Iconografia dell’arte italiana 1110-1500: una linea di Salvatore Settis
Storia dell’arte Einaudi
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Edizione di riferimento:
in Storia dell’arte italiana, 1. Materiali e problemi, 3. L’esperienza dell’antico, dell’Europa, della religiosità, a cura di Giovanni Previtali, Einaudi, Torino 1979
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Indice
1. «Pictura loquitur»
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2. «Secundum typicam. figuram»
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3. «Litterae laicorum»
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4. «Ut populus ad ecclesiam trahatur»
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5. «Tempus veritatis»
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6. «Non tener pur ad un loco la mente»
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7. «Come pintor che con essemplo pinga»
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poni in iscritto il nome d’Iddio in un locho, e ponvi la sua figura a riscontro, il vedrai quale fia piú riverita.
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i. «Pictura loquitur». Fra il principio dell’viii secolo e la metà del ix, una febbre violentissima percorse a piú riprese il territorio dell’Impero Romano d’Oriente. Come racconta un contemporaneo, intere città e moltitudini di popolo erano in perpetua agitazione, da una parte o dall’altra, per la questione delle immagini2; e la lotta degli iconoclasti coi loro nemici, rompendo i confini della mera disputa teologica, coinvolgeva l’esperienza di tutti, e assumeva talora i colori della piú recisa intolleranza e di una persecuzione crudele e senza esclusione di colpi. Da sempre, e certo almeno fino a oggi, si distruggono le immagini dei nemici sconfitti, o contro cui si sta combattendo: quante volte non si era abbattuta la damnatio memoriae sulle statue già gloriose degli imperatori di Roma? E la caduta del paganesimo aveva condannato a morte certa, per incuria o deliberazione, le statue degli dei spodestati3. Ma nel mondo bizantino, per la prima volta – e forse per la sola – sono proprio le immagini della religione trionfante a essere distrutte: pii sovrani e patriarchi e vescovi, che pronunciano con reverenza non solo rituale i sacri nomi di Cristo e di Maria, si accaniscono contro le loro figure, strappandole dai muri delle chiese. Prende cosí corpo e coscienza, con una vivacità e una passione che i testi conservati possono tra-
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smetterci solo in parte, una sensibilità particolarmente acuta per il mondo delle figure dipinte e scolpite: poiché distruggerle, combatterle coi fiori della retorica e le armi dei teologi era certo trattarle come nemici vivi4. Ai monaci che ancora volevano affollarsi davanti ai muri coperti di sante immagini, i nuovi teologi rivolgevano la tonante accusa d’idolatria: l’adorazione prestata alle icone, in quanto oggetti materiali, veniva distratta dal suo vero e unico fine, che è Dio; moltiplicare le immagini per adorarle era come moltiplicare gli dei, ricadendo negli errori e nella miseria dei Gentili. Con questo tema se ne intreccia un altro, come in un groviglio di contraddizioni: le immagini, si obietta, per quanto possano essere dipinte con arte, saranno sempre inadeguate a rappresentare Dio e i santi. Ma è proprio l’insistenza su questa inadeguatezza, argomentata con la radicale proibizione delle immagini di Esodo 20.4 e con citazioni dalla Bibbia e dai Padri, che rivela, per il suo stesso ripetersi quasi ossessivo, il timore che le icone potessero attirare a sé, per la qualità del disegno e i brillanti colori, tutta l’attenzione dei fedeli: prendendosi, per la loro bellezza che le assomigliava troppo a esseri vivi e veri, un’ammirazione e un omaggio che spettavano solo a Dio. Il topos della somiglianza al vero, della vita infusa dall’artista nella statua, che aveva percorso tutto il mondo classico, è ancora vivissimo presso i bizantini: che, senza apparente coscienza di un salto di stile dall’arte antica alla loro, lo ripetono, identico, per Zeusi e per le icone. Variato con tutti gli artifizi di una raggelata retorica, questo topos si tramanda fra i dotti come per una sua forza inerziale: ma nella cultura popolare si traduce naturalmente in una gran massa di leggende sulle statue semoventi5, che si confondono con le tradizioni sugli automi, vanto della corte imperiale; e d’altra parte, attribuendo alle statue il magico potere di muovere l’inerte materia, finiscono con l’investirle di pre-
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senze demoniche, dietro le quali ancora si muovono le sconfitte divinità dell’Olimpo. Questa concezione, e non la stupefatta ammirazione di un «barbaro», è dietro la dichiarazione del crociato Robert de Clari, che visitando l’ippodromo di Costantinopoli nel 1204, vede in tutte le statue di bronzo che ancora lo popolano altrettanti automi il cui meccanismo si è guastato6. Una sorta di spicciolo evemerismo ha trasformato in macchine i demoni. Le «cause» dell’iconoclastia, che con bella semplicità si sono andate cercando, per distinzione dai suoi «effetti», saranno certo religiose, e politiche, e sociali, ed economiche, e militari; e dovute, perché no?, a «influenze» arabe o giudaiche. Ma tutto il movimento, nella disputa continua che ne segna, con lotte e fratture, le alterne fortune, si articola intorno a questo contrasto insanabile fra una tradizione culturale, in ultima analisi greco-romana, che voleva l’immagine il piú possibile «viva», e la paura che le icone acquistassero davanti agli occhi dei fedeli moto e respiro, prendendo posto – opera, dunque, del demonio – fra il popolo e Dio, fra il popolo e l’imperatore. Copie inadeguate di una troppo viva realtà ultramondana o invece troppo vive esse stesse, le immagini sacre dovevano essere distrutte. Ma il rapporto, tante volte analizzato, fra l’invisibile prototipo (Dio e i santi) e le tangibili icone nasconde appena il nocciolo del problema: le figure dipinte dalla mano del pittore e da lui caricate di ogni bellezza e di ogni ornamento, coinvolgono nell’adorazione i sensi: e la preghiera diviene un atto carnale. Con immediato intuito «pedagogico», san Cirillo (secolo iv) aveva scritto che le immagini, come le parabole, hanno il vantaggio di presentare la forza del loro significato «alla vista degli occhi e al tatto della mano». Ma gli adoratori delle icone rivendicavano il diritto di «abbracciarle, baciarle, amarle»: formule di
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questo tipo ricorrono, ripetute decine di volte, e con una sorta di commossa enfasi sensuale, nelle dichiarazioni dei Padri del II Concilio di Nicea (787); un osservatore occidentale contemporaneo parlava dunque a ragione di amplectibilis adoratio7. E si capisce cosí la strana punizione inferta nel 766 ai monaci irriducibili adoratori e difensori delle immagini: furono fatti sfilare nell’ippodromo, ciascuno tenendo per mano una donna8. Chi ha inventato questo singolare corteo aveva senza dubbio in mente un passo della lettera di san Paolo ai Galati (5.9): «opera carnis, quae sunt fornicatio, immunditia, impudicitia, luxuria, idolorum servitus». Adorare le immagini è cedere ai sensi; perciò la santa castità del monaco, già profanata, può essere derisa costringendola al contatto con la carne di una donna. Le risposte degli iconoduli non erano meno ricche di argomenti e di citazioni. Fondandosi su una tradizione secolare, affermavano la legittimità dell’adorazione resa alle immagini, poiché essa, dalle immagini, passa al prototipo, cioè a Dio. Questo argomento capitale è riformulato decine di volte, e sempre rigettato dagli iconoclasti: tuttavia, ponendo la questione in termini di rapporto fra prototipo e copia (= l’icona), sposta fatalmente l’attenzione sul tramite fra i due, l’artista che deve in qualche modo copiare il prototipo. Questo punto è cosí delicato che è difficile trovarne formulazioni esplicite: ma non poteva essere evitato. Le risposte che ne furono tentate si muovono in due direzioni solo in apparenza diverse: la prima (che ha radici sicuramente anteriori all’età iconoclastica) è il tentativo di individuare, costruendo tradizioni fittizie, icone achiropite (¥ceiropoi »toi), cioè non dipinte dalla mano dell’uomo, ma dove l’immagine divina è rimasta miracolosamente impressa nella materia9. Il tramite umano è cosí eliminato: cancellata l’incognita della fallibilità dell’artista, l’icona deve somigliare al prototipo.
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La seconda risposta si trova formulata con ogni chiarezza negli Atti del II Concilio di Nicea, che ristabilí per sempre l’adorazione delle immagini: «Non est imaginum structura pictorum inventio, sed ecclesiae catholicae probata legislatio et traditio [...] consilium et traditio ista non est pictoris (eius enim sola ars est), verum ordinatio et dispositio patrum sanctorum»10. Al pittore spetta sola ars, alla Chiesa, per le tradizioni che risalgono ai santi padri, spetta la structura delle icone, cioè la loro ordinatio et dispositio, la loro iconografia. Il problema della somiglianza a un vero ultrasensibile è cosí risolto spostandolo all’indietro, e celandolo dietro il suggello indiscutibile dell’autorità della Chiesa, come custode della tradizione e come gerarchia operante11. Nessuna di queste risposte, e delle metafore di cui a volte sono nutrite, si potrebbe spiegare senza la viva presenza della cultura classica. Dietro alla formula «dal prototipo alla copia» c’è in primo luogo l’esperienza degli scriptoria monastici, e il problema della fedeltà all’esemplare da copiare, ma certo anche, su un piano piú propriamente iconografico, la coscienza di una pratica del copiare i nobilia opera dei maestri, di cui statue e testi erano e sono testimonianza ricorrente. D’altra parte, la distinzione cosí rigida fra il pittore (cui spetta solo l’ars, cioè la tecnica) e il committente ecclesiastico, cui spetta interamente l’inventio iconografica, che è però tutta nella tradizione, non solo rispecchia un’abitudine corrente, ma presuppone l’esistenza reale di una tradizione iconografica che si era modellata espressamente sull’ultima arte imperiale romana, adattandone i moduli ai nuovi temi cristiani12. La forza delle immagini è in ciò che sanno suggerire senza dirlo; con le parole di Erasmo, «spesso vediamo nelle figure molto piú di quanto non possiamo comprendere dalle cose scritte»13. E perciò, di fronte a un’arte che aveva radicalmente rielaborato formule e stili in
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funzione della propaganda imperiale14, solo un’attitudine apertamente ostile poteva condurre a guardare dentro le iconografie, «smontandole» e domandandosene il perché: perciò troviamo il piú completo repertorio di temi e schemi dell’iconografia imperiale antica nell’orazione di san Gregorio di Nazianzo contro Giuliano l’Apostata. «Gli imperatori non amano solo la realtà delle imprese di cui vanno fieri, ma anche la loro rappresentazione; cosí vogliono essere venerati di piú, e in modo piú perfetto»15. Il contrasto fra pagani e cristiani, e il problema del culto delle immagini imperiali, aveva dunque portato alla coscienza il carattere propagandistico dell’arte imperiale, mettendo in evidenza dietro le figure (schemi e temi) il rapporto sociale fortemente gerarchizzato che esse servivano a mediare. Ma il nuovo Impero cristiano aveva, già con Costantino, tagliato alla radice ogni ostilità contro il culto ai sovrani: «eguale agli Apostoli» e difensore della fede, l’imperatore poteva continuare a ricevere, attraverso i suoi ritratti, pubbliche, rituali testimonianze di lealtà e devozione. È di grande importanza che l’iconoclastia si sia rivolta solo contro le immagini sacre, mentre si continuavano a dipingere i ritratti imperiali e temi profani come scene di circo e di caccia, certo organizzate intorno alla figura del principe16. La deduzione che gli imperatori iconoclasti combattevano le immagini sacre per dare alla loro propaganda attraverso le figure un piú esclusivo rilievo può parere persino troppo ovvia, ma è certo almeno insufficiente. D’altra parte, i difensori delle immagini usano la venerazione ai ritratti imperiali come un argomento a loro favore: poiché anche in questo caso l’omaggio reso all’inerte materia raggiunge «in realtà» la viva persona del principe17. L’intenzione del suddito, o del fedele, è dunque il solo punto centrale: inginocchiandosi davanti al ritratto del suo sovrano, un mercante di Bisanzio può imma-
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ginarsi di compiere, con non minore rispetto, i gesti consacrati, nell’inaccessibile Palazzo, dal cerimoniale di corte; abbracciare l’immagine di un santo, della Vergine, di Cristo, è però allora pretendere di penetrare coi sensi e con la carne nella sfera del divino. Non una sorta di rozzo cesarismo può spiegare la lotta alle immagini sacre: ma invece un’attenzione acutissima, a cui i teologi porteranno argomenti e linguaggio, alla risposta dei sensi dell’osservatore di fronte all’immagine, a questo prodotto della techne umana. Ma la disparità di trattamento verso i temi dell’arte imperiale rende chiaro che si consuma proprio qui, per la prima volta, un totale divorzio fra arte sacra e arte profana. L’antica aspirazione verso la somiglianza al vero, che in un caso può dar merito all’artista, tranquillamente perpetuando tradizioni già dei principi pagani, nell’altro caso può essere blasfema, diventare idolatria. La distinzione fra sacro e profano disarticola il rapporto coi modelli antichi: e i dubbi sull’ortodossia non legano solo l’attività del pittore, ma specialmente i sensi dell’osservatore. La drammatica alternativa fra un’adoratio tutta amplectibilis e l’austero rifiuto di ogni tramite sensibile fra l’uomo e Dio poteva naturalmente essere evitata. L’attribuzione di un’attività di pittore a san Luca Evangelista è su questa linea: come poteva essersi discostato dal vero nel dipingere la Vergine l’ispirato autore di un Vangelo? Mettendo in parallelo, attraverso la figura bifronte di san Luca, testo e immagine, si riprendeva in mano un argomento già dibattuto in antico, e certo uno dei piú ricorrenti nella trama della cultura occidentale: ut pictura poësis. Misurandosi, dal Rinascimento in poi, coi problemi di un’arte che si volge a codificare il proprio status, la similitudine oraziana (Ars poetica, v. 361) ha finito col riferirsi ai gradi e alle forme dell’imitazione della natura, tracciando fra pittura e poesia una linea
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ora di parentela ora invece di confine, e assumendo talora il carattere di una disputa sulla superiorità di una delle due arti sull’altra18. Ma quando la Chiesa doveva interrogare se stessa sull’uso delle immagini confrontandosi con la religione pagana, il paragone fra l’immagine e la parola scritta doveva essere giocato interamente al livello del significato. Il locus classicus è una lettera di san Gregorio Magno scritta nell’ottobre dell’anno 600 al vescovo Sereno di Marsiglia: è dunque con la piena autorità di un papa che viene proclamato il principio che «praecipue gentibus pro lectione pictura est»: poiché la pittura adempie per gli ignoranti la stessa funzione che ha la scrittura per chi sa leggere; nella pittura gli ignoranti vedono gli esempi da seguire, in essa leggono coloro che non sanno leggere; e le immagini sono state poste nelle chiese non per essere adorate, ma solo ed esclusivamente per istruire le menti degli indotti19.
Questo punto di vista fu naturalmente ripreso a Oriente dai partigiani delle immagini, specialmente da san Giovanni Damasceno20. Ma san Gregorio Magno traeva la sua dottrina sulle immagini dalla viva, secolare esperienza del mondo romano: raccontando la vita di un imperatore del iii secolo, Massimino il Trace, la Storia Augusta aveva riferito che egli, conclusa vittoriosamente la campagna di Germania, «comandò che le imprese di quella guerra fossero dipinte su alcune tavole, che furono appese davanti alla Curia, ut facta eius pictura loqueretur». Pictura loquitur: e infatti, dopo la sua morte, il Senato ordina che le tavole siano staccate dal muro e bruciate21. Ancora una volta, la distruzione di un’immagine e la piú evidente riprova del suo valore di immediato, parlante messaggio visivo. Perciò nei tribunali roma-
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ni gli oratori avevano imparato a tacere ogni tanto, riservando a immagini appositamente dipinte la mozione degli affetti del giudice: ritenendo «che una muta effigie possa parlare (locuturam) in loro favore piú di un’orazione», come scrive Quintiliano22. Piú articolata e ricca dell’epistola di san Gregorio Magno è una formulazione del II Concilio di Nicea: vi si distinguono due diversi usi delle immagini, ad salutationem e ad memoriam; entrambi, si aggiunge, sono egualmente necessari23. In ambo i casi, il ponte fra l’osservatore e la figura sono i sensi, che consentono di riconoscere nella pittura l’exemplum da seguire: come per rispondere a chi aveva visto nel culto delle immagini un opus carnis apparentato alla lussuria, gli esempi citati sono la storia del casto Giuseppe e della continenza di Susanna; terzo, san Giovanni Battista che, vestito di pelli di cammello, mangia miele silvestre e indica col dito Cristo che soffre per i peccati del mondo. Guardando queste storie dipinte, il fedele non può che trarne ammaestramenti di continenza e penitenza; e tutti i santi, come il Battista, indicano col loro dito l’esempio massimo, il Cristo. Come accade, una crisi profonda ha costretto ciascuno dei contendenti a dare ai propri argomenti una formulazione piú cosciente ed esplicita. Opponendo con durezza e rigore sacro a profano, visibile a invisibile, pagano a cristiano, le controversie degli iconoclasti hanno dichiarato una frattura definitiva fra Oriente e Occidente. Al tempo stesso l’opposizione fra memoria e salutatio come funzioni (o fruizioni) alternative dell’immagine codifica con straordinaria lucidità i due poli di ogni possibile risposta emotiva dell’osservatore di fronte all’icona, descrivendoli in forme altamente ritualizzate. A sua volta, quest’opposizione è fondata su un’altra, quella fra immagine rappresentativa (a cui spetta la salutatio) e immagine narrativa (a cui spetta la memoria)
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e in definitiva coinvolge due diverse dimensioni del tempo dell’osservatore, che è puntuale rispetto all’icona da salutare, mentre, di fronte a un’immagine in cui recuperare (leggere) la memoria di eventi, di testi sacri, deve distendersi – vagando l’occhio sulla pittura – in un percorso lineare.
