di provenienza, non uccidono l’uomo se non per grande fame».26 Cristo, Leone di Giuda, figlio di David, è risorto come il cucciolo del leone dalla morte, vivificato dallo spirito del Padre: il leone diventa così anche la Parola vivente, che alita lo Spirito Santo e richiama alla vita. La figura alata con muso di leone posta sotto il trono di cielo rappresenta simbolicamente la doppia natura di Cristo, la sua resurrezione, e i valori della forza, della clemenza e della giustizia. Nulla a che vedere con la simbologia dell’evangelista Marco. Anche il terzo evangelista esce dunque di scena. Il ritorno dell’aquila A fianco del leone alato c’è una figura di uccello con volto d’uomo. Siamo ancora una volta davanti a un essere dalla doppia natura, come nel caso del centauro, dell’orso e del leone alato. Ma rispetto a quest’ultimo siamo in una posizione rovesciata: il corpo è di uccello, la testa di uomo. Il viso è giovane e aggraziato, con labbra carnose, espressione enigmatica, occhi leggermente strabici. Il corpo è una sinfonia di penne con tonalità rosse, blu e gialle, di cui si intravedono ampie tracce, e ali dei medesimi colori. L’insieme trasmette un’idea di compostezza e di serenità. Quale simbologia si nasconde dietro questo splendido uccello, che ha ali compatibili con quelle di un grosso rapace, ma viso di uomo? Nei bestiari medievali ci sono molte simbologie legate al mondo degli uccelli e connesse con il cristianesimo. Tra 251
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queste ha un ruolo di assoluto rilievo l’aquila. L’immagine dell’aquila come simbolo del Cristo risorto e asceso al cielo appare già nei primi testi cristiani, e viene ripresa dai Padri della Chiesa, specie in collegamento con la credenza, già attestata nelle tradizioni pagane, del rigenerarsi dell’aquila nell’acqua viva di una fontana. Sant’Ambrogio dice che l’umanità «deposte le spoglie dell’antico errore, rinnovata nella giovinezza dell’aquila, si affretta a raggiungere quel celeste convivio».27 Accanto all’aquila mistica, il cristianesimo si appropria anche dell’immagine dell’aquila «psicopompa», conduttrice e guida delle anime, già presente nelle antiche culture mediterranee e mediorientali. A sua volta l’Aquila Christus sostituisce l’immagine dell’aquila associata nel mondo greco a Zeus e in quello romano a Giove, con forza sempre maggiore dopo l’editto di Costantino e il definitivo trionfo del cristianesimo operato sul finire del IV secolo dall’imperatore Teodosio (380 d.C.), che lo eleva a religione ufficiale dell’impero. Un’altra credenza, che Isidoro di Siviglia riprende da Plinio il Vecchio, sosteneva che l’aquila fosse l’unico volatile in grado di fissare a lungo il disco del sole e che esponesse i suoi piccoli ai raggi solari, riconoscendo quelli che erano in grado di reggerli e rinnegando quelli che non ci riuscivano.28 Di qui Onorio di Autun ricava, nello Speculum Ecclesiae, l’immagine di Cristo-Aquila che scaccia via dal nido del Paradiso i reprobi.29 In questa rivisitazione perfino il mito greco del giovane Ganimede, rapito da Zeus-Aquila, viene interpretato allegoricamente come un simbolo dell’ascensione dell’anima rapita in cielo da Cristo-Aquila fin dai primi tempi cristiani. L’aquila ha anche un altro importante valore simbolico, mirabilmente rappresentato da Dante (Paradiso, XVIIIXX), che nel settimo cielo del Paradiso, il cielo di Giove, rappresenta l’aquila, simbolo di Roma e dell’impero, come immagine della Giustizia. 252
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Al sacramento del battesimo e alla resurrezione rimanda invece la leggenda popolare ripresa dal Fisiologo: Dell’aquila dice Davide nel Salmo 102: «Si rinnoverà la tua giovinezza come quella dell’aquila». Il Fisiologo dice dell’aquila che ha questa natura: quando è invecchiata, le sue ali si appesantiscono e le si offusca la vista. Allora cerca una fonte e vola in alto fino al cielo del Sole e lì incendia le sue ali e con i raggi del sole brucia l’offuscamento della vista; allora scende di nuovo alla fonte e vi si immerge tre volte, e immediatamente si rinnova del tutto, tanto che rinasce molto migliorata nel vigore delle ali e nella chiarezza della vista. Perciò anche tu, uomo, che tu sia ebreo o gentile, che indossi un abito vecchio e hai offuscati gli occhi del tuo cuore, cerca la fonte spirituale del Signore, che disse: «Se uno non è rinato dall’acqua e dallo Spirito Santo, non può entrare nel Regno dei Cieli» (Giovanni 3, 5). Pertanto «se non sarai stato battezzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» e non leverai gli occhi del tuo cuore al Signore, che è sole di giustizia, non sarà la tua giovinezza rinnovata come quella dell’aquila.30
Come l’aquila invecchiata cerca la sorgente che rinnova la vita e la trova nell’acqua (il battesimo) e nel volo fino al cielo del Sole (Cristo), recuperando in misura superiore a quella originaria la pienezza della vista e il vigore delle ali, così l’uomo, ebreo o pagano che sia, se non dismette l’abito «vecchio» (vale a dire le «vecchie» credenze) e non elimina il velo che gli impedisce di vedere, levando i suoi occhi a contemplare Cristo, sole di giustizia, non potrà rinascere a nuova vita (rinnovare la giovinezza). Giotto dipinge come sempre con grande realismo, e il corpo e le ali di questo uccello sono verosimilmente quelli di un’aquila. I simboli rappresentati dall’aquila sono coerenti con la scena del Giudizio Universale: redenzione, 253
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resurrezione, ascensione, rinascita spirituale dell’uomo, ringiovanimento ed «eterna» giovinezza dovuti al battesimo e alla luce di Cristo, sole di giustizia. Proprio questo tema della giovinezza potrebbe spiegare il volto di uomo giovane, posto da Giotto nell’intento di evidenziare la doppia natura simbolica delle creature poste sotto il trono di Cristo Giudice. Comunque sia, per noi ci sono pochi dubbi che la figura in esame rappresenti un’aquila con il volto di un giovane uomo, simbolo della resurrezione e della rinascita (ringiovanimento) dell’anima in Cristo.31 In questa azione del rigenerarsi e rinascere la simbologia dell’aquila richiama quella della fenice, il leggendario uccello che muore bruciando del suo stesso fuoco e che rinasce piccolissimo dalle sue stesse ceneri, recuperando in tre giorni le fattezze e l’aspetto di prima. Presente in molte antiche culture, la leggenda della fenice fu trasmessa al mondo occidentale da Erodoto (II, 73), che la apprese in ambito egizio (il bennu egizio), e fu poi ripresa anche da molti scrittori e poeti latini,32 prima di essere adottata dal mondo cristiano, che vi vide il simbolo della resurrezione di Cristo. Nel corso del IV secolo la cristianizzazione della leggenda della fenice era definitivamente compiuta, come testimoniano il poemetto De ave phoenice, 85 distici elegiaci che la tradizione attribuisce a Lattanzio, e moltissimi luoghi dei Padri della Chiesa. La fenice-Cristo diventò il simbolo vivente della resurrezione, del rinnovamento dell’uomo attraverso il battesimo, della felicità recuperata, della vita eterna. La sua immagine appare su sepolcri, mosaici, monete, accanto a quelle di Cristo e dei santi e successivamente anche da sola. Spesso l’uccello fenice viene rappresentato con testa d’aquila, a dimostrazione di come venissero colte le affinità tra i simboli rappresentati da questi due uccelli. I bestiari medievali ne danno accurate descrizioni: i suoi colori, come già in Erodoto, sono il rosso (phoenix è la «porpora») e il giallo oro, cui si unisce il blu, il colore del cielo, simbolo di Cristo. Rosso, 254
