L'IT ALIA A CHE CHESERVE SERVE SERVEL'ITALIA L'ITALIA L'IT ALIA
Buongiorno Italia N zione. In realtà, a modo nostro, lo siamo più di quanto crediamo di esserlo. Certo non come
OI ITALIANI OI ITALIANI SIAMO ABITU ABITUAT ATI I ALL ALL’ IDEA IDEA DI NO DI NON N ESSERE ESSERE UN UNA A VERA NA-
gli ingle inglesi, si, i fr esi o gli gli americ americani ani
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L'IT ALIA A CHE CHESERVE SERVE SERVEL'ITALIA L'ITALIA L'IT ALIA
Buongiorno Italia N zione. In realtà, a modo nostro, lo siamo più di quanto crediamo di esserlo. Certo non come
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BUONGIORNO ITALIA
nostra capacità di inquadrarla o meno in un vero Stato nazionale. In questa condizione antonimica, tocca a noi scegliere se utilizzare la complicazione della nostra identità per far crescere insieme l’Italia e gli italiani o se indulgere piuttosto a una deriva anti-statuale assolutamente incontrollabile. Scegliere di non scegliere, come finora abbiamo inclinato a fare, significa acconciarsi a un rapido declino. Il tempo è scaduto, e l’arte di arrangiarsi non basta più. Un breve sguardo al nostro recente passato e alle opportunità del presente dovrebbe renderlo renderlo evidente.
Il dispatrio Per quasi mezzo secolo noi italiani abbiamo creduto che l’Italia non servisse. Non solo: l’idea di nazione, più che inutile, era diventata un ingombro. L’Italia aveva combattuto la guerra mondiale sperando di perderla - un cupio dissolvi più unico che raro nella storia universale. Ave Aveva va sosten sostenuto uto o almeno almeno toller tollerato ato i «disfa «disfatti ttisti sti», », accolt accoltoo trionfa trionfalme lmente nte i vincit vincitori ori,, accetta accettato to il Trattato rattato di pace con le sue clausole territoriali «ripugnanti ad ogni senso di giustizia» (Gaetano Salvemini) come pegno per entrare in Occidente e goderne le libertà e le ricchezze. Dopo le sbornie di retorica nazionalistica e le miserie dell’autarchia, gli italiani volevano entrare nel mondo grande e libero delle democrazie occidentali. E per esservi ammessi pensarono bene di farsi farsi piccol piccoli.i. Se i francesi per rimuovere il trauma del 1940 seppero, grazie a de Gaulle, reinventarsi la grandeur, noi italiani, allo stesso scopo, scoprimmo le virtù della petitesse. Come se il «non essere» per noi fosse più redditizio dell’«essere». dell’«essere». Così cancellammo dal nostro orizzonte qualsiasi riferimento alla patria e su questa rimozione fondammo la Repubblica. Il dispatrio è il preambolo non scritto della nostra costituzione. Se un’identità abbiamo
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nessere che ha trasformato l’Italia in uno dei paesi più ricchi del mondo; b) la garanzia militare esterna offerta dagli Stati Uniti, Uniti, codificata nella Nato, Nato, che caricava i costi della nostra sicurezza sulle spalle del maggiore alleato; c) questa geopolitica inespressa e parassitaria ci consentiva, so pratt pr attutt uttoo nel nel Medit Mediterr errane aneoo e all all’Es ’Est,t, di obliqu obliquame amente nte gestir gestiree i nostri nostri inter interess essi,i, o que quelli lli che il ceto ceto politic politico-e o-econ conomi omico co domina dominante nte ritene riteneva va tali, tali, evitan evitando do comunq comunque ue di evoca evocarli rli o di farne farne oggett oggettoo di pubbli pubblico co dibatt dibattito ito;; d) infine, infine, non minacc minaccian iando do più nessun nessuno, o, ci apr aprimm immoo al mondo mondo.. Ne Neii pae paesot sottiti della provincia profonda si discuteva di Russia o di Congo, di Vietnam Vietnam o di America, sulla spinta della vocazione internazionalistica del Pci e dell’universalismo di Santa Romana Chiesa. Vantaggi enormi, che ci impedirono di scorgere l’altra faccia della medaglia. Anzitutto, la sindrome dell’8 settembre: per noi l’inizio della rinascita, per il resto del mondo la riprova dell’inaffidabilità italiana. Persino agli occhi dei nostri amici americani, se è vero che Eisenhower lo bollò come il «più grande tradimento della storia» e che ancora nel febbraio 1991, durante la guerra del Golfo, un ufficiale americano si rivolse sarcasticamente a un nostro aviatore chiedendogli: «E stavolta, quando passerete dall’altra parte?». Poi, il disprezzo per il senso dello Stato, per la legge come valore. Il fenomeno ha radici medievali, ma il cinquantennio postbellico lo ha certamente accentuato. La nostra repubblica si è precipitata fra le braccia delle consorelle occidentali, dimenticando che esse fondano le pro prie istituzio istituzioni ni liberal liberalii e democr democratich atichee nella nazione nazione.. Non Non c’è c’è Occident Occidente,e, non c’è c’è democr democrazia azia senza un senso di appartenenza condiviso e comunque incardinato nella concorde rappresentazione del territorio nazionale. Noi invece dimenticammo che il «patriottismo della costituzione» non potrà mai surrogare la radice geopolitica della communis patria , come anche le evoluzioni parallele di Germania e Giappone sembrano suggerire. suggerire. Un terzo minus riguarda i limiti geopolitici della nostra potenza economico-commerciale. Ci siamo illusi di poter espandere l’industria italiana nel mondo solo per virtù
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zionale delle istituzioni. Affermava il deputato di Ariano Irpino alla Camera, il 19 agosto 1870: «Il medesimo principio che nel diritto pubblico interno si chiama sovranità nazionale, e si realizza nel suffragio universale, è quello che, nel diritto internazionale, chiamasi princi pio di Naziona Nazionalità» lità».. Gli Gli facev facevaa eco eco nel nel 1969 il canonis canonista ta cattoli cattolico, co, in margine margine alla sua autobiografia: «Osservo con qualche meraviglia il tono compiaciuto con cui i giornali benpensanti delle varie gradazioni constatano ch’è finita l’era delle sovranità nazionali, che i confini di Stato non hanno più senso. (...) è in relazione alla reale fine della sovranità nazionale che si è anche attenuato fino a scomparire s comparire il senso della sovranità interna?». Intuizioni fin troppo attuali. Esse ci richiamano al dovere di pensare l’Italia . È qui che la geopolitica può soccorrerci. Ricordandoci intanto il peso della nostra storia, prima che ce lo rinfaccino, spesso maliziosamente, amici o avversari d’oltre-frontiera. d’oltre-frontiera. Ciò significa essere consapevoli di come l’Italia sia stata coinvolta nel processo di degradazione successiva delle potenze continentali prodotto dalla prima guerra mondiale. Una guerra persa per sa dall’E dall’Eur uropa opa inter intera, a, infatti infatti,, dopo il 1919 non era era più possibi possibilele per una singol singolaa nazione nazione europea pretendersi superpotenza. Lo hanno dimostrato, a contrario, le avventure belliche di Musso Mussolin linii e Hitle Hitlerr. La geopolitica, in quanto dibattito sugli interessi nazionali, può suggerire un’inclinazione un’inclinazione al pragmatismo, alla moderazione, a quel senso della misura che ci è spesso mancato. Abbiamo voluto essere o troppo grandi o troppo piccoli. Ora conviene essere noi stessi. Non c’è c’è più alta garanzia contro le tentazioni nazionalistiche aggressive, contro la xenofobia, contro le pulsioni centrifughe e particolariste, della risco perta di un consapevole consapevole,, misura misurato to rapport rapportoo con la nazione nazione e con lo Stato Stato che che la rappre rappresenta senta.. Non è compito di giorni o di anni, forse solo di generazioni. Ma senza avviare una grande grande ped gia ionale ionale solo li ambiti ambiti d’élit d’élit all dic della della ietà ietà delle delle istitu istituzion zioni,i,
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In un colpo solo, com’è evidente, tutti gli italiani sarebbero declassati rispetto agli altri europei. Varrebbe Varrebbe infatti il principio geopolitico di non omotetia: non è perché uno Stato si decompone che altri decidono di seguirne il destino. Anzi, in genere avviene il contrario, e i grandi ingoiano i piccoli. Potrebbe accadere anche alle tre repubblichette auspicate dai leghisti puri e duri. Non basta certo parlare la stessa lingua per sentirsi parte di un tutto comune: Germania Austr Au stria, ia, Franc Franciaia-Bel Belgio gio,, Croa Croazia zia-S -Serb erbia ia docent. Le tre mini-Italie sarebbero probabilmente inghiottite da insiemi geopolitici maggiori. Un’occhiata alla carta: gli Italiani del Nord diventerebbero i ticinesi d’Europa. Condizione godibi godibilele in Sviz Svizzer zera, a, ma ma non non troppo troppo esal esaltan tante te nel nel contes contesto to paneu paneurop ropeo eo.. Gli Gli itali italiani ani del del Centr Centroo si rinserrerebbero in una riserva monumentale. Quanto ai meridionali, potrebbero aspirare a confederarsi con Tripolitania, Cirenaica e Malta in un «Baltico del Sud». L’Italia serve poi agli italiani nel mondo. Se sommiamo gli italiani d’Italia agli emigrati della Diaspora, otteniamo un totale di circa cento milioni. Un giacimento geopolitico che attende di essere sfruttato. E che deve essere sottratto alle beghe partitico-elettor par titico-elettoralistiche alistiche come pure ai rigurgiti di retorica patriottarda o all’avventurismo nazionalistico. Avremmo così un allargamento dello spazio geopolitico nazionale, e quindi un plus di apertura italiana al mondo e di in fluenza fluenza italia italiana na nel mondo mondo.. Tanto anto più più che gli «itali «italiani ani nel mondo» mondo» godono godono di una colloc collocazi azione one geopoli geopolitic ticaa molt moltoo fav favor orev evole ole,, dal dal Can Canada ada agli agli Stat Statii Unit Uniti,i, dall’A dall’Arge rgenti ntina na all all’A ’Aust ustrralia. alia. Infine gli italiani possono servire agli europei e agli altri partner occidentali. Questo signi fica smette smettere re la ridico ridicola la prete pretesa sa di esprim esprimer eree gli «inter «interess essii eur europe opei» i» per stabil stabilir iree invece invece quali quali siano siano gli inter interess essii ital italian ianii in in Euro Europa pa e per per l’Euro l’Europa. pa. Si dimentica spesso che l’europeismo originario poggiava sulla reciprocità e sulla pari di gnità gnità di tutt tuttii i paesi. paesi. Oggi Oggi l’Eu l’Europ ropaa sembr sembraa invece invece dar daree ragio ragione ne al vecch vecchio io princi principe pe Bisma Bismarc rck: k: Notion géographique». L’Unione europea (raramente definizione si rivelò più paradossale) si
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considerarla una machiavellica manovra per affossarlo definitivamente, essendo facile divinare quanto poco esso conterebbe se ci annoverasse fra i suoi membri più o meno permanenti). Sarebbe forse più proficuo avere il coraggio di dire qual è il nostro interesse geopolitico per l’Europa e per l’Occidente. Noi siamo stati e restiamo europeisti perché senza Europa saremmo scaraventati fuori dell’Occidente. Non siamo nati occidentali, come gli americani, gli inglesi o i francesi. La nostra occidentalità è un plebiscito di tutti i giorni, come la democrazia. È per questo che vogliamo un equilibrio europeo e avversiamo ogni egemonismo, soprattutto se dissimulato. Dal punto di vista italiano, in Europa non servono né nuclei né satelliti. Gli Stati europei sono diversi e hanno funzioni diverse in base alla loro collocazione geografica. Di qui la necessità delle aree di responsabilità geopolitica. Si tratta di mettere insieme piccoli gruppi di paesi europei, sulla base dei loro interessi, per iniziative comuni in spazi geopolitici definiti. Un modo concreto per costruire l’Europa sulla solida base degli interessi e dei valori comuni, piuttosto che sulle enunciazioni di principio o sul puro economicismo. Per capire che cosa significa questo per la nostra politica estera, prendiamo tre esempi di aree per noi particolarmente importanti: il bacino danubiano, l’ex Jugoslavia, il Nordafrica. Bacino danubiano. La moda delle rappresentazioni neoasburgiche che mirano a reinventare la Mitteleuropa va contro i nostri interessi. Come sempre, l’Austria ci serve, anche per non riattizzare il focolaio alto-atesino. Ma soprattutto noi possiamo servire, insieme all’Austria e agli altri paesi danubiani, per progetti di ricostruzione in regioni e nazioni abbandonate a se stesse, la cui stabilità è a rischio. Ottima occasione, fra l’altro, per suscitare una regia statale che coordini le iniziative delle nostre imprese per ricavarne vantaggi in termini di sicurezza e di influenza politica. Ex Jugoslavia . Abbiamo la fortuna di non far parte del gruppo di contatto sulla Bosnia, e
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I progetti qui tratteggiati possono apparire velleitari. Lo saranno senz’altro se il nostro paese continuerà a oscillare fra ostentazioni di fiducia e rassegnazione, fra rapsodiche intuizioni che restano tali per la discontinuità delle politiche e delle amministrazioni, e ricadute nel parassitismo, inseguendo le sempre più corte ombre di giganti presunti. Eppure dalla politica estera - da un suo nuovo primato - non possiamo prescindere se vogliamo valorizzare le radici, attualizzare le ragioni e ristabilire le regole della nostra unità nazionale.
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ORGOGLIOSI DI ESSERE ITALIANI
di Ilvo
D IAMANTI e Paolo S EGATTI
Da un sondaggio geopolitico Limes-SWG emerge il nostro modo di essere italiani. Un’identila pluralistica, in cui convivono campanile e nazione. Crescono insieme orgoglio nazionale, cosmopolitismo e sentimento democratico (1).
, N un riferimento di prioritaria importanza per il sistema politico italiano. Tutte le formazioni politiche che, dopo aver vinto le elezioni del 27-28 marzo, oggi partecipano alla coalizione di governo, attribuiscono a questa dimensione un ruolo determinante, al punto tale da richiamarla esplicitamente nella loro denominazione. La Lega Nord riflette la grande rilevanza assunta dalle tensioni fra centro e periferia,
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del territorio di nazione e di nazionalismo, di Italia e di regione che oggi si confrontano in Italia. Né risulta chiaro in che modo e in che misura, agli occhi dei cittadini, queste definizioni del territorio si colleghino all’immagine degli schieramenti e dei partiti e, più in generale, agli orientamenti e ai valori politici della società. È per questo che abbiamo ritenuto interessante svolgere, su questi argomenti, un sondaggio nazionale, che Limes ha affidato alla SWG di Trieste. Cinque sono i temi attorno ai quali abbiamo costruito il questionario sottoposto agli intervistati: (a) l’importanza degli ambiti territoriali come riferimento geopolitico per gli individui; (b) i significati attribuiti all’identità nazionale; (c) le ipotesi di riforma territoriale dello Stato; (d) la collocazione dell’Italia in ambito internazionale: nei rapporti con i nuovi Stati confinanti, in relazione all’unificazione europea e, più in generale, nel quadro dell’alleanza con i paesi occidentali. Inoltre (e), sono state raccolte informazioni circa le preferenze partitiche, gli schieramenti e gli orientamenti politici individuali, per poter delineare con maggiore chiarezza il rapporto fra identità politica e territoriale. Nelle pagine seguenti presentiamo e commentiamo alcuni fra i risultati del sondaggio, consapevoli che non possono, certo, risolvere i problemi che abbiamo sollevato, ma che, al tempo stesso, possono riuscire utili quanto meno a precisarne i termini meglio di quanto non sia avvenuto finora.
Le appartenenze territoriali È certo che l’esito delle elezioni politiche di marzo ha sollevato ragionevoli dubbi sulle opinioni maggiormente diffuse a proposito del rapporto fra l’identità politica e territoriale presso gli italiani. Il ridimensionamento della Lega e il concomitante successo di formazioni politiche esplicitamente ispirate alla nazione o al nazionalismo hanno infatti
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Tabella 1. Quanto si sente orgoglioso di essere... (percentuale di chi risponde «molto» sul totale degli intervistati)
Milanese, romano, torinese (cittadino della sua città) Veneto, siciliano, umbro (cittadino della sua regione) Settentrionale, del Centro, meridionale Italiano Europeo, cittadino del mondo (Numero degli intervistati)
1994 50,9
1991 n.p.
62,463,3 56,4 71,9 66,4 1.019
n.p. 63,1 48,5* 1.931
Fonte: I dati del 1991 sono tratti da un’indagine dell’Eurisko. *Nell’indagine Eurisko era prevista la sola definizione «Europeo».
I maggiori consensi, comunque, vengono attribuiti agli ambiti più ampi, l’Europa, il mondo e l’Italia. Proprio quest’ultimo appare, contrariamente a ciò che le discussioni di questi anni potevano lasciare intendere, il riferimento che suscita maggiore attrazione. Il 72% degli intervistati, infatti, sostiene di essere «orgoglioso di essere italiano». Il sentimento cosmopolita riguarda, invece, il 66% del campione. Tuttavia, anche gli ambiti subnazionali appaiono in grado di attrarre quote di popolazione molto ampie e, comunque, sempre maggioritarie: il 51% il Comune, il 56% la Regione, il 62% le macro-aree (Nord,
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area più elevato della media, ma non dissimile a quanto si registra fra gli elettori dei partiti alleati e fra quelli dei popolari. Anzi, l’orgoglio di area appare più elevato fra gli elettori di Alleanza nazionale, quello regionalista fra gli elettori di Forza Italia (tabella 2). Tabella 2. Sentimento di orgoglio territoriale in base al partito o allo schieramento votato alle elezioni politiche del marzo 1994 ( percentuale di chi risponde «molto» sul totale degli intervistati ) Municipalista Regionalista Nordista, centrista, sudista Italiano Cosmopolita
Progressisti 50 60 46
Ppi-Patto 64 66 66
Forza Italia 52 70 58
Lega 45 68 63
An 47 61 68
64 65
88 79
79 68
61 62
78 76
Infine, gli elettori progressisti si caratterizzano, comunque, per una minore incidenza, rispetto alla media, del sentimento territoriale, a qualunque ambito si riferisca. Ciò, in fondo, riflette gli orientamenti espressi al proposito dalle forze politiche cui essi si rivolgono. Rispecchia, cioè, il limitato peso attribuito a sinistra alla dimensione territoriale. Forse, anche questo aspetto contribuisce, in qualche misura, all’esito delle elezioni politiche di primavera. Una questione risultata in questi anni politicamente e socialmente così rilevante, infatti, pare aver trovato risposta (in tutte le sue possibili varianti) solo nello schieramento di destra.
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moscopici senz’altro rigorosi), possiamo considerare queste differenze il riflesso dei cambiamenti intervenuti sulla scena politica e sociale e, in particolar modo, della riduzione di peso registrata dal conflitto fra centro e periferia e dagli attori politici che ne hanno tratto legittimazione. Il successo di Forza Italia, il ridimensionamento della Lega Nord, in altri termini, avrebbero determinato una ripresa del sentimento nazionale e cosmopolita; ma è vero anche l’inverso: il mutamento elettorale rifletterebbe, cioè, il logoramento dell’offerta di identità territoriale della Lega perché impostata su una logica di «opposizione» (fra l’ambito locale, regionale e di area nei confronti di quello nazionale) poco aderente alla realtà. Tant’è vero che, comunque, anche nel 1991, nonostante tutto, sentimento nazionale e regionalista mostrano di avere una base di consensi di pari grandezza, superiore in entrambi i casi al 60% della popolazione. Il che smentisce, fra l’altro, le ipotesi che vedevano l’appartenenza nazionale, in quegli anni, come un orientamento scarsamente sentito. Qui si inserisce la seconda questione, che emerge da una prima lettura dei dati: riguarda la coerenza e l’intreccio fra i diversi riferimenti territoriali negli orientamenti dei soggetti. A questo fine abbiamo fatto ricorso a una tecnica statistica che permette di raggruppare le persone intervistate in diversi tipi, in base all’omogeneità dimostrata rispetto ad alcuni specifici aspetti, costituiti, nel nostro caso, dal sentimento di orgoglio suscitato dai diversi ambiti territoriali analizzati (3).
Cinque tipi di identità territoriale Ne emergono cinque tipi di individui, che si specificano per il diverso modo di combinare gli orientamenti territoriali.