2. «Secundum typicam figuram». La geografia sacra ignora il paesaggio e rifiuta la storia. La trama di valli e monti e fiumi, il valico e il ponte, la nave che attraversa il mare le appaiono soprattutto come punti che si legano l’un l’altro lungo la linea di un itinerario verso il santuario. Le città, i castelli possono essere punti di riferimento, di sosta: ma una mappa che dia l’esatto rilievo del terreno non solo è impossibile «tecnicamente», ma non è neppure desiderabile. Che importa quanto è largo il fiume? A malapena si contano le giornate di cammino. In un percorso altamente finalizzato, come quello verso Roma o Santiago di Compostella, i nodi dell’itinerario sembrano tenuti insieme, prima che dall’organizzazione delle strade e delle attese, da una tensione individuale del viaggiatore, che si muove soprattutto verso un incontro privilegiato col sacro, ricercando la propria salvezza. Esaltato nel pellegrinaggio collettivo, che corrisponde alle festività, e poi alle indulgenze e al giubileo, questo percorso ha sempre, anche quando sia compiuto da uno solo, una sua dimensione in qualche modo corale: ripetere la strada di altri (di altri prima, di altri dopo) è confondere la propria sorte, la propria speranza, con quella di tutti. Ugualmente, dentro le grandi città sacre (Roma come Gerusalemme), le guide ingiungevano di visitare quei venti luoghi di apparizioni, di miracoli: come ignorando l’intera tessitura della
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città, con tutta la sua vita, passioni e dolori, per inventare una topografia artificiosa, radissima, quasi una rete che si sovrapponga alla città reale, segnandola qua e là di nodi, di luoghi: coi paraocchi del sacro. E tuttavia, questa geografia sacra che sembra distruggere e contraddire la vera ha una sua verità; poiché peregrinus non e solo chi si muova «fuori dalla patria sua» (Dante), ma ogni cristiano, per definizione straniero nel mondo, secondo la sorte già prefigurata dalle parole di Dio ad Abramo: «egredere de terra tua [...] et veni in terram, quam monstrabo tibi» (Genesi 12.1).Perciò in questa assidua ricerca della salvezza il luogo dove il pellegrino incontra il sacro è per sua natura indefinibile; irrilevante ne è la storia reale. Importa che la tradizione ne affermi autorevolmente la sacralità, e come una piú intensa presenza del divino24, che s’appoggia poi sempre – senza che occorra, mai, verificarle – a storie di fondazione, a episodi della biografia del Cristo o di un santo. La fede nell’onnipresenza di un Dio che è fuori dello spazio e del tempo si unisce cosí, paradossalmente, alla ricerca di un contatto privilegiato con lui nel luogo di un evento sacro. Poco importa che la scelta del luogo e/o dell’evento possa essere piú o meno arbitraria: la funzione del santuario è interamente esplicata per il solo fatto che i pellegrini vi accorrono. Cosí questo condensarsi del sacro in alcuni punti privilegiati contribuisce in modo determinante a dare dimensioni e «tecniche» collettive alla devozione; e se è la somma dei pellegrini a far sacro un certo luogo, a livello individuale la fede nell’efficacia del proprio incontro col divino si fonda in parte proprio nel percorso compiuto per raggiungerlo: sul suo tempo, la sua fatica, le sue emozioni. Monte Mario, punto di arrivo dei romei dal Nord, diventa cosí Mons Gaudii; e la gioia di chi ha raggiunto la città sacra prefigura il gaudio perpetuo di chi entrerà, non piú peregrinus, nella Gerusalemme celeste.
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Come il pellegrinaggio alla vita in patria, cosí il giorno festivo si contrappone al tempo del lavoro: e il piccolo pellegrinaggio che è entrare nella chiesa della città o del villaggio non è solo una pausa, ma proprio l’ingresso in una dimensione pensata e caratterizzata come «diversa». Poiché, se la città coronata di torri, da cui la cattedrale emerge e si confronta col palazzo del Signore o del Comune, è spesso vista come immagine della Città di Dio, piú frequente e vivo è il contrasto fra le opere del mondo e la pratica della pietà. Come luogo deputato all’esercizio collettivo della devozione, la chiesa – per le reliquie che accoglie, i suoi piccoli grandi tesori, la forma architettonica... – non è solo il teatro di cerimonie e riti, ma deve offrire un’immagine del tempo di Dio che si contrapponga e insieme si integri al tempo dell’uomo nella sua vita d’ogni giorno. Cosí la salutatio che il fedele rivolge alle reliquie e alle immagini – come in un incontro puntuale, che anche solo il suono della campana può destare – non è che un aspetto del suo rapporto con la chiesa; la quale si presenta soprattutto come un luogo di memoria. Ricordando come una scoperta del greco Simonide il principio che il piú acuto dei nostri sensi è la vista, Cicerone mostra quanto profonde siano le radici della persuasione che le immagini possono sulla memoria piú delle parole; e perciò, aggiunge, ogni discorso ascoltato con le orecchie piú facilmente ci resta nell’animo, se lo raggiunge anche attraverso gli occhi. Su questa semplice osservazione è fondata tutta l’antica sapienza intorno alla memoria, e le mnemotecniche che ne sono nate25. L’autore della Rhetorica ad Herennium insiste sulla necessità di «aiutare la memoria suscitando urti emozionali» (Yates), ancorando saldamente ciò che si vuol ricordare a immagini impressionanti e insolite; poiché, afferma, sfugge insensibilmente alla nostra memoria ciò
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che piú somiglia alla nostra vita quotidiana; piú fermo vi resta ciò che è «egregie turpe, inhonestum, inusitatum, magnum, incredibile, ridiculum» (3.22). Tutta l’«arte della memoria» antica è diretta all’educazione di una memoria artificiale che in primo luogo àncora le cose da ricordare a dei signa, come li chiama Quintiliano – che suggerisce specialmente imagines vel simulacra -, e in secondo luogo dispone i signa in luoghi di memoria quae vel finguntur vel sumuntur, cioè si prendono dal vero o si immaginano, in ambo i casi tenendoli a mente (Institutio oratoria XI, 2, 19.21). Queste immagini collocate in luoghi reali o fittizi sono dunque «casellari» immaginati per incatenarvi ciò che dobbiamo ricordare. Tuttavia le statue e i portici che gli antichi trattati di mnemotecnica invitavano a piantarsi saldamente nella memoria somigliano un po’ troppo alle statue e ai portici di marmo attraverso i quali i loro allievi e i loro lettori dovevano muoversi. Se la piú antica arte della memoria, che forse Simonide di Ceo aveva per primo tentato di codificare al principio del v secolo a. C., si è installata nella trama dei monumenti urbani, è perché essi erano stati destinati, in modo sempre piú consapevole, ad accogliere statue e pitture e rilievi che – per la loro collocazione e le relazioni reciproche – dovevano costringere il passante a ricordare gli eventi, mitici o storici, della sua città e piú tardi dell’Impero e della famiglia del principe. La Rhetorica ad Herennium – ritenuta opera di Cicerone, e strettamente collegata al trattato, autentico, De inventione – è alla base delle speculazioni medievali sull’arte della memoria, come la Yates ha mostrato benissimo. Sant’Alberto Magno e san Tommaso d’Aquino, che sono i massimi autori dell’ars memorativa medievale, si basano su questo testo, rendendo del tutto evidente lo spostamento del fulcro della memoria artificiale dalla retorica all’etica. La memoria è parte della virtú
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della prudenza, e volendo ritenere soprattutto «le cose che riguardavano salvezza o dannazione, articoli di fede, vie che portavano al cielo attraverso virtú, o all’inferno attraverso vizi», deve esercitarsi prevalentemente in luoghi «solenni e rari». E allora, certo, «il miglior tipo di edificio in cui formare luoghi di memoria potrebbe essere una chiesa» (Yates). Ancora una volta, la memoria artificiale colloca i propri archivi in edifici già esistenti, e già destinati a uno scopo almeno in parte analogo. Un filo – che Frances A. Yates ha tratto dall’oblio – lega l’ars memorativa di Alberto Magno e Tommaso alle mnemotecniche dell’antichità pagana; un altro filo, la decorazione per figure di edifizi antichi alla decorazione per figure delle chiese medievali. E i due fili sono strettamente intrecciati fra loro, e cementati da due principî comuni e complementari: che la vista è il senso dominante, e che per meglio ricordare (o far ricordare) occorre inventare (o far dipingere, scolpire) figure che fissino, convoglino, impongano il ricordo. Uova di struzzo, meteoriti, corna di unicorno, artigli di grifone, zanne di mammuth, coccodrilli impagliati erano, e qualche volta sono ancora, sospesi, offerti alla meraviglia nelle chiese medievali26, quasi «precursori» di un «museo di storia naturale». Qui, i fedeli possono dunque trovare le cose curiose e rare che le loro case non hanno, che rimandano a bestie favolose o remote; e trarne, se non insegnamento, almeno meraviglia. Quando è possibile, si allineano dentro o attorno alla chiesa, o addirittura vi vengono murate, sculture antiche: sarcofagi, capitelli, architravi, teste e busti romani si confondono cosí con le mura, le sculture medievali27. La chiesa è dunque intesa come luogo di raccolta dello scibile umano, che riproduce nel suo spazio ridotto la varietà e la ricchezza del mondo «di fuori»; la storia naturale e la storia profana sono assunte nel quadro
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della storia sacra. E la vana curiositas per la natura, deplorata da sant’Agostino, può essere recuperata se le nozioni e i «fatti» vengono trasportati su un piano propriamente etico: come gli animali del Physiologus e dei tanti Bestiarii che ne sono derivati, cosí anche le stranezze esposte nelle chiese diventano il punto di partenza di un’interpretazione morale. Perché le uova di struzzo? Perché, risponderà Guillaume Durand nel Rationale (c. 1295), lo struzzo è smemorato, lascia le uova dimenticandosi di covarle, finché la vista di una stella glielo ricorda, e allora torna, e le cova con lo sguardo. Cosí è l’uomo, che illuminato da Dio si pente dei peccati, torna da lui e viene riscaldato dal suo sguardo; come Luca racconta che bastò lo sguardo di Cristo a far pentire Pietro di averlo tradito: «e pianse amaramente» (22.61-62)28.
I mirabilia si fanno exempla; ed è lo sguardo del fedele sull’uovo di struzzo sospeso nella chiesa che può condurlo al pentimento, alla salvezza. Per farsi cornice visibile a una concezione del mondo che riporti ogni cosa al problema – individuale e collettivo – della salvezza, la chiesa ha bisogno prima di tutto di distinguersi da ogni altro edifizio per la forma, e la collocazione nel tessuto urbano; in secondo luogo di essere decorata d’immagini «in ornamentis ecclesiae et memoria rerum gestarum»29. Perché queste litterae laicorum possano raggiungere efficacemente il loro pubblico secondo l’insegnamento di san Gregorio Magno, occorre che rispecchino fedelmente la dottrina della Chiesa, e che i pittori vi si attengano ripetendo gli schemi già consacrati. Perciò l’opera del pittore sarà soltanto «secundum typicam figuram desuper oleum, fundere»30. La straordinaria uniformità dell’iconografia religiosa non deriva dall’emanazione di precise norme cogenti
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(come quelle che venivano promulgate per fissare i riti), né da codificazioni «ufficiali». E tuttavia l’iconografia non è soltanto una scienza costruita a posteriori dal gran bagaglio delle immagini tramandate, mettendo ordine negli attributi e nelle formule dei temi e degli eventi, come gli epiteti di un fiume e le gesta di un eroe possono trovarsi, spezzando in parole il linguaggio del poeta, in un lessico di Omero. La costante dipendenza dei pittori, degli scultori, da committenti ecclesiastici o sotto il controllo di membri del clero, assicurando l’intenzione didascalica degli ornamenta ecclesiae, spiega come, pur all’interno di una grandissima varietà di temi e schemi fra i quali è possibile scegliere, le immagini di Cristo e dei santi si atteggino sempre secundum typicam figuram. Alla circolazione di questi typi non pensano soltanto gli artisti, imparando da altri o da album di modelli; ma anche i committenti, che vogliono la storia comprensibile ai laici, gli illetterati.
3. «Litterae laicorum». Talvolta un portale, una facciata, un’intera chiesa presentano un senso simbolico assolutamente estraneo al culto, o addirittura ostile alla Chiesa [...]. Nel Medio Evo il pensiero scritto nella pietra, il libro architettonico, ha un privilegio che si può paragonare da vicino alla nostra libertà di stampa: è la «libertà di architettura» (Victor Hugo, 1832)31.
Questo modo di guardare alle sculture medievali è stato decisivo per il graduale ritorno allo studio del patrimonio decorativo delle cattedrali che si dispiega nel secolo xix: e tuttavia è interamente falso. Il protiro del Duomo di Cremona, dove le sculture dell’architrave sono dominate dall’immobile figura del vescovo Sicar-
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do32, sembra condensare, in un’immagine colma di silenziosa autorità, l’influenza del presule sugli ornamenti della sua cattedrale. Sicardo (c. 1155-1215), vescovo di Cremona dal 1185 alla morte, è uno dei pochissimi che abbia lasciato nei suoi scritti una testimonianza puntuale del suo interesse per le immagini: poiché una parte importante del suo trattato di liturgia, il Mitralis, è dedicata alla decorazione delle chiese, con accentuata attenzione per le sculture33. Esse, ci spiega, si fanno non solo come ornatus ecclesiarum, ma anche perché sono litterae laicorum, e ciò in quanto servono a rammemorare le cose passate (le storie e le visioni), e a fornire indicazioni su quelle presenti (le virtú e i vizi) e le future (le pene e i premi) (Patrologia Latina CCXIII 40a-b).
Sembrano qui condensati, per tratti larghissimi, i sistemi decorativi di ogni edificio sacro: storie bibliche, visiones come l’albero di Jesse o l’Apocalisse, Virtú e Vizi, l’Inferno e il Paradiso. Ma perché – qui e spesso altrove – tanta insistenza sulla memoria? Sollecita del bene spirituale del suo popolo, la Chiesa sembra temere che i fedeli possano dimenticare le grandi verità della fede. Avverte, forse, il divorzio fra i ritmi della vita quotidiana, dei suoi problemi elementari – il lavoro, il cibo, la malattia – e la sua proiezione verso la vita eterna. Fra una dimensione che appare contingente, ma è la sola a essere sperimentata nella propria carne ogni giorno, e un aldilà che condiziona l’uomo senza mostrarglisi, la distanza è la stessa che fra le povere case di tutti e le grandi cattedrali di pietra; ed è una distanza che solo una continua rammemorazione del sacro – per come si è rivelato, nel passato e nel futuro – può recuperare. Appellandosi ai sensi, le immagini servono a questo meglio delle parole.
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Già accostandosi alla chiesa il fedele deve cogliere immediatamente il salto fra il mondo e lo spazio sacro: non solo l’architettura, ma anche la decorazione scultorea della facciata, e specialmente della porta d’ingresso gli parleranno in questo senso. Sicardo di Cremona (c. 21 b) dichiara senz’altro che la porta della Chiesa è Cristo, appoggiandosi a un passo del Vangelo di Giovanni: «Ego sum ostium. Per me si quis introierit salvabitur» (10.9); perciò, la porta della Chiesa è in pari tempo porta coeli34. L’architrave, il timpano, e talora un piú complesso protiro sono spesso organizzati intorno a quest’idea-base; piú di rado, anche le valve della porta entrano nello stesso discorso. Due porte bronzee di Bonanno Pisano – quella di Monreale, datata 1186 e quella di Pisa, probabilmente piú tarda (cfr. schemi 1 e 2) – dispiegano un programma iconografico strettamente affine, eppure ben diversamente articolato35. La direzione di lettura è in entrambi i casi la stessa, e s’intende a porta chiusa: dalla prima formella in basso a sinistra procede, come lungo una linea iscritta, per le quattro formelle del primo ordine, e poi ancora da sinistra a destra in tutti i successivi, fino all’ultimo. Ma la porta di Monreale è molto piú grande, e ha dato spazio a un ciclo assai piú vasto: i cinque ordini inferiori vi sono dedicati al Vecchio Testamento, i cinque superiori al Nuovo; mentre a Pisa le formelle, disposte in cinque soli ordini, sono interamente dedicate alle storie di Cristo. Tuttavia la necessità di offrire uno sguardo complessivo sulla storia sacra, centrata sulla vita di Gesú, è ugualmente soddisfatta: a Monreale, su venti formelle del Vecchio Testamento, sette sono dedicate alla storia di Adamo ed Eva, e altre sei ad altrettante coppie di profeti; a Pisa, dodici profeti in un Paradiso di palme occupano la fascia inferiore della porta, richiamando con la loro sola presenza tutta la tensione del Vecchio Patto verso la venuta del Messia; e il Pec-
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Pisa, Duomo, Porta di San Ranieri.
Monreale, Porta del Duomo.
Schemi 1 e 2. Le Porte di Bonanno Pisano. I temi della decorazione: I-IV Animali.
O P
A B
Creazione di Adamo. Creazione di Eva.
C
12
Entrata a Gerusalemme.
Giacobbe. Q-V Dodici Profeti.
13 14
Lavanda dei piedi. Ultima Cena.
1 2 3
Annunciazione. Visitazione. Natività.
15 16
Il bacio di Giuda. Crocifissione.
D
Adamo ed Eva neLl’Eden. Il Peccato Originale.
E F
La condanna. La sottomissione
4 5
I Magi. Presentazione
G H I L
della donna all'uomo. La maternità di Eva. Caino e Abele. Il fratricidio. L’arca di Noè.
6 7 8 9
Tempio. Fuga in Egitto. Strage degli Innocenti. Battesimo. Tentazione.
M N
Noè pianta la vigna. Abramo e i tre angeli.
10 11
Il sacrificio di Isacco. Abramo, Isacco,
al
Trasfigurazione. Resurrezione di Lazzaro.
17 18 18a 18b 19 20
Discesa al Limbo. Resurrezione. Noli me tangere. Emmaus. Ascensione. Dormizione della Vergine. 21 Cristo in gloria. 22 Maria in gloria.
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cato Originale è rammemorato da una sequenza di svelte figurine ospitata – senza alcun nesso narrativo – sotto un colle varcato dai Magi a cavallo. Al sommo delle due porte – anche se in posizione invertita – i temi che concludono i due programmi sono gli stessi: Cristo e Maria nella gloria del Paradiso. Le due serie di storie evangeliche differiscono prima di tutto nello spostamento di due scene. A Monreale la Presentazione al Tempio viene dopo la coppia Strage degli Innocenti – Fuga in Egitto: ma la Strage e la Fuga sono solo in san Matteo, la Presentazione solo in san Luca; perciò l’ordine dei fatti era «libero», e poteva essere allo stesso artista da diversi committenti diversamente suggerito. Piú difficile è spiegare perché a Monreale la Trasfigurazione venga dopo l’Entrata in Gerusalemme, mentre i sinottici concordano nel porla prima (la Resurrezione di Lazzaro, che è solo in san Giovanni, può essere collocata piú «liberamente»): probabilmente la formella è stata montata nel posto sbagliato. A una diversa organizzazione del discorso corrispondono invece le differenze nei due ultimi registri. A Pisa l’Ultima Cena si espande nella Lavanda dei piedi, e soprattutto l’Ascensione è affiancata dalla Dormizione della Vergine, con una piú rigorosa coerenza con le fasce terminali delle valve, dove la gloria di Gesú si accompagna alla gloria della Madre. A Monreale, queste due scene (nn. 13 e 20 negli schemi 1 e 2) mancano; il Noli me tangere e l’Incontro di Emmaus (nn. 18a-18b), che ne prendono il posto, collocandosi fra le Donne al Sepolcro e l’Ascensione, arricchiscono la narrazione dei fatti dopo la Resurrezione, con un carattere piú marcatamente «cristocentrico», che non può essere scelta di un Bonannoteologo, ma deve corrispondere a un’indicazione del committente. Egualmente, in un’orazione o in uno scritto di pietà, alcuni episodi del Vangelo possono essere additati all’attenzione dei fedeli, preferendoli ad altri.