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giallo e blu sono i colori qui usati da Giotto. La leggenda della fenice è riportata anche dal Fisiologo, subito dopo la descrizione dell’aquila: C’è un altro volatile, che è detto fenice, la cui figura assume Nostro Signore Gesù Cristo, che nel suo Vangelo dice: «Posso lasciare la mia vita e poi riprenderla di nuovo». Per queste parole i Giudei si adirarono e volevano lapidarlo. C’è dunque un uccello, che vive in alcune zone dell’India, detto fenice. Di lui il Fisiologo dice che, trascorsi cinquecento anni della sua vita, raggiunge gli alberi del Libano e riempie entrambe le ali con diversi aromi; e con determinati segni lo annuncia al sacerdote di Eliopoli, cioè nel nono mese, nisan o adar, vale a dire sarmath o famenoth, che è il mese di marzo o di aprile. Una volta dato questo segnale al sacerdote, egli entra e riempie l’altare di legna secca. Appena giunto, l’uccello entra nella città di Eliopoli pieno di tutti gli aromi su entrambe le ali; e subito, vedendo la fascina di legna secca sull’altare, vi si posa; e spargendo aromi tutt’intorno accende il fuoco e si lascia completamente bruciare. Il giorno dopo viene il sacerdote, vede arsa la legna che aveva posto sull’altare e, osservando attentamente, vi rinviene un piccolo vermiciattolo, che emana un profumo meraviglioso. Il secondo giorno trova ormai la figura di un uccellino. Ritornando il terzo giorno, il sacerdote trova che ormai l’uccello fenice ha recuperato perfettamente e compiutamente il suo aspetto e, salutando il sacerdote, spicca di nuovo il volo e fa ritorno al suo luogo di prima. Così dunque questo uccello ha il potere di darsi la morte e di ridare nuovamente vita a se stesso, allo stesso modo in cui gli uomini stolti si adirano alla parola di nostro Signore Gesù Cristo, il quale, come vero uomo e vero figlio di Dio, ha il potere di deporre la sua vita e di riprenderla di nuovo. Come abbiamo detto prima, assume dunque la personalità del nostro Salvatore, che scendendo dal cielo riempì entrambe le sue ali di soavissimi profumi, e cioè i discorsi del Nuovo e 255
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dell’Antico Testamento, dicendo: «Non sono venuto a distruggere la legge, ma ad adempierla». E di nuovo: «Così sarà ogni scrittore dotto nel regno dei cieli, che offre cose nuove e antiche dal suo tesoro».33
È il momento di trarre le conclusioni. La prima, certa e inequivocabile, è che le quattro figure che si intravedono sotto il trono di Cristo Giudice non rappresentano gli evangelisti. Giotto li ritrae nelle fasce esterne delle due pareti, in modo da farli risultare all’inizio e alla fine delle storie evangeliche. Nessun simbolo li distingue. Si riconoscono facilmente sulla parete nord i due evangelisti che furono anche apostoli di Gesù, e cioè Giovanni (per la giovane età e i tratti già noti, anche se qui Giotto lo raffigura con un filo di barba) e Matteo, che è all’altro capo della parete. Sulla parete sud, invece, Marco e Luca non sono individuabili con esattezza: Giotto li ritrae anziani, con il calamo in mano, nell’atto di scrivere su un foglio posto sullo scrittoio. Le quattro figure situate sotto il trono di Cristo Giudice presentano tutte una doppia natura, umana e animale, con una disposizione chiastica: quelle esterne presentano corpo umano e testa d’animale (leone e orso), mentre quelle interne hanno corpo di animale e testa oppure busto e testa di uomo (aquila e centauro). Questa doppia natura evoca simbolicamente la doppia natura, umana e divina, di Cristo, sottolineata dall’immagine stessa del Cristo Giudice, con l’evidenza della tunica rossa, delle stimmate e della cicatrice al costato. La mortalità del divino, non va mai dimenticato, è l’essenza stessa del cristianesimo: tramite Cristo, la beata speranza, fattosi uomo e morto sulla croce per poi rinascere e assurgere in cielo, l’umanità dei credenti è redenta e definitivamente salvata dalla morte. Non regge invece l’ipotesi di vedere celate in queste figure una valenza astrologica (come potrebbe suggerire il fatto che pesce, centauro-sagittario e leone richiamano tre 256
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segni dello zodiaco e l’orso possa alludere all’Orsa maggiore o minore) perché siamo nel momento del Giudizio Universale, mentre la possibile influenza degli astri (secondo la nota definizione astra inclinant, non necessitant) concerne semmai il libero agire dell’uomo. Leone, aquila, centauro, orso (orsa) e pesce, sono simboli di Cristo che la cultura medievale, specie dopo il Mille, in epoca romanica, riprende dalla più antica tradizione cristiana: rappresentano allegoricamente la vittoria sulla morte, la redenzione dell’umanità, la resurrezione, l’ascensione, la seconda e definitiva nascita dopo la fine del mondo e il Giudizio Universale, e insieme hanno anche la caratteristica di guida delle anime in cielo e di loro elevazione dal mondo del peccato alla sfera del bene. L’iconologia del Cristo Giudice è del resto assai diversa da quella del Cristo Trionfante, la Maiestas Domini. Quest’ultima, derivando da Apocalisse 4, 1-7, è solitamente accompagnata dall’immagine dei quattro Viventi e dei ventiquattro Vegliardi, mentre il riferimento al Cristo Giudice è nel capitolo 20, 11-15: l’esegesi medievale non confonde, come purtroppo facciamo noi, Apocalisse (che è la Rivelazione, l’avvio del settimo giorno, il millennio della Chiesa) e fine del mondo.34 E non li confondeva certo un teologo di così ampia dottrina come Alberto da Padova. Ancora una volta la Cappella degli Scrovegni ci sorprende con immagini e allegorie che costituiscono un unicum assoluto nella storia dell’arte e della simbologia cristologica medievale. La Gerusalemme celeste In alto due angeli stanno arrotolando il cielo, simbolo del mondo e del tempo del mondo, come fosse un sipario o una pergamena (cfr. figg. 24-25) . È l’immagine di Apocalisse di Giovanni 6, 14, 257
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Il cielo si ritirò come un volume che si arrotola e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto,
che riprende il libro del profeta Isaia (34, 4, la cosiddetta Piccola Apocalisse): Tutta la milizia celeste si dissolve, i cieli si arrotolano come un libro, tutti i loro astri cadono come cade il pampino della vite, come le foglie avvizzite del fico.
Il cielo blu stellato, che permea di sé tutto il ciclo pittorico e simboleggia la presenza di Dio nel creato e nella storia, lascia per sempre il regno dell’effimero. Alle spalle dei due angeli, vestiti di verde, il loro colore paradisiaco, appaiono le splendide porte della Gerusalemme celeste, regno della Luce di Dio, di cui le pietre preziose sono emanazione e riflesso, e le dodici porte son dodici perle: Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l’ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l’undecimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta è formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente. Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio (Apocalisse di Giovanni 21, 18-22).
Il sole e la luna, che ancora si vedono a sinistra e a destra della grande finestra centrale, trilobata come la Trinità divina, stanno per scomparire anche loro: 258
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la città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello (Apocalisse di Giovanni 21, 23).
Spariranno anche le stelle a otto punte che costellano il cielo con la luce del loro colore giallo oro. L’ottagono, antico simbolo esoterico dell’incontro tra il quadrato e il cerchio, raffigurazioni simboliche della terra e del cielo, rappresenta nell’arte cristiana e islamica il concetto di ordine cosmico e di rigenerazione spirituale, e il percorso dal mondo terreno alla salvezza eterna, a quell’ottavo giorno che è il tempo di Dio. Per questo i fonti battesimali delle nostre chiese sono quasi sempre di forma ottagonale e il numero otto, coricato, indica tuttora l’infinito. Con il Giudizio Universale e la visione della Gerusalemme celeste il viaggio all’interno della Cappella degli Scrovegni ci riporta al Paradiso, da cui tutto era iniziato. In una conchiusa, esatta specularità, dall’alto dell’arco trionfale abbiamo seguito la via discendente a spirale fino al percorso, terreno, del quarto registro e seguendo l’aereo slancio della Speranza siamo risaliti in alto fino all’apice della controfacciata. Ci attende ora il messaggio finale.