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peraltro, si presentano assai più circoscritti dei precedenti (comprendono, ciascuno, fra l’8% e il 10% del campione). (C) Il primo (10% del campione) è costituito da individui che combinano un alto livello di orgoglio nazionale con un buon grado di identità locale (nei confronti sia del Comune che della Regione e della macro-area), cui contrappongono un forte distacco nei confronti dell’atteggiamento cosmopolita. È decisamente sovrarappresentato a Sud e nel Centro e, per contro, assai più raro a Nord, ed è particolarmente legato al voto per Alleanza nazionale. (D) Il secondo tipo di orientamento (8%), anch’esso diffuso tra gli elettori di Alleanza nazionale ma soprattutto fra i progressisti, è contrassegnato dall’associarsi di un elevato orgoglio nazionale e cosmopolita, cui si contrappone la sostanziale assenza di attaccamento verso gli altri ambiti locali. (E) Infine, l’ultimo gruppo di individui che emerge da questa analisi (circoscritto all’8%) è anche l’unico a mostrare indifferenza o rifiuto verso il contesto nazionale, come ambito di riferimento. Ad esso oppone il binomio Regione-Europa (oppure mondo). È, secondo le previsioni, l’orientamento privilegiato dagli elettori leghisti, ma trova spazio anche a sinistra, fra gli elettori progressisti. Questa tipologia conferma, quindi, che fra gli italiani il rapporto con il territorio è concepito secondo modelli compositi, che fanno coesistere riferimenti diversi. Su tutti, comunque, prevale il riferimento nazionale, il quale, dunque, non si presenta quasi mai contrapposto agli altri riferimenti territoriali, in particolar modo a quelli subnazionali. Lo stesso, a maggior ragione, vale per le identità subnazionali (centrate su Comune, Regione e macro-area), le quali trovano quasi sempre nell’appartenenza nazionale un ambito integrativo, piuttosto che oppositivo. L’identità territoriale degli italiani, dunque, si
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bra informare anche l’immagine che essi hanno di sé come popolo. È ciò che emerge dall’orientamento espresso dagli intervistati nei confronti di una serie di definizioni riguardanti le specificità degli «italiani» rispetto agli altri popoli. Le definizioni proposte riproducono, in parte, alcuni stereotipi sull’italianità di senso comune, ma prendono spunto anche dal dibattito condotto fra esperti e studiosi sull’argomento, traducendone attraverso formule di facile comprensione alcune fra le ipotesi. Le opinioni espresse dagli intervistati, ovviamente, non servono a delineare lo specifico degli italiani. Forniscono, piuttosto, indicazioni circa la percezione e il giudizio (o forse il pregiudizio) che gli italiani hanno di se stessi e, a maggior ragione, degli altri italiani. La graduatoria (tabella 3), realizzata in base alla frequenza registrata dalle definizioni proposte, riflette il loro grado di radicamento (e quindi la loro «stereotipizzazione») sociale e quindi non appare troppo sorprendente. Essa delinea un quadro coerente con il profilo dell’identità territoriale delineato in precedenza. A un’identità territoriale flessibile, che al riferimento nazionale associa le diverse cornici dell’identità subnazionale, corrisponde infatti l’importanza attribuita allo spirito adattivo e creativo e alle istituzioni sociali minime, per definire l’identità degli italiani. Quasi 8 intervistati su 10, infatti, ritengono che gli italiani si distinguano molto dagli altri popoli per l’«arte di arrangiarsi»; per i due terzi del campione, inoltre, gli italiani si caratterizzano per «la creatività nelle arti e nell’economia»; inoltre, 7 intervistati su 10 colgono lo «specifico nazionale» nell’attaccamento alla famiglia e oltre 6 nel legame con la città e con la propria comunità locale. Per contro, minimo è il rilievo attribuito ai valori fondativi della nazione come comunità solidale; sulla nazione come «demos» e come «plebiscito che si rinnova tutti i giorni» (4), per utilizzare una formula suggestiva oltre che nota. Lo testimonia il limitato grado di consenso riconosciuto quale carattere distintivo, all’«adesione ai valori democratici» (36%) e al
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Fra questi due estremi si situano le altre definizioni, che fanno riferimento a caratteri di differente segno: il patrimonio artistico, storico e culturale, la tradizione cattolica, lo spirito individualista, la capacità imprenditoriale. Si tratta di aspetti importanti, che segnano a fondo l’immagine del paese, ma che, evidentemente risultano meno efficaci degli altri nel marcare con forza, in positivo o in negativo, il suo profilo specifico. Gli italiani, cioè, preferiscono immaginarsi e rappresentarsi in base a requisiti di creatività e adattamento sostenuti e rialimentati dai legami comunitari e familiari; mentre, per contrasto, essi ritengono i vincoli di cittadinanza democratica e il senso dello Stato delle peculiarità solo se guardate in controluce, per la bassa incidenza che rivestono. Se un’italianità esiste, dunque, questa per gli italiani scaturisce per il prevalere delle competenze individuali e per le risorse solidali e informali «minime» e per la latenza di quelle istituzionali e pubbliche. I due aspetti, fra l’altro, appaiono reciprocamente connessi. Verrebbe da accreditare l’idea dell’Italia come «paese» a identità debole, piuttosto che come «nazione», fondata su valori e istituzioni comuni (5). Ciò, tuttavia, non induce a mettere in discussione la specificità degli italiani come popolo. L’ipotesi «etnoregionalista», che vede nelle regioni il vero territorio nazionale, raccoglie, infatti, consensi molto ridotti (si dice molto d’accordo con essa il 6% degli intervistati, mentre è abbastanza d’accordo un altro 3%). È interessante osservare come lo schieramento politico influenzi in modo piuttosto chiaro questi giudizi. A destra si delinea, infatti, un’immagine dell’identità degli italiani fondata sui valori e sulle istituzioni tradizionali - la famiglia, l’individuo, la Chiesa e la cattolicità - riconoscendo, inoltre, un ruolo maggiore anche al senso civico. A sinistra, invece, l’immagine degli italiani appare più sfuocata e viene definita soprattutto in «negativo»: per il deficit di sentimenti democratici e di senso civico. Inoltre, gli elettori della Lega, in
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Tabella 4. Secondo lei le competenze in campo sociale ed economico dovrebbero essere... (suddivisione territoriale ) Nord
Centro
Sud
Totale
81 5 14
70 8 22
78 10 12
78 7 15
77 7 16
64 16 20
67 13 20
71 11 18
39 43 18
44 36 20
50 30 20
44 37 19
Per i Comuni
Aumentate Diminuite Rimaste uguali Per le Regioni
Aumentate Diminuite Rimaste uguali Per lo Stato
Aumentate Diminuite Rimaste uguali
Tuttavia, l’entità di questo dato appare comunque molto elevata. Tanto più in quanto risulta superiore a quello di chi sostiene, all’opposto, la riduzione delle competenze dello Stato: 37%. L’ipotesi del trasferimento di poteri e di risorse dal centro alla periferia, attorno a cui si è sviluppato gran parte del confronto politico degli anni Novanta, pur incontrando consensi molto estesi non appare del tutto consolidata. Se ne trova conferma osservando le opinioni
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Il sostegno alle ipotesi di potenziamento dell’autonomia delle Regioni, anche in senso federalista, raggiunge il massimo livello a Nord, il minimo nel Mezzogiorno. Nel Sud, infatti, la domanda di potenziare il ruolo dello Stato coinvolge il 50% della popolazione intervistata (contro il 40% a Nord); inoltre, in quest’area il 42% si dimostra soddisfatto dell’attuale struttura dello Stato, mentre a Nord la quota scende al 25%. Nel Mezzogiorno, semmai, la domanda di ulteriore crescita di risorse e poteri riguarda i Comuni. D’altronde, questi orientamenti riflettono il modello tradizionale che ha improntato le politiche di intervento nel Sud; e, al tempo stesso, il sistema di relazioni fra governo e ceto politico locale. Il Centro Italia, largamente riconducibile alla «zona rossa», si situa in posizione intermedia fra questi due poli, anche se l’opposizione verso le ipotesi federaliste e, simmetricamente, l’ampia adesione al quadro istituzionale vigente lo avvicinano maggiormente agli orientamenti del Mezzogiorno. L’orientamento partitico degli intervistati fa emergere differenze altrettanto vistose, che prefigurano, però, schieramenti diversi da quelli attuali, in particolar modo attorno alle ipotesi di decentramento dei poteri fra Stato e Regioni (tabella 6). È, infatti, fra gli elettori della Lega e dei progressisti che si registrano le percentuali più alte di sostegno all’aumento di competenze alle Regioni e alla concomitante diminuzione di poteri allo Stato. Non molto dissimile appare l’orientamento degli elettori di Forza Italia, anche se meno marcato. È, comunque, fra i progressisti che si osserva la vocazione statalista meno accentuata. Mentre l’orientamento simmetrico riguarda gli elettori del Partito popolare e di Alleanza nazionale, i quali dimostrano così una spiccata vocazione «statalista». Tabella 6. Secondo lei le competenze in campo sociale ed economico dovrebbero essere..... (suddivisione partitica )
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poche macroregioni. Un orientamento analogo, anche se molto più stemperato, caratterizza anche gli elettori di Forza Italia, mentre per i progressisti e, ancor più per i popolari e per i pattisti, il federalismo presenta un basso grado di attrazione. Si tratta di indicazioni che possono apparire non del tutto coerenti. Servono, tuttavia, a chiarire come il problema del rapporto fra Stato e Regioni possa venire interpretato in modo diverso, anche quando c’è accordo sull’esigenza di trasferire poteri dal centro alla periferia. Fra i progressisti ciò viene concepito in termini di «decentramento», fra i leghisti in termini di federalismo. Differenze che possono apparire «nominaliste», trattandosi di ipotesi scarsamente precisate. Ma su questi temi, com’è noto, il «nome» e la «cosa» sono in larga misura coincidenti.
Geografia e demografia virtuale dell’Italia Vivere e risiedere in una determinata località costituisce in Italia un fatto che, perlopiù, sfugge alle possibilità di scelta degli individui. Dipende infatti da motivi biografici, familiari, di studio o lavoro. Gli spostamenti di residenza che caratterizzano gli italiani sono determinati quasi sempre da necessità e risultano, nella grandissima parte dei casi, di raggio limitato: fra Comuni interni alla stessa provincia. Certamente rarissimi sono i casi di migrazioni determinate dalla ricerca di una diversa qualità della vita, dell’ambiente, dei servizi; da «virtualità» piuttosto che da «necessità». Tuttavia, può essere interessante tentare di tratteggiare una mappa su queste basi, utilizzando, cioè, come criterio il «desiderio» e la «valutazione» dei cittadini. Può servire a verificare quanto l’attuale struttura demografica e residenziale degli italiani sia condizionata dalla tradizione e dalla necessità, quanto si discosti da quella «desiderata», quanto, infine, le
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Tabella 7. Mi può indicare in quale delle regioni italiane le piacerebbe di più vivere? (in percentuale sul totale degli intervistati. Erano possibili tre risposte ) Toscana Emilia-Romagna Lombardia Liguria Piemonte Lazio Umbria Veneto Trentino-Alto Adige Sicilia Sardegna Valle d’Aosta Marche Puglia Campania Abruzzo Calabria Fruili-Venezia Giulia Molise
24 19 15 11 10 10 9 8 7 6 5 5 5 4 4 3 3 3 1
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degli intervistati) è anche la quota di indicazioni negative che ottengono altre cinque regioni: Lombardia, Puglia, Sardegna, Basilicata, Piemonte. Nel caso della Basilicata e soprattutto della Puglia vale, seppure in misura più ridotta, il discorso fatto riguardo al «triangolo del malessere». Diverso è il caso della Lombardia e del Piemonte, realtà la cui situazione socio-economica e dei servizi appare ben più positiva rispetto alle regioni precedenti. Tuttavia, evidentemente, altre ragioni inducono un settore molto esteso di popolazione a ritenerle poco vivibili. Per chiarire questo problema occorrerebbero informazioni e dati che nel sondaggio non sono stati raccolti. Tuttavia, un’ipotesi plausibile può essere data dall’identificazione delle regioni con le loro aree metropolitane, riconducendo l’immagine della Lombardia a quella di Milano e l’immagine del Piemonte a quella di Torino. L’estensione all’intera regione dell’immagine negativa acquisita dalle realtà metropolitane, colpite negli ultimi anni da processi di profondo degrado del tessuto sociale e ambientale, può render conto, almeno parzialmente, dell’atteggiamento espresso dagli intervistati. Peraltro, in qualche misura, il giudizio sulla Lombardia risente dell’ostilità che può aver suscitato nei suoi confronti l’essere divenuta il principale riferimento del fenomeno leghista. A conferma di questa ipotesi c’è il fatto che oltre metà degli orientamenti negativi al proposito (55%) giunga da persone residenti nel Mezzogiorno. Tabella 8. Mi può indicare in quale delle regioni italiane non le piacerebbe vivere? (in percentuale sul totale degli intervistati. Erano possibili tre risposte ) Sicilia Calabria Campania Lombardia
24 24 18 10
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Dunque, la geografia virtuale disegnata dagli italiani risente della percezione relativa a tre aspetti: lo sviluppo economico, la qualità della vita (definita in rapporto all’offerta di servizi, alla sicurezza sociale e, parallelamente, alla diffusione della criminalità comune e organizzata), l’immagine dell’ambiente (influenzata non solo dal patrimonio artistico e naturale, ma anche dalla densità e dalla struttura demografica e urbana). Le scelte espresse dagli intervistati, in positivo e in negativo, ripropongono quindi le tensioni tradizionali, messe in luce un pò da tutte le indagini sul benessere delle realtà locali in Italia: fra Nord e Sud; fra realtà economicamente dinamiche e stagnanti; fra aree metropolitane e aree a urbanizzazione diffusa; fra contesti con un’ampia ed efficiente rete di servizi e contesti nei quali i servizi appaiono carenti oppure funzionano male. Ne possiamo trarre una rappresentazione efficace ricostruendo la mappa dell’Italia a partire dalle due graduatorie precedentemente illustrate; utilizzando, cioè, come base di riferimento, la differenza percentuale, per ciascuna regione, fra le componenti che la indicano come un ambito di vita privilegiato, da un lato, e quelle che invece la indicano come un luogo di vita sgradito. Emergono, così, quattro Italie (figura 1 sull’originale a pag. 29). La prima Italia, nella quale il saldo «migratorio» virtuale, fra chi vorrebbe viverci e chi no, raggiunge il livello più alto (fra il 9% e il 25%) comprende tre «regioni rosse», Toscana, Emilia-Romagna, Umbria, oltre alla Liguria (considerata anch’essa, fino a qualche anno addietro, area «rossa»). Va sottolineato che il saldo positivo, per le prime due regioni, Toscana ed Emilia, è davvero altissimo: rispettivamente 18% e 23%. Evidentemente qui sviluppo, qualità della vita, dei servizi e dell’ambiente, gli aspetti a nostro avviso determinanti nel dettare l’immagine della «vivibilità», si combinano e concorrono a generare un forte grado di attrazione. La seconda Italia, caratterizzata da un saldo sostanzialmente positivo (fra il 3% e il 5% di persone che la sceglierebbero per viverci di più rispetto a quelle che la reputano in-
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Tabella 9. Opinioni sulla democrazia e sul passato fascista nel 1994 e nel 1985 1994
1985*
77 9 9 5
70 13 10 7
43 46 7 4 1.019
37 43 6 14 2.074
Opinioni sulla democrazia
È preferibile la democrazia È preferibile la dittatura È indifferente Non sa Opinioni sul passato fascista
Il fascismo è stato una brutta cosa In parte buona, in parte brutta Il fascismo è stato una buona cosa Non sa (Numero degli intervistati)
* I dati del 1985 sono tratti da un’indagine comparata sugli atteggiamenti di massa in Italia, Spagna, Portogallo, Grecia.
Cresce il numero di coloro che valutano la democrazia il regime migliore in assoluto mentre diminuiscono quelli per i quali è da preferire un regime autoritario. Ma le differenze sono piccole. E anche chi in questi mesi si è chiesto se gli italiani condividessero le affermazioni di Fini secondo cui il regime fascista non è
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democrazia (neo-democratici ) vuoi perché ritengono oggi preferibile un regime autoritario anche se danno un giudizio in tutto o in parte negativo del fascismo ( neo-autoritari ). Da ultimi quelli per i quali democrazia o dittatura pari sono e giudicano il fascismo un insieme di cose buone e negative (indifferenti ). Tabella 10. Atteggiamenti verso la democrazia e il regime autoritario Democratici Neo-democratici Indifferenti Neo-autoritari Autoritari (Numero degli intervistati)
1994 37 41 12 7 3 1.019
1985* 37 39 9 12 3 1.710
* I dati del 1985 sono tratti da un’indagine comparata sugli atteggiamenti di massa in Italia, Spagna, Portogallo, Grecia.
Come si può osservare dalla tabella 10, i cinque tipi di orientamento si distribuiscono tra gli elettori quasi nelle stesse proporzioni di nove anni fa. E là dove c’è uno spostamento, è in meglio. Nel 1985 quasi un elettore su sette era contro la democrazia, oggi si dichiara a favore di sistemi dittatoriali solo un italiano su dieci. Se sulla democrazia e sul fascismo la stragrande maggioranza degli italiani non cambia
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Tabella 11. Atteggiamenti verso la democrazia per voto 1985 Democratici Neo-democratici Indifferenti Neo-autoritari Autoritari Totale
Pci 52 22 9 15 2 100
Dc 33 50 5 10 2 100
Laici+Psi 35 42 7 12 4 100
Msi 2 27 13 19 39 100
1994 Progressisti
Ppi-Patto
Forza Italia
Lega
Msi-An
Democratici
61
35
27
37
13
Neo-democratici
27
55
49
44
51
Indifferenti
9
6
11
12
5
Neo-autoritari
3
3
9
2
20
Autoritari
-
1
4
5
11
100
100
100
100
100
Totale
Nel 1985 il 58% del suo elettorato preferiva altri regimi alla democrazia, oggi invece
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unificazione europea. Nel caso di Forza Italia le dichiarazioni di fedeltà formale ai trattati costitutivi l’Unione europea vanno bilanciate con le posizioni prese nel passato da importanti leader del movimento, tra cui quelle del nuovo ministro degli Esteri, tutte ispirate a un profondo scetticismo verso la direzione che Maastricht ha impresso al processo di integrazione. L’Europa L’Europa sognata dai leader della Lega infine è cosa ben diversa da quella che si è venuta costruendo in questi lustri. Fin dalla sua nascita la Lega è per la cosiddetta Europa delle regioni, mentre è fortemente critica verso l’Europa di Bruxelles, giudicata un’entità politica dominata dagli Stati centralizzati. Di tutto ciò non si è molto discusso nel corso della campagna elettorale. Ma è interessante osservare che, nonostante un’offerta politica non entusiasta verso il concreto processo di integrazione europea, gli italiani si dichiarano in misura maggiore del passato convinti che il nostro paese ha tratto più vantaggi che svantaggi dall’Europa, dall’Europa, come si può vedere dalla tabella 12. Tabella 12. Opinioni sul processo di integrazione europea 1991*
1994
Più vantaggi
47
61
Vantaggi pari agli svantaggi
27
8
Più svantaggi
11
22
Non sa
15
9
1.931
1.019
Numero degli intervistati
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zione al nostro paese in questi anni, ma ne ha limitato l’indipendenza. Per altrettanti intervistati il ruolo principale della Nato è stato quello di garantire la democrazia in Italia. Un altro 30% ritiene infine che la partecipazione alla Nato ci è stata imposta dalla collocazione geopolitica del nostro paese durante la guerra fredda. Mentre il consenso alle prime due opinioni viene indifferentemente da destra e da sinistra, l’idea che la Nato ci è stata imposta dalla collocazione occidentale del nostro paese è condivisa soprattutto a sinistra. La sceglie infatti il 50% di chi si colloca a sinistra. Valutazioni di questo tipo rappresentano forse il punto di approdo, il risultato di continui aggiustamenti ideologici da parte di quegli italiani che hanno visto nell’organizzazione militare dell’Alleanza atlantica solo ed esclusivamente il bastone dell’«imperialismo» americano. In definitiva, per quanto profonde siano state le convulsioni politiche degli ultimi anni, non solo la cultura politica degli italiani nei suoi orientamenti centrali non è cambiata rispetto al passato ma essa risente ancora, e profondamente, delle esperienze che l’hanno plasmata nei decenni addietro. Il che significa ribadire una verità ben nota agli studiosi, ma spesso dimenticata nella girandola dei commenti a caldo. L’evoluzione della cultura politica e delle rappresentazioni geopolitiche non solo è più lenta dei processi elettorali, ma ne rimane anche parzialmente autonoma. Tra la prima e i secondi vi è un gap strutturale colmato da fenomeni congiunturali.
Ma i confi confini ni non non sono sono into intocc ccab abilili i Sarebbe tuttavia un errore sottovalutare la capacità della politica di suscitare correnti
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E invece poche settimane di dichiarazioni di stampo revisionista sono State sufficienti per suscitare una reazione così estesa. Non ci può essere ombra di dubbio sul fatto che questa attenzione al tema dei confini si accompagni a posizioni di destra. Il 56% di chi si colloca in questa posizione ritiene giusta l’iniziativa di An. Ma non va sottovalutato che la condivide anche un quinto di coloro che si collocano all’estrema sinistra e un terzo di quelli che stanno al centro. Tra gli elettori di Forza Italia è sulla stessa lunghezza d’onda il 36% e lo è uno su tre dei popolari e dei leghisti. È vero che tra gli intervistati contrari al regime democratico i favorevoli all’iniziativa «revisionista» del presidente della commissione Esteri della Camera Mirko Tremaglia sono il 62%, ma un quinto dei democratici puri pare essere d’accordo con una proposta di tipo apertamente nazionalistico. Sul tema poi permane una spessa coltre di ignoranza. Solo uno su tre degli intervistati sa che la presenza italiana in quella regione è autoctona. Per Per il 52% gli italiani sono immigrati in Istria al tempo del fascismo inseguendo opportunità di lavoro e il 6% pensa che vi siano andati al tempo della Jugoslavia per costruire il socialismo. L’ignoranza circa la provenienza degli italiani è grande in tutte le classi d’età e muta un pò a seconda della regione di residenza. Minore nel Nord-Est Nord-Est e massima nel Sud. Inoltre chi ignora come stanno le cose adotta con più facilità la prospettiva revisionistica revisionistica in materia di confini. L’iniziativa missina non ha dunque spostato di una virgola la tradizionale ignoranza degli italiani sulla complessa problematica del confine orientale. Non ne aveva forse nemmeno l’intenzione e ciò complica ulteriormente l’eventuale definizione di una linea di azione adeguata ai problemi, dal momento che An è ora forza di governo. La loro iniziativa però deve aver in qualche modo colto una sensibilità a tematiche nazionalistiche, che pareva quasi scomparsa o comunque coperta negli ultimi anni da conflitti nei quali le identità regionali o locali venivano enfatizzate e contrapposte a quella nazionale. Tutto ciò farebbe
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di altre identità. Le differenze tra gli scarti sono infatti piccole. Tutto Tutto ciò sembra voler dire che un’iniziativa chiaramente nazionalistica non trova maggiori consensi solo tra coloro che si sentono molto orgogliosi di essere italiani, ma anche tra coloro che si sentono molto orgogliosi delle loro identità locali, regionali e macroregionali macroregionali (un po’ meno nel caso delle identità regionali). Evidentemente a reagire positivamente a proposte nazionalistiche non è un’identità un’identità nazionale separata e contrapposta a quelle subnazionali, ma un’identità un’identità nazionale che è parte di un’identità italiana di cui sono elementi costitutivi di pari livello anche altri tipi di identità. Detto altrimenti, da questo caso emerge che l’identità italiana, anche quando prende una piega nazionalistica, poggia su una multiappartenenza. È bene ricordarlo ora, dopo aver vissuto una stagione in cui sembrava che il composto magmatico dell’identità italiana potesse scindersi nei suoi elementi costitutivi.