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Queste differenze nel programma sono tanto piú significative quanto maggiori sono, nelle scene comuni alle due porte, le coincidenze di schema iconografico: poiché il committente indica sempre i temi da rappresentare, e le loro reciproche relazioni in un programma; mentre la scelta degli schemi – quando non implichi spostamenti di significato di una qualche rilevanza teologica – è piú facilmente lasciata all’artista. Non possiamo confrontare la citazione «compendiaria» del Peccato Originale nella porta di Pisa alla piú distesa narrazione di Monreale: pure, dalla sola scelta delle scenette pisane, ne risulterà per contrasto piú evidente, a Monreale, l’attenzione sul tema del Lavoro dei Progenitori; è infatti l’angelo stesso che, brandendo nella destra la spada fiammeggiante, porge la vanga ad Adamo ed Eva vestiti, come vuole il Genesi (3.21), di tunicae pelliceae. Ma nella scena successiva i Progenitori hanno abbandonato quest’abito primitivo, e già indossano normali vesti cinte alla vita: «Eva serve a Ada(m)» portandogli da mangiare mentre lavora i campi – proclama la scritta in volgare; e quando «Eva ienui(t) Cain Abel», e allatta uno dei due figli, Adamo tiene in braccio l’altro. Cosí il racconto biblico viene arricchito, seguendo del resto la tradizione bizantina, di particolari come «di vita quotidiana»: ma se la donna che porta il cibo al marito in campagna era (ed è) comune esperienza contadina, la nascita di Caino e Abele ripete, con poche varianti, lo schema iconografico di una Natività, proponendosene come «figura», per antifrasi. Ave, il saluto dell’angelo, non è che il nome di Eva letto al contrario: e Maria, partorendo il Redentore, riscatta la colpa di Eva e sconfigge il Serpente: «per feminam peccatum oritur, per feminam eradicatur» (sant’Agostino)36. La scena dell’Annunciazione è rappresentata nelle due porte con iconografia identica, e pure a Pisa drammatizzata da un piú tagliente panneggio, dai volti, dai
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gesti come piú tesi; dalla stessa architettura che di sfondo si fa baldacchino, staccandosi dal supporto come l’alberello tortile che segue in parte la scritta. La stessa tendenza è ancor piú evidente nella Strage degli Innocenti, che a Pisa si anima nel braccio del carnefice levato a colpire, nei corpi mutilati dei bimbi; nello stesso piú disinvolto atteggiarsi di Erode, con una gamba a cavalcioni. Ma almeno una volta Bonanno adotta a Monreale uno schema piú drammatico: è nell’Ultima Cena, dove alla figura di Cristo non solo si appoggia san Giovanni, ma tende anche, quasi gettandosi sul tavolo, Giuda che sta per rivelarsi traditore. Cosí la tendenza a forme piú altamente drammatiche – che non può essere da sola né criterio di priorità di una porta sull’altra né indizio di un’evoluzione nel fare di Bonanno – indica, proprio perché emerge di quando in quando, come un piú gratuito spazio dell’artista, che, richiesto di ripetere lo stesso racconto, può tuttavia sceglierne il momento, e far battere l’accento sull’una o sull’altra figura. Ma una cosí ricca decorazione della porta è privilegio rarissimo. Assai piú spesso, una semplice porta lignea segna l’ingresso alla chiesa; e tutt’intorno a essa, sulla facciata, – ma naturalmente non solo qui – si dispongono, e qualche volta si affollano, animali e mostri d’ogni genere. È certo vano cercare per ognuno di essi un preciso significato, e volerne costruire come una nascosta grammatica di simboli; altrettanto vano è pretendere di liquidare in blocco il gran bestiario delle cattedrali come mera decorazione. Come sempre, si dovrà invece distinguere l’introduzione di un tema o di un motivo (di solito piú consapevole e ricca di significato) dalla successiva tradizione, che può essere soltanto ripetitiva. Un architrave della Pieve di San Giovanni a Campiglia Marittima rappresenta un tema classico, «Meleagro che caccia il cinghiale», ma non è – come si è invece creduto – un sarcofago antico, bensí una «copia» medie-
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vale37. Qui, l’imitazione dell’antico fa risaltare innanzitutto il valore ornamentale del rilievo: ma se lo mettiamo in serie con le altre, numerose cacce al cinghiale che decorano chiese medievali, forse non riusciremo a spiegarle piú né come «instantanee» delle cacce realmente compiute né – quando il cacciatore sia Meleagro – come ricordi di un mito antico. L’introduzione della caccia al cinghiale nel repertorio ornamentale delle chiese si deve probabilmente piuttosto al salmo 79.14 «exterminavit vineam aper de silva». Il cinghiale che irrompe nella vigna del Signore è il diavolo; il cacciatore che lo abbatte, dunque, Cristo o un fedele, secondo l’invocazione del salmista: «respice de caelo, et vide, et visita vineam istam, quam plantavit dextera tua». Il costruttore della Pieve di Campiglia può aver cercato, nella caccia di Meleagro, un modo piú elegante e complesso di esprimere la stessa idea. La lotta, violenta, fra uomini e bestie ricorre con straordinaria frequenza nelle chiese: il combattimento col leone è probabilmente al primo posto. Anche qui, l’esistenza di modelli antichi e le moltissime variazioni del tema sembrano a prima vista indicarlo come solo decorativo: ma in un esempio precoce e illustre, sulla facciata del Duomo di Pisa, una iscrizione assicura il rapporto diretto e pienamente consapevole col salmo 21.22 Salva me de ore leonis et a cornibus unicornium humilitatem meam. Come l’uomo è inseguito dal leone, o un animale mansueto (per esempio il cervo) rincorso o ucciso da bestie feroci, come la vigna è devastata dal cinghiale, cosí è il fedele nel mondo: assediato dalle proprie passioni e dalle tentazioni del diavolo, solo nella chiesa può trovare rifugio; e la chiesa materiale è «figura» della Chiesa spirituale. Questa sembra essere l’idea di base dalla quale centinaia di bestie sono germogliate, inerpicandosi per portali e capitelli, distendendosi nei pavimenti con una varietà che, certo, si fa naturale esube-
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ranza «decorativa», e nello stesso contorcersi e intrecciarsi di bestie selvagge o domestiche, di cacciatori e d’inseguiti, di sirene e di unicorni, segna come la prepotente irruzione nello spazio della chiesa di un mondo demonico che vuol farsi sensibile. Molto piú che le scene – sacre o profane – giocate dagli uomini, questi grovigli di bestie e mostri, pure all’interno di un senso generale, sfuggono spesso a spiegazioni precise. I due leoni del pulpito di Barga esprimono bene questa difficoltà e spesso ambiguità di significato: quello di destra sovrasta un uomo che gli immerge in corpo un pugnale, e che possiamo immaginare rivolga al Signore l’invocazione del salmista; quello di sinistra è in lotta con un drago, simbolo costante del demonio, e sembrerebbe quindi rappresentare una forza «positiva». È inutile cercare nei testi spiegazioni onnivalenti, dato che nel solo Sicardo possiamo trovare insieme le due interpretazioni: il leone è Cristo, il leone è il demonio38. È piuttosto la funzione di questi leoni, a reggere le colonne di un pulpito, che sembra dare a entrambi un significato parimenti demonico, echeggiando il salmo 90.13 Super aspidem et basiliscum ambulabis: et conculcabis leonem et draconem. Le storie di Cristo e i simboli degli evangelisti nel pergamo, e il sacerdote che vi salirà «conculcano» entrambi i leoni-demoni; e la lotta di uno di essi col drago può indicare il disordine e la divisione delle forze del male. Solo il contesto in cui bestie e mostri sono inseriti può dunque dare (e certo non sempre) la giusta chiave di lettura. Nel contemporaneo pergamo di Volterra, il significato di queste fiere reggicolonne si fa piú dichiarato: una di esse, rievocando nella mostruosa figura di toro androprosopo l’antico dio-fiume Acheloo non poteva non richiamare, col suo volto «gorgonico» contratto e cornuto, l’immagine familiare del diavolo. «Ingrediens templum, refer ad sublimia vultum»,
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ammonisce l’iscrizione di un portale francese39, rendendo esplicito, per una volta, con le parole ciò che ogni altro portale dice con le sue sculture. E al momento di entrare nella chiesa, il fedele è spesso accolto da figure che gli offrono, componendosi variamente, un’immagine dell’adventus del Cristo, che segna dunque al tempo stesso l’ingresso nella chiesa e l’inizio dell’anno liturgico. I teologi distinguevano un adventus in humilitate (che poteva essere reso dall’Annunciazione o dalla Nascita), da un adventus in maiestate, a cui possono corrispondere la Resurrezione, l’Ascensione, la Visione apocalittica e il Giudizio Finale; la memoria o la speranza di essi, nel rito della Messa come nella decorazione della chiesa, doveva provocare nel fedele l’adventus in mente40. Nel protiro del Duomo di Ferrara, eseguito in due tempi fra il 1135 e il principio del Trecento, si sovrappongono e si mescolano, senza contrasto, due differenti serie tematiche; e come nel pulpito di Barga, ai leoni si affiancano, a sostenere il peso, dei telamoni. La lunetta è riempita dalla figura del santo titolare della chiesa cattedrale, san Giorgio, mostrato, secondo un’iconografia che non conosce tramonto, mentre trafigge il drago: la lotta dell’uomo contro il demonio, trasportata in una dimensione di cavalleresca eleganza, viene cosí recitata da un protagonista a cui non può mancare la vittoria; e la sconfitta del male è garantita. Sull’architrave, otto arcatelle, che sembrano ripetere la fronte di un sarcofago antico, accolgono alcuni episodi della vita di Gesú, che corrispondono, non certo a caso, ad altrettanti momenti in cui la sua divinità viene rivelata. La Visitazione di santa Elisabetta, – che, piena di Spirito Santo, riconosce la divina presenza nel grembo di Maria: Luca 1.41-45 -; l’Adorazione dei pastori e poi dei Magi, – a cui la divinità del neonato è stata suggerita da un angelo e dalla stella: Luca 2.9 e Matteo 2.2 -; la Presentazione al Tempio, – quando il vecchio Simeone riconosce il Messia e recita il
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Nunc dimittis: Luca 2.25-35 -; la Fuga in Egitto – che Dio ha voluto perché si adempiesse la profezia di Osea: «Ex Aegypto vocavi filium meum» (Matteo 2.13-15) -; infine, il Battesimo, – quando lo Spirito discende su Gesú e lo dichiara figlio di Dio (Matteo 3.16-17) -. Manca in questa serie l’Annunciazione, che dovrebbe collocarsi all’inizio: e invece è rappresentata, con singolare rilievo, disponendo Maria a destra e Gabriele a sinistra nella strombatura del portale, subito accanto ai capitelli che reggono l’architrave; e sui cartigli che pendono dalle loro mani si leggono le parole evangeliche: «Ave Maria»; «Ecce ancilla domini». Altre quattro solenni figure, due per lato, reggono altrettanti cartigli: sono i Profeti Geremia, Daniele, Isaia ed Ezechiele, e proclamano la venuta del Redentore. Ma le parole che i cartigli-fumetti fanno pronunciare dalle loro bocche immobili non sono tratte dalla Bibbia. L’unica citazione letterale è infatti la frase di Isaia (7.4), spesso ripetuta come la piú esplicita fra le profezie: «Ecce virgo concipiet, et pariet filium, et vocabitur nomen eius Emmanuel». Resa ancor piú autorevole dalla citazione di san Matteo (1.23), questa frase è giunta tale e quale anche al portale di Ferrara. Sul cartiglio di Daniele, le parole del profeta sono invece stranamente precedute da una domanda: «Dic sancte Daniel de Christo quid nosti»; e la risposta è: «Cum venerit sanctus sanctorum cessabit unctio». Questa «botta e risposta», che ovviamente non si trova nella Bibbia, non può lasciare dubbi: i profeti di Ferrara recitano dalla pietra un dramma sacro. E il testo che Daniele solennemente dispiega nel suo cartiglio è ricopiato alla lettera da un sermone, falsamente attribuito a Sant’Agostino, che nel Medioevo era spesso recitato, in forma «drammatizzata», come sesta lezione dell’Ufficio di Natale41: è come una sfilata di profeti, interrogati dall’officiante a uno a uno, che declamano, contro la per-
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vicace incredulità dei giudei, la propria testimonianza sull’avvento del Redentore. Nello stesso sermone troviamo le parole di Isaia, come nella Bibbia e a Ferrara, e quelle di Daniele, che sono assai liberamente adattate da Daniele 9.24; dobbiamo perciò aspettarci che il cartiglio di Geremia, mutilato da un antico «restauro», recasse, dopo l’unica parola leggibile, Ecce, un testo analogo a quello pseudoagostiniano, e tratto, come quello, non da Geremia, ma da Baruch (3.36): «Hic est (o Ecce) Deus noster, et non aestimabitur alius absque illo (o adversus eum)». Il quarto profeta di Ferrara, Ezechiele, non c’è nel sermone In Natali Domini, ma compare in elaborazioni successive dello stesso testo42; le parole che dice: «Vidi portam in domo Domini clausam», adattate da Ezechiele (44.1-2), alludono (per una tradizione esegetica che comincia già dal commento di san Girolamo ad loc.: Patrologia Latina XXV 428) alla porta del Paradiso, chiusa ai profeti e ai fedeli del Vecchio Testamento, prima che la vicenda terrena del figlio di Dio la riaprisse, col suo sangue versato, all’uomo. Cosí la testimonianza di Ezechiele quasi si oppone alle altre, tutte «aperte» verso la Redenzione, rammemorando la condizione del Vecchio Patto, la Casa del Padre chiusa per tutti. Ma la porta in domo Domini è al tempo stesso la porta del Duomo (= Domus), della Casa del Signore: assimilata, perciò, al Paradiso; come ogni fedele che passa per quella porta finalmente aperta deve sapere dalla bocca dei profeti che la sua sorte può essere felice solo per la passione di Gesú. La porta della Chiesa è dunque porta coeli. Questo programma iconografico si conclude sull’arco, dove campeggia un Agnus Dei, affiancato da san Giovanni Battista (a destra) e san Giovanni Evangelista: è l’Evangelista, infatti, che narra la scena in cui il Battista saluta il Cristo: «Ecce Agnus Dei» (Giovanni 1.29).
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La Rivelazione è il tema del portale di Ferrara: l’ordine di lettura «storico» è dalle strombature (Profeti, Annunciazione) all’architrave (Visitazione à Battesimo) all’arco (i due Giovanni e l’Agnus Dei). La porta in domo Domini può ora aprirsi, perché il figlio di Dio si è fatto agnello: e san Giorgio che lotta col drago-demonio può contare – come ogni cristiano – sugli infiniti frutti dell’Incarnazione. L’insegnamento e la Passione di Gesú mancano interamente dal portale di Ferrara; e quando, quasi due secoli dopo, esso fu innalzato in un’alta edicola a frontone, il soggetto scelto a decorarla di sculture fu un altro adventus del Cristo, il Giudizio Universale. Attorno al Cristo in mandorla43 affiancato da angeli coi simboli della Passione e – come in una Crocifissione – da Maria e da Giovanni, si affollano nei pioventi del timpano apostoli e angeli con cartigli, a incoronarlo Rex tremendae maiestatis. Nei pennacchi degli archi ogivali, quattro morti risorgono dai loro avelli scoperchiati. Nel fregio continuo, i tre angeli al centro (due, che suonano le trombe del Giudizio; il terzo, san Michele che pesa sulla sua bilancia le anime e ne decide il destino) separano i dannati (alla sinistra del Cristo-giudice) dagli eletti. Nelle lunette adiacenti, alla destra di Cristo è il Paradiso, dove Abramo accoglie in grembo, solenne, le anime dei beati (Luca 16.2); a sinistra, uno scomposto Inferno. Cosí intorno alla porta della chiesa si organizza come tutto un sermone di pietra: e i due poli – la speranza della salvezza e il giudizio inesorabile – divisi nel tempo e nello stile, possono sovrapporsi senza contraddirsi, e comporre anzi un unico discorso. Un Giudizio Universale decora egualmente la facciata interna della chiesa di Sant’Angelo in Formis (non lontana da Capua, cfr. schemi 3 e 4), legandosi a un larghissimo ciclo d’affreschi (variamente datati fra la fine dell’xi secolo e il principio del xiii) che occupa le pareti delle tre navate e le absidi. Qui il Cristo in mandorla tro-
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Ferrara, Duomo. Sant’Angelo in Formis. Schemi 3 e 4. Il Giudizio Universale. 1 2 3 4 5 6
Cristo-giudice. Apostoli. Angeli. Angeli trombettieri. Angeli giudicanti. Reprobi.
7 Eletti. 8 Inferno. 9 Paradiso. 10 Resurrezione dei morti. 11 Angeli coi segni della Passione. 12-13 Maria e Giovanni.
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neggia al centro, espandendosi in due dei cinque registri in cui la composizione è divisa. Gli angeli trombettieri sono nel registro piú alto, ma anche qui – come a Ferrara – immediatamente al di sopra della Resurrezione dei morti, che escono con fatica da quattro sarcofagi strigilati: poiché è al suono di quelle tube che mortui resurgent incorrupti (I lettera ai Corinzi 15.52). Gli angeli del secondo registro, gli Apostoli seduti nel terzo fanno corte intorno al Giudice; e le sue sentenze sono espresse in cartigli dai tre angeli che stanno subito sopra la porta d’ingresso: alla destra di Cristo, «Venite benedicti patris mei, percipite regnum», e alla sinistra «Ite maledicti in ignem aeternum» (che sono citazioni «a memoria», leggermente modificate, di Matteo 25, 34.41); al centro la scritta piú lunga, della quale le sole parole leggibili («tempus amplius non erit») sono tolte dall’Apocalisse (10.6). Ai due lati, il quarto registro ospita gli eletti (alla destra del Cristo, alla destra di chi entra) e i dannati (a sinistra); ai due gruppi corrispondono, nell’ultimo registro, rispettivamente il Paradiso e l’Inferno44. Fra il Giudizio Finale di Sant’Angelo e quello di Ferrara corre una distanza di almeno un secolo e mezzo, ma anche la diversità del mezzo usato (la pittura a fresco, la scultura in pietra) e una profonda divergenza di stile e di tradizione culturale. La gotica edicola di Ferrara gareggia coi contemporanei esempi francesi, e a maestri francesi è stata attribuita; gli affreschi di Sant’Angelo sono di evidente matrice bizantina. Risalta dunque ancor di piú la sostanziale identità dei due programmi iconografici, che pure hanno dovuto adattarsi a due supporti cosí diversi, come una traforata e mossa edicola di protiro e la liscia facciata interna di una chiesa. Il confronto fra i due diagrammi mostra come l’ordine sia lo stesso: gli angeli e gli Apostoli ai lati del Cristo (a Ferrara sui pioventi del frontone), i giudicati al di sotto di Lui; il Paradiso e l’Inferno, a Sant’Angelo posti ancora piú sotto, a
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Ferrara sono messi in due lunette affiancate. Gli angeli «attivi», trombettieri e «giudicanti», sono a Ferrara riuniti sotto la mandorla (e la funzione di separare dannati da eletti affidata al solo san Michele con la bilancia), mentre a Sant’Angelo i quattro trombettieri riempiono gli spazi fra le finestre, e il posto di san Michele è preso dai tre angeli con cartigli dispiegati ad ammonire, piú che le anime giudicate, i fedeli che passano da quella porta. Questa distribuzione degli angeli ha portato la differenza di maggior rilievo: la Resurrezione della carne, dovendo stare in prossimità degli angeli tibicini, è in basso a Ferrara, in alto a Sant’Angelo. Come i tre angeli reggicartiglio equivalgono al san Michele pesa-anime di Ferrara, cosí il Paradiso-giardino di palme di Sant’Angelo equivale al grembo di Abramo: significanti alternativi di un medesimo significato. E dunque al di là delle differenze di stile e cronologia, due volte diversamente si articola uno stesso discorso: solo gli angeli e le figure di Maria e Giovanni ai lati del Redentore a Ferrara introducono, legittimando col ricordo della Passione premi e condanne, un tema sostanzialmente diverso, che fonde lo schema bizantino della Deesis (san Giovanni e la Madonna che intercedono presso il Cristo-giudice) con la presenza, tutta «occidentale», degli angeli coi segni della Passione45. L’adventus in majestate del Cristo può dunque, senza salti di significato, abbracciare la porta d’ingresso dentro o fuori della chiesa: guardando in alto, ad sublimia, l’insegnamento che ne ricaverà il fedele sarà lo stesso. A Sant’Angelo come a Ferrara, il Giudizio Finale è naturalmente legato a un programma che richiama alla memoria anche la Salvezza: a Ferrara, la Rivelazione e l’adventus in humilitate (l’Agnello di Dio); a Sant’Angelo, un ricchissimo dispiegarsi di figure affrescate, che sulle pareti dell’antica chiesa benedettina raccontano e ricordano il Vecchio e il Nuovo Testamento.