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15 Un monito a Enrico Scrovegni
Ogni 25 marzo, festa dell’Annunciazione a Maria, Enrico Scrovegni accoglieva nell’Arena la rituale processione cittadina e apriva al pubblico la cappella annessa al palazzo. All’uscita, l’ultimo sguardo degli ospiti si posava sulla grandiosa scena del Giudizio Universale. Un monito per tutti, un forte richiamo a seguire i precetti evangelici e gli insegnamenti della Chiesa. Enrico, invece, rientrava in casa passando attraverso la porta di comunicazione interna, quella stessa da cui entrano ed escono gli odierni visitatori.1 Sopra questa porta, dal lato interno, Giotto ha dipinto due tondi, avvolti da eleganti motivi fitomorfi. In quello di sinistra c’è una giovane dall’espressione sorridente e cordiale, che porta sul capo una corona, simbolo di elezione e di nobiltà. Le chiome compostamente raccolte a incorniciare il viso, stringe nella sinistra un libro
Sovrapporta con figure allegoriche.
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Sovrapporta, particolare.
chiuso, mentre la destra presenta tre dita, pollice, indice e medio, aperte in un gesto che accenna alla figura dell’uomo ritratto nell’altro tondo. La corona, l’aspetto sorridente, il libro e il gesto cordiale della mano trasmettono un’idea positiva di serenità, di equilibrio, di saggezza. In apparente contrasto con questa atmosfera distesa le fuoriescono dagli occhi due nodose clave, che si allargano nello spazio in direzione opposta, formando un angolo di 180 gradi. La figura maschile sulla destra presenta i tratti tipici dell’uomo culturalmente e civilmente arretrato: il corpetto di pelliccia annodato in vita, le braccia nude, la bocca spalancata, lo sguardo stupito, la testa calva, un lungo nodoso bastone brandito con la destra e appoggiato sulla spalla. Il volto, di profilo, guarda verso la giovane donna coronata dall’altro lato della sovrapporta. Qual è il significato di queste immagini? Che cosa vogliono dire? 264
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Pochi studiosi se ne sono occupati. La prima interpretazione è di un americano, Andrew Ladis, che nel 1986 vi individua i tratti della Stultitia (erroneamente tradotta con folly, «follia»), del grottesco e della deformità operata dai vizi: in entrambe le figure Giotto renderebbe chiaro il difetto caratteristico della folly: l’ignoranza cieca (the blind ignorance). La donna rappresenterebbe la Stultitia che stringe tra le mani il sapere (il libro), ma non è in grado di leggerlo per via delle clave che le escono dagli occhi, mentre l’uomo altro non sarebbe che un selvaggio, o addirittura il re dei selvaggi, come dimostrano la sua veste e la presenza della clava.2 Sven Georg Mieth, lo studioso tedesco autore di una teoria che vede nella Cappella degli Scrovegni una casa della memoria (domus mnemotecnica) e la realizzazione di un programma mnemotecnico, interpreta queste figure partendo da Jacopone da Todi e dal pensiero francescano minorita collegato con il passo paolino della Prima lettera 265
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ai Corinzi in cui si parla della stultitia crucis. Mieth identifica nella coppia i custodi posti all’ingresso della casa, dove la donna, le cui «eleganti sembianze appaiono, però, stranamente sfigurate dalle due nodose mazze che prorompono dagli occhi», rappresenta la cieca sapienza umana che, additando l’uomo, vuol significare che solo lui, lo stolto servitore dell’amore, è in grado di concedere l’ingresso: «Forse la donna rammenta che è lo stolto inviato da Dio, e non lei stessa, a decidere chi può entrare».3 Un altro studioso tedesco, Gosbert Schüßler, identifica nella donna la sapientia saeculi di cui parla san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (3, 18) «Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; [3, 19] perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio», e nell’uomo lo stolto, l’insipiens dei Salmi 52 (53), 2 e 13 (14), 1, che pensa che Dio non esista.4 Irene Hueck, infine, ipotizza che la donna, «se non fosse incapace di vedere e di distinguere, potrebbe essere la sorella della Prudencia sulla parete opposta», e prosegue: «Forse dobbiamo intendere la coppia di ignoranti sopra la porta come l’inizio del ciclo delle personificazioni, dove è ancora aperta la scelta. Il selvaggio guarda in direzione dei Vizi e probabilmente seguirà la strada della Stoltezza. La donna ha l’aspetto troppo sereno per essere ferita da queste orrende clave. Se riuscisse a toglierle dagli occhi, potrebbe ancora incamminarsi verso la Virtù».5 Nessuna di queste ipotesi appare soddisfacente. Per interpretare un simbolo è necessario contestualizzarlo. Per comprendere il significato di queste due figure dobbiamo chiederci in che rapporto stiano con il programma teologico che è alla base della concezione della Cappella degli Scrovegni. Il che esclude, per esempio, qualunque relazione con la sequenza vizi-virtù, che è in sé perfettamente e logicamente conchiusa, o con il noto luogo del Vangelo di Matteo (7, 3-5): 266
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Perché osservi la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? O come potrai dire a tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello.
L’immagine evangelica rimanda infatti al tema «non giudicare per non essere giudicati», che è estraneo al nostro contesto. La funzione di queste immagini è legata alla loro collocazione: la porta d’uscita «privata» dalla Cappella. Di lì passava il padrone di casa per fare rientro nel suo palazzo e dunque è a lui che si rivolgono, è a lui che rivolgono il loro messaggio. La chiave di volta è capire il significato allegorico delle clave che fuoriescono dagli occhi della giovane. Non c’è dubbio che stiano indicando qualcosa, che vogliano richiamare la nostra attenzione su qualcosa. Sono figurazioni simboliche della vista, la vista complessiva, a 180 gradi, della Cappella degli Scrovegni. Per indicare a gesti l’oggetto su cui si desidera richiamare l’attenzione, normalmente si accostano agli occhi l’indice e il medio della mano uniti a forma di V (oppure l’indice a un occhio e/o in successione a entrambi gli occhi) e li si puntano poi in direzione dell’oggetto. Così facendo, in realtà, si simula una doppia proiezione conica, la cui base è costituita dall’oggetto e i cui vertici sono costituiti dagli occhi. Come si può rappresentare l’atto del vedere? Come può indicare l’oggetto di una visione? I bastoni della visione Il meccanismo della visione poggia su tre elementi: l’organo della vista, l’oggetto da vedere e il tramite tra l’uno e l’altro (l’aria). I Greci spiegavano il meccanismo di percezione 267
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del mondo esterno con la teoria dei sensi, organi periferici collegati da una fitta rete di nervi con il cervello, sede dell’anima o psiche, che elabora i segnali pervenuti ai sensi (gli occhi, le orecchie, il naso, a seconda che si tratti di immagini, di suoni o di odori) e da questi vengono trasmessi al cervello attraverso i nervi. Luce e colore erano entità soggettive create dal cervello per rappresentare i segnali provenienti dall’esterno. La vista, come le altre percezioni, era considerata di natura tattile, basata cioè sul contatto con l’oggetto, con la differenza che mentre negli altri sensi ogni percezione è sostanzialmente singola, nella visione si è contemporaneamente in contatto con un’infinità di oggetti e di colori, tutti nitidamente percepiti. Ci si chiedeva se la luce muovesse dall’occhio e andasse a colpire l’oggetto, o se al contrario fosse l’oggetto a emettere raggi luminosi in direzione dell’occhio. Nacquero due scuole di pensiero e diverse teorie. Empedocle riteneva che i raggi luminosi fossero emessi dagli occhi e raggiungessero gli oggetti secondo una velocità finita (la cosiddetta teoria degli effluvi).6 Gli atomisti, Democrito e Leucippo, ipotizzando che dai singoli oggetti emanasse un qualcosa di ben definito, che non era l’oggetto in sé, ma una sua rappresentazione, elaborarono la cosiddetta teoria delle scorze, immagini che rivestirebbero i corpi e se ne distaccherebbero nel momento della visione, raggiungendo l’occhio in un progressivo processo di riduzione che consente all’immagine di penetrare nella pupilla. Questa teoria lasciava di fatto irrisolti molti problemi (non forniva alcuna spiegazione, per esempio, su come avvenisse la percezione della distanza e delle dimensioni degli oggetti, o su come l’occhio posto in posizioni diverse potesse vedere lo stesso oggetto, il che implicava che le scorze partenti da una stessa posizione si contraessero in modo diverso a seconda dell’angolazione e della distanza dall’occhio, per non parlare delle immagini riflesse in uno specchio, e così via). Platone, nel tentativo di conciliare le posizioni di Empedocle con quelle degli atomisti, formulò 268