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GEOPOLITICA DEL BLUFF FEDERALISTA
di Ilvo
D IAMANTI IAMANTI
Per conquistare Roma la Lega ha perso la sua identità territoriale. Come Berlusconi e Fini hanno scoperto il gioco di Bossi. I ‘senza terra’ di Forza Italia e la ‘Lega Sud’ missina. Perché i leghisti non usano più la minaccia secessionista.
P ’ della scena politica italiana: come è possibile che i tre alleati di governo, che nel loro stesso nome richiamano il territorio (Forza Italia , Lega Nord , Alleanza nazionale ),), abbiano relegato in second’ordine quel dibattito geopolitico su federalismo, regionalismo e unità
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2) La connotazione «oppositiva». Il territorio può venire «stirato» concettualmente e nei riferimenti territoriali soprattutto perché la Lega ne enfatizza la connotazione «oppositiva». Il legame con il territorio, infatti, quanto più è flessibile, tanto più trova significato in una logica di contraddizione e di contrasto: fra la periferia laboriosa e produttiva e il centro inefficiente, degradato e dissipativo; parallelamente, fra Nord Nord e Sud, tra Milano e Roma, tra le «forze vive» della società e del mercato e le «organizzazioni malate» del sistema politico tradizionale. Ciò consente alla Lega, fra l’altro, di trasformare il conflitto territoriale nella metafora di altre «battaglie», riassumibili nella lotta fra il Vecchio e il Nuovo. 3) La reciprocità fra insediamento elettorale e messaggio simbolico. Il Nord, infatti, è per i militanti, elettori, simpatizzanti della Lega motivo di riconoscimento e distinzione. Al tempo stesso, però, il Nord è il centro specifico e pressoché esclusivo dell’insediamento dell’insediamento elettorale leghista. È il suo terreno di caccia esclusivo. E, progressivamente, per gli elettori del Nord Nord (dapprima nelle aree più industrializzate, poi anche in quelle urbane e terziarizzate), te rziarizzate), la Lega diviene il referente privilegiato, da cui attingere identità e al quale attribuire rappresentanza. È per questo che il territorio smette di essere, a un certo punto, un contenuto démodé e un po’ folkloristico, folkloristico, per trasformarsi in «questione» nazionale. 4) L’uso strategico, come minaccia in ambito politico e istituzionale. È, infatti, evidente che la Lega usa il riferimento territoriale, in alcune fasi, come una «minaccia», tanto più grave ed efficace in quanto si rivolge all’unità e alla solidarietà nazionale. Periodicamente e mai a caso, infatti, Bossi agita la dimensione territoriale come una clava, «minacciando» la separazione del Nord, oppure la rottura del patto di solidarietà su cui si regge lo Stato nazionale. Si tratta di proposte e di iniziative che non arrivano mai ad ottenere concreta attuazione e che, comunque, quando vengono effettivamente
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Alleanza nazionale come Lega Sud La definizione data al territorio dalla Lega ha, infine, l’effetto imprevisto e senz’altro non desiderato di contribuire alla legittimazione del Msi nel Mezzogiorno, quale principale beneficiario del voto conservatore e moderato. È indubbio che il Msi debba in parte la travolgente crescita di consensi registrata nella consultazione di autunno alla sua connotazione «nazionalista». Alla minaccia espressa dalla Lega Nord nei confronti dell’unità nazionale e del sistema di interventi e di assistenze pubbliche, ampi settori sociali del Meridione, la cui condizione è largamente sussidiaria di questo modello di Stato, reagiscono orientandosi verso il Msi, opponendo il suo «nazionalismo» al «nordismo» della Lega. Il che lo configura come una sorta di Lega Sud. La leadership del Msi, d’altronde, sviluppa appieno questa indicazione, promuovendo un soggetto politico la cui connotazione è sottolineata dalla stessa denominazione prescelta: Alleanza nazionale. Il documento costitutivo del Comitato per l’Alleanza nazionale (Idee per un manifesto), d’altra parte, si presenta come un controcanto alle posizioni leghiste. Vi si propongono, infatti, l’accentramento dello Stato, attraverso il presidenzialismo e la democrazia diretta; la «ricomposizione del tessuto morale politico e sociale della nazione, seriamente minacciato sia dalla degenerazione del vecchio sistema dei partiti, sia dalle spinte secessionistiche che sfruttano il giusto sentimento di rivolta dei cittadini»; la solidarietà nazionale ed economica, attraverso un’azione dello Stato che stimoli lo sviluppo e l’iniziativa privata, ma che, inoltre, «garantisca una più equa redistribuzione delle risorse». Ne emerge una definizione del territorio impostata sull’«affermazione dell’identità nazionale» e su una concezione dell’Italia «non come espressione geografica, ma come il frutto storico di un
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matico, sulla cui base realizzare le alleanze, è costituito dal «federalismo», modello istituzionale di riferimento per la Lega. Il compito di tratteggiare in modo più preciso la base di confronto è affidata al senatore Gianfranco Miglio, scienziato della politica eminente e ideologo della Lega, il quale presenta ad Assago il testo provvisorio di una costituzione federale, che costituisce il primo (e sino ad ora l’unico) modello strutturato della riforma dello Stato prefigurata dalla Lega. Si tratta di una bozza articolata in dieci punti, che disegnano l’Italia non più come nazione, ma come «Unione», frutto della «libera associazione di tre Repubbliche»: la Padania a Nord, l’Etruria al Centro e, infine, privo di altra definizione specifica, il Sud. Il fondamento dell’identità e dell’organizzazione del paese passa, quindi, alle «macroregioni», di cui l’Italia diviene la «proiezione», non necessariamente permanente. La definizione chiusa di questo schema è solo in apparenza contraddittoria rispetto all’apertura del dialogo, cui è finalizzata. In effetti, essa ha senso soprattutto come «messaggio», come forma di «comunicazione». Serve a rafforzare l’identità interna, nel momento in cui ci si appresta a ridefinirla attraverso l’accordo con altri soggetti. E serve, ovviamente, ad alzare preventivamente la posta della trattativa rispetto agli interlocutori possibili, delimitando in modo molto netto i termini del confronto e imponendo, quindi, agli altri la propria centralità. Lo riconosce, amaramente, lo stesso Miglio, nel «diario segreto» degli anni trascorsi sul Carroccio, citando un articolo di Bossi sul Sole 24-Ore , all’indomani del Congresso, nel quale il leader leghista affermava che «la costituzione di Assago era una provocazione» (10).
L’Italia ‘aterritoriale’ di Berlusconi
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di ripresa, di normalità, di sicurezza i principali orientamenti comuni. Ciò che permette a Berlusconi di realizzare accordi separati sia con la Lega, al Nord, che con Alleanza nazionale, al Sud. Nel programma presentato in febbraio da Forza Italia, in vista delle elezioni politiche, trovano dunque posto sia la Camera delle Regioni che un federalismo fiscale temperato - per richiamare latamente il progetto leghista - sia il presidenzialismo e la garanzia di un’ampia quota di intervento pubblico in ambito sociale - in coerenza con le ipotesi di An. Così, l’Italia di Berlusconi si affianca al Nord-macroregionalista della Lega e al Sudnazionalista di An. E, rispetto ai due modelli, si propone come collante e, al tempo stesso, come framework , cornice che ricompone e rende compatibili (se non coerenti) logiche e definizioni tanto diverse e contrastanti. Tuttavia, è evidente che l’incontro fra i tre soggetti non lascia immodificata la loro identità, né quella del loro progetto. Il territorio di Berlusconi, infatti, è assai più coerente con quello di An di quanto non lo sia rispetto a quello della Lega. La Nazione di An, infatti, si nutre di molti elementi che Berlusconi utilizza per disegnare la sua «Italia vincente»: l’identificazione nel leader nazionale, l’importanza attribuita alle istituzioni tradizionali, all’autorità, all’ordine. E ciò serve ad An per legittimarsi ulteriormente, in ambito democratico, senza dover rompere con la tradizione fascista. Lo «scambio» con la Lega Nord, invece, risulta assai più asimmetrico. Berlusconi, tutt’altro che estraneo al vecchio sistema, ne trae motivo di ridefinizione, legittimandosi come soggetto di innovazione politica. Inoltre, la Lega offre a Berlusconi quell’immagine di «radicamento» che egli non ha né intende costruire. Ma la Lega, per le stesse basi sulle quali essa imposta il gioco, si vede «svuotata» di una parte importante delle sue basi di consenso. La causa di ciò risiede proprio nella definizione dell’identità e della proposta leghista, troppo rigidamente legata a ’idea oppositiva del territorio e a una concezione del federa-
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appare il concorrente che insidia maggiormente il suo territorio di caccia. Ciò lo induce, nelle settimane prima del voto, a spostare proprio sull’alleato il fuoco della propaganda, facendone il principale bersaglio polemico. A questo fine, Bossi sceglie quale piano di riferimento la questione vecchio/nuovo in politica. Egli, cioè, richiama i legami di Berlusconi e di molti uomini della sua compagine con il passato sistema politico e rivendica per la Lega il ruolo di garante del «nuovo» e per se stesso la parte di unico credibile traghettatore verso il nuovo sistema politico (12). In questo modo, però, egli rinunzia a rilanciare, al centro del confronto politico, il «territorio», e, implicitamente, rafforza la posizione di Berlusconi, utilizzando un tema politico che l’«imprenditore politico» di Forza Italia, anche grazie al sostegno venuto dalla Lega, mostra di gradire. I risultati delle elezioni riflettono fedelmente l’esito di questo scambio ineguale tra i soggetti della coalizione vincente (13). La perdita di centralità del territorio, fra i riferimenti del confronto politico, si rispecchia nel ripiegamento elettorale della Lega. La Lega si rafforza solamente nelle zone periferiche a maggiore industrializzazione: nelle province del Veneto centrale e in quelle più settentrionali della Lombardia. Dove, cioè, era sorta e aveva conosciuto i primi successi, negli anni Ottanta. Perde sensibilmente terreno, invece, dove era cresciuta negli anni Novanta, quando alla rivendicazione territoriale aveva agganciato altre tematiche e altre domande, legate al rinnovamento e alla riforma (ma anche, più di recente, alla stabilizzazione) del sistema politico ed economico: nelle aree urbane e a economia terziaria del Nord. Al contrario, Alleanza nazionale raddoppia i consensi rispetto a due anni prima. Le caratteristiche degli elettori e delle aree in cui essa registra le maggiori performance confermano, da un lato, la continuità rispetto al retroterra missino, dall’altro, l’efficacia del modello di offerta elaborato in prospettiva simmetrica rispetto a quello leghista. Essa, infatti, trova un ambiente favorevole fra i lavoratori pubblici e privati, come
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e del conflitto politico. Il territorio, infatti, (a) non rappresenta più il filo attorno a cui si annodano tutte le maggiori questioni e tensioni sociali, politiche ed economiche; (b) non è più, di conseguenza, motivo di «opposizione», ma, semmai, di progettazione. La frattura fra il centro e la periferia e in particolare quella fra il Nord e lo Stato non è riassorbita, ma ha perduto senza dubbio di drammaticità. Questa frattura e le «minacce» all’unità e alla solidarietà nazionale che ne conseguivano garantivano rilievo politico alla dimensione territoriale e alla Lega Nord. Il declino elettorale della Lega rispecchia dunque molto puntualmente questo processo e contribuisce ad accentuarne l’incidenza. Le complesse trattative fra i partiti che, dopo aver vinto le elezioni, hanno dato vita al governo guidato da Berlusconi forniscono in tal senso molti elementi di conferma. La questione territoriale, in effetti, mantiene una certa rilevanza, soprattutto nella fase preliminare, quando la trattativa verte sulla composizione e su i programmi della compagine di governo. Il federalismo viene, infatti, utilizzato dalla Lega come tema discriminante, in base a cui verificare la «compatibilità» con gli altri alleati. Risulta però evidente come si tratti di una questione non più in grado di discriminare. Per Forza Italia, infatti, continua ad essere una tematica scarsamente rilevante. Per Alleanza nazionale, invece, il problema ha grande importanza. Ma in negativo. E, in effetti, le difficoltà maggiori riguardano il rapporto fra Lega e Alleanza nazionale. Non occorre, però, molto tempo per comprendere che le rigidità poste dalle due forze politiche hanno una funzione «rituale» e «simbolica», piuttosto che sostanziale. È sufficiente, infatti, un incontro fra le delegazioni dei due partiti (il 9 aprile) per verificare come il federalismo abbia perso la forza discriminante degli anni precedenti. La Lega, infatti, accetta la richiesta di An per un federalismo che rinunzi al principio della doppia sovranità di Stato e macroregione. Ciò che disinnesca, di fatto,
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tivo che per perseguire questo e altri obiettivi, la Lega oggi non ricorra più alla minaccia «secessionista» o al richiamo territoriale, ma alla ben più tradizionale risorsa contrattuale costituita dal peso in ambito parlamentare e governativo, oggi assai più esteso di quello elettorale. Fino a un anno fa avveniva il contrario: era il fondamento territoriale a sopperire alla ridotta incidenza della Lega nel parlamento e soprattutto nel governo. Il che significa che per la Lega, e più in generale nel sistema partitico italiano, dopo una breve stagione la «politica» ha ripreso il sopravvento sulla «geopolitica».
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CARTO GRAFIA
La nuova geografia elettorale
di
Luigi C ECCARINI
L
E CARTE QUI RIPORTATE OFFRONO UN
quadro della nuova situazione politica ed elettorale italiana, evidenziando l’elemento spaziale del cambiamento avvenuto negli ultimi anni. L’unità territoriale della base-dati, da cui siamo partiti per disegnare la cartografia, riportava il risultato relativo ai singoli collegi elettorali. Pur non disponendo del dato a livello comunale e quindi provinciale, abbiamo ugualmente proposto una serie di cartografie che disaggregano il voto e il territorio nazionale nelle singole province.
LA NUOVA GEOGRAFIA ELETTORALE
A CHE SERVE L'ITALIA
LA NUOVA GEOGRAFIA ELETTORALE
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COME BERLUSCONI HA INVENTATO IL PRIMATO DI MILANO
di Federico
R AMPINI
Il re della televisione commerciale ha sconfitto Bossi e conquistato l’Italia perché ha capito che per portare Milano a Roma occorreva una forza politica nazionale, moderata e rassicurante. Ma lo Stato italiano è un’altra cosa.
M ’I Può governare l’Italia? Sta governando l’Italia? Il dibattito su «Milano a Roma» si è acceso
nell’estate 1994, dopo l’insediamento del governo Berlusconi e le prime turbolenze (politi-
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con la sinistra. Il Sud e il Nord in questa occasione si sono scambiati i ruoli e oggi il Mezzogiorno si presenta come l’area in cui la competizione è più aperta, mentre il Nord appare come la zona che garantisce un compatto e solido retroterra di voti e di seggi allo schieramento di governo. Milano è andata a Roma, mentre Napoli si è posta all’opposizione» (14). L’affermazione di Forza Italia, mentre recupera certi contenuti ideologici della Lega Nord, li nazionalizza e lancia così il progetto egemonico di Milano capitale. «La Lega rappresentava l’Italia dei produttori, la cui capitale è Milano, contrapposta a Roma, capitale della partitocrazia e del centralismo statale. (...) Berlusconi porta Milano a Roma: trasferisce a Roma la leadership del Nord produttivo. Ma in questo modo nazionalizza e quindi normalizza le tensioni innescate in passato dalla Lega, smorzando le contraddizioni emerse nei confronti del Sud» (15). L’altro tema, cioè l’eventuale fallimento di una modernizzazione dell’Italia affidata alla nuova classe dirigente di estrazione lombarda, è stato lanciato sul Corriere della Sera da Ernesto Galli della Loggia. Il 31 luglio, in un editoriale del quotidiano (milanese, ma antiberlusconiano), Galli della Loggia ha definito i connotati dell’ideologia milanese. A cominciare dall’avversione per la politica. «Milano è contro la politica nel senso che tendenzialmente si rifiuta di riconoscere alla dimensione della politica una specificità. (...) Roma ha voluto e vuol dire lo Stato. Verso lo Stato l’ideologia milanese mostra la stessa sottovalutazione-incomprensione che verso la politica. (...) Alla statualità oggi geograficamente lontana la città lombarda contrappone la dimensione e il significato del municipio, da sempre in lei vivissimi. (...) A Milano un tessuto produttivo minuto e diffuso, permeato dell’elemento commerciale e finanziario, popolare e democratico, fa rinascere di continuo l’idea che la politica possa essere ridotta alle semplici ragioni dell’amministrare e del produrre».
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Anche per Giuseppe De Rita non è Milano a prendere il potere. Il sociologo nota che la neoborghesia più dinamica è piuttosto quella della Terza Italia: Veneto, Emilia, Marche, Toscana. «L’Italia di oggi non è né romana né milanese, sta spostando a Nord-Est il baricentro economico». Giorgio Ruffolo, da parte sua, scrive che in Italia la questione settentrionale non è altro che una forma di quella rivoluzione privatistica in atto nel mondo intero.
Italia geografica, Italia politica È antica la frustrazione di Milano, città-leader nell’economia nazionale ma che non è mai stata capitale d’Italia. Orgoglio e rabbia si sono cristallizzati in quell’autodefinirsi «capitale morale», sfortunata consolazione che la città lombarda si diede in tempi non sospetti, senza immaginare a quali facili ironie si sarebbe prestata in seguito. E il fiorire di una letteratura meneghina contro Roma («il monumentale capoluogo della Regione Lazio» nella definizione di Gianni Brera) non riesce a nascondere un certo complesso d’inferiorità, che deriva soprattutto dal constatare la sostanziale sterilità degli attacchi contro la capitale vera. Almeno fino a Bossi e Berlusconi. L’avversione milanese per Roma (capitale dei burocrati e della politica, quindi parassita per definizione, Roma ladrona e lazzarona da tempo immemorabile, ben prima che il leghismo spuntasse all’orizzonte politico del paese) si innesta su una storia nazionale in cui la geografia dei partiti e la geografia tout court sono sempre state strettamente collegate. A partire da quella originaria, insanabile commistione che ha visto la più grande potenza ideologica del paese, la Chiesa, occupare un territorio e amministrare uno Stato tra gli altri
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Storia di Milano capitale mancata Il più irriducibile assertore dell’incapacità di Milano a governare l’Italia è, paradossalmente, proprio il vate della Padania, il precursore del leghismo, il cultore della milanesità. Gianfranco Miglio, nell’appendice storica al suo ultimo saggio, teorizza l’essenza antipolitica della Lombardia. Scrive Miglio che «nulla fornisce un’idea più chiara del carattere “serviente” assunto dalla politica nella concezione lombarda, che l’aprire gli Statuti tardo-medioevali di una nostra città: le norme “costituzionali” relative all’organizzazione dei poteri e degli uffici sono soltanto la parte introduttiva di un contesto il cui corpo principale è rappresentato dalle regole di diritto sostanziale e processuale, civile, commerciale e penale. (...) è forse l’istituto del podestà che meglio incorpora la vocazione privatistica dei lombardi. La città si affida a un tecnico straniero, pagato come un professionista, e assunto per tempo determinato; lo si cerca neutrale (...)» (16). Più avanti nel tempo, il municipalismo impedirà alla Lombardia perfino di diventare una sottopotenza regionale. «Malgrado la razionale coerenza della sua struttura e delle retrostanti forze economiche», scrive sempre Miglio, «non si può dire tuttavia che la Signoria viscontea e sforzesca abbia raggiunto l’obiettivo di fondare un vero Stato regionale. Glielo impedì proprio l’atavico particolarismo delle città lombarde, ora rafforzato dalla presenza in ogni centro di un ceto economico analogo a quello attestato a Milano. Questa aristocrazia urbana, forte delle proprie risorse economiche e soprattutto delle garantite autonomie giurisdizionali, consolida il suo predominio sul rispettivo contado e perpetua la realtà della città lombarda come duro nocciolo, indissolubile in qualsiasi quadro politico più vasto» (17).