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«È necessario che sia adempiuto tutto ciò che di me è scritto nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi»: queste parole di Gesú, poste alla fine del Vangelo di san Luca (22.44) sono alla base di tutti i sistemi tipologici del Medioevo. Il Vecchio Testamento doveva esser letto come una prefigurazione del Nuovo, il Nuovo come un compimento del Vecchio Patto: «cum in vetere novus lateat, et in novo vetus pateat» (sant’Agostino)46. Perciò i libri del Vecchio Testamento erano guardati – anche quando non abbiano un contenuto esplicitamente profetico – come un gran serbatoio di tipi o prefigurazioni dei fatti del Vangelo. La biografia del Cristo, divenuta il centro di ogni vicenda umana, si cala sull’antica storia sacra del popolo ebraico, e ne trasforma gli eventi in figure della vita di Gesú, recuperandoli cosí interamente – ma insieme riducendoli – all’unica dimensione «storica» riconosciuta come valida: la storia della Salvezza. Paragonando i tre giorni trascorsi nel sepolcro ai tre giorni che Giona aveva passato nel ventre della balena (Matteo 12.40), lo stesso Gesú sembrava autorizzare quest’uso del Vecchio Testamento. Perciò Sicardo può dire, comparando i profeti agli apostoli: «illi viderunt in nocte, vos in die; illi in figura, vos in veritate» (c. 193 c). Davide che uccide Golia con la spada è figura di Cristo che sconfigge il diavolo con la croce (cc. 313c e 319a), Eva che nasce dalla costola di Adamo figura della Chiesa che nasce dal fianco di Cristo (cc. 325c e 327b). Perciò nella porta di Bonanno a Pisa i profeti schierati come a garanzia e guardia della narrazione sacra sono dodici come gli Apostoli. Spesso Apostoli e profeti sfilano in due serie parallele; a volte, ingaggiano fra loro un discorso che si snoda dai cartigli-fumetti variamente componendo versetti del Vecchio e del Nuovo Testamento e articoli del Credo. Nel portale principale del Battistero di Parma, l’Antelami ha ripetuto questo tema congegnandolo con singo-
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lare eleganza: i dodici Apostoli reggono altrettanti medaglioni coi busti di dodici profeti, quasi imagines clipeatae che una secolare venerazione avesse consegnato, di generazione in generazione, nelle mani dei compagni di Gesú; poiché l’uso di allineare clipei coi ritratti di filosofi e poeti (e piú tardi, di patriarchi e scrittori «sacri») si era trasferito dalle biblioteche antiche alle chiese cristiane, per esempio alla Basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme47. E dunque, se un Apostolo regge il clipeo col busto di un profeta, è sottolineata insieme la linea che li lega – e che conduce verso Cristo, loro fine comune – e la distanza storica che li separa; quasi lettori di una biblioteca, questi Apostoli di Parma, che abbiano non tolto dagli armadi gli scritti dei profeti, ma staccato dal muro i loro ritratti. Sin dall’incarnazione del Verbo, s’inizia per l’umanità il Nuovo Patto, e la venuta del Messia non solo spartisce la storia umana, ma, segno di contraddizione, divide per sempre i fedeli del Cristo dai giudei. Fra i libri del Vecchio Testamento e quelli del Nuovo, il contrasto insanabile fra ebrei e cristiani innalza come una barriera: e ogni programma decorativo che voglia contenere l’uno e l’altro non li presenta mai come una successione storica di eventi, ma piuttosto mettendoli in parallelo o a contrasto. Era prima di tutto la quotidiana pratica della liturgia che suggeriva questo intrecciarsi di fatti e detti, nella comune dimensione della storia della Salvezza. Il richiamo al peccato originale, felix culpa se aveva provocato la discesa di Gesú fra gli uomini, diventa perciò quasi un’anticipazione dell’avvento del Messia: e Adamo entra di diritto, alla testa dei profeti, nell’ufficio della Natività48. Nella sua colpa c’è già in nuce la Redenzione; e Cristo e novus Adam: la formella di Bonanno Pisano che accosta ai Magi il Peccato Originale è dunque in linea con l’esperienza liturgica. A Sant’Angelo in Formis, le storie del Vecchio Testa-
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mento, conservate solo in parte, occupano le navate laterali, cominciando presso l’absidiola di destra e concludendosi presso quella di sinistra; la navata centrale, nelle pareti sostenute da colonne, ospita invece la Vita di Gesú, in sessanta riquadri che vanno dall’Annunciazione all’Ascensione, cominciando e finendo presso l’abside (cfr. schemi 5, 6 e 7). Cosí il visitatore che voglia leggere «in ordine» la sequenza degli affreschi deve percorrere almeno cinque volte l’intera lunghezza della chiesa, muovendosi fra il Cristo in maestà dell’abside e il Giudizio Finale della facciata interna. Proprio da un percorso come questo risulterà chiarissima la distinzio-
Schema 5. Sant’Angelo in Formis. Percorso di lettura degli affreschi del Nuovo Testamento.
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ne «di grado» fra Vecchio e Nuovo Testamento, che corrisponde alla maggiore importanza della navata centrale rispetto alle laterali; al tempo stesso, i profeti e le Sibille che si allineano nei pennacchi degli archi srotolano cartigli con scritte che annunciano in ogni dettaglio la vita e la morte del Messia: per esempio, ai lati della Crocifissione, Salomone proclama: «morte turpissima condempnem eum» (Sapienza II 20), e Osea «ero mors tua o mors, morsus tuus ero» (Osea XIII 14). I fastosi mosaici del Duomo di Monreale dividono in altro modo il Vecchio Testamento dal Nuovo, dedicando al primo la navata maggiore, al secondo il transetto; le navate laterali accolgono fatti «minori» della vita di Gesú, disposti secondo una successione cronologica che
Schemi 6 e 7. Sant’Angelo in Formis. I temi della decorazione nella navata centrale.
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si sovrappone alla precedente, le cappelle del Coro storie di san Pietro e san Paolo messe in parallelo (cfr. schema 8). La facciata interna non ha un tema indipendente, ma prosegue e raccorda le narrazioni della navata centrale49. Costringendo – qui come altrove – il visitatore «sistematico» a un complicato percorso, chi ha tracciato il programma iconografico di Monreale sembra aver previsto anche un piú sottile e occasionale sistema di riferimenti binari, «per prossimità»: per esempio, non può essere un caso che alla scena dell’Arca di Noè da cui escono gli animali dopo il diluvio corrisponda, nella nava-
Schema 8. Monreale, Duomo. Percorso di lettura dei mosaici parietali. A, B, C: Nuovo Testamento. D: Vecchio Testamento.
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tella laterale, Gesú che salva san Pietro dalle acque: l’arca e la navicella sono, entrambe, «figura» della Chiesa. Non sono molti i programmi di un’ampiezza paragonabile a quella di Monreale, o di Sant’Angelo: assai piú spesso, il vescovo o l’abate che commissionava un ciclo di storie bibliche aveva a disposizione molto meno spazio e molto meno denaro. Diventava perciò importante, anzi capitale, la scelta delle scene da rappresentare: e se anche nel larghissimo ciclo di Monreale l’Antico Testamento si conclude con Giacobbe, talvolta parti ben piú ampie dovevano essere drasticamente escluse dal programma. Questa scelta è condizionata sempre dalla necessità di porre l’accento principalmente sulla vita di Gesú, organizzando la rappresentazione secondo uno o piú percorsi significativi. Né per la scelta né per il percorso si possono individuare «regole» generalmente valide: la libertà di costruire un discorso per immagini non è minore di quella che aveva un teologo o un predicatore di attingere a piene mani al pozzo senza fondo della Bibbia. Perciò il comporsi di storie sacre sulle pareti delle chiese offre una trama non meno varia, né meno interessante, di quella che possono offrire al lettore le pagine della Patrologia Latina, intrecciatissime di citazioni. L’accostamento tipologico, la somiglianza per prossimità, il riferimento al calendario liturgico sono i criteri principali (ma probabilmente non i soli) che sembrano aver guidato queste scelte. Soltanto di rado, possiamo supporre, l’indicazione del committente, spingendosi oltre la scelta e la disposizione reciproca dei temi, avrà inteso espressamente precisare anche il modo come affrontarli, e cioè lo schema iconografico da adottare. Un patto non scritto legava il vescovo, l’artista e i fedeli: che queste immagini dovessero essere facilmente comprensibili. Perciò non c’era bisogno di insistere sulla necessità che scene abitualmente rappresentate lo fossero secondo schemi abitua-
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li; mentre larghissima è sempre stata la possibilità di variarli piú o meno (in una oscillazione di forme che può essere descritta, o no, in modo da includervi i cambiamenti di stile) lasciando inalterati alcuni tratti essenziali. Quali siano questi tratti è difficile precisare servendosi delle parole: com’è difficile dire quali tratti restino identici in un volto atteggiato al riso o al pianto, o sul volto della stessa persona da bambino e da adulto50. Per il Peccato Originale, certo una delle scene piú frequentemente rappresentate, lo schema iconografico appare già fissato nell’arte paleocristiana, e poi incessantemente ripetuto per secoli: i Progenitori stanno ai due lati dell’Albero, intorno al quale si avvolge il Serpente. Fra le migliaia d’immagini che rappresentano questo tema se ne può tuttavia trovare qualcuna che devii dallo schema fondamentale. Per esempio, in un capitello del Duomo di Parma, l’Antelami presenta Adamo ed Eva elegantemente vestiti di lunghe tuniche manicate e seduti su una panchina presso l’Albero del bene e del male: mentre Eva ascolta, portandosi una mano all’orecchio, la voce del Serpente, Adamo se ne sta in disparte, reggendo in mano un fiore, come un signore nel suo giardino. Ma alla scena successiva il peccato è compiuto: e dall’Albero sono stati staccati ben quattro pomi (uno in bocca al Serpente, uno ciascuno in mano a Eva e ad Adamo, e un quarto che Eva porge ad Adamo)51. Le ricche vesti di Adamo ed Eva fanno pensare a una diretta influenza del teatro sacro; nelle rappresentazioni semiliturgiche che si svolgevano presso la chiesa – dalla quale entrava e usciva «Dio» con paramenti sacerdotali – Adamo ed Eva non erano rappresentati nudi, naturalmente, nemmeno prima del peccato, ma anzi riccamente abbigliati (Adamo tunica rubea, Eva tunica rubea et pallio serico albo): questo Adamo di Parma meriterebbe di essere chiamato da Eva, come in uno di que-
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sti testi, Adam, bel sire52. Tuttavia, nonostante un caso come questo – raro anche se non del tutto isolato – la rappresentazione del Peccato Originale resta nell’iconografia cristiana per secoli e secoli sostanzialmente immutabile, e può essere additata come esempio di uno schema «fisso». Altre storie presentano situazioni in qualche misura «intercambiabili»: le Nozze di Cana, la Cena in casa di Simone, l’Ultima Cena, l’Incontro di Emmaus – tutte scene che si svolgono intorno a una tavola da pranzo – suggeriscono un repertorio gestuale comune, che può essere trasferito dall’una all’altra senza sforzo. La Resurrezione è un caso particolare: l’iconografia tradizionale, si può dire fino a tutto il xiv secolo, segue strettamente il Vangelo, e non mostra il momento in cui Gesú esce dal sepolcro, ma la scena in cui le pie donne, recatevisi coi loro unguenti, lo trovano vuoto e presidiato da un angelo; il lenzuolo funebre giace abbandonato. Nella Resurrezione di Lazzaro, una tradizione altrettanto diffusa mostrava invece il miracolato amico di Gesú che esce dalla sua tomba, ancora avvolto nelle fasce; la Resurrezione dei morti, com’è rappresentata nel Giudizio Finale, li fa uscire di colpo, nudi, dai loro sarcofagi scoperchiati. La diversità di questi schemi si giustifica pienamente, poiché ciascuno di essi corrisponde a una scena diversa: eppure la comunanza del tema di fondo (la Resurrezione), e l’abitudine di proiettare la Resurrezione del Cristo su quella dei suoi fedeli finí col contaminare i vari schemi: non può spiegarsi altrimenti il radicale cambiamento nell’iconografia della Resurrezione. Un capitello del Museo Civico di Modena mostra due scene strettamente connesse: le Marie che si recano a comprare i profumi per ungere il corpo di Cristo, come vuole san Marco (16.1) e le Marie al sepolcro. La dipendenza iconografica da modelli francesi, come il
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fregio di Beaucaire, è strettissima; il rilievo dato alla scena dell’acquisto dei profumi in queste due sculture dipende certo dal teatro sacro: il colloquio delle Marie col venditore che tira sul prezzo era diventato come un piccolo inserto «comico» nelle storie della Pasqua53. Ma lo scultore di Modena ha fatto sparire l’angelo, e ha rappresentato la Maddalena che s’abbatte drammaticamente sul sepolcro vuoto, dal quale esce un lembo del lenzuolo. Cosí i due lati dello stesso capitello rappresentano come le due facce del dramma sacro, «commedia» e «tragedia»; e il confronto col sicuro modello francese evidenzia, nonostante la radicale innovazione iconografica nel pianto della Maddalena, un procedere per ripetizione degli schemi tramandati che possono tuttavia accogliere al loro interno mutamenti occasionali o graduali. Solo di rado (per esempio, nel chiostro di Sant’Orso ad Aosta) una serie di capitelli sono disposti e scolpiti in modo da tracciare un compiuto programma iconografico; piú spesso, un capitello isolato, o un piccolo gruppo, hanno piuttosto l’aspetto della «citazione» di una storia tratta dalla Bibbia: «capitella [...] sunt verba sacrae Scripturae», interpreta Sicardo (c. 22c). Ma anche da una veloce «citazione» di un singolo episodio del Vangelo era possibile trarre qualcosa di piú che la memoria dell’evento: una predica di san Bernardo indica nelle donne che acquistano gli aromi un modello per l’anima cristiana, che deve ravvivarsi di profumi spirituali quando sente che la fede in lei è morta54. Anche quando non si dispiega in un compiuto programma, il libro sacro può – in una predica, in un capitello – offrire ai cristiani un exemplum. Anche il pavimento che il fedele doveva calpestare muovendosi nella chiesa era spesso ornato di figure. Desiderio di Montecassino, attentissimo alla bellezza e alla dignità della sua chiesa abbaziale (secolo xi), «non
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trova en Ytalie homes de cet art, manda [...] pour homes grex et sarrasins, pour aorner le pavement de l’églize de marmoire entaillié et diverses paintures; laquelle nous clamons opere de mosy»55. Segnando il percorso dalla porta (e dal mondo esterno) all’altare, un pavimento a mosaico, che l’abate benedettino sentiva cosí indispensabile, era però al tempo stesso la parte piú umile della chiesa: già una disposizione del Digesto (poi ripetuta almeno fino a san Carlo Borromeo) vietava rigorosamente di scolpire o dipingere sul pavimento l’immagine di Cristo. Il salmo 118.25 Adhaesit pavimento anima mea suggeriva un’immediata equivalenza simbolica fra il pavimento e l’humilitas; ma questa «umiltà» poteva essere intesa in senso non solo morale. Di contro alla nobiltà di affreschi e sculture che narravano i fatti di Gesú, il mosaico pavimentale – dove solo episodi del Vecchio Testamento, al massimo, possono trovar posto – deve servirsi di motivi che si possono caratterizzare come praeambula fidei, o praeparatio evangelica56. L’esclusione, obbligata, di ogni rappresentazione esplicita di episodi del Vangelo, vietando lo «stile sublime», costringe il pavimento musivo ad articolare secondo uno «stile umile» il proprio discorso; ma al tempo stesso incoraggia a cercare altrove il materiale per comporlo, organizzandolo piú liberamente. Unico, fra i molti d’Italia, a essersi conservato quasi integralmente, il mosaico pavimentale del Duomo di Otranto, disteso fra il 1163 e il 1165 da un prete Pantaleone, permette ancora di riconoscere la trama di un programma esposto pezzo a pezzo, e come in una sorta di volgare. Un grande albero dalla porta raggiunge il presbiterio, e fa per tutta la navata centrale da guida al percorso: ma solo alla fine il fedele, riconoscendo ai suoi fianchi Eva e Adamo, e fra essi il Serpente, lo individuerà con certezza come l’Albero del bene e del male. Coi suoi gran-
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di rami che si protendono ai lati dalla base, ad abbracciare l’intero pavimento, è dunque l’Albero dell’Eden che fa da cornice al discorso di Pantaleone e del suo arcivescovo Gionata, che quattro iscrizioni dichiarano committente del mosaico. Ma i successivi elementi del discorso vanno scoperti uno a uno nella gran tessitura ornamentale, come di tappeto, che slarga fiori e foglie come semi di carte da gioco, e sparge tutt’intorno una fauna sempre coloratissima, talvolta mostruosa di struzzi, pesci, draghi, grifoni, centauri con una, due, tre teste. Alessandro Magno che tenta di raggiungere il cielo su un trono innalzato da due grifoni è un primo exemplum, tratto dalla «storia» profana, che introduce il tema dell’umana superbia; ripreso poi subito, sull’altro lato dell’albero, dalla Torre di Babele, che trasferisce lo stesso discorso nell’ambito della Bibbia. La costruzione dell’arca e il Diluvio, che subito seguono occupando tutta una fascia del mosaico, indicano piú direttamente la presenza divina, nella mano di Dio che si volge a un gigantesco Noè: nel Diluvio e nell’arca, mostrano al tempo stesso, come due facce di una stessa medaglia, la certezza della punizione e la speranza della salvezza. Liberamente appendendosi fra i rami dell’albero in tre file di quattro, i medaglioni dei Mesi sembrano tagliare, con un calendario soltanto agricolo e astrologico, un discorso per il resto religioso. Non pausa però solo, né interpolazione gratuita di segni zodiacali e contadini aranti e seminanti e vendemmianti: «pavimentum, quod pedibus calcatur, vulgus est, cuius laboribus ecclesia sustentatur» (Sicardo, Mitralis 20a). Le fatiche del vulgus, che compongono intorno alla terra un ciclo ricorrente e perentorio non meno di quello che tracciano gli astri, sono dunque il tempo umile e quotidiano dell’uomo, che la Chiesa assorbe e fa suo. Costringendolo nell’ambito di un’orazione intessuta di exempla
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morali, il tempo dell’uomo è offerto e presentato – senza il tramite del calendario liturgico – come tempo di Dio. All’albero che verso la cima s’assottiglia si affiancano, dopo i mesi, a sinistra altri alberi dell’Eden; e a destra, a contrasto, disseminate senz’ordine, le figure di re Artú a cavallo di un caprone (?), e poi abbattuto dal Gatto di Losanna, di Caino e Abele che presentano a Dio le loro offerte, e poi si affrontano nella scena drammatica del primo fratricidio. Cosí una «storia» quasi contemporanea viene, ancora, raffrontata al racconto biblico; poiché gli exempla si possono pescare egualmente bene dal pozzo sacro e da quello profano. A far piú denso il discorso, le figurine di Adamo ed Eva cacciate dall’Angelo (che dall’Eden vanno verso un mondo che include la morte di Abele e di re Artú) sono poste subito sopra quella del Buon Ladrone, che attende davanti alla porta chiusa di entrare – prima fra le anime redente – nel Regno dei Cieli. Colpa e punizione sono mostrate, ma subito si specchiano nella speranza della Salvezza, in una linea di discorso che culminerà nel giro dell’abside, dominato dalle figure di Sansone che batte il leone, e di Giona che esce dopo tre giorni dal ventre del pesce: figurae, l’uno e l’altro, di Cristo che vince la morte, viola l’inferno e risorge57. Cosí tracciando fra le fronde onnipresenti dell’Albero, in un mondo dominato dalla colpa, il suo sentiero, Pantaleone non racconta la Bibbia: ne sceglie i alcuni episodi, presentandoli senza alcun rispetto dell’ordine degli eventi dichiarato dai libri sacri, con una forza esemplare che dall’accostamento a soggetti profani (Alessandro, Artú) si fa piú grande. Tutti i temi piú significativi (con la sola eccezione della Torre di Babele) sono accompagnati, e dunque segnalati, da iscrizioni (Alexander rex, Rex Arturus, Noe, Abel, Cayn, Eva, Adam, Sanson, Ionas propheta, i nomi dei mesi... ): guida, certo, alla lettura del
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mosaico, ma per chi? Non solo per il volgo illetterato, che non avrebbe saputo decifrare nelle pietruzze del mosaico il latino della Bibbia (o, in un mosaico contemporaneo della vicina Brindisi, il francese delle chansons de geste)58; né solo per chierici, che avrebbero potuto riconoscere Noè o Alessandro anche senza leggere il loro nome. Correndo lungo la barriera di illeggibilità progressiva che separa l’uno dall’altro i vari strati della popolazione, queste iscrizioni, poiché circondano solo alcune fra le moltissime figure del mosaico, tracciano intorno a esse una sorta di alone verbale, a indicarne – per i chierici, per il volgo – la maggiore densità di significato: quasi «frecce», le iscrizioni, per seguire il sentiero di quel discorso. Pittura e scrittura sono dunque i due poli di uno stesso messaggio, che dal destinatore comune – il committente ecclesiastico, – solo in apparenza si biforca verso i dotti e gli indotti; ma in realtà può occupare tutto il proprio spazio soltanto se le lettere parlano anche al volgo e le figure anche al chierico, «pôles entre lesquels circule une électricité de sens» (Butor)59. I rotuli degli Exultet, usati durante la liturgia pasquale, segnano con eloquenza questa linea, che è insieme di confine e di passaggio: destinati a essere tenuti dall’officiante sopra un alto leggio, e srotolati via via che avanza la lettura. questi rotuli sono riccamente ornati di figure, in senso opposto alla scrittura; perché il prete legga, e il popolo – intanto – guardi le immagini60. Litterae laicorum dunque non solo, le storie dipinte nelle chiese, che passano dagli occhi alla memoria del fedele, istruzione e monito: ma parlano, insieme, ai sensi dei piú colti, ravvivando di colori e di volti le nude parole dei testi sacri; mentre le iscrizioni che le accompagnano, rimandando chi non sa leggere alla maggior dottrina dei chierici, ripetono di continuo che a leggere (a capire) interamente quelle immagini cosí ricca-
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mente dispiegate, cosí vive, occorre, sempre, il tramite della cultura ecclesiastica. Dalla committenza all’interpretazione «autentica», intorno all’immagine il cerchio si chiude. Il «monopolio» della Chiesa – intesa nel suo insieme – è assoluto.