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nel Timeo una complessa teoria, basata sull’attrazione dei simili: la visione si attuerebbe quando, grazie al fuoco della luce diurna, il fuoco visuale contenuto nel globo oculare si incontra con quello irradiato dagli oggetti.7 Aristotele ipotizzò che la luce si propagasse attraverso un quinto elemento (da lui aggiunto ai tradizionali: aria, acqua, terra e fuoco) dotato di sue caratteristiche peculiari, e cioè non pesante né leggero né mutevole, che chiamò diafano, e sostenne che la vista è prodotta dal movimento: «Non c’è vedere senza luce, ma, sia la luce o l’aria l’intermediario tra l’oggetto veduto e l’occhio, è il movimento che si produce attraverso esso a causare il vedere».8 Un’importante svolta nella storia dell’ottica antica fu operata da Euclide. Il grande scienziato, autore del più antico trattato di ottica che ci sia pervenuto (diviso in due parti, Ottica e Catottrica, quest’ultima di dubbia autenticità e forse più tarda), concepì la rivoluzionaria teoria dei raggi visuali, introducendo il concetto di raggio rettilineo, pura costruzione geometrica, lunghezza senza larghezza, anche se rimase ancorato all’idea che i raggi luminosi si propagassero dall’occhio verso gli oggetti osservati.9 Pochi anni dopo la formulazione delle teorie di Euclide si datano le ricerche del filosofo stoico Crisippo di Soli, sulle quali abbiamo una preziosa testimonianza conservata da Diogene Laerzio (III d. C.): La vista è resa possibile dalla luce che si estende in forma di cono fra l’organo della vista e l’oggetto osservato, come dicono Crisippo nel secondo libro della Fisica e Apollodoro. Nell’aria si forma un cono, che ha il vertice nell’occhio e la base nell’oggetto osservato. In tal modo ciò che si vede è trasmesso attraverso l’aria in tensione come per mezzo di un bastone.10
Analoga immagine si trova in Alessandro d’Afrodisia (IIIII secolo d.C.): 269
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Alcuni dicono che la visione è prodotta dalla tensione dell’aria. Colpita infatti dalla vista, l’aria che tocca la pupilla prende la forma di un cono: quando questo è come configurato alla base dagli oggetti visibili, si produce la sensazione visiva, come avviene anche nel tatto, per mezzo di un bastone.11
Questa immagine tattile della vista, che muove incontro agli oggetti e li riconosce come se li toccasse con un bastone, riappare nel Primo discorso della Diottrica di Cartesio: Qualche volta, procedendo di notte senza torcia, per luoghi un po’ malagevoli, vi sarà certamente accaduto, per saper dove mettere i piedi, di dovervi aiutare con un bastone: allora, avrete potuto notare che percepivate, per l’interposizione di questo bastone, i vari oggetti che vi circondavano e che potevate perfino distinguere se erano alberi, pietre, sabbia, acqua, erba, fango o altre cose di questo genere. È vero che questa specie di sensazione, per chi non ne abbia lunga consuetudine, risulta un po’ confusa ed oscura, ma consideratela in quelli che, nati ciechi, se ne sono serviti per tutta la vita e in essi la troverete così perfetta ed esatta da poter quasi dire che vedono con le mani o che il bastone che usano è l’organo di qualche sesto senso concesso loro al posto della vista. Per trarre da ciò un paragone, desidero che pensiate che la luce, nei corpi che si dicono luminosi, altro non sia che un certo movimento o azione rapidissima e vivissima che si trasmette ai nostri occhi attraverso l’aria ed altri corpi trasparenti, nello stesso modo in cui il movimento o la resistenza dei corpi, che incontra quel cieco, si trasmetterebbe alla sua mano attraverso il bastone. Questo esempio vi impedirà di trovare strano che la luce possa in un istante diffondere i suoi raggi dal sole fino a noi: sapete infatti che l’azione per cui si muove una dell’estremità di un bastone deve in tal modo passare in un istante fino all’altra 270
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e che dovrebbe passarvi nello stesso modo anche se tra l’una e l’altra vi fosse maggior distanza di quella che c’è dalla terra al cielo. Neppure troverete strano che per suo mezzo sia possibile vedere ogni sorta di colori; e forse crederete anche che questi colori, nei corpi che si dicono colorati, altro non siano che i diversi modi in cui tali corpi ricevono la luce e la rinviano contro i nostri occhi, se considerate che le differenze che un cieco nota tra alberi, pietre, acqua e simili cose mediante l’interposizione del suo bastone non gli sembrano minori di quelle che per noi sussistono tra il rosso, il giallo, il verde e tutti gli altri colori e che, tuttavia, queste differenze in tutti quei corpi altro non sono che i diversi modi di muovere quel bastone o di resistere ai suoi movimenti.12
Come un cieco può rendersi conto della forma di un corpo anche senza toccarlo con le mani, ma semplicemente sondandolo con un bastone, così dall’occhio escono raggi simili a bastoni, capaci di scrutare il mondo esterno e di fornire alla psiche gli elementi per discernere forme e colori. Le «clave» che escono dagli occhi dell’immagine femminile della sovrapporta rappresentano il meccanismo della visione, sono raggi simili a bastoni capaci di scrutare il mondo esterno, di abbracciare a 180 gradi la Cappella e di fornire alla psiche gli elementi per discernere forme e colori. Quale concezione dell’ottica medievale è sottesa a questa raffigurazione? Se non abbiamo certezze sulla conoscenza del testo di Diogene Laerzio, di cui esisteva comunque una versione latina,13 l’opera di Alessandro di Afrodisia era stata invece ampiamente recepita dal mondo arabo, che aveva poi fatto da tramite per la sua diffusione in Occidente.14 Le teorie esposte da Avicenna nel Liber sextus naturalium, o De anima, esercitarono una grande influenza sullo sviluppo dell’ottica medievale, specie per 271
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quanto riguarda le nozioni relative ai colori, alla luce fisica, al concetto di «medio» o «diafano», ispirando tra l’altro la teoria psicologica della prospettiva di Ruggero Bacone. Enorme importanza ebbe poi Alhazen, contemporaneo di Avicenna (morirono entrambi intorno al 1040), che rovesciò l’impostazione euclidea, dimostrando come il meccanismo della visione sia prodotto attraverso raggi emessi dall’oggetto all’occhio.15 Che grado di conoscenze si poteva avere in questo campo in una realtà dinamica e di grande vitalità culturale come la Padova di inizio Trecento? Sono temi importanti e che meritano di essere approfonditi.16 L’immagine giottesca della donna con le clave rappresenta il meccanismo della visione, ne è probabilmente la più antica rappresentazione. Ancora una volta è un unicum. Ma qual è il messaggio? Nel cuore del Paradiso dantesco, nel canto XVII, Cacciaguida, l’antenato di Dante, invita il poeta a rendere noto, appena sarà tornato nel mondo dei vivi, tutto quello che ha «visto» nel viaggio ultraterreno, senza minimamente curarsi delle «coscienze fusche»: è stato chiamato a compiere questo viaggio per vedere e per testimoniare, e le sue parole, anche se inizialmente riusciranno amare, lasceranno poi negli uomini il vital nutrimento della verità: Coscienza fusca o de la propria o dell’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. Ma nondimen, rimossa ogni menzogna, tutta tua vision fa manifesta; e lascia pur grattar dov’è la rogna.