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Negli anni Sessanta del secolo scorso, Agostino Depretis riconosce che «il nerbo d’Italia è nella valle del Po e tutta la forza della nazione si appoggia sopra un triangolo che ha per vertici Torino, Milano, Genova». Ma in quel tempo, osserva Lepre, «la nuova Italia stava nascendo altrove e i milanesi sembravano disinteressarsene: i loro uomini più rappresentativi pensavano più al potere locale che a quello centrale e la loro attenzione andava, comunque, soprattutto ai problemi dell’economia. La politica era lasciata a Roma. I lombardi sembravano guardare all’Europa più che all’Italia. Al centro dei loro interessi non era né lo Stato né la nazione: essi guardavano soprattutto al lavoro, che sembrava unire tutti i ceti sociali della città». La priorità assegnata all’economia porta Milano ad opporsi all’avventura coloniale di Francesco Crispi, accusandolo di megalomania, di sprecare nei costosi sogni imperiali risorse preziose per la crescita economica del paese. I sostenitori della repubblica ambrosiana vogliono dare priorità al benessere. Sono accusati a loro volta di «micromania ». Se avessero vinto loro, forse l’Italia non sarebbe finita in mezzo a due guerre mondiali e la Padania sarebbe una grande Svizzera. Già allora, del resto, il tema dello Stato minimo si coniuga in due dimensioni: quella territoriale e quella fiscale. Quei moderati milanesi che nel 1893 lanciarono la campagna contro le imposte non volevano pagare né le spese militari, né i sussidi al Sud. Altro che colonie, l’Italia era già troppo larga per le tasche milanesi. Come diceva Eugenio Torelli-Viollier, direttore del Corriere della Sera fino al 1900, «ogni lira che si spende dallo Stato inutilmente, è da ogni milanese considerata come toltagli di tasca: non c’è altro popolo che abbia più vivo il rapporto che passa fra le spese dello Stato e la fonte delle entrate». Come simbolo del capitalismo più avanzato formatosi a Milano, e avverso all’espansione in Africa, Indro Montanelli (19) ricorda l’ingegner Giuseppe Colombo
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sentanti locali di tutta la Lombardia. Ma che non arrivò neppure alle orecchie degli altri partner della Cee, talmente era stata presa sul serio dal governo italiano. La seconda immagine è quella dei rottami dell’aereo di Enrico Mattei, caduto tra le nebbie nei pressi di una cascina alla periferia di Milano, alle sette di sera del 27 ottobre 1962. La figura di Mattei, fondatore dell’Eni, condensa in sé i limiti della Milano dinamica, aggressiva e rampante del boom economico. Fu un imprenditore geniale, capace di grandi intuizioni sugli sviluppi dell’industria petrolifera e sulle opportunità aperte dall’evoluzione politica del Medio Oriente. Seppe anche valorizzare alcuni punti di forza dell’economia mista - capitale pubblico, gestione privatistica - sperimentata in Italia con la formula delle Partecipazioni statali, e che all’estero in quegli anni veniva accreditata di grandi meriti. Ma con Mattei e con la corrente di Base della Dc, nata a Milano e generosamente finanziata dall’Eni, proliferarono i germi della commistione tra industria pubblica e partiti che sarebbe degenerata fino a Tangentopoli. Mattei fu un grande corruttore di tutti i partiti, un cinico teorizzatore dell’illegalità, sicuramente uno dei padri fondatori di Milano capitale immorale. D’altra parte il suo progetto industriale e di politica estera finì miseramente, forse ancora prima che il bireattore Morane Saulnier si schiantasse a terra in quell’autunno di 32 anni fa. Checché si pensi dell’ipotesi del sabotaggio, sta di fatto che il milanese (d’adozione) Mattei si era già votato alla sconfitta battendosi vanamente contro il potere, troppo più forte di lui, delle «sette sorelle», le multinazionali del petrolio. Giusta o sbagliata che fosse, la velleità di smarcarsi dall’America si scontrava comunque con la realtà di un’Italia che non poteva sostenere sfide così ambiziose. La morte di Mattei già rivelava ciò che sarebbe risultato ancora più evidente in seguito. L’intraprendenza, l’ingegno e l’operosità delle genti lombardo-padane potevano e possono fare miracoli, ma sempre entro i limiti invalicabili tracciati dall’assenza
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la conflittualità. La rivolta degli industriali rientra rapidamente, e il fratello cadetto di Gianni, Umberto Agnelli, finirà per essere eletto in parlamento proprio nelle liste della deprecata Dc. Un’interessante coincidenza di tempi - sottolineata nella Storia della Prima Repubblica di Lepre - fa sì che nella stessa epoca della fallita offensiva confindustriale contro la Dc si riaffacci nel dibattito politico l’idea aggiornata della Padania, alleanza in chiave autonomista tra le regioni della valle padana (20). La lancia alla fine del 1975 il comunista Guido Fanti, presidente della Regione Emilia-Romagna. La raccoglie Gianfranco Miglio, a quei tempi costituzionalista rispettato ma poco noto al grande pubblico. Un incoraggiamento, presto rientrato, viene pure dalla Montedison che tenta di organizzare un convegno sul tema. Alla fine l’assalto torinese, sconfitto sul piano politico, finirà per trionfare sul terreno sociale. Nell’autunno del 1980 la Fiat vince la «battaglia dei 35 giorni» contro il segretario del Pci Enrico Berlinguer e la Cgil. La lunga occupazione della fabbrica di Mirafiori, voluta dai comunisti per protestare contro alcuni licenziamenti, viene interrotta dopo una grande manifestazione di quadri della Fiat per le vie di Torino. Il colosso dell’auto dimostra così che il vento è cambiato, e la maggioranza silenziosa può sfidare apertamente il potere della sinistra. Torino guida la riscossa capitalista. Milano applaude ma sta a guardare.
Il patriottismo dei mercati Tuttavia viene da Milano l’uomo che saprà meglio gestire politicamente la crisi del Pci e la riscossa di un capitalismo settentrionale pur sempre largamente assistito e com-
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cidere con una breve congiuntura politico-culturale tesa a promuovere una sorta di ripresa di orgoglio nazionale, collegato ad alcune prestazioni socio-economiche. Un nazionalismo da made in Italy » (21). Chi ha detto che la merce non ha un’anima? Il cosmopolitismo spesso rinfacciato ai lombardi non esclude che i loro muscoli pettorali possano gonfiarsi di commozione patriottica, di fronte alla superiore qualità della mercanzia nostrana. Milano si era conquistata i galloni di capitale immorale prima dell’ascesa di Craxi e ben al di là dei suoi meriti. Abbiamo visto Mattei, non possiamo omettere gli scandali Sindona e Calvi, che avevano trascinato nel fango alcune istituzioni storiche della città tra cui il Banco Ambrosiano e il Corriere della Sera . E tuttavia è la gestione socialista che regala a Milano l’appellativo di Tangentopoli, quando nel ‘92 i giudici del pool Mani Pulite attaccano frontalmente il clan politico-mafioso costruitosi attorno alla famiglia Craxi e che aveva il controllo dell’amministrazione comunale. Con la messa sotto inchiesta dei due sindaci socialisti, Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, l’èra Craxi si chiude. Sconfitto dai giudici nel suo feudo milanese, il leader socialista perde il consenso degli elettori e la sua presa anche su Roma. Naturalmente, com’è stato detto più volte, il fatto che l’operazione Mani Pulite sia scoppiata proprio a Milano non vuoi dire che la corruzione vi fosse superiore ad altre città italiane, anzi. Semmai è la riprova di una pervicace vitalità della società civile ambrosiana, inquinata e compromessa, eppure ancora capace di sussulti in nome del primato dell’economia e dell’autonomia dal Leviatano burocratico. All’orizzonte politico irrompono allora i battaglioni della Lega Nord, che senza saperlo spianano già la strada in quella primavera del ‘92 alla successiva ondata elettorale di Forza Italia. La Lega non è un fenomeno milanese, ma della profonda provincia lombardo-veneta, visto che è nata alle elezioni del 1987 nelle province di
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e più in generale le inefficienze statali. In questa fase Milano teme di non farcela, teme di essere risucchiata negli abissi dalle pesantezze romane, perdendo il treno della germanizzazione economica. La svalutazione della lira nel settembre ‘92 e poi l’ulteriore rottura del Sistema monetario europeo nel ‘93 risollevano le sorti dell’industria settentrionale. Nonostante tutto, proprio la politica romana con le sue debolezze e le sue doppiezze, con le sue finte Caporetto e il suo fatalismo levantino, ha salvato ancora una volta le fortune milanesi. Si fa strada così, anche nella parte più illuminata della classe dirigente ambrosiana, una lettura molto meno negativa e catastrofista del nostro essere in serie B, in seconda velocità, ovvero nel cerchio distante della nuova geometria europea. Mario Monti, presidente dell’Università Bocconi (fucina di formazione della classe dirigente milanese), per anni gran sacerdote inascoltato della migliore tradizione liberista e liberaldemocratica lombarda, infine candidato (mentre scriviamo) designato dal governo Berlusconi alla Commissione di Bruxelles, interviene il 10 settembre 1994 nel dibattito sulle «due velocità», con un interessante articolo sul Corriere della Sera . Lungi dallo stracciarsi le vesti - costume folkloristico molto diffuso in questi casi - di fronte ai palesi disegni francotedeschi sul nucleo duro dell’unione monetaria che lascerà fuori l’Italia, Monti adotta una prospettiva storica che gli fa emettere un giudizio sereno e disincantato. Dopo aver passato in rassegna le diverse fasi in cui l’Italia si è messa (o si è lasciata mettere) in panchina mentre altri paesi procedevano più speditamente verso i traguardi comuni, Monti conclude: «In retrospettiva, l’essersi trovata, per sua scelta, in seconda velocità non ha impedito all’Italia di compiere, dal 1958 ad oggi, passi formidabili nell’integrazione con il resto della Comunità, passi decisivi per l’ammodernamento economico, sociale e politico del nostro paese».
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C’è poi un latente conflitto di valori tra Milano e la periferia lombarda, che si può cogliere nella fase emergente della Lega. Milano è città aperta per definizione, da sempre melting pot di grandi flussi migratori. Milano non può essere e non è mai stata razzista, autarchica, xenofoba. La provincia lombarda, al contrario, vive le tensioni di un processo di industrializzazione rapido e recente, che sconvolge vecchie forme di identità. Gli slogan iniziali della Lega contro i terroni e contro gli immigrati sono la prova evidente delle tensioni tra Milano e la sua periferia. Inoltre la base sociale della Lega è più sinceramente liberista e antistatale di quanto non lo sia la classe dirigente milanese. La piccola e media impresa della periferia lombarda e del Triveneto, i lavoratori autonomi e i liberi professionisti della ricca provincia nord-orientale sono ceti che non dipendono dagli aiuti statali (commesse, cassa integrazione, sussidi per gli investimenti nel Mezzogiorno) o dalle banche pubbliche come la Montedison, la Fiat o la Olivetti. L’arrampicata sociale di questi ceti deve molto di più all’assenza di Stato che allo Stato (un po’ come per la Fininvest di Berlusconi). Si pensi al fenomeno dell’evasione fiscale diffuso prevalentemente in queste categorie, all’uso di lavoro nero e sommerso. Infine, per la natura flessibile di queste piccole imprese familiari, esse soffrono meno l’assenza di un sistema-paese (infrastrutture, ricerca scientifica) rispetto alla grande industria classica. Perciò in definitiva la classe media che ha fatto la forza iniziale del leghismo è ancor più risolutamente antiromana di quanto non lo sia la società civile milanese. Ma la stessa crescita della Lega, tra il 1987 e il 1994, l’ha costretta a «milanesizzarsi». La capitale lombarda, che negli anni Ottanta ha completato la sua mutazione da città industriale a centro del terziario avanzato, ha sviluppato un nuovo tipo di leadership cui il
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territoriale e della maggiore credibilità del Nord; il liberismo economico, con una simpatia più marcata per la piccola impresa che per la grande industria infine «una fortissima affezione, se non una vera e propria identificazione, con le reti Fininvest». Fin dalla sua apparizione Forza Italia ruba elettori alla Lega tanto più facilmente nelle grandi aree urbane, nelle zone dominate dai servizi e dalla grande impresa. La Lega cannibalizzata si ritira a difendere le sue ultime roccaforti nella Terza Italia. Berlusconi occupa Milano, che si propone come capitale politica perché è la città che effettivamente produce e diffonde i valori dominanti nella società italiana (e non solo settentrionale) degli anni Novanta. La televisione commerciale modello Fininvest è stata l’arma segreta di Berlusconi. Non per una inesistente manipolazione delle coscienze degli elettori attraverso il controllo dell’informazione. Ma perché i valori Fininvest - molto più presenti nella tv di spettacolo e di intrattenimento che nei telegiornali d’informazione - hanno costruito il successo del personaggio Berlusconi. Il voto ha premiato quel modello culturale, che è poi la versione italiana del modello americano, consumista e antistatalista, capitalista e cultore del successo economico, un po’ darwiniano nell’ammirazione del più forte, ma temperato dalla giusta dose di Dio-Patria-Famiglia. Grazie a Berlusconi, Milano corona il suo sogno di essere capitale. Ma non perché ha spedito qualche milanese nelle insidiose stanze del potere romano. Milano con l’industria dei mass media che vi è largamente concentrata è la capitale virtuale dell’Italia televisiva, è il crogiuolo di simboli di un paese iperconsumista e allergico alle leggi dello Stato, è capitale terziaria nella società dell’informazione. Milano ha milanesizzato l’Italia attraverso il piccolo schermo, è la porta dell’Italia sull’America o su di un’Europa americanizzata. Questa egemonia milanese sull’Italia, però, può difficilmente rilanciare lo Stato
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Note 14. I. DIAMANTI - R. MANNHEIMER, Milano a Roma. Guida all’Italia elettorale del 1994, Roma 1994, Donzelli, pp. XVI-XVII. 15. Ivi, p. IX. 16. G. MIGLIO, Io, Bossi e la Lega, Milano 1994, Mondadori, p. 77. 17. Ibidem. 18. A. LEPRE, Italia, Addio? Unità e disunità dal 1860 a oggi, Milano 1994, Mondadori. 19. I. MONTANELLI, Milano ventesimo secolo. Storia della capitale morale da Bava Beccaris alle Leghe, Milano 1990, Rizzoli. 20. A. LEPRE, Storia della Prima Repubblica, Bologna 1993, il Mulino. 21. G. E. RUSCONI, Se cessiamo di essere una nazione, Bologna 1993, il Mulino, p. 10. 22. «Caf ti ho liquidato io», intervista con U. BOSSI di G. TURANI, la Repubblica, 13/1/1993.
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ROMA CAPITALE STA IN FONDO ALLO STIVALE
di Alberto
C ARACCIOLO
Dal Risorgimento a oggi, la Città Eterna ha perso la sua centralità nelle rappresentazioni geopolitiche degli italiani. Non più baricentro neutro del paese, ora è considerata parte del Sud e dei suoi problemi. Un fenomeno accentuato dal trionfo di Berlusconi.
N d’oggi, Roma (con la sua provincia) viene indicata generalmente come appartenente al
Mezzogiorno d’Italia. Certo, la tradizione e la definizione geografica indicano sempre Roma
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Come, quando, attraverso quale itinerario si verificò (o fu sentito) questo processo di «meridionalizzazione» e dunque anche di perifericità rispetto al contesto statuale e nazionale? Sono domande che meritano qualche riflessione retrospettiva, storica. Per la scelta della capitale va ricordato che l’opzione Roma, sul finire del Risorgimento, non fu subito unanime. Nel 1860-’61, cioè quando venne a compiersi la maggior parte dell’unificazione della penisola e delle sue isole, quella rivendicazione di un primato del «Campidoglio» - così si usava dire - come simbolo della nuova unità era sì nel programma della parte democratica, mazziniana, garibaldina (e neppure tutta), ma trovava deboli ed esitanti consensi fra i moderati: era caduta la ingenua speranza di poter contare con Pio IX su di un pontefice che fosse insieme capo della Chiesa cattolica romana e capo di una libera confederazione di Stati, convergenti in Roma. Soprattutto dal Piemonte giungevano idee «antiromane», che volevano la perpetuazione di Torino nella funzione di capitale anche del nuovo Regno, e alla Camera subalpina si creò perfino un partito che si batteva per questo, detto «la Permanente». È anche noto come in quel marzo del 1861, cruciale per tutte le decisioni sull’assetto dello Stato in fieri , la questione della capitale venisse presa di petto dal premier, il conte di Cavour, e da lui riassunta in un’unica e netta decisione: la capitale predestinata non poteva non essere Roma. E fra i diversi motivi che accreditavano tale decisione, molto carichi di valenze morali, ideali, diplomatiche, trovò un posto di rilievo in quella storica discussione parlamentare l’esigenza di massima centralità rispetto alle antiche capitali e per conseguenza il bisogno di trovare un luogo quanto più possibile equidistante rispetto a queste ultime. Altrove, in Europa, più che la centralità aveva contato la grande dimensione urbana, sommata a lunga tradizione di presenza della Corte. Nel caso italiano occorreva in certo senso l’opposto: darsi una capitale non troppo forte, non troppo periferica, non identificabile
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poi. Anni nei quali sono comprese fra l’altro due circostanze esteriori ma emblematiche in quanto estremo tentativo di confermare in Roma il centro riconosciuto e riconoscibile dello Stato: l’Esposizione internazionale del cinquantenario della proclamata capitale e l’inaugurazione del colossale monumento a Vittorio Emanuele II, entrambe avvenute nel 1911. A quanto pare, nella classe di governo e nella pubblica opinione prese rilievo solo allora la polemica, prima piuttosto sotterranea e marginale, contro una capitale meridionalizzata e ingiustamente eccentrica rispetto al Settentrione. Ma questa visione ancora abbastanza idillica dei divari regionali, che evidentemente si giudicavano non irrimediabili e comunque esorcizzabili con la celebrazione e con la spettacolarità orchestrata grazie alla regia dello Stato, non corrisponde all’aggravarsi concreto e misurabile del divario regionale fra due Italie, delle quali alla capitale non riesce più di esser mediatrice. Essa si gonfia sì di popolazione, ma come assetto produttivo e sociale appare essere come risucchiata nel sottosviluppo meridionale, ora che il Nord «decolla» lungo direttrici di tipo europeo. è dopo di allora - diciamo dall’età giolittiana in poi - che Roma, con le aree contermini, può a buon titolo essere considerata come facente parte del Mezzogiorno d’Italia. A livello economico il sigillo verrà posto dagli atti legislativi con i quali l’applicazione dei benefici privilegiati della cosiddetta Cassa del Mezzogiorno viene estesa a una parte della provincia romana e del Lazio: dunque, mezzo secolo dopo la data convenzionale del 1911. E a livello sociale si riscontrerà un apporto dominante dei flussi dal Sud già in fenomeni di importazione linguistica da Napoli e da altre zone meridionali, amplificati dal «modello» di lingua offerto da radio e televisione, che si appropria sempre di più di vocaboli e inflessioni tratte dall’idioma romanesco. Qui si potrebbe continuare con ben maggiore documentazione e con analisi speci-
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si è ancora immaginato di potere dar vita a installazioni di fabbriche capital intensive di prodotti chimici e farmaceutici; anch’esse però non hanno potuto resistere alla concorrenza in momenti di cattiva congiuntura come quello dei nostri anni Novanta. Seguendo anche in ciò gli sforzi e i disastri dei tentativi pubblici e privati di industrializzare e mobilitare il Mezzogiorno. Un ultimo passo nella stessa direzione si è avuto, infine, come conseguenza dell’assetto europeistico comunitario. È ben vero che tutto o quasi tutto cominciò con il Trattato di Roma del 1957. Ma dopo di allora le spaccature fra l’area forte settentrionale della Ue e l’area più depressa dei paesi mediterranei hanno finito per aumentare il divario anche fra due Italie: quella tendenzialmente «europea» di Milano e del Nord e quella ritardataria e sempre in cerca di aiuti e incentivi che va precisamente dalla zona di Roma fino all’estremità dei territori che si inoltrano verso la sponda islamica e verso le altre penisole di Spagna e di Grecia, arretrate anch’esse. La meridionalizzazione ormai compiuta per intero della città del Tevere non si misura dunque più in base alla prossimità o meno all’«ombelico» di Rieti, vero centro geografico dell’Italia (e neppure dal numero di cittadini nati a sud di Roma, dato che tanti figurano residenti sì, ma sono tali in realtà soltanto per seconda o terza generazione). Si misura nella involuzione della struttura sociale ed economica quale qui è dato individuare a tutt’oggi; che continuamente torna a inglobare e «contaminare», con il Mezzogiorno, la città e l’area di Roma in un modello che la estranea dagli sviluppi eurocentrici dell’altra parte del paese.
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PERCHÉ IL PAPA POLACCO VUOLE SALVARE L’UNITÀ D’ITALIA
di Marco I MPAGLIAZZO
Il nostro paese è il perno della visione geopolitica di Giovanni Paolo II. Ad esso, polo magnetico dell’Europa cristiana, Wojtyla guarda come al trampolino geopolitico per l’evangelizzazione del Sud del mondo. Una peculiare teologia della nazione.
G P II I rivolto una pubblica lettera ai vescovi italiani parlando dell’Italia. È un documento in cui ribadisce il significato del nostro paese per la Chiesa cattolica: «Come vescovo di Roma», scrive, «mi rivolgo con profondo affetto a voi, vescovi delle chiese che sono nella penisola
PERCHÉ IL PAPA POLACCO VUOLE SALVARE L’UNITÀ D’ITALIA
Il papa di origine polacca parla da italiano, quando sottolinea il valore politico e culturale dell’Italia. Il papa polacco si presenta quasi più italiano dei suoi predecessori italiani. Gli ultimi pontefici, a partire da Pio XII, avevano, infatti, cercato di disincarnare il papa dalla sua origine italiana: questo era una delle conseguenze della politica di internazionalizzazione del papato. Pio XII, in particolare, tendeva a trasmettere l’immagine di un papa «cittadino del mondo e padre comune». Quando si rivolgeva agli italiani, addirittura, era solito dire «vostra patria», non nostra (24). I papi italiani avevano messo in ombra la loro origine nazionale, pur non riuscendo a non partecipare alle vicende italiane. Pio XII aveva seguito ansiosamente la vita politica italiana tra guerra e dopoguerra. Paolo VI era legato personalmente a una parte della classe dirigente democristiana, segnatamente a De Gasperi e poi a Moro. Qualche studioso ha parlato di lui come del «primo papa democristiano». Da molte parti, soprattutto all’interno della stessa Chiesa cattolica, si sperava, dopo la morte di Paolo VI, nell’elezione di un papa meno italiano, non legato ad una nazione, che potesse rappresentare meglio il respiro universale della Chiesa e la rottura con ogni continuismo nazionale. In questo clima nacque l’idea di un papa non italiano tra i cardinali e nell’opinione pubblica. Ha scritto Jemolo dopo l’elezione di Giovanni Paolo II: «Per l’Italia è stato un bene, in quanto ha reciso quei fili che avevano tenuto fin qui unita la Curia romana ad una certa formazione politica italiana: almeno questo è un pontefice che non ha nessun amico intimo e non ha nessun contrasto con personalità politiche italiane. È un uomo veramente nuovo per l’Italia» (25).