4. «Ut populus ad ecclesiam trahatur». Sin da quando il fedele ha varcato la soglia della chiesa, l’abside – cornice all’altare maggiore, centro del rito – gli si propone come approdo di un percorso organizzato intorno alla memoria della storia sacra, calata e come tradotta in una dimensione liturgica. Il Cristo in maestà, ora nella forma bizantina del Pantocrator, ora invece apparizione apocalittica o ministro dell’Ultimo Giudizio, è dunque per l’abside un soggetto appropriato. Al mosaico absidale del Duomo di Pisa lavorarono per poco meno di un anno diciotto artefici (piú altri sei aiuti), guidati, in due successive tornate, da due diversi capomastri61; dunque nemmeno la costante presenza di un magister assicura continuità e unità di senso alla piú importante decorazione della Cattedrale; neppure per un giorno Francesco e Cimabue lavorano insieme, e Turetto è il solo pictor della prima squadra che Cimabue assume anche nella seconda. In piú, una delle figure (la Madonna) sembra esser stata finita molto piú tardi, nel 1321, e da un altro maestro. Dagli scarni libri di conti, che conservano nomi e paghe e date, non risulta chi abbia approntato il disegno d’insieme del mosaico (presumibilmente il primo dei due magistri, Francesco): ma la continuità nei lavori, e il nesso di significato fra le figure, è garantita dai committenti, «Uguiccio Grunei et Jacobus Murcij positi et constituti a Communi et pro Communi pisano super fieri faciendo Maiestatem super altare maioris ecclesie pisane civitatis».
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In questa Maestà pisana, che i successivi restauri, sempre vigilati dal clero, rendono, se possibile, opera ancor piú «collettiva», e funzionale all’immagine della Cattedrale e alla sua liturgia, il Cristo, che appare benedicendo regalmente da un amplissimo trono sorretto da coppie di draghi alati e di leoni, schiaccia coi piedi nudi un aspide e un basilisco. Subito sopra, l’orlo della veste avviluppata in larghi panneggi si distende, per consentire la lettura della scritta che reca, didascalia e ricamo («super aspidem et basiliscum ambulabis, et conculcabis leonem et draconem»): non solo le parole, dunque, ma l’intera figura del Cristo e il suo trono trascrivono nella dorata gloria dell’abside il salmo 90.13. Ma la teofania a cui assistiamo non è quella delle brucianti visioni di Isaia e di Ezechiele o dell’Apocalisse; il Cristo non vi appare in mandorla, circondato dal Tetramorfo, dagli Evangelisti o da corti angeliche. Il libro che la sua sinistra spalanca agli occhi dei fedeli dispiega in lettere larghissime l’inizio di un versetto del Vangelo di Giovanni: «Ego sum lux mu(n)di» (8.12)62; e perciò, variando il normale schema della Deesis, che vuole accanto al Cristo in maestà, supplici, la Madonna e san Giovanni Battista, è qui san Giovanni Evangelista che si accosta al trono divino. Come ai lati di una Crocifissione, la Madre e il discepolo prediletto accompagnano un Cristo che non è giudice, ma re e lux mundi; e il suo celeste trionfo si fonde col ricordo della Passione. La novità dello schema spiega un certo impaccio nel gestire: Maria con le mani disposte come ad accompagnare un discorso63-; Giovanni che stringe con ambo le mani il libro chiuso del suo Vangelo. L’isolamento delle figure e la loro attitudine assorta e distaccata, attori di una scena che non è nei testi sacri e nemmeno nella tradizione iconografica, può far capire l’acuta discordanza dei critici, che vedono nel san Giovanni (la sola figura studiata, perché interamente di Cimabue) ora «un altissi-
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mo capolavoro» (Battisti), ora «del tutto privo di interesse» (Nicholson). Che Maria e Giovanni abbiano potuto mutarsi da piangenti ai lati della croce a compagni della gloria del Cristo, non è gratuita novità di montaggio: il paradosso della croce è proprio di essere segno al tempo stesso del piú crudele e infamante supplizio e dell’evento piú nobile della storia umana. Perciò il lignum Crucis è segno trionfale, svolta di ogni vicenda terrena, perno della fede e della liturgia. E accanto al Cristo troneggiante nel dorato cielo dell’abside, la Madonna col suo gesto intercede; Giovanni, col libro che ha scritto, testimonia e tace. Persino nel vortice delle controversie iconoclastiche,
Schema 9. Giornate di lavoro al mosaico absidale del Duomo di Pisa (4 aprile 1302-20 gennaio 1303).
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la croce – culmine non solo del Calvario, ma dell’altare – ha mantenuto il suo pieno valore sia sul piano strettamente liturgico sia come sigillo dell’investitura divina del basileus. Paradossalmente, i Libri carolini coincidono su questo punto, senza accorgersene, con le vedute del loro bersaglio polemico64. Crucis mysterium, Crucis vexillum: non le immagini, ma questo segno, che contiene e rammemora Incarnazione, Passione e Redenzione, fuga i demoni e infrange le porte dell’inferno. Sfidando le gerarchie di valori della società pagana, la croce aveva raggiunto sin dai primi secoli il valore e la densità di un simbolo; riconoscimento, dichiarazione di fede, protezione «magica» dal demonio e dal Male. Ma il crocifisso aveva tardato ad aggiungersi al nudo segno della croce: la totale mancanza di prototipi nell’arte romana rendeva ancor piú arduo valicare il ponte strettissimo verso la rappresentazione di una scena che le parole potevano evocare, nel rito o nel racconto evangelico, ma non trovava ancora il linguaggio adatto per tradursi in immagini senza perdere la pienezza del suo significato. Perciò la crocifissione poteva essere rappresentata per simboli, col solo segno della croce o, meglio, alludendo alla Passione con la rappresentazione dell’Agnello. Forse proprio una disputa teologica stimola l’ingresso definitivo del crocifisso nel repertorio dell’arte cristiana. I monofisiti negavano la natura umana del Cristo; una dottrina, che prese il nome di docetismo, insegnava che il figlio di Dio aveva assunto solo in apparenza (dokûw) la natura umana, ma come putativa: e dunque la sua passione e la sua morte non furono vissute nel vivo corpo di un uomo. Il Concilio in Trullo (692), rigettando la raffigurazione dell’Agnello come «ombra» o «emblema» di Gesú, decide, perché la perfezione sia esposta a tutti gli sguardi anche attraverso le pitture [...], di rappresentare Cristo, nostro
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Dio, in forma umana [...], perché tutta la sublimità del Verbo sia contemplata attraverso la sua umiltà. È il pittore che deve prenderci per mano, e condurci alla memoria di Gesú vivente in carne e ossa, che muore per la nostra salvezza e conquista con la passione la redenzione del mondo65.
È la vigilia dell’ondata iconoclastica: questo appello alla forza evocativa delle immagini e al ruolo del pittore sembra giustificare a sufficienza le preoccupazioni dei teologi. Nel 726, una sommossa abbatte il Crocifisso posto all’ingresso del palazzo imperiale; ma a Nicea, nella chiesa della Dormizione, la figura della Vergine nel mosaico absidale viene distrutta e sostituita da una Croce monumentale66. La Croce-simbolo è difesa e diffusa; il Crocifisso, che narra nel corpo di Gesú passione e dolori della carne, è negato. La Croce dipinta è certo una delle forme piú singolari di rappresentazione del Crocifisso, ed è assolutamente peculiare dell’Italia67. Il piú antico esempio noto e datato è del 1138, ma le origini del tipo devono essere certo un po’ piú antiche. Queste croci, spesso assai grandi, erano destinate (specialmente in zona toscoumbra, con accento speciale a Pisa e a Lucca) a essere appese alla trave dell’abside, o piú spesso all’iconostasi, che fino al xiv secolo ancora chiudeva in genere l’accesso al coro nelle chiese italiane. «Crux triumphalis in plerisque locis in medio ecclesiae ponitur, perché i fedeli possano renderle omaggio, arbor salutifera e signum victoriae: poiché Cristo ha umiliato il suo corpo [...], guardando la Croce, non potremo mai dimenticare l’amore di Dio per noi; e imiteremo il Crocifisso»68. Una Croce firmata dal lucchese Berlinghiero Berlinghieri, non molto lontana dal 1220-30, esibisce la figura del Cristo nobilmente eretto contro il legno del supplizio, cinto da un ricco perizoma verde. Dai quattro chiodi colano simmetriche fiammelle di sangue: ma la gemmata aureola
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che gli cinge il volto lo designa piuttosto triumphans che patiens; e il costato non è stato ancora trafitto. Il passaggio dalla piú antica formula – Gesú vivo sulla croce, la testa eretta, gli occhi aperti, all’altra del Cristo morto, con la testa china gli occhi chiusi, il corpo incurvato in un estremo spasimo di agonia, che già comincia a metà del secolo xii, nella Croce dipinta italiana ritarda di quasi cent’anni. Questo solo divario mostra a sufficienza l’importanza centrale delle croci dipinte nell’arredo delle chiese e nella pietà di tutti: piú difficile è introdurre significative innovazioni iconografiche nelle immagini che devono rispondere a piú forti e radicate attese dei fedeli. Sotto il corpo scarno del Crocifisso, cresce tutta una passamaneria di nastri minutamente decorati; e Cristo non è sospeso a quei chiodi: piuttosto, trionfante, apre le braccia e li riceve. Ma la tavola non riproduce soltanto lo strumento del supplizio, né solo lo consegna, colorandolo d’oro e d’azzurro, a una dimensione trionfale e celeste. Alle estremità e ai fianchi, si espande in addizioni geometriche: la cimasa, con l’Ascensione (ora mutilata, in alto, del busto di Cristo); le estremità della traversa, coi simboli degli Evangelisti; la Negazione di Pietro, ai lati del suppedaneo; infine, ai fianchi del Crocifisso, sorgono da un astratto praticello verde le figure piangenti di Maria e di Giovanni. I pisani hanno mostrato una speciale tendenza ad allargare lo spazio della Croce dipinta, popolandola di scene: la Croce n. 15 del Museo di San Matteo affolla ai due lati del Cristo e alle quattro estremità della tavola dieci episodi della Scrittura, dall’Ultima Cena alla Pentecoste. Fissando sui fedeli gli occhi severi, senza mostrare alcun segno di dolore, questo Cristo triumphans è dunque anche docens: dal legno stesso del suo supplizio con minuto, didascalico calligrafismo racconta la sua passione e la sua gloria.