Anche Enrico Scrovegni ha appena compiuto un viaggio e ha visto. Giotto gli ha raccontato la storia della riconcilia272
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zione di Dio con l’umanità, gli ha indicato il duplice percorso di salvezza, terrena e ultraterrena, rappresentato dalla sequenza dei vizi e delle virtù, gli ha mostrato gli orrori dell’Inferno e la via che conduce in Paradiso. Ora, mentre sta rientrando nel palazzo, Enrico si sente rivolgere lo stesso invito di Beatrice a Dante nel V canto del Paradiso (vv. 40-42): Apri la mente a quel ch’io ti paleso e fermalvi entro; ché non fa scienza, sanza lo ritenere, avere inteso.
Non c’è conoscenza, non c’è apprendimento vero se non si tiene nella memoria ciò che si è visto. Prima di intraprendere questo «viaggio» Enrico era come l’uomo del tondo di destra, che non rappresenta un selvaggio, ma la condizione dello «stolto», dell’uomo inconsapevole, affetto da ignoranza etica, che non sa distinguere ciò che è bene da ciò che è male (in questo senso la sua iconografia presenta tratti che richiamano la raffigurazione della Stultitia). È l’uomo che non sa, il simbolo dello status dell’uomo prima del perdono divino e del percorso predisposto da Dio per la salvezza dell’umanità. La donna, simbolo della sapienza (il libro) e dell’elevazione spirituale (la corona), gli ricorda con un sorriso che anche lui, come tutti gli uomini, era prima un inconsapevole, uno «stolto», e ora invece sa, perché ha visto ciò che Dio ha fatto per lui, conosce ciò che gli è stato rivelato, compreso il cammino virtuoso per superare gli ostacoli dei vizi e raggiungere il duplice traguardo della felicità in terra (legata alla natura mortale dell’uomo) e della felicità in cielo (legata alla natura immortale dell’uomo), del Paradiso terrestre, simboleggiato dalla Giustizia, «madre» della pace, e del Paradiso celeste. Nel momento in cui rientra nel palazzo, la sapienza lo accompagna con un sorriso e l’invito ad aprire la mente a 273
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quello che ci è stato mostrato e di tenerlo vivo nella memoria, ché non fa scienza, sanza lo ritenere, avere inteso.
Questo messaggio lo rivolge oggi a tutti noi. Anche noi abbiamo visto e siamo giunti alla fine del viaggio.
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16 Il transito di Maria
Giotto non interviene nella zona absidale, che tradizionalmente è la più significativa dello spazio interno di un edificio sacro. Questa parte della Cappella, che accoglie anche la tomba di Enrico e della sua seconda moglie, presenta un restringimento inconsueto e trasmette un senso di incompletezza, quasi di disordine.1 Nulla a che vedere con la scansione aerea e misurata della navata. È un’altra musica, un’incompiuta, con qualche stonatura. Il mancato intervento di Giotto fu una scelta, progettuale o contrattuale, o l’esito di circostanze che non conosciamo? Anche nel riquadro inferiore destro dell’arco trionfale, sopra il piccolo altare dedicato a santa Caterina d’Alessandria, la perfetta simmetria giottesca è alterata da una decorazione a fresco – con due tondi con busti di sante e una lunetta che rappresenta Cristo in gloria e due episodi della Passione, la preghiera nell’orto del Getsemani e la flagellazione –, che crea un effetto di squilibrio. La mano è la stessa che affresca gran parte della zona absidale, un pittore ignoto, il Maestro del coro Scrovegni, che secondo la critica opererebbe intorno al 1320, una quindicina d’anni dopo Giotto. Il Maestro del coro Scrovegni Il punto focale del suo intervento sono sei grandi scene sulle pareti laterali del presbiterio, dedicate all’ultima fase 279
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della vita terrena della Madonna, la cosiddetta Dormizione di Maria, che si conclude con l’assunzione in cielo e l’incoronazione della Vergine. Questo tema è coerente con il programma affrescato da Giotto. Il percorso di lettura prende avvio in alto, sulla parete di sinistra, e scende per poi risalire lungo la parete opposta. Lo stesso andamento ritmico del ciclo affrescato da Giotto. Le scene rappresentano l’annuncio della morte a Maria, il saluto degli apostoli al suo capezzale, la Dormitio Virginis, i funerali di Maria, l’assunzione e l’incoronazione. La fonte è in alcuni vangeli apocrifi, che sono alla base anche del racconto di Iacopo da Varazze nella Legenda Aurea. Prendiamo come testo di riferimento il Transito di Maria dello Pseudo Giuseppe di Arimatea, noto come Transitus Mariae, A.2 L’annuncio della morte a Maria La narrazione inizia con un umanissimo dialogo tra Maria e Gesù: «Figlio carissimo, ti supplico per la tua santità: tre giorni prima che la mia anima lasci il corpo, fammelo sapere e accoglila, amato figlio, con i tuoi angeli». E lui accolse la preghiera della madre diletta e rispose: «Abitazione e tempio del Dio vivo, madre benedetta, regina di tutti i santi e benedetta fra tutte le donne: prima che mi portassi nel tuo seno ti ho sempre custodita e nutrita ogni giorno col mio cibo angelico. Come posso abbandonarti, dopo che mi hai portato e nutrito, dopo che mi hai condotto nella fuga in Egitto e hai sopportato per me mille angustie? I miei angeli ti hanno sempre custodita e ti custodiranno fino al tuo transito. Dopo che avrò sofferto la passione per gli uomini, conforme alle scritture, sarò risorto il terzo giorno e salito al cielo dopo quaranta giorni, quando mi vedrai venire a te con angeli e arcangeli, santi, vergini e i miei discepoli, sii certa che, se280
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parandosi la tua anima dal corpo, io la porterò in cielo, dove non soffrirà più alcuna tribolazione o angustia».
È trascorso poco più di un anno da questo speciale momento: Maria passava i giorni e le notti raccolta in preghiera. Tre giorni prima di morire le apparve un angelo, che le disse: «Ave Maria, piena di grazie: il Signore è con te! [...] Prendi questa palma che ti ha promesso il Signore». E lei, con grande gioia, ringraziando Dio, ricevette la palma, che le era stata inviata, dalla mano dell’angelo. Questi quindi le disse: «Di qui a tre giorni sarai assunta». E lei: «Siano grazie a Dio», rispose.
Un altro vangelo apocrifo, il Transito R, che si presenta come racconto di san Giovanni evangelista, riferisce più in dettaglio il discorso dell’angelo e il significato della palma, che dovrà aprire il corteo funebre: Maria, alzati, prendi questa palma datami da colui che ha piantato il paradiso e dalla agli apostoli perché la portino cantando inni davanti a te [...] Sarà strumento di molti prodigi e metterà alla prova tutti gli uomini di Gerusalemme; sarà manifestata a colui che crede e sarà nascosta a colui che non crede.3
Rimasta sola Maria mandò a chiamare Giuseppe d’Arimatea e altri discepoli, amici e conoscenti, e rivelò loro il messaggio dell’angelo. Quindi la beata Maria si lavò e, vestitasi come regina, attendeva l’arrivo del figlio, come le aveva promesso. Pregò tutti i parenti di assisterla e consolarla. Aveva con sé tre vergini: Seffora, Abigea e Zael. Gli apostoli di Gesù Cristo signore maestro si trovavano allora dispersi per il mondo, intenti a evangelizzare il popolo di Dio.