Teologia della nazione
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ortodosso. Ma forse il paese di origine del papa rappresentava qualcosa di più, per la sua partecipazione alla comunità dei popoli slavi, per la sua collocazione nell’Est comunista. Quando il papa parla della Polonia allude spesso all’unione con i popoli limitrofi, al «commonwealth» polacco realizzatosi in alcune stagioni della storia nazionale. L’elezione di un papa polacco confermava l’idea di un ruolo particolare del cattolicesimo polacco, premiava il suo grande contributo al cristianesimo europeo. È un’idea ignorata molto spesso dal resto dell’Europa, ma popolare tra i polacchi e radicata nella cultura del paese . Il cardinale Wyszynski ha espresso questa idea in vari suoi interventi: «Bisogna difenderci contro l’occidentalizzazione della Chiesa cattolica. Se ci fossero state solo le Chiese germaniche e romane senza la Chiesa slava, allora la Chiesa non avrebbe avuto più consistenza». È una vera «teologia della nazione», piuttosto ignorata dalla cultura teologica contemporanea, ma diffusa tra i cattolici polacchi. Nel 1982 un teologo polacco scriveva: «La nazione polacca è cosciente che Dio le assegna un doppio compito: l’uno interno, che tocca essa stessa e i suoi membri, e l’altro esterno che tocca le altre nazioni e tutta l’economia divina. Grazie alla sua identità e alla sua individualità essa serve le altre nazioni, completa quello che manca loro (...)» (29). Lo stesso Wojtyla condivide questa sensibilità, quando solennemente proclama, nell’enciclica Slavorum Apostoli , di essere «il primo papa chiamato dalla Polonia e quindi dal cuore delle nazioni slave» (30). In una lettera «ai fedeli polacchi» dell’ottobre 1978, rivolgendosi al cardinale Wyszynski, presenta la storia della Chiesa polacca come una premessa necessaria e provvidenziale al suo pontificato: «Venerabile e diletto Cardinale Primate, permetti che ti dica semplicemente ciò che penso. Non ci sarebbe sulla cattedra di Pietro questo papa polacco (...) se non ci fosse la tua fede, che non ha indietreggiato dinanzi al carcere e alla sofferenza. Se non ci fosse Jasna Gora, e tutto il periodo della storia della
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tesi la provenienza nazionale per esaltare la figura di un papa cittadino del mondo) (33). L’itinerario di papa Wojtyla è particolare: non rinuncia alla sua identità, valorizza le altre identità nazionali, e giunge all’universalità quasi «passando» per le nazioni e indicando le loro diverse vocazioni in un’armonia generale.
‘Vescovo di Roma, polacco di origine’ Il papa è anzitutto vescovo di Roma, ma pure primate d’Italia. La storia della Chiesa polacca, soprattutto recente, aveva enfatizzato il ruolo del primate come punto di forza dell’unità tra i vescovi. Era stato il primate Wyszynski a dettare la strategia della Chiesa sotto il regime comunista, nonostante le perplessità della Santa Sede e di alcuni settori cattolici polacchi. Giovanni Paolo II insiste sull’essere vescovo diocesano di Roma. Vuole conoscere la diocesi e gira per le sue parrocchie. Roma diventa il punto centrale della geografia del papa. Giovanni Paolo II si definisce «nuovo vescovo di Roma, polacco di origine» (34), adombrando quindi un’implicita provocazione nella sua provenienza geografica diversa rispetto ai predecessori. Del resto è normale, eccetto nei territori di missione dove non esiste ancora un clero autoctono maturo, che il vescovo sia originario del paese, se non della stessa regione. Il papa ha ammesso l’esistenza di questa provocazione nella sua origine: «Si e preteso, non senza ragione, che il papa, in quanto vescovo di Roma, dovesse appartenere alla nazione dei suoi diocesani». E aggiunge: «Esprimo gratitudine ai miei diocesani romani che hanno accettato questo papa venuto dalla Polonia come un figlio della loro stessa patria» (35). E il papa polacco sente, agisce e parla come un vescovo italiano dal momento
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tamente spirituale, vale a dire culturale, morale e religiosa insieme; un’eredità viva, come dimostra non solo una secolare ininterrotta testimonianza di santità, di carità, di promozione umana, ma anche il creativo inserimento della comunità dei credenti nell’odierna realtà sociale, un’eredità, infine, che dà quasi particolare connotazione al riconosciuto apporto dell’Italia a favore della comprensione, della fratellanza e della pace fra i popoli del mondo» (36). L’Italia non ha una sua importanza solo per la Chiesa cattolica, ma ha una sua funzione politica internazionale in Europa, tra Est e Ovest, tra Nord e Sud. Si comprendono così le preoccupazioni del papa per l’unità d’Italia.
L’Italia secondo papa Wojtyla Infatti la citata lettera ai vescovi italiani colloca l’Italia di fronte alle sue responsabilità nel mutato quadro geopolitico post-Ottantanove. Crescono, secondo il papa, le responsabilità del paese: i prossimi anni sono ricchi di «grandi sfide e nuovi scenari». Da qui la domanda: «Quali sono le possibilità e le responsabilità dell’Italia?». La risposta del papa è immediata: «Sono convinto» egli dice, «che l’Italia come nazione ha moltissimo da offrire a tutta l’Europa». (...) All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo. «Di questo preciso compito», prosegue il papa, «dovrà avere chiara consapevolezza la società italiana nell’attuale momento storico, quando viene compiuto il bilancio politico del passato, dal dopoguerra ad oggi». L’Italia non può buttare via tutta la sua storia antica e recente, perché ha una fun-
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do, Giovanni Paolo II si presenta come il «vescovo di Roma». Da Roma affronta i problemi del mondo, anche se sceglie il viaggio come strumento di contatto e di irradiazione del suo messaggio. «Il papa», ha detto ad Assisi nel 1978, «che a motivo della sua missione deve avere dinanzi agli occhi tutta la Chiesa universale, nelle varie parti del globo, ha bisogno in modo particolare nella sua sede di Roma dell’aiuto del santo Patrono d’Italia, ha bisogno dell’intercessione di S. Francesco d’Assisi» (39). Ma Roma non è avulsa dall’Italia. L’Italia, secondo Wojtyla, ha un patrimonio storico, culturale e religioso unico tra le nazioni. C’è in Giovanni Paolo II una fiducia nell’Italia che configura quasi un patriottismo sui generis . All’Italia il papa affida con grande solennità «il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo» (40). Roma e l’Italia sono, nel pensiero di questo papa, l’antemurale del cristianesimo in Europa e da qui nel mondo. Un secondo documento accanto a quello citato del gennaio 1994 è molto interessante. Si tratta di una meditazione fatta dal papa nel marzo ‘94 sulla tomba di S. Pietro con i vescovi italiani. E la meditazione che apre «la grande preghiera per l’Italia» voluta da Giovanni Paolo II per rilanciare la presenza cattolica nel nostro paese e per ribadire il ruolo dell’Italia nella ricostruzione dell’Europa cristiana. In questo documento, il papa ripercorre la bimillenaria storia cristiana del paese, ricordando l’opera e la testimonianza dei più grandi santi italiani. E conclude con un accorato appello al popolo italiano: «Questo popolo, con la sua tradizione mediterranea, e con le sue ascendenze greco-romane, questo popolo protagonista di eventi di carattere decisivo per la storia umana, sta davanti a noi (...). Preghiamo, in modo particolare, per gli attuali figli e figlie dell’Italia, perché diventino degni di una così significativa eredità, e sappiano esprimerla nella loro vita presente individuale, familiare e sociale nell’economia e nella politica» (41). A partire dall’Italia e dalle sue radici cristiane il papa può realizzare quel
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dentale e Balcani, rappresenta per papa Wojtyla un punto privilegiato di osservazione da cui rivolgersi ai paesi situati al di là del mare o delle Alpi. Significativo è il caso delle visite pastorali in Puglia nel corso degli anni Ottanta, utilizzate per parlare all’Albania ancora chiusa nel regime comunista. Anche in tempi più recenti, dall’Italia e ancora dalla Puglia (come nella visita a Lecce) si è rivolto «alle Nazioni che si trovano sull’altra sponda dell’Adriatico. Penso», ha detto il papa, «all’amata Albania, giovane nella sua ritrovata democrazia; alla Grecia, faro di civiltà e sorella nella fede; alle travagliate regioni dei Balcani, e in special modo a Sarajevo, città martire di questo ultimo scorcio di millennio» (43). Proprio da una città italiana, Ravenna, Giovanni Paolo II ha lanciato l’idea della necessità di rifondare la cultura europea. È un compito che il papa sente come «impresa decisiva e urgente del nostro tempo» (44). Questa città italiana per il papa ha rappresentato nella storia «il ponte ideale tra Oriente e Occidente da cui (...) si avviò quell’ininterrotto scambio di fede, di cultura e di civiltà tra i popoli e le Chiese, che tanto contribuì all’affermarsi di un’Europa unita nella fede, pur nella pluralità delle tradizioni locali». Dall’Italia, dunque, il papa immagina il suo disegno di riconquista di un’Europa che va rievangelizzata per poi ritrovare la sua vocazione mondiale. È vero che il papa polacco ha spostato l’attenzione della Chiesa verso il Sud del mondo, ma per compiere questa operazione l’Europa diviene decisiva, quasi un «trampolino geopolitico». Per Giovanni Paolo II, infatti, la premessa fondamentale per l’evangelizzazione del mondo intero sta proprio nella rievangelizzazione dell’Europa. La sua visione per il vecchio continente è chiara e impegnativa: «Oggi, dopo venti secoli», dice nel 1986, «la Chiesa avverte l’urgenza e il dovere di portare avanti con rinnovata efficacia l’opera dell’evangelizzazione nel mondo e della rievangelizzazione dell’Europa. È una scelta pastorale, riproposta nella prospettiva del Terzo Millennio, che scaturisce dalla missione di salvare tutto l’uomo e tutti gli uomini nella verità di Cristo.
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25. A.C. JEMOLO, «Recisi i fili con la Curia», in A. BISCARDI - L. LIGUORI, (a cura di), Il papa dal volto umano, Milano 1979, Rizzoli. 26. A RICCARDI, Il potere del papa..., cit., p. 353. 27. Primo radiomessaggio Urbi et Orbi di Giovanni Paolo II, 17 ottobre 1978, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II , Città del Vaticano 1979, Libreria Editrice Vaticana, tomo I, pp. 4-25. 28. Insegnamenti..., cit., tomo II, 1, pp. 1399-1406. 29. R. LUNEAU, (a cura di), Le rêve de Compostelle. Vers la restauration d’une Europe chrétienne? , Parigi 1989, Centurion, pp. 54-55. 30. Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Slavorum Apostoli , Bologna 1985, Edizioni Dehoniane. 31. Lettera di Giovanni Paolo II ai fedeli polacchi, 24 ottobre 1978, in Insegnamenti..., cit ., t. I, pp. 51-54. 32. A. RICCARDI, Il potere del papa , cit., p. 349. 33. Ivi , p. 351. 34. Omelia di Giovanni Paolo II durante il rito della presa di possesso del Laterano, in Insegnamenti..., cit., tomo I, pp. 142-146. 35. L. ACCATTOLI - D. DEL RIO, Wojtyla. Il nuovo Mosè , cit., p. 94. 36. Allocuzione di Giovanni Paolo II al Quirinale, 18 gennaio 1986, in Insegnamenti..., cit., tomo IX, 1, pp. 137141. 37. Omelia di Giovanni Paolo II nella cattedrale di Spira, 4 maggio 1987, in Insegnamenti.., cit., tomo X, 2, pp.1593-1602. 38. Omelia di Giovanni Paolo II nella cattedrale di Gniezno, 3 giugno 1979, in Insegnamenti..., cit., tomo II, 1, pp. 1399-1406. 39. Discorso di Giovanni Paolo II nella Basilica di S. Francesco ad Assisi, 5 novembre 1978, in Insegnamenti..., cit., tomo I, pp. 96-99. 40. Lettera di Giovanni Paolo II ai vescovi italiani, 6 gennaio 1994, in Il papa all’Italia..., cit. 41. Meditazione di Giovanni Paolo II con i vescovi italiani, 15 marzo 1994, «La grande preghiera per l’Italia e con l’Italia», supplemento a L’Osservatore Romano, 15/3/1994. 42. Saluto di Giovanni Paolo II ai fedeli in piazza S. Pietro, 5 novembre 1978, in Insegnamenti..., cit., tomo I, pp. 94-95. 43. L’Osservatore Romano, 19-20/9/1994, p. 5. 44. Omelia di Giovanni Paolo II nella Basilica di S. Apollinare in Ravenna, 11 maggio 1986, in Insegnamenti. cit.,
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LA RIMOZIONE DELLA DISUNITÀ
di Aurelio
L EPRE
La responsabilità degli intellettuali nella rimozione delle cause geopolitiche e culturali delle nostre divisioni interne. Le eredità degli Stati preunitari e delle ‘nazioni’ italiane. Rileggiamo Durando, Niceforo e Gramsci per capire Bossi e Miglio.
’ N tura italiana sia stata colta di sorpresa dall’apparizione del leghismo e che abbia reagito,
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molto più frequentato, dell’analisi delle vicende politiche ed economiche, per avventurarsi su quello, senza dubbio più arduo da percorrere, della storia delle mentalità oppure per quello, minato da alcune incursioni che vi avevano fatto i fascisti, della geopolitica. Solo così si potrebbe dare il peso dovuto alla grave questione della disunità d’Italia, conseguenza dell’esistenza, nell’Italia preunitaria, al momento dell’unificazione, di diversi Stati e di diverse società: una disunità non solo istituzionale, ma anche territoriale, politica e culturale (non tanto nella cultura dei dotti, quanto nelle subculture degli strati popolari). La questione non fu risolta nei primi decenni di vita unitaria del nuovo Stato e fu poi rimossa, e non solo dall’attenzione dei politici ma anche dalla memoria storica. In realtà, nel corso del processo risorgimentale si era avuta piena consapevolezza dell’esistenza del problema. Tra le molte pagine che si potrebbero citare (47) vorrei ricordarne alcune, particolarmente significative, del piemontese Giacomo Durando. Nel 1846 Durando scrisse che la «giacitura geostrategica» dell’Italia aveva carattere «misto», poiché partecipava delle caratteristiche sia dei paesi che lui, portando come esempio la Liguria, definiva «marittimi» e che non avevano «nessuno sviluppo dalla parte di terra», sia di quelli che definiva «mediterranei», e che esemplificava nell’Eridania (48). L’insediamento e il radicamento delle diverse «razze» o «schiatte» che nel tempo avevano popolato l’Italia era avvenuto sulla base delle condizioni naturali. La natura, «circondandola e facendola svolgere in un’ossatura di terreni propria ed esclusiva di lei», aveva reso la «subnazionalità ligure», «tutta sui generis , e la più caratteristica delle sue consorelle della penisola». E la natura aveva dato specifici caratteri «etnografici e sociali» a ciascuna subnazionalità, da quella eridania esclusivamente mediterranea a quella ligure esclusivamente marittima, passando per l’etrusca, la romana, la tiberina e la napoletana, che risentivano delle influenze proprie sia dei paesi marittimi che di quelli mediterranei.
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senso più forte al paragone: collocava il Mezzogiorno fuori della geografia (e della storia) europea, dando inizio alla costruzione di un mito negativo che avrebbe resistito a tutte le vicende politiche. Nelle pagine di Durando il compito della fusione era stato affidato al «futuro risorgimento», cioè a una soluzione tutta politica: la forza della politica avrebbe consentito di superare i condizionamenti posti dalla geografia e anche dalla storia. Fino ad allora questo tipo di soluzione era stato prospettato soprattutto dai democratici e in particolare da Mazzini: dopo il 1848 (anche per la grande accelerazione che il processo risorgimentale aveva subìto in quell’anno proprio grazie all’esasperazione della politica, intesa anche nella sua forma estrema di scontro militare) i moderati cominciarono ad accettare questo punto di vista. In loro però, sia pure spesso con funzione strumentale, rimase ancora forte, fino ai primissimi anni di vita postunitaria, il riferimento alla frammentazione dell’Italia: continuarono spesso a ricordare, anche per contrastare l’unitarismo repubblicano di Mazzini, l’esistenza di molte società non solo statualmente ma anche culturalmente diverse. Fu con il 1860 che la differenza tra Nord e Sud venne ad assorbire, almeno a livello d’immagine, le molte altre differenze, tra Piemonte e Lombardia, tra Emilia e Toscana, tra Romagna ed Emilia. Il passaggio fu importante e segnò profondamente la storia degli anni successivi. Ci fu un avvicinamento tra le regioni del Nord (ancora nel 1859 i volontari che si arruolavano in Piemonte si erano sentiti chiedere: «Vieni dall’Italia, tu? E perché ti sei arruolato in Piemonte?» (49), mentre esse, nel loro complesso, si allontanavano da quelle del Sud. Il Nord fu immaginato sempre più come Europa e il Sud sempre più come Africa. Le stesse definizioni di Alta e Bassa Italia implicavano un giudizio morale, per il significato fortemente pregnante che si dava ad Alta e a Bassa: sopra, come osservava qualcuno, c’era
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separatismo, noi dovremmo essere contro. Noi siamo per un decentramento amministrativo, non per la divisione dell’Italia» (52). La politica e l’ideologia trionfavano sulle mentalità e anche sulla geografia e sulla storia. Non era la prima volta che si cercava di risolvere la questione attraverso la tensione politica e ideologica. L’avevano già tentato i protagonisti del Risorgimento e più tardi ci aveva riprovato Francesco Crispi, per il quale una «prova di sangue» (la guerra in Africa) avrebbe dovuto unificare gli italiani. E non a caso, tra tutti i politici del Risorgimento e dei primi decenni postunitari, Mussolini preferiva Crispi. Ne avrebbe ripreso proprio il tema della necessità di una prova di sangue, per fare, finalmente, gli italiani. Per Mussolini gli uomini del Risorgimento non c’erano riusciti. In un discorso pronunciato il 2 agosto 1924 affermò che nel Risorgimento «probabilmente c’era stata una promiscuità, non veramente una giuntura, fra Nord e Sud, perché non bastano le ferrovie e i viaggi a determinare l’unità spirituale di un popolo» (53). La Grande Guerra aveva cominciato l’opera di fusione che toccava ora a lui portare a termine. Non si può dire che Mussolini non si rendesse conto delle differenze: le conosceva a tal punto che, quando gli faceva comodo, se ne serviva a sostegno della sua politica, indicando, per esempio, il comportamento demografico di alcune regioni meridionali come un modello per l’intera nazione. E sapeva benissimo com’era grave l’arretratezza di alcune parti del Mezzogiorno, ma negava che ciò costituisse un problema, negava l’esistenza di una questione meridionale (esistevano soltanto le «questioni meridionali»). Egli cercò di «fare gli italiani» e di risolvere la disunità d’Italia attraverso le guerre e attraverso un’estrema esasperazione dell’ideologia. Anche dalla parte opposta la soluzione del problema della disunità italiana era cercata nell’ideologia. A questo riguardo, sono molto significative le posizioni di Antonio Gramsci. Gramsci aveva abbandonato l’autonomismo sardo della prima giovinezza quando aveva
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certa solidarietà tra loro, ma nessuna organizzazione, a quanto pare; essi si fanno un punto d’onore del fatto che sono ladri, borsaioli, truffatori, ma non hanno mai versato sangue. Tra i centrali, i romani sono i meglio organizzati; non denunciano neanche le spie a quelli delle altre regioni, ma riserbano per loro la diffidenza. I meridionali sono organizzatissimi, a quanto si dice, ma tra di loro ci sono delle sottodivisioni: lo Stato Napoletano, lo Stato Pugliese, lo Stato Siciliano. Per il siciliano, il punto d’onore consiste nel non aver rubato, ma nell’avere solo versato del sangue» (55). La consapevolezza dell’esistenza di certi atteggiamenti mentali non significava la loro accettazione. Per Gramsci le mentalità dovevano essere distrutte dall’azione della politica e dall’ideologia. Avevano sbagliato, per Gramsci, quei socialisti che avevano accettato la «concezione biologica della “barbarie” attribuita ai Meridionali (anzi ai Sudici)» dai Ferri, dai Niceforo, dai Lombroso e dai Sergi (56). In realtà, era stato proprio con Niceforo, alla fine dell’Ottocento, che la disunità d’Italia aveva ricevuto la più forte e anche la più discutibile espressione teorica. Lo studioso l’aveva vista in termini rigidamente razziali. «Oggi», scriveva nel 1898, «l’Italia è (...) divisa in (...) due zone abitate da (...) due razze diverse, gli arii al Nord e fino alla Toscana (celti e slavi), i mediterranei al Sud. E gli attuali arii dell’Italia settentrionale, vale a dire i piemontesi, i lombardi, i veneti, i romagnoli che appartengono a quella stirpe che venne ad invadere l’Europa primitiva, sono perciò - antropologica - mente - fratelli dei tedeschi, degli slavi, dei francesi celti. Gli attuali mediterranei d’Italia del Sud invece - che appartengono alla stirpe mediterranea venuta dall’Africa - sono antropologicamente fratelli degli spagnuoli, dei francesi del Sud, dei greci e di gran parte dei russi meridionali. (...) Un siciliano dunque è - antropologicamente - più vicino allo spagnuolo, al greco, che non al piemontese; e viceversa il Piemonte - se è - per razza - più fratello di uno slavo o di un tedesco di quel che
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ideologia, e non infondatamente si è parlato di recente, per la Lega e per alcuni settori di Forza Italia, di «ideologia milanese». Si tratta di un’ideologia che apparve già nel corso del processo di unificazione e trovò nuova forza alla fine del secolo scorso. Non è stato Umberto Bossi nel 1993 ma Eugenio Chiesa nel 1895 a sostenere che i lombardi avevano finalmente capito che federalismo significava «che le forze e i quattrini del paese servissero soprattutto per il paese, per il proprio paese e non per mantenere ministri imbroglioni e giornalisti dello sbruffo» (60). E non è stato Bossi ma un suo antesignano di quegli anni ad affermare che «in fatto di criteri morali a Roma e a Napoli è tutto un altro mondo che non a Milano e a Torino» (61). Ecco un’affermazione di tipo leghista che nessun dirigente di Forza Italia farebbe sua. L’Italia, infatti, non si governa da Milano, ma da Roma. Se si vuole essere forza di governo, quali che siano state le posizioni assunte prima della conquista del potere, si deve necessariamente annacquare o anche trasformare del tutto l’«ideologia milanese». Tutta la storia dell’Italia unita ne è una conferma: il trasformismo parlamentare dei Depretis e dei Giolitti fu un necessario strumento di governo per uscire dalla crisi e per evitare che l’Italia si frantumasse. La soluzione trasformistica non fu adottata solo in regime liberaldemocratico: per ragioni analoghe ci fu molto trasformismo anche nella traduzione in azione di governo dei programmi fascisti e Mussolini, milanese d’adozione, una volta al potere dovette rapidamente romanizzarsi. A Milano era diventato decisamente antistatalista in materia d’economia. Prima di conquistare Roma aveva pubblicato, il 7 gennaio 1921, un vero e proprio manifesto del liberismo spiegato al popolo: «Lo Stato è oggi ipertrofico, elefantiaco, enorme e vulnerabilissimo, perché ha assunto una quantità di funzioni d’indole economica, che dovevano essere lasciate al libero gioco dell’economia privata. Lo Stato oggi fa il tabacchino, il
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Note 46. Si veda, per esempio, il volume di MAX OTTOMANI, Brigate rozze , Napoli 1992, Pironti. 47. Mi permetto di rinviare ad A. LEPRE, Italia, addio? Unità e disunità dal 1860 a oggi , Milano 1994, Mondadori, pp. 3-27. 48. G. DURANDO, Della nazionalità italiana , Losanna 1846, ora in D. MACK SMITH, Il Risorgimento italiano, Roma-Bari 1968, Laterza, p. 119. 49. A. LEPRE, op. cit ., p. 7. 50. Ivi , p. 68. 51. Cit. in E. GENTILE, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia , Roma-Bari 1989, Laterza, p. 363. 52. B. MUSSOLINI, Opera omnia , Firenze 1951 e ss., La Fenice, vol. XVI, p.101. 53. Ivi , vol. XXI, p. 38. 54. A. GRAMSCI, «Lettera per la fondazione dell’ Unità », Rinascita , 8/2/1964. 55. A. GRAMSCI, Lettere dal carcere , a cura di Sergio Caprioglio ed Elsa Fubini, Torino 1965, Einaudi, pp. 2122. 56. A. GRAMSCI, Quaderni del carcere , Torino 1975, Einaudi, vol. II, pp. 879. 57. A. NICEFORO, L’Italia barbara contemporanea , Milano-Palermo 1898, Sandron, ora in V. TETI, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale , Roma 1993, Manifesto libri, p. 78. 58. Ivi , p. 79. 59. R. D. PUTNAM, La tradizione civica nelle regioni italiane , Milano 1993, Rizzoli. 60. A. LEPRE, op. cit ., p.79. 61. Ivi , p. 80. 62. B. MUSSOLINI, op. cit., vol. XVI, p. 101.