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È stato forse Giunta Pisano a introdurre nelle croci dipinte il Cristo morto (è noto, ma perduto, un esemplare del 1236). Una Croce astile che gli viene attribuita mostra la transizione fra i due tipi: Gesú è sul recto vivo ed eretto, sul verso ha reclinato la testa e chiuso gli occhi nell’immobile morte; l’innovazione iconografica ha preso posto sul lato meno importante. Ma, soprattutto, Giunta ha radicalmente trasformato il tipo stesso della Croce dipinta. Nella matura Croce di San Domenico a Bologna, la costruita geometria della sagoma «pisana» si è mantenuta, facendosi anzi piú rigorosa nella tessitura dell’ornato, nelle capocchie che inchiodano in bell’ordine il nastro-orlo della tavola; ma le figure di contorno sono quasi tutte scomparse. Nella cimasa – che forse era completata in alto da un mezzo disco con una compendiaria Ascensione – il titulus derisorio si distende in tre righe; le tabelle terminali della traversa ospitano le mezze figure di Maria dolente e di san Giovanni Evangelista, rappresentato nel gesto «siriaco» di esibire il libro rosso e gemmato del Vangelo che scriverà69. Quest’atteggiarsi, che in una Crocifissione anticipa la sua funzione di testimonio e narratore del sacro avvenimento, si troverà tradotto da Cimabue nell’abside della cattedrale pisana: qui però non prolessi, ma sigillo. Riducendo espressamente a convenzionali, allusive memorie di una piú vasta Crocifissione le figure dei dolenti, Giunta Pisano ha drammaticamente isolato il Crocifisso; ne ha inarcato il corpo teso e trafitto, in cui la morte ha scavato tutta un’anatomia della sofferenza. «Prendendo per mano» i fedeli Giunta non li invita a ripercorrere, per minuziose tabelle, le tappe della Passione; li confronta coi segni visibili dell’agonia, e dunque con l’umanità del Cristo. Non senza un’acuta coscienza di sé il pennello del pittore ha tracciato nel suppedaneo la firma versificata, «sonante» (Brandi):
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«cuius docta manus me pinxit Iuncta pisanus»70. Docta manus sara quella di Nicola Pisano, nella firma del pulpito del Battistero; doctus si era proclamato mezzo secolo prima un altro scultore pisano, Biduino, firmando l’architrave di San Casciano presso Pisa. Se questa è, come par probabile, doctrina antiquitatis, Cimabue avrebbe avuto piú ragioni di Giunta a dichiararla a piè di un Crocifisso. Quello di Santa Croce a Firenze deriva palesemente dal modello giuntesco, ormai preso a misura di «classica» perfezione; ma coi colori e l’ombra agita e smuove il corpo del Redentore, pur ripetendone la positura convenzionale-obbligata. Ma il perizoma s’è fatto aereo, trasparente: per nascondere il meno possibile un corpo che ha tanto acquistato in realtà, animando il terso disegno di Giunta di interna plasticità e di viva tensione muscolare. L’arcata epigastrica e le sei partizioni del ventre hanno perduto, come per un colpo di spugna, il rigore di una artificiosa geometria, rivelando dietro di sé (dietro la convenzione rappresentativa) una piú mossa e «reale» anatomia: piú fortemente ancora, dunque, il fedele può rivivere, guidato dal pittore, il dolore e la morte di Cristo. Anche il sangue non scorre piú in rivoletti sinuosi: dai chiodi piove lungo il filo a piombo, ha scoperto la legge di gravità. In questa linea di crescente «realismo», le emozioni del fedele sono un sicuro, costante polo di riferimento. Guillaume Durand, francese ma vissuto in Italia dagli studi a Bologna alla morte (1296), rende per un momento esplicita quest’intenzione in un passo del Rationale Divinorum Officiorum, un trattato di liturgia di amplissima diffusione, il cui significato, anche su un piano propriamente iconografico, dev’essere ancora adeguatamente studiato. Perché si raccolgono nelle chiese curiosità e tesori (per esempio uova di struzzo), facendone mostra ai fede-
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li? Risponde Durand (I 13.43): «ut populus ad ecclesiam trahatur, et magis afficiatur». Afficio è «impressionare», ma anche «emozionare, coinvolgere (emotivamente)»; le parole di Durand possono essere applicate anche agli altri ornamenta ecclesiae: per esempio, se si rappresentano nelle chiese il Paradiso e l’Inferno, è per suscitare nei fedeli la gioia dei premi futuri (delectatio praemiorum) e la paura delle pene (formido poenarum: I 3.21). L’altro polo, col quale ogni immagine deve fare i suoi conti, è la riconosciuta forza di una tradizione che lo stesso ripetersi delle figure rende autorevole, cogente. Le attese del «pubblico» si muovono cosí su due piani solo in apparenza divergenti: da un lato, un’immagine di culto, proprio perché oggetto di una devozione che riceve gran parte del suo valore dal fatto d’innestarsi su una linea tradizionale, deve adeguarsi alle immagini dello stesso tipo che l’hanno preceduta; dall’altro lato, ogni innovazione che susciti urti emozionali può provocare nuovo interesse verso una figura, o un tema, che la mera ripetizione potrebbe come sfocare e rendere lettera morta. Cosí il pittore, muovendosi in sempre nuovo equilibrio fra tradizione e invenzione, può indurre l’occhio del fedele a indugiare di piú su un’immagine «nuova»; eppure innoverà gradualmente, e sempre all’interno del tipo tramandato. La Croce n. 15 di Pisa ha, ancora al principio del Duecento, il Cristo vivo e trionfante, con gli occhi aperti: eppure già da mezzo secolo correva il tipo del Christus patiens, con la testa china e gli occhi chiusi. Solo dopo il 1236 questo tipo iconografico salirà sulle Croci dipinte, ma già in questa Croce n. 15 la Crocifissione dipinta fra le scenette ai lati del Cristo ha la nuova iconografia. «Scalato» di grandezza e d’importanza rispetto alla gigantesca figura che campeggia sulla tavola, un riquadro laterale può piú facilmente ospitare, prima, la «novità». Fra il grande e il piccolo Crocifisso che i pisani potevano vedere dipin-
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ti sulla stessa tavola nella Chiesa del Santo Sepolcro, non c’è tanto il contrasto fra due iconografie «opposte» , quanto invece la distanza (gerarchica, non cronologica) fra il centro e il margine, la salutatio e la memoria. Le immagini di culto, a cui si deve la salutatio, si rinnovano piú lentamente delle immagini narrative, rivolte alla memoria. Le modificazioni tipologiche e iconografiche nelle Croci dipinte si possono giustificare anche solo per progressiva preponderanza del tipo «nuovo»; ma forse se ne può dare una spiegazione piú precisa. Nella Legenda maior sancti Francisci, san Bonaventura dà preziose notizie sulla tecnica della preghiera inaugurata da san Francesco coi suoi primi compagni, privi di libri ecclesiastici da cui togliere le orazioni, ordinate secondo le ore canoniche. Ma in luogo dei libri san Francesco insegna loro a usare il liber Crucis Christi, a pregare mentaliter potius quam vocaliter, davanti al Crocifisso, osservandolo fissamente, continuatis aspectibus71. La preghiera è una meditazione sulla Passione di Cristo, mediata dall’immagine del Crocifisso: privilegiando lo sguardo sulla parola, il tempo dell’osservazione dell’immagine si calcola in termini di risposta emozionale, e corrisponde-provoca il tempo della preghiera. San Francesco ha cosí orientato la devozione di tutti verso l’umanità del Cristo, e in particolare verso la Croce72; senza direttamente ispirare questo o quel Crocifisso, ha costretto chiunque a mutare la propria attitudine nei confronti di un tipo iconografico che la prolungata osservazione suggerita dalla nuova tecnica devozionale invitava a rimeditare. Tommaso da Celano chiama san Francesco novus evangelista, per l’importanza e la novità del suo messaggio: e infatti nell’iconografia egli riceve subito attributi inconsueti, il libro (come un evangelista) e, primo fra i santi, il Crocifisso73. La sua conformità al Cristo è sigillata dalle stimmate, che lo inchiodavano sulla
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croce insieme col suo modello irraggiungibile, Christo iam cruci confixus74: non basta che l’anima sia crocifissa, dev’esserlo, visibilmente, anche la carne. Si capisce cosí la «variante» che prende posto sul suppedaneo delle Croci dipinte dal 1260 circa in poi, diffondendosi però solo in Umbria e in Toscana: chino ai piedi del Cristo, un minuto san Francesco medita la Passione e la indica ai fedeli con le sue mani piagate75. Violando ogni barriera storica, il santo di Assisi entra nello spazio della Croce, «convive» con Maria e Giovanni dolenti; e dunque attrae il Crocifisso verso la viva esperienza sua e di tutti, lo fa contemporaneo. Tuttavia, san Francesco non è stato il primo a occupare questo posto privilegiatissimo: lo ha preceduto il suo amico e successore, frate Elia, il costruttore della Basilica di Assisi. Nella Croce, perduta, dipinta e firmata nel 1236 da Giunta Pisano per la Basilica Inferiore di Assisi, un Christus patiens fra i primissimi, se non il primo, della serie era accompagnato, nel suppedaneo, dall’immagine di frate Elia inginocchiato e orante e dalla scritta «Frater Helias fieri fecit. Iesu Christe pie miserere precantis Helie. Iuncta Pisanus me pinxit a. d. mccxxxvi». Il potente generale dell’ordine francescano metteva dunque in primo piano se stes so, committente e devoto, ai piedi della croce, nel gesto che diventerà di san Francesco: cosí lo mostra una stampa del secolo xvii, restituendoci almeno l’attitudine di questa immagine perduta76, con una «fedeltà iconografica» di cui sembra dar prova il berretto «armeno»: Salimbene de Adam testimonia che frate Elia ne faceva uso77. Non sappiamo quali reazioni abbia provocato nei contemporanei questa intrusione di un vivo sulla croce: certo fra le accuse che travolsero frate Elia, provocandone la deposizione, l’esilio e la scomunica ha un posto grandissimo la carnalitas, la vita lussuosa, un soverchio senso di sé e della dignità che ricopriva78. Depositario quasi unico del
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segreto delle stimmate fino alla morte di san Francesco, è lui che annuncia insieme la morte del santo e lo straordinario sigillo divino: ai piedi del Crocifisso, Elia vuole dunque raccogliere intera l’eredità di Francesco. Probabilmente per questo, il suppedaneo della Croce col suo «ritratto» (?) e l’iscrizione fu coperto: come nella nuova Vita scritta da san Bonaventura, dove Elia non è mai menzionato, l’antico compagno di san Francesco, che era stato per lui «come una madre» (Tommaso da Celano), è stato colpito da damnatio memoriae. Solo nel 1624, quando la croce cadendo si ruppe, la scritta e il volto di frate Elia tornarono alla luce79. Un desiderio, che anche a noi appare soprattutto mondano, di legittimazione e di gloria ha rotto il quadro storico; ai piedi della croce, Elia viene prima di Francesco.
5. «Tempus veritatis». Copiare non è ovvio. Soltanto in rarissimi periodi della storia umana, gli artisti si sono volti alle opere del passato con l’intenzione di riprodurle, «scomparendo» dietro il modello e riducendo la propria ars all’abilità di ripeterlo con la maggior fedeltà possibile. Nell’antichità greco-romana, botteghe di copisti hanno operato largamente, per la prima volta nella storia occidentale: è perché si era affermata, per generale consenso e attraverso la nascita graduale di una prima storiografia artistica, l’immagine di un’arte classica, che aveva raggiunto una perfezione insuperabile; che, dunque, andava copiata. Rispondendo alle richieste di una clientela che voleva godersi da presso un’eco delle opere immortali di Policleto e di Apelle, scultori e pittori si fecero copisti; ma la «fine dell’antichità» travolse, col rispetto per gli originali, anche la pratica del copiare. Nel Medioevo, una copia che voglia riprodurre il
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modello, perché classico, è inconcepibile. Il rapporto fra il Crocifisso di Cimabue e quello di Giunta non è certo questo: nonostante le somiglianze tipologiche e iconografiche, possiamo essere sicuri che Cimabue sapeva di creare un’opera interamente nuova; e aveva naturalmente ragione. Doveva (come tutti) lavorare con l’arte sua «dentro» un tipo consacrato, che era ormai quello giuntesco, e che solo a poco a poco si poteva modificare; non copiare un modello. E quando nel 1396 P. P. Vergerio scriverà che i pittori del suo tempo solius Ioti [di Giotto] exemplaria sequuntur80 indicherà una dipendenza stilistica e iconografica dal maestro, l’ammirazione e lo studio delle sue opere, non la diffusione di copie in senso proprio (cioè, fatte con la volontà espressa di essere riconosciute per tali). Esistono tuttavia «copie» medievali; ma sono state ispirate non dall’ammirazione per lo stile di un artista, bensí dalla devozione per questa o quell’immagine sacra. Quando a un simulacro di culto la pietà popolare e la fama appendono memoria e fede di interventi prodigiosi, non è tanto il santo di quel nome che ne viene investito, nella preghiera nella speranza nel culto: ma l’immagine, tangibile, che ha «operato» i miracoli, che può operarli ancora, mediando sensibilmente, e come raccogliendo di persona, desideri, voci, sguardi dei fedeli: l’imperioso bisogno del sacro deve pur sempre ancorarsi alla materia. Le devozioni (e le immagini) delle Madonne di Lourdes, di Pompei e di Siracusa sono esempi recenti, vivi, e ciascuno con una sua storia distinta, anche se tutti sanno che la Madonna, in cielo, è una sola. Legandosi a un luogo di culto e a storie/leggende di fondazione, di pietà e di miracoli, un santo assume (può assumere) forme caratteristiche, che si legano indissolubilmente a quella sua immagine; la quale, d’altronde, è garante della santità del luogo, della sua «funzionalità» come teatro privilegiato dell’intervento divino,
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del miracolo. Il culto delle reliquie si sposta alle sacre effigi, che, infatti, producono reliquie: sanguinano e lacrimano. Il Volto Santo di Lucca81 è un crocifisso che deve gran parte della sua enorme reputazione nel Medioevo alla leggenda che lo voleva scolpito dalle mani stesse di quel Nicodemo che, con Giuseppe di Arimatea, depose Cristo nel sepolcro. Non, dunque, un’immagine achiropita, e nemmeno dovuta al pennello dell’evangelista Luca: ma appena poco meno di queste. Non è certo il solo Crocifisso vestito del siriaco colobium che l’Occidente abbia conosciuto; ma si può dire che, via via che questo tipo iconografico andava facendosi di raro rarissimo, la stessa singolarità della statua lucchese le addensava intorno piú fama, la rendeva piú «unica» e riconoscibile. Nonostante la sua rinomanza in tutta Europa, il Volto Santo non influenzò l’evoluzione del Crocifisso neppure nell’area strettamente lucchese. Per converso, il desiderio dei pellegrini di avere copie di quella effigie prodigiosa doveva essere soddisfatto; e non poteva esserlo da un Crocifisso «normale» (come quelli di Giunta Pisano; o, a Lucca, dei Berlinghieri), ma proprio da riproduzioni – piú o meno fedeli, s’intende, ma che si supponevano tali – della Croce di Lucca. Queste copie, che cominciano già al principio del secolo xii, erano, per tutta Europa, molte centinaia; senza sostituire mai il tipo corrente del Crocifisso né influenzarlo, hanno costituito come un «filone parallelo». A esse sole era riservato il nome di Volto Santo, o Volto Santo di Lucca, che non si applica mai a un Crocifisso «normale». Il nome, il luogo, il tipo iconografico fanno blocco: garantiscono anche alla copia qualche barlume dell’aura sacra che tutti riconoscono all’originale82. Piú rigorosamente fedeli – piú «copie», ora che possiamo con le fotografie confrontarle – sono naturalmente quelle eseguite piú vicino all’originale (per esempio, nella chiesetta di San Rocco in piazza dei
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Cavalieri, a Pisa); meno cogente si fa il modello via via che diminuisce (perché crescono le distanze) la possibilità di verificarlo. Lo spazio, e il tempo, possono persino spogliare l’immagine-copia del suo significato, pur conservandole intero il «magico» potere di operare prodigi. Già alla fine del secolo xiv, nelle Fiandre, una copia del Volto santo suscitava venerazione e miracoli; ma nessuno sapeva piú chi rappresentasse. La lunga veste manicata impediva di riconoscervi un Cristo crocifisso, per il quale era universale l’uso del perizoma, e faceva piuttosto pensare a una donna; ma la barba andava spiegata. Si formò allora la leggenda di una santa che, volendo mantenere a ogni costo la verginità contro il volere del padre che l’ha promessa a un re di Sicilia, ottiene da Dio che una folta barba le ricopra il volto, rendendola non piú desiderabile; ma il padre, irritato, la fa crocifiggere. Questa Virgo fortis assume nei vari paesi d’Europa non meno di una ventina di nomi diversi (da Sankt Wilgefortis e Kümmernis in Germania a Sainte-Débarras in Francia), ed entra nel Martyrologium Romanum nel 1583, restandovi poi sempre, e godendo di un’amplissima devozione popolare in tutta Europa (non in Italia) fino al secolo scorso83. Svuotata del suo significato, l’immagine ne ha prodotto uno nuovo, «popolare» e «falso», che convive con quello «vero» e «dotto» (che si mantiene per esempio in Italia). Questa doppia evoluzione può essere descritta prendendo a prestito dai linguisti la parola allotropo (per esempio latino bestia = italiano bestia/biscia): le modificazioni fonetiche possono essere paragonate a quelle iconografiche (per esempio, i dettagli «piú femminili» del vestito di Sankt Wilgefortis). Come quella di un testo, la storia delle immagini è fatta anche di ripetizioni «meccaniche». Un commento di sant’Agostino a un passo della Bibbia può essere trascritto tale e quale (con o senza errori; indicando la
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fonte, o no), o costituire il punto di partenza per un’interpretazione ulteriore: in ambo i casi implica l’invito a leggere direttamente il luogo biblico. I commenti, le narrazioni, le elaborazioni liturgiche e drammatiche sedimentano cosí sul testo sacro, gettando verso di esso un ponte sempre piú lungo da attraversare; ma solo assai di rado nascerà la proposta radicale di riincontrare la Bibbia direttamente, scavalcando i secoli. Le immagini che decorano la chiesa nascono l’una dall’altra; trascrivendo, o con piú o meno sapienza mutando. Con sensibilità acutissima, fra il secolo xii e il principio del seguente, il problema della funzione dell’arte sacra fu posto esplicitamente; la necessità di rinnovarne i modelli, espressamente affermata. In uno scritto capitale per la controversia fra cistercensi e cluniacensi, l’Apologia diretta a Guillaume de Saint-Thierry (1125), san Bernardo di Chiaravalle afferma per la prima volta la necessità di una netta distinzione fra i programmi decorativi delle cattedrali e quelli delle chiese monastiche84. I vescovi devono fare i conti coi sapientes e con gli insipientes, i monaci, no. Insipiens è il popolo indotto, incapace di una vita puramente spirituale; perciò la devotio carnalis populi dev’essere excitata, come saggiamente fanno i vescovi, corporalibus ornamentis. I monaci, che sono usciti dal popolo, fuggendo il mondo dei sensi (elencati qui tutti e cinque, a cominciare – naturalmente – dalla vista), non dovrebbero aver bisogno di tali cose. Eppure, quante curiosae depictiones anche nelle chiese dei monaci! Che ci fanno, lí, scimmie immonde, feroci leoni, mostruosi centauri, semiuomini, tigri maculate...? Ridicula monstruositas, che però è in qualche modo deformis formositas ac formosa deformitas: una varietà cosí grande di bestie e mostri, che vien voglia anche ai monaci di osservare tutto il giorno a una a una le figure dipinte e scolpite: ut magis legere libeat in marmoribus quam in codicibus; e
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si trascura la Bibbia e la legge divina! Ma perché tutto questo? È la cupidigia (avaritia) che si fa idolorum servitus, popola la chiesa d’immagini curiosae per suscitare l’interesse dei fedeli e provocare donazioni e offerte. In questa memorabile invettiva, i monaci di Cluny sono l’obiettivo primario di san Bernardo, sebbene la sua condanna dell’esorbitante enciclopedia «naturale» delle chiese romaniche sia tendenzialmente piú radicale. Egli non poteva ignorare le profonde meditazioni religiose a cui altri uomini di chiesa del suo tempo erano indotti proprio dalle immagini che denunciava; [...] ma si era accorto che, sotto la spinta di una cultura profana in rapida espansione, l’interpretazione spirituale di questi simboli correva il rischio di essere oscurata e degradata...;
questa «eruption of the sensual world» poteva portare lo spettatore verso il mondo, invece che fuori di esso85. Specialmente ai monaci, si capisce, san Bernardo rimprovera – echeggiando sant’Agostino – la vana curiositas per le curiosae depictiones: che attraggono inevitabilmente lo sguardo (aspectus) dei fedeli, impedendo però la partecipazione emotiva (affectus) alle orazioni. Nell’aristocratico isolamento del monaco tutto spiritualis, la preghiera non deve aver bisogno della mediazione dei sensi; delle due facce della devotio, aspectus e affectus, il monaco deve coltivare solo la seconda, il popolo entrambe. Per i devoti simplices, insipientes, si arriva all’affectus attraverso l’aspectus. Nel capitolo generale del 1134, i cistercensi decisero di bandire dai loro manoscritti le ricche miniature; ma il divieto fu disatteso prestissimo86. Tuttavia, documentando con eloquenza il punto di vista di un uomo straordinariamente sensibile ai problemi della Chiesa del suo tempo, le parole di san Bernardo denunciano precocemente una crisi profonda nel rapporto fra l’universo
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delle immagini e il sistema delle richieste (della Chiesa) e delle attese (dei fedeli). L’intero quadro si va incrinando: occorre produrre nuovi modelli. La direzione generale non sarà, in definitiva, quella indicata da san Bernardo. Forse Sicardo, vescovo di Cremona, pensava davvero agli insipientes del suo popolo, quando suggeriva come colpire l’immaginazione dei fedeli. Perché le sculture sono ad alto rilievo, e sembrano quasi uscire dalle pareti? Perché cosí gli esempi che raccontano diventano tanto presenti e familiari ai fedeli, da insinuarsi in loro naturalmente, inducendoli a praticare ogni sorta di azione virtuosa87.