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La lunetta in alto sulla parete di sinistra mostra il momento dell’annuncio e insieme lo sviluppo immediatamente successivo. La Madonna è in ginocchio, le mani giunte nella preghiera e levate in alto. La sua nobile figura è inquadrata al centro di una struttura architettonica complessa, ma assai deteriorata nella parte superiore. Oggi l’angelo non è più visibile, per l’apertura di una finestra proprio in quel punto. In piedi, al margine destro della lunetta, all’esterno della casa di Maria, scorgiamo due anziani, Giuseppe d’Arimatea e, forse, Nicodemo, mentre le tre ragazze, Seffora, Abigea e Zael, sono ritratte in diversi atteggiamenti in un vano interno alla casa. Osserviamo subito un particolare di sapore arcaico, che ritorna costante nelle scene dipinte dal Maestro del coro Scrovegni: la maggiore grandezza della figura di Maria rispetto alle altre, fatta eccezione per Gesù nella scena finale della incoronazione. Il saluto degli apostoli a Maria Gli apostoli, viaggiando su nubi, lasciano i luoghi lontani dove stanno annunciando la parola di Dio. Il primo a giungere, da Efeso, al capezzale di Maria è san Giovanni: «Figlio carissimo, perché mi hai lasciata per tanto tempo e non hai osservato il comando del tuo maestro di custodirmi come ti aveva ingiunto mentre pendeva dalla croce?». E lui, inginocchiato, domandava perdono. Allora la beata Maria lo benedisse e lo baciò nuovamente. Stava per chiedergli da dove veniva e perché era giunto a Gerusalemme, quand’ecco presentarsi alla porta della camera di Maria tutti gli apostoli del Signore, ad eccezione di Tommaso, il gemello.
Giovanni è in ginocchio, il capo piegato verso la mano sinistra della Madonna nell’atto di renderle omaggio con un bacio. Maria, seduta sul cuscino, lo ricambia accarezzan282
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dogli la spalla con tenero gesto materno. Pietro è in piedi, avvolto nel suo ampio mantello giallo sulla tunica azzurra, le mani congiunte in avanti, in atteggiamento compunto e commosso. Accanto a lui si riconoscono Giacomo Maggiore, fratello di Giovanni, e Andrea, mentre sulla soglia si inquadra la figura di Filippo. È evidente lo sforzo del frescante di garantire continuità con l’iconografia giottesca nel ritrarre le fattezze degli apostoli. La profondità della scena è assicurata da una architettura semplice, scandita da un balconcino e dalle travature longitudinali del soffitto, arricchito da motivi geometrici in bianco e nero. Alla ieratica e composta atmosfera dell’interno risponde per contrasto la vivacità della scena esterna. Due gruppi di tre apostoli danno vita a una composizione articolata e mossa: appena fuori della porta un uomo anziano, tunica azzurra e mantello rosso vivo, si volge con lo sguardo e il braccio alzato in un cenno di saluto verso due apostoli che sono ancora in volo, mentre altri due, appena arrivati, si scambiano un’affettuosa stretta di mano (uno è Bartolomeo, riconoscibile per l’elegante mantello bianco, mentre l’altro – lo stesso personaggio ritratto nella lunetta superiore sulla destra – potrebbe essere Nicodemo). Sesto e ultimo ecco Mattia, riconoscibile per la veste giallo scura, abilmente colto mentre sta per toccare il suolo. In una piccola stanza azzurra, posta di traverso sulla destra, ritroviamo le tre ragazze, Seffora, Abigea e Zael. La Dormitio Virginis Maria giace come addormentata, le braccia congiunte, il volto sereno, completamente avvolta nel suo manto blu ornato di ricami d’oro. Ventiquattro persone le fanno corona, uomini e donne, apostoli e amici. Due architetture disposte obliquamente ai lati fungono da quinta e prospettano verso il centro della composizione. In alto Cristo, at283
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Maestro del coro Scrovegni, Dormito Virginis.
torniato da una schiera di dodici angeli, accoglie teneramente, con gesto paterno, l’anima bambina della madre, che rinasce tra le braccia del figlio nel fulgore della luce. Giunta la domenica, alle nove del mattino, come lo Spirito santo era sceso sugli apostoli in una nube, così scese Cristo con moltitudine di angeli e ricevette l’anima della madre diletta.
Il testo apocrifo crea ora un’atmosfera di grande suggestione, di canti dolcissimi, profumi soavi, vivida luce. Mentre gli angeli cantavano quel passo del Cantico dei Cantici, dove il Signore dice: «Come il giglio tra le spine, così è la mia amica tra le figlie», si vide un tale splendore e si sparse un profumo soave che tutti i circostanti caddero con la faccia a terra. Nello stesso modo erano caduti gli apostoli, quando Cristo si trasfigurò davanti a loro, sul monte Tabor. Per un’ora e mezza ancora nessuno fu capace di alzarsi in piedi. Mentre la luce diminuiva, insieme con la stessa luce veniva assunta in cielo l’anima della beata vergine Maria con salmi, inni e testi del Cantico dei Cantici. Sollevandosi la nube, la terra tutta tremò e in un istante tutti gli abitanti 284
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di Gerusalemme capirono chiaramente che santa Maria era morta.
Ancora una volta il terremoto annuncia la partecipazione degli elementi alla venuta o alla scomparsa di una divinità, come credevano anche i nostri antichi, come ancor oggi si pensa, ad esempio, nel mondo buddista. Terra mota est anche nel momento in cui Gesù reclina il capo sulla croce (Matteo 27, 51). Il maestro del coro Scrovegni ricorderà questo momento nella scena dell’Assunzione. Qui invece punta più tradizionalmente a esprimere lo smarrimento, la coralità del dolore. Pietro, erede spirituale di Cristo e capo della sua chiesa, è in posizione d’onore, al centro, e legge la parola di Dio da un libro che tiene tra le mani, simbolo di autorità. Giovanni è in piedi accanto alla testata del letto, lo sguardo fisso su Maria. Due donne, inginocchiate in primo piano, conferiscono profondità alla scena. L’insieme, però, risulta piuttosto freddo: i volti inespressivi, la gestualità convenzionale e rigida, e alcuni particolari, come lo sguardo della seconda donna da sinistra, rivolto allo spettatore esterno, contrastano con la drammaticità della scena. Non si avverte quel pathos, quel coinvolgimento emotivo che vibra, per esempio, nella tavola della Dormitio Virginis dipinta da Giotto per la chiesa fiorentina di Ognissanti e che si trova ora nella Gemälde Galerie di Berlino. Non si coglie quella dimensione del lutto, del distacco definitivo, che Giotto sa descrivere con tanta umanità e divina sapienza d’artista. I funerali di Maria Alla morte di Maria, Satana si impossessò degli abitanti di Gerusalemme e ne suggestionò la mente incitandoli a uccidere gli apostoli e bruciare il corpo che aveva ospitato Cristo, il gran seduttore, ma la cecità li colpì e battevano il 285
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capo contro i muri o tra loro. Gli apostoli si levarono allora al canto di salmi e trasportarono il feretro dal monte Sion alla valle di Giosafat. Un giudeo, di nome Ruben, voleva gettare a terra il santo feretro con il corpo di Maria. Ma le sue mani si inaridirono fino al gomito. Volente o nolente, dovette scendere giù nella valle di Giosafat con lacrime amare, perché le mani gli si erano irrigidite sul feretro e non era più capace di riaverle. Cominciò pertanto a pregare gli apostoli, perché, con la loro intercessione, potesse salvarsi e divenire cristiano. Quelli allora, inginocchiandosi, pregarono il Signore di liberarlo. Fu risanato in quello stesso istante. Ringraziò Dio e baciò i piedi della regina, di tutti i santi e degli apostoli. Quindi fu battezzato sul posto e cominciò a predicare il nome del nostro Dio, Cristo Gesù.