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NORD E SUD: SE IL BELPAESE SI SPEZZA
di Carlo
T RIGILIA
Permane nel Mezzogiorno l’esigenza di un governo centrale in grado di guidare, e ‘foraggiare’, lo sviluppo. Nel Settentrione cresce invece la tendenza alla regionalizzazione. La questione dei nazionalismi periferici. Si profila un conflitto insanabile?
L -
NORD E SUD: SE IL BELPAESE SI SPEZZA
Perché manca una tradizione di identità politiche territoriali La frattura Nord-Sud presenta storicamente un aspetto paradossale che le vicende contemporanee ci aiutano a cogliere meglio. Essa è stata caratterizzata da profonde disuguaglianze economiche e sociali tra due parti di uno Stato unitario, che non trovano probabilmente situazioni paragonabili, per entità del territorio e soprattutto della popolazione coinvolta, in altri paesi europei. Eppure tali disuguaglianze non hanno alimentato, fino al periodo più recente, forme di mobilitazione politica a base territoriale consistenti e durature (63). L’analisi comparata suggerisce in proposito che è cruciale la fase costitutiva del sistema politico nazionale quando, in seguito all’allargamento del suffragio, nascono i partiti. È in questo momento che possono prendere forma identità politiche a base territoriale, ovvero movimenti autonomisti o separatisti. Se queste forze sono consistenti, si costituisce una tradizione che successivamente può essere più o meno attivata e radicalizzata, a seconda degli sviluppi del sistema politico nazionale. Lipset e Rokkan (64), nella loro classica analisi della formazione dei partiti, hanno messo in evidenza come nel contesto dei paesi europei, coinvolti alla fine del secolo scorso nel processo di democratizzazione, emergano alcune condizioni tipiche che portano a movimenti territoriali. Anzitutto, questi ultimi tendono a costituirsi nelle regioni periferiche rispetto a quelle che hanno avuto un ruolo centrale nel processo di unificazione nazionale e di costruzione dello Stato. Ma perché la mobilitazione di difesa territoriale della periferia nei riguardi del centro si affermi è necessario che una forte frattura socio-culturale si sommi a una frattura economica, ovvero che ci sia una consistente eterogeneità culturale, etnicolinguistica e/o religiosa, tra centro e periferie, e che ad essa si accompagnino basi economi-
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che dal mutamento e dagli interessi di tipo economico. Tali gruppi cercavano uno spazio di identificazione più ampio, definito dai confini della tradizione intellettuale e linguistica di cui si sentivano parte. Si noti anche che la spinta unitaria è addirittura più forte al Sud. La tradizione intellettuale alta del Mezzogiorno - da De Sanctis ai fratelli Spaventa per poi arrivare a Croce - vedeva infatti nello Stato unitario e liberale uno strumento indispensabile per il riscatto economico-sociale, civile e morale del Mezzogiorno. Questo aspetto della cultura d’élite è importante per comprendere un’altra peculiarità della tradizione intellettuale del Sud che ad esso si collega: il meridionalismo. Nei decenni successivi all’unificazione, quando si fa strada la delusione per gli esiti del processo unitario e si avvertono sempre più le disuguaglianze economiche e sociali tra le due aree del paese, si comincia a parlare di «questione meridionale». Ci sono posizioni diverse all’interno di questa tradizione. Diverso, in particolare, è il giudizio sulle responsabilità del Nord e dello Stato per i problemi dello sviluppo del Sud. In genere però i meridionalisti sono accomunati dalla richiesta di una maggiore presenza statale. Essi guardano al centro per trovare il sostegno necessario a superare il degrado del Sud (66). È stato giustamente notato che in altri paesi gli squilibri territoriali non hanno prodotto una tradizione politico-culturale paragonabile a quella del meridionalismo, e che tale tradizione ha contribuito notevolmente a plasmare l’immagine stessa del Mezzogiorno (67). Ma non è solo la cultura d’élite a non offrire risorse per una mobilitazione politica territoriale del Meridione d’Italia. Anche a livello di cultura di massa non vi erano quelle identità territoriali forti che altrove hanno sostenuto processi di mobilitazione politica. Non ci sono differenziazioni a base etnico-linguistica significative. La stessa appartenenza religiosa, pur dedicandosi secondo tradizioni diverse, non dà luogo a concentrazioni territoriali e contrapposizioni come per esempio quelle che hanno altrove riguardato protestanti e cattolici. Infine, va ricordato che anche
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Insomma, come e noto, il ministerialismo della classe politica meridionale si lega al clientelismo. Ma ciò che interessa qui sottolineare è che si costituisce in tal modo una forma specifica di integrazione politica del Sud in cui la difesa degli interessi territoriali esclude una mobilitazione di identità politiche di tipo territoriale. Non solo mancano le risorse di identità culturali necessarie per tale mobilitazione, ma una simile ipotesi contrasterebbe con gli interessi costituiti della classe politica meridionale e - fattore certo non secondario - con quelli del gruppo sociale dominante: i proprietari terrieri. Questi ultimi non vedono infatti messi in discussione i loro interessi dallo stato unitario e spendono quindi la loro influenza notabilare a sostegno del modello di integrazione politica basato sulla coppia clientelismo-ministerialismo. E in tal modo non si pongono neanche le condizioni per un allargamento del consenso al nuovo Stato tra le popolazioni meridionali.
Come la frattura Nord-Sud è stata mediata dal sistema politico dell’Italia repubblicana Che cosa è cambiato, rispetto allo schema che abbiamo delineato, nel secondo dopoguerra? Consideriamo anzitutto quel che è successo al Sud (69). La deprivazione economico-sociale nei riguardi del Nord si è ridotta. Il divario nel campo sociale è diminuito più che in quello economico. Ma il dato essenziale di cui tener conto è che in termini di crescita del reddito pro capite le regioni meridionali hanno tenuto il passo con quelle del Centro-Nord, cioè con delle aree che hanno visto ritmi di sviluppo tra i più alti nel mondo
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dionale e ai suoi rapporti con quello nazionale. L’ipotesi che si può avanzare in proposito è che l’intervento politico nelle regioni meridionali abbia avuto come «effetto perverso» quello di plasmare progressivamente un ambiente sociale sfavorevole allo sviluppo economico autonomo. Laddove per ambiente sfavorevole si fa in particolare riferimento alla scarsa capacità delle istituzioni locali di creare una rete di servizi economici e sociali efficienti, ma ancor di più al la pervasività della politica nella società meridionale, che ha influenzato orientamenti culturali e comportamenti, e ha finito per favorire la formazione di un’imprenditorialità politica o criminale piuttosto che di un’imprenditorialità economica. Perché si è verificata questa particolare pervasività della politica? E perché l’uso delle risorse pubbliche da parte della classe politica ha avuto degli effetti perversi e ha alimentato uno sviluppo senza autonomia? Ritroviamo qui quella «bassa legittimazione» della classe politica meridionale che abbiamo già incontrato nel momento costitutivo del sistema politico. Naturalmente, È vero che questa caratteristica non è propria solo del Mezzogiorno. Ma è anche vero che qui più che altrove i politici hanno goduto di tanto consenso ma di poca legittimazione; hanno avuto cioè un consenso basato sulla capacità di soddisfare continuamente domande particolaristiche più che un consenso fondato su identità allargate e valori condivisi. A un certo punto i politici meridionali si sono trovati a gestire risorse pubbliche crescenti. Non avendo un consenso di tipo ideologico alle spalle, la classe politica locale ha usato tali risorse per interventi particolaristici e clientelari. Era la sua strada per affermarsi nella competizione politica. D’altra parte questo tipo di interventi è anche richiesto dagli elettori, proprio perché sono più carenti valori condivisi e perché il sistema economico è più arretrato, e quindi si guarda soprattutto alla politica per migliorare le condizioni di vita individuali e familiari. È in queste condizioni dell’«offerta» e della «domanda» di politiche che ha trovato alimento quella cultura (dei politici e della popolazione) che ha finito per
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aziende della produzione di massa hanno dapprima tratto vantaggio, dal punto di vista del costo del lavoro, dalle grandi ondate migratorie provenienti dalle zone più arretrate del Sud. Queste stesse imprese, insieme alle piccole aziende cresciute tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, hanno poi potuto usufruire di un mercato di sbocco crescente per i loro prodotti nelle regioni meridionali, via via che miglioravano le comunicazioni e si elevava il reddito attraverso il sostegno pubblico. A ciò è da aggiungere che soprattutto i grandi gruppi industriali privati, oltre alle imprese pubbliche, hanno anche goduto di consistenti incentivi, messi a disposizione dalla politica di industrializzazione del Mezzogiorno. Insomma, nei decenni trascorsi si era determinato una sorta di equilibrio politico-economico a base territoriale. Le imprese private, grandi e piccole, prevalentemente concentrate al Nord, hanno visto crescere in modo consistente aree di inefficienza nei settori di produzione di beni e servizi non esposti alla concorrenza internazionale, come effetto delle politiche di reperimento del consenso intraprese dalla classe politica di governo. Per molto tempo queste aree scarsamente produttive - particolarmente, anche se non esclusivamente, concentrate nel Mezzogiorno - hanno però alimentato un mercato di consumo sostenuto, che si è rivelato vantaggioso per le imprese. D’altra parte, i settori politicamente protetti hanno introdotto elementi di forte rigidità nel sistema di rappresentanza, opponendo strenue resistenze, con le loro capacità di ricatto elettorale, ai tentativi di modernizzazione intrapresi in varie occasioni, e specialmente nei primi anni Sessanta e alla fine degli anni Settanta. Il mancato adeguamento istituzionale ai problemi posti dall’industrializzazione influì certamente sulla gravità della crisi italiana negli anni Settanta. Le nuove domande, alimentate dallo sviluppo economico, non trovando risposta si radicalizzarono. Esse erano troppo forti nelle zone più sviluppate del Nord per poter essere controllate con gli strumenti tra-
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La crisi del vecchio modello e la mobilitazione territoriale al Nord A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta il quadro si è però modificato radicalmente il reperimento del consenso nelle forme tradizionali è diventato più costoso ed e entrato in crisi il vecchio equilibrio tra le diverse aree territoriali del paese. L’intervento pubblico e i consistenti meccanismi redistributivi (non solo a favore del Sud) hanno continuato ad alimentare un’inflazione più elevata di quella di altri paesi concorrenti e un deficit pubblico nettamente superiore, che si è avvitato su se stesso per effetto degli interessi sul debito. In questa situazione le imprese grandi e piccole più orientate all’esportazione - che sono nettamente concentrate nel Centro-Nord - vengono penalizzate in misura crescente dai costi di funzionamento dello Stato (in termini di inflazione, pressione fiscale, alti tassi di interesse, oltre che di scarsa efficienza dei servizi e delle politiche pubbliche). Ne risulta, in particolare, una lievitazione dei costi che non possono essere scaricati sui prezzi all’esportazione per l’appartenenza della lira al Sistema monetario europeo. L’integrazione in tale sistema non consentiva infatti la svalutazione della moneta, come era invece avvenuto negli anni Settanta. C’è poi un ulteriore aspetto su cui richiamare l’attenzione: la forte crescita in termini relativi della pressione fiscale. I problemi di gestione del debito spingono infatti inevitabilmente ad accrescere le entrate. Negli anni Ottanta l’Italia è il paese in cui la pressione fiscale cresce maggiormente (quattro volte di più della media dei paesi Cee). È vero che il livello di partenza, alla fine degli anni Settanta, era molto più basso, ma resta il fatto che un aumento così forte in un lasso di tempo ridotto è particolarmente avvertito dalle imprese e dalle famiglie. Si tenga inoltre presente che cominciano ad essere colpiti strati di lavoro
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leghismo, ma piuttosto il manifestarsi di fattori di minaccia di un benessere acquisito di recente. La reazione a questa minaccia è influenzata dal fatto che i soggetti coinvolti nello sviluppo economico hanno maturato, proprio in ragione di tale processo, una crescente consapevolezza dello scarto tra la forza economica delle realtà locali e la loro debole rappresentanza politica. La forza economica sembra riflettere l’impegno e la capacità delle comunità locali, che vengono invece compromessi e «traditi» dalla rappresentanza politica tradizionale, per le inefficienze e i costi crescenti dell’intervento pubblico. Di qui la sfiducia verso la Democrazia cristiana, che era stata peraltro preparata dal processo di laicizzazione degli anni precedenti, incoraggiato anche dallo sviluppo economico locale. Si noti però che le forme originarie di rappresentanza politica hanno lasciato un’eredità rilevante su cui il leghismo ha potuto costruire. Con il procedere della laicizzazione che svincolava il consenso dall’influenza dell’identità religiosa, la subcultura politica «bianca» si era via via proposta con forza come rappresentanza degli interessi di natura interclassista del territorio, della comunità locale, anche se tali interessi dovevano poi essere mediati da una struttura partitica nazionale ispirata a criteri ideologici, e non esplicitamente territoriali. La sfiducia crescente proprio nei riguardi di un’effettiva tutela degli interessi territoriali ha aperto il campo a un’offerta politica nuova che si poneva ora come forza politica esplicitamente e coerentemente di rappresentanza territoriale. Naturalmente, tutto ciò ha richiesto una difficile azione da parte di nuovi imprenditori politici locali, su cui non ci soffermiamo in questa sede, senza la quale non è possibile comprendere lo sviluppo concreto del leghismo. Va però rilevato che la difficoltà forse più grossa era costituita dalla carenza, che abbiamo già ricordato, di forti elementi etnico-linguistici sui quali costruire un’identità politica a base territoriale. Da qui lo sforzo «mitopoietico» volto a inventare improbabili tradizioni venete, lombarde o piemontesi (71), che ha caratterizzato la prima fase di emergenza del fenomeno
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Scozia, Catalogna, Paesi baschi, Québec, Fiandre). Un elemento preliminare che secondo Gourevitch è necessario considerare per esaminare il nazionalismo periferico è costituito dal potenziale etnico mobilitabile. Quanto più questo fattore è presente, tanto più elevate saranno le probabilità di sviluppo e di radicalizzazione del fenomeno in senso separatista. Tuttavia, il potenziale etnico da solo non è sufficiente. Occorre considerare un altro ingrediente essenziale. Si tratta del grado di congruenza territoriale tra dinamismo economico e leadership politica. Quando si manifesta un’elevata incongruenza tra forza economica e leadership politica in una regione con un elevato potenziale etnico, è probabile lo sviluppo di un nazionalismo periferico. Gourevitch mette in evidenza soprattutto il caso di regioni periferiche sotto il profilo politico, come per esempio la Catalogna o la Scozia, che sono invece forti - o si rafforzano - economicamente rispetto alle regioni politicamente centrali (la Castiglia e l’Inghilterra negli esempi in questione). Ma ai nostri fini è utile tenere presente la possibilità inversa, cioè quella di regioni economicamente e politicamente centrali che nel corso del tempo perdono capacità di leadership politica. È importante notare che vi può essere una sorta di compensazione tra identità etnica e incongruenza economico-politica, nel senso che quando la prima e forte, non e necessario che l’incongruenza sia altrettanto pronunciata perché si inneschino forme di nazionalismo periferico. Se invece l’identità etnica è debole, non solo è necessaria una forte incongruenza per far crescere forme di mobilitazione politica territoriale, ma è probabile che queste alimentino una richiesta di maggiore autonomia regionale piuttosto che movimenti separatisti. Infine, va tenuto anche conto di un fattore di sfondo rilevante: il grado di apertura internazionale dell’economia. In un contesto in cui cresce l’apertura del sistema economico internazionale l’opzione dell’exit può diventare più attraente per regioni con una forte capacità di esportazione. Lo è invece di meno per
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questo elemento sembra confermato dall’esperienza leghista. Abbiamo infatti ricordato la difficoltà di costruire un’identità politica territoriale su base etnico-culturale, e il successo che invece è arrivato quando l’attenzione si è spostata sulle tematiche della lotta allo statalismo e alla partitocrazia, sulla pressione fiscale e sulla richiesta del federalismo. Ma come possono giocare questi elementi in prospettiva? Possiamo aspettarci un rafforzamento di spinte verso un nazionalismo periferico?