Il ruolo dominante della scultura – rispetto alla pittura – nel primo Duecento italiano è stato piú volte riconosciuto – e affermato; con le parole di E. H. Gombrich, «si può arguire che, all’inizio, la scultura era piú disponibile alle nuove domande [cioè all’«evocazione drammatica» degli eventi] di quanto non lo fosse la pittura»88. Il passo del Mitralis di Sicardo mostra, e in un vescovo, la piena consapevolezza del carattere piú «realistico» della scultura, per la presenza della terza dimensione. Un confronto fra san Bernardo (c. 1091-1153) e san Francesco (1182-1226) può indicare nel modo migliore la direzione in cui l’arte italiana andrà muovendosi. Entrambi propugnano e raccomandano la dimensione interiore della preghiera; entrambi oppongono la parola scritta (il libro di orazioni) all’immagine dipinta o scolpita. Ma, per san Bernardo, l’interno affectus dev’essere suscitato codicibus, non marmoribus, dai libri non dalle sculture; per san Francesco la preghiera mentalis potius quam vocalis dev’essere suscitata dall’incessante «lettura» del liber Crucis. Entrambi si rivolgono ai loro
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compagni di vita religiosa; ma i monaci di Bernardo sono separati dal popolo, i frati di Francesco vogliono mescolarsi a esso. Bernardo scrive a un abate, e parla per i monaci di tutta la cristianità; se pensa a un rinnovamento dell’arte sacra, immagina i monasteri come avamposti di una piú austera spiritualità. Francesco parla per tutti, ricorre al volgare, predica al popolo nella sua lingua: per rendere piú tangibile il mistero della Natività, nel Presepe di Greccio depone il Bambino (forse, ma non è certo, un bambino in carne e ossa) fra un vero bue e un vero asino. Testimone e stimolo del suo tempo, egli non disprezza le necessità carnali del popolo: da esse, dal loro bisogno di corporalia ornamenta, vuole suscitare una piú infiammata devozione; spostando il «peso» della preghiera dal libro all’immagine, capovolge il privilegio dei dotti, avvicina al Cristo gli insipientes. Sarà questa la linea vincente. Nella Summa Theologica san Tommaso d’Aquino giunge a trattare rapidamente delle immagini nelle chiese, e ne indica tre ragioni giustificative: «1) ad instructionem rudium; 2) ut incarnationis mysterium et sanctorum exempla magis in memoria nostra maneant; 3) ad excitandum devotionis affectum»89. I primi due punti riprendono temi ricorrenti: il carattere didascalico delle immagini, libri laicorum, la loro funzione di richiamare gli eventi sacri alla memoria di tutti (non solo degli indotti); ma l’appello all’affectus non era forse entrato mai prima d’ora accanto agli altri, e sullo stesso piano, in un’esposizione dottrinale. Il grande domenicano suggella e consacra, con la sua fredda enumerazione dei «perché» delle immagini, un mutamento che san Francesco aveva accelerato e portato alla coscienza di tutti. Nel Rationale divinorum officiorum, Guillaume Durand è ancora piú esplicito: «pictura [...] plus videtur movere animum quam scriptura»; e infatti, aggiunge, quando andiamo in chiesa non rivolgiamo ai libri
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tanta reverentia quanta invece alle immagini e alle pitture (I 3.4). Citando, poco piú sotto, due versi dell’Ars poetica di Orazio (vv. 9-10): «pictoribus atque poetis Quidlibet audendi semper fuit aequa potestas»), Durand riprende consapevolmente il vecchio tema, ut pictura poësis, intrecciandolo con un altro, la libertà del pittore: la storia del Vecchio e del Nuovo Testamento, dice, sono dipinte pro voluntate pictorum (I 3.22). Con significativo slittamento testuale, alcuni manoscritti del Rationale dànno addendi anziché audendi: e la libertà di pittori e poeti si restringe dunque alla facoltà di «aggiungere» quel che vogliono a un linguaggio per il resto immobile. Ma, sin dal proemio del suo libro, il Durand aveva indicato, e non solo per i pittori, la strada da prendere: «Non si vede davvero perché nelle cose e negli uffici di chiesa tutto debba esser fatto figuraliter: tum quia figurae recesserunt, et est tempus hodie veritatis» (Proemio 5). Finito il tempo delle figure e dei simboli, la verità deve prenderne il posto; può essere direttamente narrata e rappresentata. La parola scritta e l’immagine dipinta sono – perché Orazio insegna ancora – egualmente chiamate a questa nuova verità; ma la pittura commuove e attrae piú della scrittura. Narrare, ricordare: ma le immagini devono soprattutto destare emozioni, coinvolgere l’osservatore. Non è a Greccio che l’asino ha fatto la sua comparsa sulla scena sacra. Già nella Francia del secolo xii, la Processione dei Profeti, azione drammatica semiliturgica, era stata animata dall’introduzione di un asino vivo, come cavalcatura del profeta Balaam. Il successo di questa novità può essere testimoniato dal fatto solo che l’intera rappresentazione assunse presto il nome di Procession de l’âne, anche se l’asino vi compariva solo per pochi minuti90. L’irruzione del quotidiano nel sacro, e nel dipinto, che gli stimoli della predicazione francescana dovevano far trionfare dappertutto, comportava
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una svolta radicale nei modi e nelle formule dell’iconografia sacra. Il fondo oro, a cui la tradizione bizantina non saprà mai rinunciare, doveva uscirne sconfitto e bandito: poiché i fatti di Gesú e dei santi si possono rappresentare sulla terra, dove sono avvenuti; e se si vuol mostrare il cielo in un quadro, l’astratta foglia d’oro – che è luce, figuraliter – cederà il posto all’azzurro atmosferico, alle nubi. Sempre meno simili all’immobilità – che ancora chiameremmo ieratica – delle icone, le figure dei protagonisti della storia sacra prenderanno a muoversi, come uomini e donne; acquisteranno carne, passioni. Il nuovo problema da fronteggiare di continuo sarà dunque come ubbidire alle nuove esigenze di questo tempus veritatis senza decadere dallo stile «sublime» allo stile «umile». L’ingresso del quotidiano – dell’asino – dev’essere recuperato da una nuova dignità stilistica; la tendenza a raccontare sempre di piú, e con sempre piú particolari «minuti» si intreccia con l’altra, a liberare le figure dipinte dalla schiavitú del contorno, rendendole piú plastiche e «vive», facendole – come le sculture di Sicardo – «uscire dalla parete». Questo duplice sviluppo sarà associato, sempre, col nome di Giotto. La vita stessa di san Francesco, subito riconosciuta esemplare, suggeriva-imponeva il ricordo. Nel dossale del lucchese Bonaventura Berlinghieri a Pescia (San Francesco), datato 1235 (è nota, ma perduta, una tavola con simile ordinamento del 1228, che era a San Miniato al Tedesco), la severa figura di san Francesco che regge il suo libro di novus evangelista mostrando nelle mani le stimmate è affiancata, come nel tabellone di una Croce dipinta, da sei scene (a sinistra le Stimmate, la Predica agli uccelli, la Guarigione di una bambina; a destra i Miracoli degli storpi, degli zoppi, degli ossessi), sormontate da due angeli ai lati dell’aureola. La forma del pannello, che termina in alto come in un frontone, è inte-
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ramente nuova; le scene laterali sembrano ripetere dai rilievi votivi romani (per esempio da quelli mitriaci) la consuetudine di affiancare l’immagine di culto con flashes biografici; in esempi piú tardi, le vignette laterali si moltiplicheranno: la tavola di Santa Croce a Firenze ne ha venti91. La nuova semplicità delle chiese francescane – che è sulla linea di San Bernardo –, proibendo le ricche e imponenti decorazioni absidali a mosaico o a fresco, tendeva a privilegiare la forma del dossale, che aveva con l’altare un rapporto diretto, ma «mobile»: poteva essere cambiato di posto, o portato in processione. La progressiva scomparsa dell’iconostasi si accompagna cosí a uno sviluppo grandissimo delle tavole d’altare, con larga gamma di tipi e forme92. Una sorta di sacra attualità è entrata nella pittura, col piú grande onore possibile. All’effigie solenne del santo che chiede da lontano reverenza e salutatio, si affiancano le vignette della sua vita, che vogliono esser guardate da vicino, e come i Fioretti richiamano alla memoria con semplicità e con minuzia i fatti e i detti di lui: e l’incontro col fiammeggiante cherubino è messo sullo stesso piano di quello con gli uccelli. In tutte le scene, i personaggi, muti perché lo è la pittura, esprimono sentimenti e passioni gesticolando; l’agitazione interna degli indemoniati, la tensione del santo verso le stimmate, lo stupore dei suoi compagni che assistono ai miracoli muovono le silhouettes contro uno sfondo di astratte case, di astratti monti. Ma davanti al quadro, l’osservatore non è muto: le formule di quel linguaggio di gesti può trasportarle in emozioni, in parole. Le costituzioni uscite dal capitolo generale dell’ordine francescano tenuto a Narbona nel 1260 e presieduto da san Bonaventura adottano rispetto alle immagini un atteggiamento «rigorista», echeggiando le posizioni di san Bernardo: condannano curiositas e superfluitas delle pitture e delle sculture, vietano (ma con significa-
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tive eccezioni) le vetrate istoriate e le tabulae sumptuosae seu curiosae sull’altare o altrove93. Per non contravvenire alla regola della povertà, certo; ma l’altro tema è la curiositas, da non incoraggiare: come san Bernardo aveva già detto. Non può esserci dubbio che l’intenzione del nuovo generale san Bonaventura e degli altri francescani convenuti a Narbona fosse di limitare drasticamente – anche rispetto alle esuberanze sperimentate da frate Elia – la decorazione figurata delle loro chiese; altrettanto indubbio è che queste regole non furono osservate, e meno che mai in Italia. Ma dentro le stesse norme quasi «iconofobiche» del 1260 ci sono indicazioni che rivelano una tendenza in qualche modo opposta: si proibiscono in genere le vetrate istoriate, ma nella vetrata principale (dietro l’altar maggiore) si suggerisce di porre il Crocifisso oppure la Vergine, san Francesco e sant’Antonio. L’immagine della Madonna è diventata alternativa a quella del Crocifisso; i due santi dell’ordine ricevono, accanto ai due temi principali, un posto quasi uguale94. La nuova devozione per la Madre di Gesú, che certo risale a san Francesco, si mescola cosí a una sorta di «patriottismo» francescano. Il mosaico absidale di Santa Maria Maggiore, eseguito da Jacopo Torriti su commissione del papa francescano Niccolò IV (1288-92), è dedicato alla Dormizione e all’Incoronazione della Vergine. Già nella tradizione bizantina, il Pantocrator aveva preso posto di preferenza nella cupola lasciando l’abside a temi mariologici; eppure il mosaico di Nicolò IV sembra direttamente ispirato dal nuovo posto che la Madonna ha assunto nella devozione e nel culto da san Francesco in poi: san Francesco e sant’Antonio ai lati del doppio trono suggellano il carattere tutto francescano di quest’immagine. Con eguale «patriottismo», lo stesso papa ha interpolato le figure dei due santi del suo ordine nei mosaici del Laterano95. Dalle «povere» tavole dei dossali, san Francesco è entrato nella
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gloria dell’abside; la città del papa perpetua forme e decorazioni piú «rappresentative». Nell’evoluzione della tavola d’altare incentrata sulla Madonna, la Maestà dipinta da Duccio per il Duomo di Siena dal 1308 al 1311 segna, per le dimensioni e l’eccellenza dell’opera, il punto culminante96. La Vergine che giganteggia al centro, fiancheggiata da una triplice teoria d’angeli e santi, non solo tiene in grembo il Bambino, mostrandolo ai fedeli: è diventata come il polo d’attrazione e di riferimento dell’intera storia sacra. Come a commento della scena di maternità, la predella vien raccontando, per formelle intervallate da profeti, l’infanzia di Cristo: ma il rovescio dell’ancona prosegue la narrazione, portandola fino a Emmaus, e dando però singolare rilievo alla scena – piú grande e centrale – della Crocifissione. In tal modo, come il ciclo dell’Infanzia «commenta» la Maternità, la vita pubblica di Gesú è coronata dalla Passione: ma a questo tema è dedicato il lato meno importante. L’immagine soprattutto rappresentativa (davanti) e la serie soprattutto narrativa (dietro) si voltano le spalle; la predella fa da cerniera, e perciò condiziona l’ordine della narrazione (dal basso all’alto) nel lato posteriore97. Un tale capovolgimento non sarebbe stato possibile senza il nuovo accento sul culto di Maria; ma non può nemmeno spiegarsi soltanto cosí. Sin dal 1260, dopo Montaperti, Siena era stata la prima città d’Europa a porsi con pubblico documento sotto la protezione della Madonna; e l’iscrizione tracciata dal pennello di Duccio recita Mater Sancta Dei sis causa Senis requiei – Sis Ducio vita te quia pinxit ita. Il pittore compare in prima persona, chiedendo vita alla Madre di Dio perché l’ha saputa dipingere in quel modo (ita); ma l’accento è posto ancor di piú sulla città. Se il nome stesso di Maestà può passare dal Redentore alla Madonna, è per il significato politico che ormai la sua figura riveste accanto a quello
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religioso. Perciò la scelta dei santi che le fan corona è operata da un punto di vista espressamente, esclusivamente senese: segnalati per nome da altrettante scritte, s’inginocchiano i quattro santi protettori di Siena (Ansano, Savino, Crescenzio e Vittore), posti cosí su un piano piú alto persino rispetto alle coppie Pietro-Paolo, Battista-Evangelista, Caterina d’Alessandria-Agnese. La spinta profana ha privilegiato l’immagine di gloria sull’immagine di Pietà; la «sacra attualità» (che incide sul soggetto e sull’iconografia) ha lasciato il posto all’attualità politica (che determina le dimensioni e la collocazione del quadro, la sua dedica, il suo valore profilattico). La Maestà di Simone Martini (1315) propone, a quattro anni di distanza, un’immagine riformulata in termini piú esplicitamente politico-cerimoniali. Dopo l’esempio di Duccio, il soggetto richiedeva uno spazio larghissimo, una posizione centrale: il passaggio del tema dalla tavola all’affresco può spiegarsi anche cosí. Ma questa nuova Maestà non fu dipinta per una chiesa, bensí per il Palazzo del Comune, dove non poteva aver posto una tavola dipinta, troppo legata alla sua funzione abituale (di culto), al suo luogo abituale (la chiesa). Piú scopertamente dunque la Civitas Virginis chiama la sua patrona nella sala del Consiglio del suo Palazzo Pubblico, circondandola degli stessi santi che la accompagnavano nel Duomo, sotto un larghissimo baldacchino sorretto da otto santi. Fra angeli e apostoli, sopra un largo piedistallo, la Madonna da un gotico trono, avvolta in abiti che paiono tolti dal guardaroba della corte angioina, esibisce un Bambino che le sta in piedi sulle ginocchia, com’era nell’arte francese sin dalla fine del secolo prima. Di regina coeli, com’era ancora nel Duomo – dal fondo-oro di Duccio facendo scendere la sua benedizione sulla città Maria s’è fatta sovrana terrena, partecipa al Concistoro del Comune98. Il cambiamento di
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luogo, molto piú dei mutamenti iconografici, sposta il significato di questa Maestà su un versante apertamente profano. L’immagine sacra s’è fatta piú disponibile alle molteplici richieste di cui viene investita; e scendendo fra gli uomini si veste dei loro panni, dei loro problemi. Davanti alla tavoletta di Pescia, l’osservatore s’avvicina e conta gli uccelli poggiati sul colle, sugli alberi; e nelle piaghe di Francesco piange il dolore di Gesú. La Madonna in Maestà del Palazzo pubblico di Siena gli presenta dall’alto, in una gloria mondana, colei che ha protetto e deve proteggere i senesi contro Firenze e Pisa e Lucca; l’immagine-presenza prevale sull’immagine-racconto, ma offrendosi a una salutatio largamente profana e densa soprattutto di passione comunale. Il frate di San Gimignano che scrisse prima del 1335 le Meditationes Vitae Christi si muove su ben altro piano. Sviluppando le tecniche devozionali suggerite da san Francesco, egli vuol trasportare il lettore sulla scena del Vangelo; perciò racconta lungamente, con dettagli minutissimi, la vita di Gesú, «sait une foule de choses que Marc et que Mathieu ignorent»99. Attribuito falsamente a san Bonaventura, e per questo caricato di maggiore autorità specialmente negli ambienti influenzati dalla predicazione francescana, questo libro diventerà «il quinto vangelo, l’ultimo degli apocrifi [...], un sommario della spiritualità medievale, un manuale di iconografia cristiana, una delle fonti principali dei misteri»100. Un «libro di pittura» che non dichiara di esserlo, ma trae dalle immagini dettagli e indicazioni, dando di una stessa scena due o piú varianti, e al tempo stesso suggerendo al lettore che fosse pittore o committente nuove combinazioni, insegnando e indicando piú che il Vangelo. Si descrive (dipinge) la Crocifissione? Bisogna cominciare inchiodando Gesú alla Croce. Diligenter attende: una scala dietro e l’altra davanti, e i malefici (che
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è, si capisce, indicazione al tempo stesso etica e fisiognomica) che salgono con martelli e chiodi. Conspice nunc bene singula: Gesú che sale, accetta il suo destino, pende dai chiodi per il peso del corpo, sanguina e soffre e muore; lí presso, la Madre che vede e piange (pp. 112 sg.) Conspice, vide: l’osservatore è chiamato a entrare nella scena, a dividere il dolore di Cristo e di Maria, facendolo entrare in sé mediante lo sguardo; ma può percorrere questa strada solo se è condotto per mano in un terreno, «quotidiano» farsi della storia sacra, dove è lecito domandarsi (e rispondere) particolari sul cibo che gli angeli portarono a Gesú nel deserto, e quale mano fu inchiodata per prima, e sentire il rumore dei chiodi e lo strazio della carne. Con ancor maggiore tensione emotiva, un altro francescano, Jacopone da Todi, da poche parole di san Giovanni (19.25: «Stabat [...] iuxta crucem mater ejus») sviluppa tutto il suo canto: Stabat Mater dolorosa iuxta crucem lacrimosa [...] quae moerebat et dolebat et tremebat dum videbat nati poenas incliti.
Ma soprattutto: quis est homo qui non fleret Matrem Christi si videret in tanto supplicio?
La Crocifissione è rivissuta attraverso il dolore della Madre di Gesú che vede il Figlio atrocemente soffrire; e chi non soffrirebbe, vedendo lei? La Madonna si offre come tramite di una profonda compartecipazione emotiva, che si fa tendenzialmente identificazione: per coinvolgere, partendo dalla vista, tutti i sensi del popolo car-
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nalis. La Crocifissione con Cristo per forza d’incendio mentale è privilegio della virtú eroica di Francesco, e pure richiede l’apparizione visibile del Crocifisso o del Cherubino, e il sensibile segno delle stimmate. Un gradino piú in basso, «vedere» con gli occhi della mente le scene della Passione, per riviverle, è possibile a chi le ripensa per forza evocativa interiore; piú facilmente (piú spesso) a chi le legge nei Vangeli; piú ancora, quando la sua immaginazione è aiutata da un testo come le Meditationes, con tutti i particolari che dà; piú ancora, quando è la vista degli occhi che direttamente «aiuta» o suscita la vista della mente. La meta è la stessa, confondersi con la scena sacra / con Cristo; cambia, con l’alchimia di «carnalità» e «spiritualità», il metodo. Gli exempla si moltiplicano. Il quinto Vangelo l’ha scritto l’autore delle Meditationes Vitae Christi, o l’ha scritto san Francesco con la sua vita? Ma ogni santo può farsi, se non novus evangelista, esempio. A partire dal secolo xiii, si rappresentano piú spesso non solo le immagini dei santi, ma specialmente le loro storie. La Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (Varazze), domenicano e vescovo di Genova dal 1292 alla morte (1298) è per le vite dei santi ciò che le Meditationes sono per la vita di Cristo, anzi forse qualcosa di piú; raccoglie e ordina, dall’immensa materia provvista dagli agiografi, vite, storie, episodi, miracoli fatti e detti. Conosce le immagini, ne trae informazioni e particolari; e li suggerisce a chi debba dipingerne di nuove. Seguendo la coorte dei santi, il lettore si muove dalla remota antichità pagana al suo proprio tempo, dalle contrade piú lontane alla città in cui vive; vede sfilare, come in uno specchio, re e papi, monaci e cavalieri, boscaioli, eremiti. Attraverso queste Vite, «il Medioevo ha intravvisto la storia e la geografia [...], un universo vago e fluttuante, deformato come nelle carte antiche, ma pur sempre immagine della realtà»101. L’iconografia corre parallela a questa nuova
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ondata di interessi per l’agiografia; e le volgarizzazioni dell’originale latino fanno correre ancor di piú l’opera del vescovo domenicano per le mani di pittori e committenti. Il popolo non capiva piú il latino dei riti; e il Cantico di frate Sole, senza certo allinearsi al «genere» liturgico, aveva denunciato il bisogno di comunicare in volgare pensieri e riflessioni che somigliavano pur sempre a una preghiera. Anche l’iconografia deve ricorrere ormai a un sermo quotidianus, o inventarlo: Tempus veritatis vuol dire anche questo. Si moltiplicano i santi. Le loro storie (per scene successive), o immagini isolate ripropongono la distinzione/opposizione fra memoria e salutatio. Specialmente dal secolo xiv, la preoccupazione di distinguerli l’uno dall’altro prende corpo, e si traduce in un nuovo vocabolario di attributi, che tendono a differenziare l’uno dall’altro i santi a cui sono riferiti. «Bien des objets dans les tableaux anciens étaient des mots»102: l’agnello fa riconoscere sant’Agnese, alludendo al suo nome; l’abito da pellegrino san Giacomo, alludendo al pellegrinaggio a Compostella; la graticola san Lorenzo, poiché è lo strumento del suo martirio103. Nell’ultimo caso – che è certo il piú frequente –, l’attributo contiene in nuce la narrazione di un fatto (il martirio), la condensa senza dispiegarla interamente; la rammemora senza raccontarla, è «geroglifico». Diventa cosí evidente il carattere tendenzialmente piú arbitrario di questo nuovo linguaggio di segni. La spada potrebbe essere un attributo eccellente per san Pietro, perché tutti ricordano l’episodio dell’orto degli ulivi, l’orecchio mozzato di Malco e le parole di Gesú (Giovanni 18.11); ma a san Pietro l’uso universale, e una spinta propriamente romana, ha posto in mano le simboliche chiavi del primato, e la spada non viene mai usata per lui, bensí per san Paolo, del quale ricorda la decapitazione. Siccome san Pietro e san Paolo sono accomunati nel calendario liturgico e
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rappresentati spesso in coppia, ancor oggi li riconosciamo e li distinguiamo l’uno dall’altro soprattutto per questi attributi. Attraverso successive specificazioni, il vocabolario delle immagini si verrà sempre piú arricchendo e articolando: le figure singole dei santi si troveranno specificate da attributi (parole-indice), le narrazioni avvivate da un sempre piú mobile repertorio di gesti; le relazioni fra personaggio e personaggio, fra centro e margine, fra primo, piano e sfondo, variamente tentate. Quanto piú l’iconografia tenderà dalla formula all’esperimento, tanto piú susciterà – nei pittori, nei committenti, nel pubblico – domande sul significato come funzione del suo valore di messaggio; crescerà via via la consapevolezza che un mutamento di iconografia comporta (o può comportare) uno spostamento di significato. Ma all’origine di questo sviluppo, è il desiderio di rendere le storie sacre, come voleva Sicardo, naturaliter insitae ai fedeli, facendole egredi de parietibus. La scultura, è ovvio, viene prima. Il pulpito che i pisani vollero eretto nel loro Battistero fu terminato nel 1260 (l’anno di Montaperti) dalla docta manus di Nicola Pisano, «giudicato – dice il Vasari – il miglior scultore de’ tempi suoi» perché «mise tanto studio e diligenza per imitare la maniera antica», traendola dai sarcofagi che poteva vedere in Pisa. Doctus dunque perché sagace e abile imitatore degli antichi; come doctus quasi cent’anni prima era stato a Pisa Biduino, disegnando all’antica una cassa tombale nell’architrave di San Casciano e copiando addirittura un intero sarcofago romano, strigilato e con leoni. Ma Nicola, prima che Pisano, è de Apulia, come insegnano i documenti104; e l’argomentazione svolta dal Bertaux (1904) sulla sua dipendenza da modelli elaborati nella Puglia di Federico II conserva, nonostante le interminabili discussioni dei critici, tutto il suo valore105.