Pietro apre la processione funebre stringendo la palma che l’angelo aveva lasciato a Maria e si volge a guardare con occhi severi Ruben, la testa piegata all’indietro, le mani incollate al feretro che voleva rovesciare. Un gruppo di angeli sorveglia e accompagna la scena dall’alto: due, uno armato di spada, muovono contro i giudei in balia di Satana, che in parte giacciono riversi al suolo, in parte mostrano ancora atteggiamenti minacciosi. Fanno da sfondo, a sinistra, le torri e la porta di Gerusalemme, a destra la diagonale di una roccia scoscesa e nuda, impreziosita da una rada vegetazione. L’Assunzione di Maria Giunti al monte Oliveto gli apostoli deposero il corpo nella tomba con grande onore, piangendo e intonando canti pieni d’amore e di dolcezza. Ed ecco all’improvviso una luce dal cielo li avvolse e, mentre cadevano a terra, il santo corpo fu assunto dagli angeli in cielo. 286
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Seduta su un trono di luce, avvolta in una mandorla intessuta di candidi gigli e sollevata da quattro angeli vestiti d’una tunica bianca profilata in oro, Maria assurge in cielo, ricongiungendo il corpo all’anima che già godeva della luce di Dio. Raggi luminosi squarciano la scena, come nel riquadro della Pentecoste. Ai lati del sepolcro gli apostoli ne sono abbacinati e travolti; tutti meno uno, discosto dagli altri, inginocchiato su un ripiano della quinta di roccia sulla sinistra, le braccia levate verso la Vergine, che a sua volta lo guarda e stende la destra verso di lui. È Tommaso, l’apostolo che non aveva creduto alla resurrezione del maestro e volle toccare per credere. In un raffinato contrappasso tocca ora a lui di vedere e non essere creduto. Il beatissimo Tommaso, in quel mentre, veniva d’un tratto trasportato al monte Oliveto e, vedendo il corpo fortunatissimo dirigersi verso il cielo, cominciò a gridare: «Madre santa, madre benedetta, madre immacolata, se ho trovato già grazia ai tuoi occhi, poiché mi è stato dato di contemplarti, rallegra pure il tuo servo con la tua bontà; ecco che tu te ne vai al cielo». In quel momento veniva gettata dall’alto a Tommaso la cintura, con la quale gli apostoli avevano cinto il corpo santissimo. L’apostolo la prese e, baciandola con ringraziamento a Dio, proseguì il cammino verso la valle di Giosafat. Qui trovò tutti gli apostoli con l’altra folla numerosa nell’atto di percuotersi il petto, sorpresi dal fulgore di cui erano stati testimoni. Rivedendosi, si baciarono. Il beato Pietro gli disse: «Per la tua incredulità Dio non ti ha concesso di trovarti presente con noi alla sepoltura della madre del Salvatore». E lui, percuotendosi il petto, rispose: «Lo so e credo fermamente che sono sempre stato un individuo malvagio e incredulo. Chiedo pertanto perdono a voi tutti per la mia ostinazione e incredulità». Tutti pregarono per lui. Quindi Tommaso continuò: «Dove avete posto il suo corpo?». Quelli glielo indicarono con il dito. Ma lui osservò: «Quel corpo, detto santissimo, non è là». Pietro allora gli replicò: «Già altra volta ti sei rifiutato di crederci a proposito della resurre287
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zione del maestro e signore nostro, a meno che non avessi toccato con le tue dita e veduto. E come ci crederesti che il santo corpo è qui?». Ma l’altro insisteva: «Qui non c’è!». Quelli, un po’ stizziti, si accostarono al sepolcro, scavato nuovo nella roccia. Tolsero la pietra e, non trovando il corpo, non sapevano che dire, vinti dalle parole di Tommaso. Questi allora raccontò loro che stava cantando la messa in India: era ancora vestito dei paramenti sacerdotali! Senza conoscere il piano di Dio, era stato trasportato al monte Oliveto, dove aveva visto il corpo di Maria salire al cielo. Egli l’aveva pregata di benedirlo. Lei esaudì la sua preghiera e gli gettò la cintura che aveva ai fianchi. Tommaso mostrò a tutti la cintura.
Subito dopo ecco riapparire le nuvole, che riportano gli apostoli nel luogo da cui li avevano trasportati e dove riprenderanno la loro missione di diffondere la parola di Dio. L’incoronazione di Maria Senza soluzione di continuità lo sguardo sale verso la lunetta dove Cristo, al cospetto della corte celeste solennemente riunita, incorona la Madre, seduta sul suo stesso trono. Maria, l’umile ancella, la pura senza macchia, la discepola perfetta del Signore, partecipa ora e per sempre della regalità di suo figlio. Nella terza ora della notte precedente il trapasso, racconta la Legenda aurea, Gesù era andato a trovare la madre, accompagnato dalle schiere angeliche, dai patriarchi e dai martiri, dal coro dei confessori e delle vergini, e per primo aveva intonato un canto soave: Vieni, eletta mia, e ti farò sedere sul mio trono, perché ho desiderio della tua vista.
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Maestro del coro Scrovegni, Incoronazione di Maria.
«Paratum, Domine, cor meum» fu la risposta, ripetuta due volte: «Il mio cuore è pronto, Signore!». «Beata mi diranno tutte le generazioni, perché grandi cose ha operato il Potente per me. Santo è il suo nome». Gesù la salutò allora con parole che echeggiano il Cantico dei Cantici (4, 8): Vieni dal Libano, sposa, vieni dal Libano, vieni, sarai incoronata!
Angeli, profeti, patriarchi, santi affollano la scena. Le gerarchie angeliche contornano la scena e avvolgono tutto della loro presenza. Ai lati del trono due file sovrapposte di patriarchi e profeti, gli stessi che accompagnano in cielo Gesù nel riquadro dell’Ascensione: sulla destra, in ginocchio, vediamo Giovanni Battista avvolto nel suo manto rosa, e a sinistra Simeone, il sacerdote che accolse Gesù bambino nella scena della Presentazione al tempio e riconobbe in lui il Messia. L’armonia celeste si diffonde dagli strumenti a corda, a fiato, a percussione (un liuto, una 289
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tromba, un tamburo) degli angeli musicanti, secondo l’iconografia classica che discende dal Salmo 150: Lodate il Signore nel suo santuario, lodatelo nel firmamento della sua potenza. Lodatelo per i suoi prodigi, lodatelo per la sua immensa grandezza. Lodatelo con squilli di tromba, lodatelo con arpa e cetra; lodatelo con timpani e danze, lodatelo sulle corde e sui flauti. Lodatelo con cembali sonori, lodatelo con cembali squillanti; ogni vivente dia lode al Signore.
È l’ultima scena narrata nella Cappella degli Scrovegni, nella chiesetta dedicata a Santa Maria della Carità. La scansione spaziale è perfetta: lungo le pareti della navata e dell’arco trionfale il programma sviluppa prima la storia sacra, la riconciliazione di Dio con l’uomo, e poi, nel quarto registro, il tema del libero arbitrio e del percorso individuale di salvezza. Giudizio Universale e avvento della Gerusalemme celeste chiudono la storia del mondo e avviano l’ottavo giorno, il tempo dell’eterno. Avevamo lasciato Maria nel riquadro dell’Ascensione di Cristo: la sua vicenda terrena si conclude nel presbiterio con l’assunzione e l’incoronazione come Regina coeli di colei che è la massima incarnazione dell’amore di Dio, la misura della perfezione umana, fonte inesauribile di speranza, advocata nostra. L’umile ancella del Signore ne è ora la sposa, simbolo dell’umanità redenta e della Chiesa universale. Per i teologi medievali la prefigurazione della Chiesa come sposa di Cristo è già nel Cantico dei Cantici, che solo i cristiani possono cogliere nella pienezza dei suoi significati allegorici, perché solo loro vedono nell’amore tra Dio e la Chiesa l’origine e il compendio della storia della salvezza. Analoga interpretazione allegorica era data alla coppia nuziale di Cana. Maria è la prefigu290
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razione della Chiesa, lei, madre e figlia di Dio, che a Gesù ha dato vita e da lui ha avuto e attende vita, ne diviene ora la sposa, amata di quell’amore che ha portato il Signore a farle dono della propria vita, per renderla santa e immacolata nell’amore. È l’invito che san Paolo rivolge ai mariti, di «amare le mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Lettera agli Efesini 5, 25-27). Sintesi mirabile di questa visione è la preghiera di san Bernardo, che apre il XXXIII canto del Paradiso: Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ’l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese l’amore per lo cui caldo nell’etterna pace così è germinato questo fiore. Qui se’ a noi meridiana face di caritate, e giuso, intra i mortali, se’ di speranza fontana vivace. Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia ed a te non ricorre, sua disianza vuol volar senz’ali. La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fiate liberamente al dimandar precorre. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate.