Nazionalismi periferici o regionalizzazione degli interessi? È ovviamente azzardato formulare previsioni, ma alcuni dilemmi che stanno di fronte al leghismo possono essere dedotti dal ragionamento che abbiamo fatto fin qui. Lo sviluppo di un forte nazionalismo periferico appare poco probabile per tre motivi. Anzitutto - lo abbiamo appena ricordato - sembra esservi una relazione inversa tra rafforzamento elettorale e radicalizzazione ideologica nel senso del nazionalismo periferico e del secessionismo. Quest’ultima opzione potrebbe essere ripresa in una situazione di debolezza politica, come quella che vide il primo sviluppo delle leghe, ma è probabile che sfocerebbe allora in un fenomeno subculturale di scarsa influenza politica. Il secondo motivo da prendere in considerazione riguarda la concorrenza forte che esercita la nuova compagine di Forza Italia sulla componente più moderata dell’elettorato leghista, più estranea alla prospettiva del nazionalismo periferico. Nel breve periodo almeno, è necessario per la Lega cercare di rassicurare questa parte dell’elettorato, che peraltro alle ultime elezioni politiche l’ha già in parte abbandonata, specie nelle aree di insediamento più recente, per approdare al liberismo più tranquillo e nazionale promesso da Forza Italia (75). Infine, vi è un terzo elemento di par-
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dera inevitabile un ridimensionamento della forza attuale a livello nazionale. Proprio per questo diventerebbe essenziale spendere la capacità di contrattazione attuale per ottenere una riforma delle istituzioni locali e regionali tale da ampliare il più possibile l’autonomia della periferia. In tal modo, più che la prospettiva del nazionalismo periferico, si aprirebbe per la Lega la strada di un forte partito regionale all’interno di regioni con un’autonomia politico-amministrativa e fiscale molto più forte di quella attuale. Ne verrebbe una spinta alla regionalizzazione degli interessi, nel senso che gli interessi territoriali troverebbero ora un canale di rappresentanza più rilevante nelle istituzioni regionali, a scapito della tradizionale rappresentanza politica dei partiti a livello centrale. Ma se sviluppi in direzione di un forte nazionalismo periferico sembrano essere poco probabili al Nord, potrebbero invece attecchire al Sud? Questo interrogativo è stato già formulato, e qualcuno ha anche parlato della possibilità che la criminalità organizzata possa essere interessata a una prospettiva di questo tipo. Francamente non sembra però che allo stato esistano argomenti forti a supporto di tale ipotesi. Molto e cambiato nel Sud: il vecchio modello di integrazione delle regioni meridionali nello sviluppo nazionale è stato rimesso in discussione. Due aspetti meritano in particolare di essere ricordati. Anzitutto, con le ultime elezioni amministrative e politiche si è avuto il più drastico e rapido cambiamento della classe politica del dopoguerra. Nel 1992 quasi la metà dei deputati della Dc e oltre il 43% di quelli del Psi erano eletti nel Mezzogiorno (la popolazione del Sud è pari al 36% di quella nazionale). Il Mezzogiorno era dunque un bacino cruciale per le principali forze di governo, mentre l’opposizione di sinistra era particolarmente debole. Alle elezioni politiche del 1994, con il nuovo sistema elettorale, il Polo delle libertà ha ottenuto solo il 32% dei seggi alla Camera nelle regioni del Mezzogiorno. Per la prima volta il governo costituitosi nel 1994 vede così un drastico calo della rappresentanza meridionale, e i voti del Mezzogiorno sono molto meno rilevanti
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svalutazione ha rilanciato le esportazioni e quindi ha favorito le aree del Centro-Nord dove sono concentrate le imprese grandi e piccole che esportano maggiormente. Si è così avuta nel Sud una diminuzione del prodotto e degli investimenti e la situazione occupazionale resta dunque particolarmente pesante. Ma il dato essenziale che occorre tenere presente è la maggiore dipendenza dell’economia meridionale dalla spesa pubblica. È evidente dunque che una contrazione della spesa non accompagnata da una crescita delle attività produttive aggraverebbe la situazione economico-sociale del Mezzogiorno. È difficile immaginare che in una situazione come quella tratteggiata si possano sviluppare forti forme di mobilitazione politica a base territoriale in direzione di un nazionalismo periferico. Lo schema di Gourevitch che abbiamo prima utilizzato può esserci utile anche in questo caso. Si ricordi in proposito che le possibilità di sviluppo di un nazionalismo periferico sembrano associate a una situazione di dinamismo economico alla quale non corrisponde una forte leadership politica. Ma non è questo il caso delle regioni meridionali. È vero infatti che nell’attuale congiuntura politica esse hanno visto decrescere la tradizionale capacita di rappresentanza al centro e di influenza sul governo. Ciò si accompagna però a una situazione di debolezza economica e di forte dipendenza dell’economia dal mercato interno e dalla spesa pubblica che non rende attraente la prospettiva di un exit. Si ricordi infine che non vi è un potenziale etnico mobilitabile al Sud, come al Nord; ciò che indebolisce fortemente la formazione di movimenti a base territoriale. Con l’aggravante, nel Mezzogiorno, costituita dall’influenza a livello di cultura d’élite e di massa di quell’orientamento rivendicazionista nei riguardi dello Stato centrale che abbiamo prima ricordato. È peraltro significativo, in proposito, che nella leadership del nuovo associazionismo culturale delle regioni meridionali appaia più attenuato il rivendicazionismo nei riguardi dello Stato tipico del passato, ma la richiesta di una maggiore autonomia politico-amministrativa non sfocia in prospettive di autonomi-
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rilevare che il cambiamento politico sembra portare in direzioni diverse e contrastanti al Nord e al Sud. Al Nord le spinte verso un nazionalismo periferico tendono a essere incanalate verso la richiesta di una forte regionalizzazione che darebbe alle istituzioni regionali un maggior peso nella rappresentanza degli interessi territoriali a scapito dei partiti. Tuttavia, nella proposta leghista, la regionalizzazione assume anche una forte valenza liberista, che implicherebbe una drastica riduzione dell’impegno redistributivo a favore delle regioni meridionali. Al Sud, al contrario, il venir meno del vecchio modello di integrazione politica potrebbe ostacolare la regionalizzazione per difendere la redistribuzione a favore delle aree meridionali e mantenere il potere del centro. Naturalmente, come mostra l’esperienza di molti paesi a struttura federale, regionalizzazione e redistribuzione a favore delle aree più deboli non sono necessariamente antitetiche. E si potrebbe argomentare che un decentramento più efficace e responsabilizzante di quello del passato - ma anche solidaristico - non sarebbe solamente nell’interesse delle regioni forti, ma favorirebbe uno sviluppo più autonomo e più solido del Sud. Resta però da vedere se i contrasti presenti nella coalizione di governo - in particolare tra Lega e An - consentiranno di cogliere l’occasione che sembra oggi aprirsi per una regionalizzazione efficace e solidaristica o genereranno invece un blocco decisionale. Naturalmente, su questi esiti peserà anche la capacità delle forze di opposizione, e di quelle della società civile, di giocare un ruolo responsabile su una tematica tipicamente non partigiana che può essere decisiva per il futuro del Paese.
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Note 63. L’eccezione più significativa è costituita, come e noto, dal separatismo siciliano alla fine degli anni Quaranta, ma lo sviluppo di questo fenomeno è molto legato a un fattore esterno contingente come l’occupazione della Sicilia da parte degli Alleati: si veda R. MANGIAMELI, «La regione in guerra (1943-1950)», in M. AYMARD - G. GIARRIZZO, (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sicilia , Torino 1987, Einaudi. 64. «Cleavage Structures, Party Systems, and Voter Alignments: An Introduction», in S.M. LIPSET, S. ROKKAN, (eds.), Party Systems and Voter Alignments , New York 1967, The Free Press. 65. L. CAFAGNA, Nord e Sud , Venezia 1994, Marsilio. 66. Ci sono ovviamente eccezioni illustri, come quelle del primo Salvemini, di Sturzo e di Dorso, che hanno sottolineato l’importanza dell’autonomia politico-amministrativa. Ma in nessun caso il meridionalismo ha sostenuto la necessità di una mobilitazione politica a base territoriale. 67. P. BEVILACQUA, Breve storia dell’Italia meridionale , Roma 1993, Donzelli, pp. VII ss. 68. P. FARNETTI, Sistema politico e società civile , Torino 1971, Giappichelli. 69. Le osservazioni seguenti si richiamano all’analisi del problema meridionale che ho proposto in Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi delle politiche nel Mezzogiorno , Bologna 1992, il Mulino. 70. Cfr. I. DIAMANTI, La Lega , Roma 1993, Donzelli, che è la migliore sintesi sullo sviluppo del fenomeno leghista. 71. Come nota G. E. RUSCONI, Se cessiamo di essere una nazione , Bologna 1993, il Mulino, p. 12. 72. R. MANNHEIMER, (a cura di), La Lega Lombarda , Milano 1991, Feltrinelli. 73. P. GOUREVITCH, «The Reemergence of “Peripheral Nationalisms”: Some Comparative Speculations on the Spatial Distribution of Political Leadership and Economic Growth», Comparative Studies in Society and History , n. 3, 1979, pp. 303-333. 74. «Nuove regioni e riforma dello Stato», XXI Secolo. Studi e ricerche della Fondazione Giovanni Agnelli , giugno 1993. 75. Si veda l’analisi dei risultati delle elezioni politiche del 1994 in I. DIAMANTI - R. MANNHEIMEN, (a cura di), Milano a Roma , Roma 1994, Donzelli. 76. IMES, Le associazioni culturali nel Mezzogiorno, Roma 1994.
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conversazione con Luca
P ASTORELLI
Un paradosso geopolitico spiega come la mafia siciliana abbia bisogno dello Stato per condurre la sua esistenza parassitaria. La carta mentale di un uomo d’onore. Come i mafiosi controllano il territorio. Trapani non è Italia.
M ... le cose con il loro nome: in Sicilia la mafia non esiste. Il suo vero nome è Cosa Nostra. Si è sempre chiamata così e chissà per quanto tempo ancora ne sentiremo parlare. Ma per
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nelle minime pieghe l’organismo statale, di cui succhia la linfa vitale. Ciò gli permette di esaltare tutta la sua superiorità nei confronti dello Stato, di mostrare ai siciliani chi è il vero padrone dell’isola. E, naturalmente, consente di controllare da vicino l’attività del nemico, infiltrandosi al suo interno. Ai singoli mandamenti fa capo un certo numero di famiglie mafiose, che possono essere anche minime: tre o quattro persone. Sopra ai mandamenti, invece, troviamo le commissioni provinciali e infine la commissione regionale, la famosa Cupola che però, dopo l’avvento di Totò Riina, ha visto diminuire il suo potere. Dalla base al vertice, dalla stazione dei carabinieri all’ente Regione, la mafia si modella dunque secondo lo schema dello Stato «occupante». Non è facile essere ammessi in Cosa Nostra. Innanzitutto, a meno che non si sia figli di boss eccellenti, occorre essere scelti. In genere, gli uomini d’onore individuano in seno alla piccola malavita locale i giovani «migliori». Si selezionano elementi intelligenti, coraggiosi e spietati, ma anche riservati. Non devono essere strafottenti, atteggiarsi a guappi. I giovani vengono iniziati con una cerimonia che varia di luogo in luogo. In genere viene praticata la puntura rituale che fa sgorgare da un dito qualche goccia di sangue. Perché in Cosa Nostra si entra col sangue e da Cosa Nostra si esce col sangue. In Cosa Nostra non si fanno domande, si eseguono ordini. Un uomo d’onore informa i «colleghi» di ciò che ritiene opportuno essi sappiano, nulla di più.
Non è la Spectre Per fare il «business» i mafiosi sono costretti a tenere rapporti con il resto del mondo.
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in scena i mafiosi, che agevolano gli affari libici ottenendone in cambio notevoli vantaggi. Nelle ville e nei grandi aalberghi lberghi maltesi costruiti in alcuni casi con capitali mafiosi hanno trovato ospitalità i dirigenti dell’Olp. Come contropartita, Cosa Nostra ha ottenuto facilitazioni sul mercato della droga mediorientale. Tutt’altro il contesto di Cosa Nostra americana. Lì esiste una comunità siciliana in cui è stato possibile ricreare una struttura mafiosa ispirata a quella della terra madre sicula. Ma con notevoli differenze: non dimentichiamo che Cosa Nostra in Sicilia nasce nelle campagne per diffondersi poi nelle città, mentre negli Stati Uniti essa si concentra in alcune grandi metropoli ed è priva di una dimensione rurale. È infine sbagliato assimilare le altre mafie italiane a quella siciliana. Gli uomini d’onore si considerano diversi dai camorristi napoletani o dai calabresi della ’ndrangheta. I quali, a loro volta, soffrono di un complesso di inferiorità, affascinati dalla straordinaria potenza di Cosa Nostra che hanno vanamente cercato di imitare. Insomma, la mania non è la Spectre e non è nemmeno una Internazionale del crimine, perché il suo radicamento territoriale in Sicilia e parte ineliminabile della sua identità. Nel momento in cui diventasse una qualsiasi organizzazione criminale senza frontiere, Cosa Nostra sarebbe morta.
La riforma riforma geopolitica di Totò Totò Riina Riina Da quando, a partire dagli anni Settanta, Cosa Nostra ha potenziato il traffico degli stupefacenti, la sua costituzione materiale e la sua geopolitica sono profondamente cambiate. In vent’anni la mafia siciliana ha centuplicato il suo volume d’affari. I soldi hanno provocato una rivoluzione. Quelli che erano poveri villici abituati vivere con un niente sono
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divide e alla fine diventa il signore incontrastato di Cosa Nostra. (Il paradosso è che Riina non ha mai ricoperto alcuna carica classica del cursus honorum mafioso, non è stato neanche capo-mandamento di Corleone.) Dal punto di vista geopolitico, Riina opta poi per il declassamento di Palermo, spostando il baricentro di Cosa Nostra verso la provincia. Qui, nel territorio d’elezione, segnato dalle tradizioni e dalle arretratezze, dalla povertà e dall’omertà, la mafia è più sicura e più protetta contro la vertigine del suo stesso successo finanziario, che potrebbe trasformarsi nell’anticamera della sconfitta. Oggi Palermo è cambiata. È molto più libera e aperta di qualche anno fa, grazie anche all’iniziativa di alcuni uomini coraggiosi. Ma in provincia, specialmente nella Sicilia occidentale, si continua a respirare un’aria un’aria pesante.
Trapani, Italia? Un solo esempio del Far West siculo: la provincia di Trapani. È sicuramente la provincia più mafiosa d’Italia, anche se di rado sale agli onori delle cronache. Se ne parla poco proprio perché a Trapani la mafia comanda davvero. A suo modo Cosa Nostra garantisce l’ordine pubblico, cerca di tenere la città «tranquilla» per evitare clamori e non obbligare lo Stato a intervenire. Qui i testimoni non parlano. Anzi non vi sono mai testimoni. Può accadere che un uomo sia ammazzato sulla pubblica piazza davanti a decine di persone, nessuna delle quali ammette di aver visto o sentito qualcosa. Come magistrato, mi sono imbattuto nelle storie più assurde. E forse non tutti sanno che ad Alcamo, in provincia di Trapani, c’è una Casa del Tortellino, specializzata nella vendita di questo tipo di pasta. Orbene, accade che un poveraccio venga liquidato liquidato a schiop-
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Nostra, lo Stato è una «cosca» vasta, ma debole. Può anche arrestare Totò Riina, ma l’organizzazione resta indirettamente sotto il suo controllo. Gente come Provenzano e Bagarella è sangue del sangue di Riina e agisce in nome e per conto del boss incarcerato. Intanto la mafia aspetta qualche segnale dallo Stato, come l’allentamento della rigida disciplina carceraria per i suoi capi. Bisogna anche vedere che cosa potrà significare il passaggio da una classe politica prevalentemente meridionale a una che è espressione delle «fabbrichette» padane. Ad ogni modo, Cosa Nostra non è prossima al collasso. Non bisogna farsi prendere dagli entusiasmi o credere, seguendo i giornali e la tv, che ci sia una via giudiziaria alla liquidazione della mafia siciliana. Cosa Nostra ha una struttura indistruttibile, che si rinsangua continuamente: per ogni mafioso preso vi sono decine di aspiranti sostituti. Per molti siciliani Cosa Nostra significa ancora possibilità di status e di rapido arricchimento, quasi una sorta di Stato sociale gestito da criminali. Finché lo Stato non sarà in grado di offrire sviluppo e benessere nella legalità e nella democrazia, Cosa Nostra continuerà a imperversare. Purtroppo non ci sono scorciatoie. Questa è la sola strada da percorrere per sradicare, un giorno, il dominio della mafia. Concludo con un paradosso: l’unico modo di distruggere Cosa Nostra sarebbe di abbandonare la Sicilia a se stessa. Una Sicilia indipendente costringerebbe la mafia ad uscire allo scoperto, ad assumere direttamente su di sé il peso e la responsabilità delle funzioni statali. Perderebbe Perderebbe così il vantaggio del parassitismo e la gente scoprirebbe che feroci criminali come Riina possono certo guidare Cosa Nostra, mai però uno Stato. Cosa Nostra non ha la cultura e i talenti per far funzionare un’amministrazione. un’amministrazione. Già stenta a gestire il suo business, figuriamoci una repubblica. L’Antistato non può diventare Stato dalla mattina alla sera. E sarebbe la mafia stessa, allora, a implorare gli italiani di tornare. Per poter continuare a far soldi e a uccidere all’ombra di Roma.
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di Carlo
GUARNIERI
I singoli uffici giudiziari esprimono ormai una sovranità assoluta assoluta sui rispettivi territori. Perché Perché un reato è tale a Milano non ad Avellino. Magistrati ‘locali’ e magistrati magistrati ‘centrali’. ‘centrali’. I pericoli derivanti dalla disunità della giustizia.
C
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sostanziali modificazioni neanche durante la transizione dal regime autoritario fascista a quello democratico repubblicano. Così, il reclutamento avviene a livello nazionale con un concorso pubblico che si rivolge a giovani laureati in giurisprudenza, più o meno come per tutte le altre branche della pubblica amministrazione (77). Contrariamente a quanto avviene in varia misura in tutti gli altri paesi democratici, non esistono di fatto altre forme di reclutamento: l’unico modo per diventare magistrati è quello di affrontare il concorso nazionale. Quindi, i magistrati costituiscono un corpo unico e, almeno formalmente, sono ancora oggi ordinati lungo un’unica un’unica scala gerarchica che prevede un certo cer to numero di gradi. In realtà, grazie ad una serie di provvedimenti legislativi emanati negli anni Sessanta e Settanta e al modo in cui sono stati applicati, la carriera si svolge ormai quasi esclusivamente per anzianità, nel senso che per essere promossi ad un grado superiore basta di fatto maturare una certa anzianità di servizio nel grado inferiore. La «carriera» dei magistrati, così come tutti i provvedimenti che li riguardano (trasferimenti, disciplinari eccetera), sono, da più di trent’anni, di competenza non più del ministero della Giustizia ma di un organo collegiale: il Consiglio superiore della magistratura (Csm), composto per due terzi da magistrati eletti direttamente da tutti i loro colleghi e per un terzo t erzo da avvocati o professori universitari di diritto eletti dal parlamento. Esso è comunque un organo centrale con competenza su tutta la magistratura, che viene pertanto gestita in modo unitario sull’intero territorio nazionale. Nel suo lavoro il Csm è coadiuvato dai Consigli giudiziari - composti solo da magistrati, sono attualmente 25, uno per ogni Corte d’appello - che, fra l’altro, elaborano delle valutazioni preliminari su tutti i magistrati che devono essere promossi. Di fatto, il ruolo di questi organi non è di grande rilievo: ad esempio, le valutazioni per
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tutte parte dell’Associazione nazionale magistrati italiani, l’associazione professionale della magistratura - sono delle vere e proprie organizzazioni politiche, dotate di un’embrionale struttura organizzativa, con propri organi di stampa, in grado di elaborare politiche nel campo della gestione del personale giudiziario, così come in quello dei rapporti fra magistratura e altre istituzioni pubbliche, e di organizzare attorno a queste politiche il consenso elettorale dei magistrati elettori. In altre parole, sono pur in un contesto tutto particolare, dei veri e propri partiti in miniatura che concorrono all’elaborazione e all’attuazione delle politiche della giustizia soprattutto attraverso la loro influenza sul Csm: negli ultimi anni tutti i magistrati eletti nel Consiglio hanno fatto parte di una corrente organizzata (vedi tabella 1). Dopo le recenti elezioni del luglio 1994, quattro sono le correnti rappresentate in Consiglio. Con una certa approssimazione esse possono essere collocate da sinistra a destra: Magistratura democratica (Md), Movimento per la giustizia (Mg), Unità per la costituzionale (Uc), Magistratura indipendente (Mi). Certo, le correnti sono organizzazioni nazionali ma, come del resto i partiti politici, hanno le loro zone di forza: ad esempio, Md è da sempre molto presente a Milano, così come Uc a Napoli, mentre Mi, almeno un tempo, era forte a Torino e a Palermo. Comunque, il punto da sottolineare è che la divisione in correnti si riflette sul funzionamento del Csm, tanto più che la stessa componente «laica», di estrazione parlamentare, risulta diversa. Dato l’elevato quorum richiesto per l’elezione, i membri laici rispecchiano i rapporti di forza fra i principali gruppi parlamentari. Nel periodo 1976-1990 quattro rappresentanti appartenevano alla Dc, tre al Pci, due al Psi e uno ai partiti minori di centro. Dopo i mutamenti del 1994, tre componenti sono stati espressi dall’area progressista, uno dai popolari e due ciascuno dai tre gruppi della nuova maggioranza: Lega, Forza Italia e An.
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Tabella 1. Elezioni per il Csm con il sistema elettorale proporzionale (voti, percentuali e seggi ) Anno 1976
1981
1986
1990
1994
Md 755 13% (2) 803 14% (3) 1.107 19% (3) 1.337 22% (4) 1.620 24% (5)
Mg
714 12% (3) 1.133 16% (4)
Uc* 2.526 42% (9) 2.557 43% (9) 2.517 41% (9) 2.236 36% (8) 2.854 42% (8)
Mi 2.156 36% (8) 2.263 38% (8) 2.087 34% (7) 1.828 30% (5) 1.230 18% (3)
Altri** 506 9% (1) 297 5%
Votanti 5.943
402 6% (1)
6.104
5.920
6.115
6.837
* Vengono sommati i voti delle varie correnti (Terzo potere, Impegno costituzionale) che poi confluiranno in Unità per la
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dimenti del Csm, e che non sono pochi, non possono non tener conto della logica con cui (quest’organo prende le sue decisioni, e quindi della complessa costellazione di partitiche e correntizie, che lo influenzano. Così, gli interventi del Csm tendono ad essere condizionati - e soprattutto ad essere percepiti come condizionati - da una logica politica (81). Lo smantellamento della carriera e l’istituzione del Csm hanno avuto degli ovvi riflessi anche all’interno del settore politicamente più delicato, quello dell’iniziativa penale (82). In Italia, infatti, caso unico fra i paesi a regime democratico, l’azione penale esercitata dallo stesso corpo di magistrati indipendenti che svolge anche funzioni giudicanti e che si autogoverna tramite il Csm. In questo settore non esiste più una gerarchia unitaria sul territorio nazionale: da quando i poteri del ministero della Giustizia sono venuti meno, ogni ufficio è più o meno autonomo dagli altri (83). Solo nel settore della lotta alla criminalità organizzata, dopo molte polemiche e una forte opposizione da parte della magistratura associata, è stata di recente istituita una struttura di coordinamento, la Direzione nazionale antimafia, che non sembra però - almeno a giudizio del Csm - aver avuto un impatto particolarmente rilevante (84). Comunque, per tutti gli altri reati i singoli uffici si comportano in pratica come sovrani: anche i conflitti di competenza, che teoricamente potrebbero essere risolti da un intervento della Corte di cassazione, tendono ad essere regolati - peraltro sfruttando una possibilità prevista dal nuovo codice di procedura penale - con accordi diretti fra le singole procure che «si spartiscono» così la competenza a perseguire questo o quel reato (85). Che in tutti i sistemi politici democratici l’esercizio dell’azione penale sia funzione politicamente di rilievo non è certo una novità. Nel nostro paese però essa ha assunto una particolare importanza politica. Diverse ne sono le ragioni, oltre a quanto appena ricordato, e cioè l’essere affidata ad un corpo di magistrati indipendenti che svolge anche funzioni giudicanti. Com’è noto, e come viene ripetuto a ogni pie’ sospinto, in Italia l’esercizio
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processo penale sono già di per sé di fatto una forma di sanzione, per i costi che comunque impongono all’accusato. In Italia si può dire che qualcosa di analogo ormai avvenga anche con la cosiddetta informazione di garanzia - con la quale viene notificato ad un cittadino che si sta indagando su di lui - o addirittura talvolta con la semplice iscrizione nel registro, segreto, degli indagati. Il fatto che l’emissione di tali avvisi sia regolarmente diventata, almeno nei casi politicamente più rilevanti, di dominio pubblico - e che anzi venga talora addirittura annunciata con un comunicato alla stampa (88) - ha un forte impatto sull’opinione pubblica e tende a far sì che gli indagati siano considerati comunque colpevoli. Anche se tale percezione va sicuramente interpretata anche come un segno della debolezza dei valori garantisti della nostra cultura politica, resta il fatto che la semplice emissione di un avviso di garanzia da parte del pubblico ministero - che di per sé non implica alcun grado di colpevolezza, anzi in regime di obbligatorietà dell’azione penale è un atto dovuto - costituisce, non solo per il semplice cittadino, ma soprattutto per un uomo pubblico, un ‘evenienza gravemente negativa. Infine il potere del pubblico ministero è molto elevato anche per la possibilità che ha di ordinare in molti casi la custodia cautelare in carcere dell’indagato. Certo, la richiesta del pubblico ministero deve sempre essere accolta da un giudice e anche la decisione di quest’ultimo è soggetta a riesame da parte di altri organi giudiziari. Di fatto - ma la questione richiederebbe senz’altro un approfondimento - almeno nei casi più clamorosi le richieste del pubblico ministero sembrano avere migliori possibilità di accoglimento. Svariati possono essere i motivi di questa tendenza: la struttura stessa del nostro processo penale che tende a privilegiare l’accusa soprattutto nella fase preliminare, la pressione dell’opinione pubblica - che sembra avere, almeno nei casi di corruzione politico-amministrativa, un pregiudizio sfavorevole all’acc anche il fatto che giudici e pubblici ministeri, appartenendo allo
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in volta con difficili analisi specifiche - e che solo indirettamente sono influenzati da quanto avviene nel sistema politico nazionale, e magistrati centrali, che guardano soprattutto ad altri uffici e al centro del sistema politico. Resta comunque che le condizioni istituzionali rendono possibili, anzi probabili, comportamenti molto differenziati a seconda degli uffici. Il valore di quest’ultima affermazione può essere messo alla prova cercando di analizzare come la magistratura si è mossa in un settore importante come quello della lotta alla corruzione politico-amministrativa. È questo infatti un campo di analisi di sicuro rilievo, non solo perché le indagini di questi anni - con più di seimila persone indagate e circa tremila avvisi di garanzia e custodia cautelari (90) - hanno mostrato come il «sistema della corruzione» fosse estremamente diffuso e come esso trovasse collegamenti e connessioni nei leader nazionali delle principali forze politiche, ma soprattutto perché da tempo se ne segnalava la sua più o meno capillare presenza su tutto il territorio nazionale (91). Comunque, fino a poco tempo fa, e più precisamente fino ai primi mesi del 1992, non si può certo dire che da parte della magistratura si avessero grandi iniziative in questo campo. Anche il reato di finanziamento illecito dei partiti, connesso spesso a quelli di corruzione e concussione, non era mai stato oggetto di serie indagini, nonostante fossero emersi di tanto in tanto fatti clamorosi: si pensi, ad esempio, alla candida ammissione fatta nel corso di un’intervista, nel 1980, dall’onorevole Evangelisti. Solo nel 1992, specie dopo che le elezioni di aprile avevano segnato una svolta nel comportamento elettorale degli italiani, le cose hanno cominciato a cambiare, anche se, come vedremo, con rilevanti differenze fra ufficio e ufficio.
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base di una propria logica, relativamente autonoma da tutte le forze politiche. Alla base del loro potere sta senz’altro anche il continuo e intenso rapporto coi media, che ha visto i magistrati dell’ufficio, così come il suo capo, intervenire in questi due anni su quasi tutti i temi oggetto di discussione politica e che è culminato - forse - nella dichiarazione letta davanti alle telecamere da Di Pietro dopo l’emanazione del decreto Biondi sulla custodia cautelare, che tanto ha contribuito al suo affossamento. Inoltre, importante è anche stato il grado piuttosto elevato di coesione - almeno in senso relativo - mostrato dai magistrati della procura di Milano: nulla è emerso al di fuori del caso Parenti e della latente ma sempre controllata competizione fra il procuratore capo Borrelli e l’aggiunto D’Ambrosio emersa pubblicamente dopo Cernobbio. Le inchieste milanesi, al di là appunto delle singole iniziative penali che sembrano assumere un carattere quasi secondario, sono diventate veri e propri interventi sul processo politico nazionale: che questi interventi siano un mandato di cattura, un’intervista a un giornale o una dichiarazione alla televisione non fa poi una radicale differenza. È interessante invece confrontare il caso milanese con quello di Torino. Non si può dire infatti che la procura torinese sia stata inattiva nel perseguire i reati contro la pubblica amministrazione (92). Forse, una certa differenza sta nel tipo - meno eclatante - di casi trattati, differenza che può essere attribuita al diverso contesto economico, più stabile in quanto dominato da una grande azienda, al contrario dell’area lombarda, molto più «policentrica» e quindi molto più aperta alla competizione e al conflitto. Quello che pero colpisce è la diversa modalità di azione dei magistrati torinesi. Non mi riferisco qui agli aspetti processuali - che richiederebbero specifiche analisi - ma alla loro maggiore prudenza nel rapporto con i media. Sembra quasi emergere la scelta di non assumere un ruolo politico nazionale e pertanto di non agire, per quanto possibile ovviamente,
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dopo qualche schermaglia iniziale, non ha contrastato questa volta le iniziative di Milano e si è mossa poi nella stessa direzione anche se con più cautela - si veda ad esempio il caso Sisde - e magari sfruttando altri filoni, come l’inchiesta sull’Olivetti. Semmai nel caso romano le divisioni interne all’ufficio - molto forti e che hanno portato, fra l’altro, ad un contenzioso che è sfociato nell’annullamento della nomina di Mele a procuratore capo - ne hanno probabilmente condizionato l’impatto eterno, come abbiamo visto potenzialmente elevassimo. Il caso della «zona rossa» - cioè degli uffici situati in Emilia Romagna, Toscana e Umbria - è senz’altro il più interessante ed è quello che meriterebbe un lavoro di ricerca più approfondito. In quest’area le iniziative giudiziarie risultano molto meno numerose e quando vengono avviate, lo sono con minor clamore da parte dei media. Un’ipotesi di spiegazione - che viene con una certa frequenza avanzata e che qui i magistrati siano in una certa misura condizionati dall’ambiente politico-economico locale (93). Esempi, anche clamorosi, di acquiescenza - o comunque di un certo «riguardo» - della magistratura verso il Pci e le sue organizzazioni sono stati anche di recente ricordati così come si è notato che negli ultimi anni i magistrati di Md - la corrente di sinistra - hanno acquistato una crescente influenza su molti uffici giudiziari (94). Dall’altra parte si risponde che forse è più vicina al vero l’ipotesi contraria, e cioè che i politici, e magari anche gli imprenditori, siano qui meno corrotti, anche se un ipotesi intermedia potrebbe essere quella che in queste zone, proprio per la loro alta stabilità politica, il meccanismo della corruzione sia meglio organizzato o che comunque i rapporti fra politica ed economia vengano regolati con maggiore fluidità (95). Un altra area, non certo esente da fenomeni di corruzione politico-amministrativa ma in cui, almeno fino a poco tempo fa, la magistratura ha mostrato una notevole prudenza, è il Sud. Certo, è possibile che in zone come la Sicilia per lungo tempo il problema più importante sia stato quello della mafia più che quello della corruzione, anche se naturalmente
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juke-box : se la moneta è buona, suona, cioè se la notizia di reato è fondata le iniziative della
magistratura seguono naturalmente. C’è senz’altro qualcosa di vero in questa analogia, che peraltro richiama quella della slot-machine diffusa nel mondo anglosassone (96). È però inesatta se intende attribuire alla magistratura, e in questo caso al pubblico ministero, un ruolo esclusivamente esecutorio. Non è solo - come è stato correttamente osservato - che il volume della musica, e quindi il tipo di iniziative giudiziarie che seguono alla notizia di reato, dipende in buona misura da chi dirige il juke-box . E anche che negli ultimi venti anni la nostra magistratura si è progressivamente allontanata da una concezione ristretta, passiva del proprio ruolo, con il magistrato che «attende» che gli pervenga la notizia di reato per poi iniziare le indagini al fine di valutarne la fondatezza. Ormai in molti casi le notizie di reato i magistrati le cercano loro, di propria iniziativa, senza aspettare nel proprio ufficio (97). Quindi, al di là di un assetto formalmente ancora centralizzato, lo smantellamento dei tradizionali controlli organizzativi - che non è stato accompagnato dall’introduzione di forme di controllo di tipo diverso ma comunque di qualche efficacia - ha portato alla costruzione di un assetto di fatto fortemente policentrico che fa sì che la nostra magistratura presenti nei suoi comportamenti forti variazioni territoriali. Le più rilevanti - ma non le sole, anche se su queste abbiamo qui concentrato la nostra attenzione - sono quelle che riguardano le funzioni della pubblica accusa un settore non solo di notevole rilievo politico ma anche di per sé connotato da maggiori spazi di discrezionalità. Così, l’esercizio dell’azione penale - il se perseguire ma soprattutto il come perseguire e con quali risultati sembra nei fatti condizionato non solo da pur comprensibili differenze nell’ambiente in cui i magistrati lavorano, ma soprattutto dai loro orientamenti e dagli assesti che prevalgono all’interno dei singoli uffici così come dai rapporti fra questi e il Csm.
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82. Su questo punto e su quanto segue vedi G. DI FEDERICO, «Obbligatorietà dell’azione penale, coordinamento delle attività del pubblico ministero e loro rispondenza alle aspettative della comunità», La giustizia penale, XCVI, 1991, pp. 148-171. 83. Oltre alla procura generale presso la Corte di cassazione e alle 25 procure generali presso le Corti d’appello, esistono circa 160 procure presso i tribunali di prima istanza e altrettante presso le preture circondariali. 84. Il giudizio del Csm è contenuto nella relazione per l’anno 1993 sulla Direzione nazionale antimafia. Va anche ricordato che con lo stesso provvedimento in ogni distretto di Corte d’appello sono state istituite delle Direzioni distrettuali antimafia, con competenza per i reati di criminalità organizzata. 85. In questo modo sono stati affrontati, nel biennio 1992-’94, i ricorrenti conflitti tra le varie procure nelle numerose inchieste sulla corruzione politico-amministrativa. 86. è quanto sottolinea F. CAZZOLA, «Tangentopoli e magistratura», La Magistratura , XLVII, n. 4, 1993. Interessanti esempi di azioni penali «finte» o promosse con scopi «non istituzionali» sono raccontati da un magistrato, G. DI LELLO, Giudici , Palermo 1994, Sellerio. 87. Vedi M. M. FEELEY, «The Process is the Punishment», New York 1979, Russel Sage. 88. Vedi, ad esempio, la trattazione del caso dell’emissione di informazioni di garanzia a carico di alcuni dirigenti di Mediobanca da parte della stampa del 31/5/1994. 89. In questo favoriti dalle modificazioni che abbiamo sopra illustrato. Contrariamente al passato, infatti, oggi è possibile fare «carriera», cioè essere promossi ai gradi superiori, senza dover necessariamente cambiare posizione. Si può così indefinitamente continuare a svolgere le stesse funzioni pur essendo stati «promossi» ad un grado superiore. 90. I dati sono contenuti nel Sole-24 Ore , 17/2/1994. 91. Si vedano i dati presentati da R.D. Putnam ( Macking Democracy Work , Princeton 1993, Princeton University Press, p. 111, traduzione italiana La tradizione civica nelle regioni italiane , Milano 1993, Mondadori) e basati su sondaggi e su interviste a leader locali. Putnam segnala comunque la percezione della corruzione risulta più elevata nelle regioni meno dotate di spirito civico, e cioè in quelle meridionali. 92. Va per altro ricordato che negli anni Ottanta la procura prese l’iniziativa di condurre in prima persona un’indagine per verificare la posizione patrimoniale e contributiva dei cittadini di Torino per individuare eventuali reati di evasione fiscale, iniziativa che portò poi ai numerosi processi e condanne. Vedi G. DI FEDERICO «Obbligatorietà ...», cit., p.153. 93. È questa per esempio, l’ipotesi pubblicamente avanzata, nella primavera del 1994, da un noto magistrato della
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di
Gianlorenzo S TACHI e Jacopo T URRI
I rapporti fra Forze armate e Regioni illuminano alcune linee di frattura territoriale, geopolitica e geoeconomica. Le conseguenze ipotizzabili in caso di riforma regionalistica delle istituzioni. La meridionalizzazione dei volontari.
H H C le Forze armate un’Italia federale o comunque una riforma istituzionale basata sull’accorpamento di alcune macroregioni? Una risposta precisa non è ancora possibile, stante la va-
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I ministri dei diversi governi che si sono succeduti nel corso della recente crisi si sono raramente espressi in merito e, per di più assumendo atteggiamenti che variano grandemente dall’uno all’altro Il ministro Andò (Psi), nel corso di un convegno svoltosi a Catania nell’aprile 1993 - vale a dire dopo la fine del suo mandato - sosteneva come l’indicazione più feconda del federalismo fosse «un processo verso l’integrazione sempre più ampia di soggetti differenti, gli attuali Stati europei, piuttosto che, come vorrebbero alcuni, la disintegrazione di soggetti, le parti che formano una nazione, che proprio nell’unita possono valorizzare le differenze». Sottolineava altresì come «la nuova struttura che le Forze armate si apprestano ad assumere, rinnovate negli ordinamenti, nelle tecnologie e negli organismi, continuerà a far riferimento costante a questo richiamo unitario che - nella sostanza - costituisce patrimonio irrinunciabile non solo dei cittadini alle armi, ma di tutto il paese» (98). Il ministro Fabbri (Psi), che gli successe, non affrontò mai direttamente l’argomento. Si limitò soltanto ad emanare disposizioni che ribadiscono quanto già sancito dalla legge 958 del 1986 in merito al servizio di leva che, compatibilmente con le esigenze operative, dovrebbe essere svolto nella regione di appartenenza del giovane chiamato alle armi (99). Il ministro Previti (Forza Italia), infine, non si è ancora espresso in merito, nell’attesa che sul problema del federalismo venga assunta una posizione precisa da parte di una maggioranza che non ha ancora scelto fra le diverse opzioni. Ciò fa sì che, nelle relazioni programmatiche che egli ha presentato alle commissioni Difesa dei due rami del parlamento (100), il Nuovo modello soffra ancora di quella fondamentale indeterminatezza cui si è fatto cenno e che si riflette, con infinite sfumature, in tutti i settori di attività delle Forze armate. In realtà, i rapporti fra Forze armate e Regioni sono ben più profondi e complessi
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che non ne muterebbero l’essenza. Ciò a meno che non si desse vita a forme regionali assolutamente inedite, dotate di qualcosa in più dell’autonomia; dunque a Regioni dotate di una propria sovranità, cosa che le porrebbe in grado di esercitare - al pari di uno Stato indipendente - il monopolio della forza legittima. L’ipotesi appare però così spinta da poter essere considerata di mera fantasia. Molto più che in questo settore, dunque, l’incidenza che un eventuale passaggio ad una diversa repubblica, segnata da più marcate autonomie regionali, potrebbe avere sul rapporto Difesa-Regioni e sull’efficacia dello strumento difensivo nazionale nel suo complesso è da indagare soprattutto sotto i seguenti aspetti a) impatto economico prodotto sulle varie Regioni dalla presenza militare nel territorio; b) problemi connessi all’occupazione del territorio stesso per esigenze militari e di difesa; c) interventi vari e per pubbliche calamità svolti a differenti livelli dalle Forze armate; d) ciò che è più importante, gli eventuali legami fra reclutamento e regionalizzazione o federalizzazione. Esaminiamo partitamente questi punti. A) L’aspetto economico-finanziario del rapporto Difesa-Regioni è stato in particolare approfondito di recente nell’ambito di una ricerca che il Centro militare di studi strategici e alcuni enti locali - Regione, Provincia, Comune, Ervet e Camere di commercio - hanno affidato alla Nomisma di Bologna, incaricata di studiare il caso generale dell’Emilia-Romagna e alcune realtà particolari, quali quelle di Bologna, di Budrio e del cosiddetto «triangolo aeronautico romagnolo» (Ravenna-Cervia-Rimini) (102). Ne è risultato uno studio innovativo e complesso, che ha richiesto la raccolta e l’esame di una sconfinata serie di dati e ha tra l’altro costretto gli autori a forgiare strada facendo gli strumenti del proprio lavoro. Nella pressoché assoluta assenza di
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Per una complessa serie di motivi, che potrebbero essere definiti come storicooperativi, detto vantaggio è stato sino ad oggi ripartito fra le regioni italiane in maniera molto diseguale. A parte quanto riscontrabile nel lavoro della Nomisma che riguarda solo l’Emilia-Romagna, e in un altro studio in corso a cura della medesima società e riferito all’area di Taranto, non esistono però sino a questo momento dati verificati e probanti relativi alle singole regioni e che consentano di valutare con precisione le varie differenze. Incontrovertibile appare in ogni caso il fatto che le commesse industriali maggiori si sono sino ad ora ripartite soprattutto nelle quattro regioni - il Lazio, la Liguria, il Piemonte e la Lombardia - in cui più accentuata è la presenza di grandi complessi industriali che lavorano totalmente o parzialmente per la Difesa. Un discorso leggermente diverso ma sempre condizionato da accumuli in corrispondenza dei maggiori poli è poi quello relativo ai subcontraenti, su cui parimenti non esistono dati probanti anche perché molte ditte non amano far sapere che contribuiscono, anche indirettamente, allo sviluppo di programmi d’armamento. Se le commesse industriali hanno favorito il Lazio e il Nord-Ovest del paese, la massa dell’impatto economico dovuto alla presenza di reparti e truppe si è invece scaricata sul Nord-Est, vale a dire sulle tre Venezie, per l’intero quarantennio del confronto bipolare. Ne ha altresì beneficiato in maniera considerevole anche il Lazio, e soprattutto Roma, sia per la presenza degli organi centrali e dei supporti destinati a sostenerli che per quella di un’elevata concentrazione di scuole. Una distribuzione nel complesso estremamente disarmonica, che ha penalizzato pressoché tutta l’area a sud del Po con l’eccezione della capitale e dei dintorni e che dovrebbe comunque risultare modificata e corretta dal Nuovo modello di Difesa . Il
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derate come un danno, una diseconomia che sottraeva alla disponibilità locale beni che avrebbero potuto invece avere una destinazione maggiormente produttiva. Negli ultimi anni ha cominciato pero ad evidenziarsi una valutazione di ben diverso tenore. L’occupazione dei beni da parte militare ha infatti finito col produrre anche effetti positivi di rilevante importanza. Gli edifici di interesse storico hanno goduto di una costante manutenzione che in non tutti i casi sarebbe stato possibile assicurare qualora essi fossero transitati in differente disponibilità (104). La presenza e i vincoli militari hanno inoltre preservato dallo scempio molte aree che ora si rivelano importanti dal punto di vista naturalistico e paesaggistico (105). Il migliore esempio è forse quello del poligono di Nettuno entro il cui perimetro si è salvato l’unico tratto di costa laziale che non sia ancora stato sepolto da un’interrotta colata di cemento. La già citata ricerca Nomisma ha infine evidenziato, con uno studio storico riferito al caso particolare della città di Bologna (106), come il passaggio dei beni dalla disponibilità delle Forze armate a quella di Regioni, Province e soprattutto Comuni altro in realtà non sia che una tappa verso la loro privatizzazione. Storicamente questo tipo di processo e stato sperimentato due volte, la prima in data di poco successiva all’unificazione d’Italia e poi agli inizi del Novecento, allorché il governo Giolitti finanziò l’ammodernamento dell’artiglieria proprio attraverso la cessione a carattere oneroso delle aree e degli edifici che risultassero esuberanti rispetto alle necessita di Forze armate che stavano riducendo le proprie dimensioni. Situazione che tra l’altro ricorda molto quella attuale; e in effetti a più riprese una simile forma di cessione è stata invocata anche in sede autorevole (107) come uno dei modi in cui reperire parte dei fondi necessari per incrementare la percentuale del bilancio della Difesa destinata al rinnovo di armamenti ed equipaggiamenti. Come già si è accen-
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Le ridotte dimensioni dello strumento, che dovrebbe scendere ad un livello di forza pari al 60% circa di quello attuale, non consentirebbero però più di realizzare masse considerevoli né tantomeno di sostenere sforzi intensi per tempi prolungati. Si dovrebbe quindi cessare di considerare le Forze armate, come è stato fatto fino ad ora quale il naturale sostituto di quel servizio di protezione civile ancora non esistente nel nostro paese. Un esercito a ranghi ridotti e composto in buona parte di volontari a ferma prolungata (109), destinati per di più ad operare soprattutto all’estero in azione di proiezione della forza a braccio lungo, avrebbe inoltre le proprie energie pressoché totalmente impegnate dai cicli addestrativi ed operativi. Sparirebbero così di necessità le migliaia di altri «concorsi» di vario tipo forniti ogni anno a livello regionale e che sono di norma tanto più frequenti quanto più stretto e il legame delle Forze armate con il territorio che le ospita. In definitiva quindi, ciò che si prospetta è una complessiva rivoluzione del numero e dell’entità dei «concorsi» che il nuovo strumento militare sarà in condizione di fornire alle regioni, una riduzione che inciderà anche sul settore delle pubbliche calamità, pur se in maniera decisamente ridotta rispetto a quello dei «concorsi di varia natura» destinato all’estinzione anche in zone, come quelle alpine, in cui esso assumeva dimensioni più estese e forme che potevano essere definite tradizionali. La presenza di reparti in tutte le regioni italiane consentirà in compenso una distribuzione del beneficio molto più armonica ed equilibrata che nel passato Vantaggio che soprattutto nel caso di pubbliche calamità si tradurrà in una tempestività di intervento notevolmente maggiore. D) Per chiudere questo esame dei rapporti passati e futuri fra regioni e Forze armate rimane ora da affrontare soltanto il punto che è quello di maggiore attualità e interesse,