Dopo la scomparsa di Puccini, Franco Alfano, su incarico di Arturo Toscanini, completò la Turandot servendosi de291
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gli appunti lasciati dal maestro e utilizzando i temi e gli spunti musicali presenti nella partitura: allo stesso modo il Maestro del coro Scrovegni dipinge il transito di Maria riprendendo le iconografie e le atmosfere giottesche. Basti osservare i volti e le vesti degli apostoli, ma è evidente che l’intento di imitare il maestro finisce inesorabilmente per esaltarne l’inimitabile grandezza.4 L’evidente continuità, concettuale e narrativa, con il programma affrescato dal maestro toscano induce a pensare che la decorazione del presbiterio fosse prevista fin dall’inizio. Perché dunque l’incarico non fu affidato a Giotto? La risposta ce la dà – forse – lui stesso.
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17 Il transetto che non c’è
Torniamo alla scena in cui Enrico offre il modellino della Cappella alla Madonna e osserviamo con attenzione: l’edificio che poggia sulle spalle di Alberto non è quello che si vede oggi. Quel che più colpisce è la presenza nella parte absidale di un transetto che non c’è!5 La precisione di Giotto non lascerebbe spazio a dubbi: quel transetto, con tanto di cuspidi, che si innesta ad angolo retto, doveva esserci. Alcuni studiosi hanno supposto che Giotto abbia dipinto il progetto iniziale, successivamente modificato da una variante in corso d’opera. Lo proverebbero, a loro dire, anche i due eleganti coretti che si trovano sulle pareti dell’arco trionfale, con tanto di volte a crociera, bifore gotiche e lampadari pendenti, che Giotto avrebbe realizzato per creare un effetto ottico destinato a supplire in qualche modo alla mancata edificazione del transetto.6 L’ipotesi non sta in piedi, perché è impensabile che l’artista affreschi le pareti a costruzione non ultimata, in mezzo alla polvere sollevata dai muratori. Non regge nemmeno l’idea che Enrico offra alla Madonna un modello diverso dall’edificio effettivamente realizzato: questa scena, per il padrone di casa, è la più importante dell’intera Cappella! Che cosa avrebbero pensato i concittadini se l’avessero visto offrire alla Vergine una chiesetta più grande e più elegante di quella reale? Già era discutibile che si facesse ritrarre, lui, privato cittadino, in un gesto che fino a quel 293
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Arco trionfale, coretto sinistro. Visione esterna della Cappella degli Scrovegni, lato sud. Giudizio Universale, particolare.
momento era stato proprio di pontefici o di sovrani: non poteva certo aggiungervi un’irriverenza ai limiti della blasfemia. Tutto porterebbe dunque a pensare che il transetto ci fosse e sia stato eliminato successivamente, qualche anno dopo la conclusione del lavoro di Giotto. C’entra forse il già ricordato contenzioso con i frati eremitani, che nel gen294
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naio 1305 lamentarono dinanzi al vicario vescovile anche il mancato rispetto delle dimensioni dell’edificio, che a loro dire eccedevano quelle previste per un oratorio di uso privato? Suscita qualche dubbio l’attuale rientranza sulla parete meridionale proprio nel punto in cui doveva connettersi il transetto: viene a crearsi uno spazio vuoto anomalo, che si potrebbe leggere come un volume mancante, anche in rapporto alla corrispondente parete settentrionale. Qui è percepibile a occhio nudo che la connessione esterna tra la parete dell’attuale sacrestia e la zona absidale è stata realizzata senza nemmeno una ammorsatura sul paramento murario.3 Solo uno scavo mirato sul terreno all’esterno dell’edificio, in corrispondenza dell’abside, potrà dire la parola definitiva su questa questione, perché se i transetti furono costruiti, ci devono essere ancora le tracce delle fondazioni. Il presbiterio, l’abside e la sacrestia sono spazi cui oggi il pubblico non può accedere. I primi due si possono cogliere dalla navata, a una distanza breve ma che compromette comunque la lettura dei capolavori di Giovanni Pisano posti sull’altare, perché non consente di ammirare l’intensità dell’incontro degli sguardi della Madonna e del Bambino, la plastica eleganza del panneggio, le tracce delle dorature. Totalmente sottratta è invece la visione, in una nicchia del lato destro del coro, della Madonna del latte di Giusto de’ Menabuoi, delicato capolavoro del maestro fiorentino, che fu a Padova dal 1370 circa all’anno della morte, 1391, o dell’affresco di medesimo soggetto che si trova in un’identica nicchia sulla parete di fronte, nel lato sinistro, e che è da attribuire forse al medesimo artista. Come non ci è dato vedere la statua orante di Enrico, che è tornata a essere rinchiusa nella sacrestia, segregata in una nicchia non sua, dopo un breve periodo in cui era stata esposta nelle sale del vicino Museo. 295
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Era nata per essere accolta all’interno della Cappella, dove tutti la potessero vedere. Era parte significativa dell’ambizioso progetto del padrone di casa. È l’unica sofferenza di Enrico.
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Congedo
La Cappella degli Scrovegni ci ha chiamato a vivere un’esperienza complessa in un luogo che non ha uguali al mondo. Ci ha chiesto di leggere dentro di noi, di meditare sulla nostra essenza di uomini. Ci ha posto interrogativi profondi sul significato della vita. In senso laico e religioso. Siamo stati invitati a rafforzare la nostra volontà, a curare le passioni, a vincere le tentazioni che minacciano il nostro equilibrio, a riflettere sul fatto che i nostri comportamenti dipendono esclusivamente da noi. Questo richiamo al senso di responsabilità vale per noi, uomini d’oggi, più ancora forse che in passato. Il cuore della concezione della Cappella degli Scrovegni è il concetto etico di giustizia. Non occorre essere credenti per seguire un percorso che ha per obiettivo la felicità in terra. Il libro di Giotto contiene in sé i principi e i valori indispensabili per la vita spirituale e civile dell’uomo: parla di libertà, di giustizia, di pace. Ci dice che la pace è frutto della giustizia e che tutto, compresa la felicità, deriva dalle nostre scelte e dalla valutazione che diamo degli eventi. Ci addita i valori della riconciliazione, della fraternità, dell’umiltà. Ci indica la terapia per renderci migliori. L’altra felicità necessita di fiducia nella parola di Dio, passa attraverso la scelta dell’amore e si alimenta della beata speranza. La via maestra è l’amore. La portata rivoluzionaria della predicazione di Gesù 297
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parla da queste pareti con un linguaggio sorprendentemente moderno: l’immagine dell’Invidia mostra con spietata chiarezza le conseguenze a cui si espone un’esistenza che rinneghi e calpesti l’amore. L’amore ha raggio più ampio della giustizia. È la più alta forma di giustizia, la chiave per coltivare la speranza nell’altra giustizia. Un ultimo sguardo al cielo stellato, al blu della sapienza divina, all’emozione della bellezza pura. Altri volti ci osservano. Dall’alto la Madonna con il bambino e Cristo benedicente sono come due soli, cui fanno corona otto pianeti simmetricamente disposti, i sette profeti dell’Antico Testamento e Giovanni Battista. Angeli, antenati di Gesù, apostoli, evangelisti, sante e santi, padri e dottori della Chiesa riempiono le fasce della volta e delle pareti. Non sono elementi decorativi, posti lì per evitare l’orrore del vuoto: tutto ha un senso preciso. Per capire questo mondo, che solo in apparenza è il nostro, dobbiamo bussare umilmente alle sue porte, calarci in quella spiritualità, respirare quella dimensione. Ci attende la guida meravigliosa di Giotto. La bellezza ha un che di sacro, è anch’essa un mistero, ci può curare, ci può salvare. Attento lettore, ne avrai gioia!