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All’esempio dei marmi romani l’arte della corte federiciana chiedeva solennità di vesti, corone d’alloro, e l’ars perduta di scolpire nei volti, colle ciocche dei capelli e le barbe fluenti, nobiltà e vigore. Pier delle Vigne o chiunque sia, il «classico» busto di Capua vuol consegnarlo a una fratellanza d’intenti e di fama coi romani del tempo antico; ma per questo staccandolo dal proprio, e come raggelandolo in un classicismo cerimoniale. La Pisa che chiamò e accolse Nicola de Apulia aveva da piú di cent’anni preso a riconsiderare l’antichità romana, ma rispecchiandola in una dimensione orgogliosamente comunale106. Il grande cratere che già allora doveva essere sulle gradinate del Duomo non era soltanto trofeo né cimelio, ma «il talento di Cesare imperatore», dato a Pisa perché lí «s’adduceano per mare tutti gli tributi e censi che gli re e tutte le nazioni e popoli del mondo [...] rendeano allo Imperio di Roma» (G. Villani); pesandoli prima a Pisa, si capisce. Pisa – nuova Roma non colleziona gratuite antichità; cerca nei marmi romani il proprio passato, per giustificare il presente e il futuro. I sarcofagi che Nicola vide intorno alla Cattedrale vi erano esibiti, come manifesto di una dispiegata romanitas pisana; ai personaggi che vi erano sepolti (Beatrice di Toscana, Gregorio VIII...) davano, per la loro stessa rarità e antichità, un sigillo di gloria terrena. Addensandosi a narrare con intonazione solenne e drammatica le morte favole degli antichi, le figure scolpite dai romani nel marmo offrivano un repertorio di schemi, di gesti, che poteva arricchire di colpo il linguaggio dell’arte di raccontare per immagini. Già il Vasari sapeva bene che Nicola Pisano aveva per questo rinnovato l’arte sua. Nel pulpito del Battistero, il rilievo con la Presentazione di Gesú al Tempio riprende un tema ovvio, abituale, ma rigenerandolo profondamente dall’interno. Le architetture sullo sfondo fanno solo cornice, baldacchino: poiché l’interesse dello scultore è volto inte-
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ramente alle figure umane; e l’altare, tradizionale centro della scena, s’è fatto esile colonnina. I quattro protagonisti del testo di san Luca (2.22-38) non sono piú soli: con san Giuseppe che porta le colombe e Maria, Simeone e Anna, c’è tutta una piccola folla di spettatori del dramma sacro – che è il riconoscimento di Gesú come Messia. Anna stringe ancora il rotulo, che la designa profetessa, ma il suo volto scavato dall’età e dalla lunga penitenza, che la vista del Messia deve compensare, si leva drammaticamente al cielo; questo e l’altro volto di vecchia, che spunta dietro san Giuseppe, sono derivati entrambi dalla nutrice di Fedra nel sarcofago romano della contessa Beatrice. Anche Simeone che porta il Bambino è come raddoppiato da una solennissima figura di vecchio, che fa il suo ingresso da destra nel rilievo, sostenuto da un ragazzo, e ripreso dal «talento dei Pisani»: poiché la liturgia della Purificazione e lo pseudo-Matteo spiegavano «senex puerum portabat, puer autem senem regebat». Dalle sculture antiche Nicola Pisano non trae «citazioni»; la sua mano è docta perché sa cercare anche nei marmi antichi nuove formule e gesti e schemi che rispondano piú da vicino alle esigenze convergenti di una rappresentazione che «esca dalle pareti» mediante il rilievo e che impressioni profondamente lo spettatore mostrandogli nei personaggi della scena sacra passioni e tensioni emotive in cui identificarsi. Nel largo e composto panneggiarsi delle vesti, nelle teste sapientemente inclinate sul collo, nei corpi mossi e come inarcati nessun alambicco di critico, può distinguere ciò che è «gotico» e ciò che è «antico»; poiché Nicola ha chiesto ai romani non un modello di classicità, ma un vocabolario di verità. E l’ha trovato, perché lo cercava. Nel rilievo della Crocifissione, la formula – ancora in pieno vigore che disponeva Maria e Giovanni ai due lati della Croce è abbandonata: i piangenti sono tutti a destra
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del Salvatore, a sinistra – condannati come in un giudizio – tutti i giudei e i gentili; in alto a destra, un angelo sospinge verso Cristo la Chiesa, a sinistra un altro angelo scaccia la Sinagoga. Volti verso il Cristo ancora teso negli spasimi della morte sopraggiunta, i dolenti disegnano tutta una gerarchia di pathos: le tre donne in secondo piano, che levano verso l’alto uno sguardo contratto; san Giovanni con una smorfia di dolore che gli fissa i tratti del volto, le braccia incollate sul corpo; Maria che sviene sorretta dalle pie donne. Questo tema è tolto dagli apocrifi, e diventerà presto canonico e diffuso universalmente dall’uso dei pittori e dalle Meditationes vitae Christi; ma quello del rilievo pisano resta probabilmente il piú drammatico svenimento di Maria dell’arte italiana; anche nel successivo pulpito di Siena la Madonna crolla nelle braccia delle pie donne, e in un modo piú «naturalistico» certo, ma con minore violenza d’effetti. Stabat Mater, suggeriva il Vangelo: ma immaginare quel dolore, identificarsi in esso, piangere in quelle di Maria le proprie lacrime, voleva dire trascinare l’austero, indovinato soffrire del testo evangelico in una dimensione tutta umana, carnale: dove le madri non reggono alla vista del dolore, della morte dei figli. La tendenza all’identificazione emotiva nella scena rappresentata provoca come un aumento di tensione: al climax del testo di Iacopone (dolorosa / lacrimosa / moerebat / dolebat / tremebat / supplicio) corrisponde nel rilievo di Nicola Pisano, l’iperbole nel corpo di Maria che si piega ad angolo retto: «non solamente alcuna volta si dice il vero, ma si trapassa oltre il vero» (Boccaccio, Decameron, I 6.23). Piú «vero» è il corpo del Crocifisso. Frequentare gli antichi era bastato per dare vigore e plasticità d’ossa e di carne a un corpo non piú, come per Giunta, allungato e teso in uno spirituale sfinamento bizantino. Mutate le proporzioni del corpo, e posta una gamba a caval-
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lo dell’altra – perché ora un solo chiodo trafigge i due piedi – questo Gesú morente ha acquistato in peso, dunque in verità; ma ancora incurva il fianco destro, alla bizantina. Nello stesso pulpito Nicola Pisano ha compiuto il passo successivo: piú «audace», o inventivo, come accade, al margine che al centro. La tavoletta, o copertina d’Evangelario, che l’angelo-Fides esibisce nella sinistra reca una compendiaria Crocifissione, con i soli Longino (con la lancia) e Stefatone (con la spugna) ai due lati di un Cristo che quasi precipita dalla Croce per il gran peso del corpo non piú sorretto dalla vita. Le braccia si tendono, la testa crolla completamente sul petto, le ginocchia, libere dalla «curva bizantina», sembrano davvero egredi de pariete107. Passando «dalla scrittura alla rappresentazione con l’aiuto della fisicità oggettuale dell’arte sorella» – la scultura – Giotto ha segnato l’ultima tappa nello sviluppo della Croce dipinta italiana108. Il Crocifisso di Santa Maria Novella eredita la forma giuntesca, ma già la slarga nel suppedaneo, che ospita la trapezoidale montuosità di un Calvario-contenitore del teschio di Adamo. Il corpo di Gesú s’è fatto, anche in pittura, greve come quello di ogni morto, e inerti pendono le mani sanguinanti che ancora Cimabue mostrava a palma aperta, irrigidite non nella morte, ma nella formula. Dalla Croce-supporto, il Crocifisso ha preso rilievo, tenta di sporgere le ginocchia come farebbe in scultura; e, prendendosi piú «verità» anatomica, ha radicalmente mutato le proporzioni: la testa non sta sette volte nel corpo (come in Cimabue), ma sei. Nella Crocifissione della Cappella degli Scrovegni il geroglifico del Golgota, geometrizzato ora in cilindro, sorregge un Cristo piú ancora esanime e fatto esile dalla morte; piú ancora gli cadono sul volto, disordinati, i capelli; le gambe si sono ulteriormente scostate l’una dall’altra prendendo anche cosí un piú scultoreo rilievo.
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Tutt’intorno, si disegna nei volti degli astanti un contrasto tesissimo fra l’indifferenza dei soldati che si dividono le vesti (mentre invano il centurione che sarà santo – designato dall’aureola – segna a dito il Cristo) e la violenta emozione dei dolenti. Maria sviene, sorretta ora anche da san Giovanni, e divenuta perciò come un secondo centro della composizione; la Maddalena, sciolte sulle spalle le chiome lunghissime, ha lasciato il gruppo delle pie donne per abbracciare la Croce. Le figurazioni simboliche della Chiesa e della Sinagoga sono sparite: questa meditatio passionis Christi suggerisce il drammatico opporsi dei peccatori-carnefici ai fedeli-dolenti; il centurione che addita la Croce, e soprattutto la Maddalena che abbraccia i piedi del Cristo, mostrano con eloquenza che il peccatore può redimersi. La strada dell’identificazione emotiva si è fatta duplice: nel dolore della Madonna, madre senza peccato, esempio inarrivabile; e nella compassione, piú carnale e piú raggiungibile, della peccatrice redenta, Maddalena. È Giotto, dunque, «il piú sovrano maestro in dipintura che si trovasse al suo tempo, e quegli che piú trasse ogni figura e atti al naturale» (G. Villani). Consultando e fondendo il lessico della pittura e quello della scultura, la lezione di Nicola Pisano e l’autorità degli antichi, Giotto non traduce le sue figure di greco in volgare, ma crea il suo volgare e, per forza d’ingegno e capacità d’organizzazione, senza riserve lo divulga come la lingua nuova che la pittura parlerà. Trarre una figura al naturale è darle peso, volume; trasferire persino nel contrasto fra le vesti dei dolenti e quelle dei soldati una tensione etica che deve culminare nel vuoto vestito di Gesú, destinato a esser diviso: disegnando vive presenze umane, solenni, come geometrie di volumi. Trarre gli atti al naturale è lo svenimento della Madonna, la Maddalena che si precipita ai piedi della Croce, il concitato disputarsi che i soldati intrecciano intorno alla veste
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santa. Le dita del Cristo nella Croce si sono rattrappite, ripiegate sui chiodi – piú «vere» che nel Crocifisso di Santa Maria Novella –; le mani degli altri personaggi sono nascoste, quando non fanno gesti significativi. Crollano inerti quelle della Madonna, s’agitano nella lite, incrociandosi, disputandosi veste e coltello, quelle dei soldati. Il linguaggio gestuale fa «naturali» gli atti, racconta e rappresenta. Nuove formule si chiedono al dolore. La Deposizione degli Scrovegni allinea intorno al corpo di Gesú un variato, perfetto repertorio di gesti, dallo sconforto alla disperazione109, che dalla folla dei dolenti s’allarga agli angeli in cielo. Volgendo le spalle allo spettatore, due donne in ampio manto gli si offrono come piú diretto tramite visivo per «entrare» nel dipinto; per toccare, come le pie donne, il corpo del Cristo. Un astratto corridoio montuoso, da icona, coronato da un albero secco, dà piú rilievo al gesto del protagonista del riquadro, san Giovanni, con le braccia violentemente protese all’indietro, la bocca semiaperta come in un grido. Il gesto è tolto dall’ampio lessico di Pathosformeln110 che l’antichità classica aveva elaborato, e volgarizzato nei sarcofagi del mito di Meleagro. Già Nicola Pisano l’aveva usato nel pulpito di Siena; Giotto e i suoi lo riproporranno nella Crocifissione e nella Strage degli Innocenti della chiesa inferiore di Assisi. Limpidamente può dunque Filippo Villani giustificare (1381-82) l’assoluta eccellenza di Giotto rispetto ai pittori «antichi» proprio perché le figure ch’egli dipinse «sembrano compiere azioni e gesti con tanta esattezza, che paion proprio in atto di parlare, di piangere, di rallegrarsi, e cosí via, quasi fossero dotate di vita e di respiro; e perciò liniamentis naturae conveniunt». La verità naturale, il pittore la riduce dunque, come vuole il pennello, a liniamenta, e tuttavia senza toglierle la parola;
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non senza diletto di chi guarda, che, a lode dell’ingegno e della mano del pittore, deve dunque stimarlo non inferiore ai maestri delle arti liberali; anzi, questi possono imparare i principî delle loro discipline dai libri, mentre i pittori, armati solo d’ingegno profondo e tenace memoria, traggono le loro norme dall’arte stessa, a seconda del loro sentire111.
Ai praecepta scripturis demandata delle arti liberali s’oppongono dunque, perché non affidate allo scritto, quae in arte sentiant i pittori, le loro norme non-scritte. Senza entrare mai nel sistema delle arti liberali, la pittura ha raggiunto una dignità che la fa pari alla poesia. Da citazione d’Orazio, ut pictura poësis può farsi ormai tema e misura di un largo dibattito112. E naturalmente già rilevare, come faceva il Villani, la mancanza di norme scritte per i pittori era indicare un vuoto, spingere qualcuno a colmarlo. Nel De pictura di Leon Battista Alberti (1435-36), la Navicella di Giotto (che era a San Pietro in Vaticano) è indicata come modello per ogni pittore che voglia esprimere nel volto e nel corpo, mediante il movimento e i gesti delle figure, le diverse passioni umane. Né Giotto entra qui come casuale, gratuita scelta di un pittore solo «eccellente»; se l’Alberti lo addita ad esempio, è perché vede nell’arte di lui – con intelligenza, con ragione – norme non scritte, praecepta scripturis non demandata, eppure capaci non solo di animare, ma anche di organizzare le immagini secondo relazioni reciproche. Per l’Alberti (con Giotto, dunque, in mente) l’opera piú insigne di un pittore non è una figura isolata, per quanto grande (colossus), ma le historiae: le quali si compongono di molti corpora – le figure singole – a loro volta formati di membra, ciascuno dei quali è composto di superficies. L’arte della compositio di una historia dipinta è dunque identica a quella che le scuole di retorica insegnavano per una buona prosa113:
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Fissando queste norme con un’eleganza e una chiarezza che un trattato di Giotto non avrebbe mai potuto avere, l’Alberti dichiarava dunque, come squarciando il velo davanti alla bottega del pittore, il farsi, la costruzione delle sue historiae per somma di corpi mossi da gesti, da espressioni, secondo il principio (dichiarato) della variatio e quelli (non dichiarati) della coordinazione e della subordinazione: poiché nella pittura, aggiunge, «et corporum et colorum varietas amoena est». La corrispondenza fra membro (della figura umana) e frase (della prosa) indica a sufficienza fino a qual grado il diverso gestire delle figure fosse importante ai fini della composizione, e dell’intelligibilità, dell’historia: poiché la stessa applicazione di un modello retorico implica che il fine dell’immagine dipinta è la persuasione del pubblico. Il lavoro del pittore ci appare dunque come il «montaggio», in funzione dell’historia da narrare, di singoli corpora (non troppi, però, si aggiunge; non piú di nove o dieci per ogni scena!) colle membra diversamente atteggiate, e articolate su diversi piani (superficies). E lo strettissimo paragone colle norme codificate dai retori propone la pittura, propriamente, come un linguaggio. Ma la copia et varietas rerum, che l’Alberti raccomanda al pittore, chiedeva dunque un piú vasto repertorio di figure, di gesti, piú agilmente fra loro connessi: e il lessico degli antichi, che i freddi marmi da soli non avrebbero mai insegnato, viene dunque da queste nuove
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richieste evocato. L’assoluta mancanza di pitture antiche spiega a sufficienza perché gli scultori abbiano per primi cercato nell’arte classica le nuove formule che persuadessero gli osservatori destando in loro emozioni piú «vere». Rispondendo alle stesse esigenze, la pittura viene dopo; ricalcando una strada già percorsa, rapidamente recupera il tempo perduto; e assumendo gli stessi modelli della scultura – dove gesti e rilievo fanno tutt’uno –, li accoglie in blocco. Perciò, se si vuol «trarre ogni figura e atti al naturale», anche nella pittura le figure devono sembrare prominentes et de pariete egredientes, per parere ai fedeli naturaliter insitae: il pittore darà dunque efficacia al gesto mediante il rilievo, al rilievo mediante il gesto. Si confondono l’imitazione dell’antico e la fedeltà alla natura; e il pittore che costruisce le sue historiae con tanta sapienza lo fa dunque davvero, secondo le parole dell’Alberti, «ut oculos docti atque indocti spectatoris diutius quadam cum voluptate et animi motu detineat». Per il dotto e per l’indotto – che l’impatto emozionale suscitato dalle immagini ormai può accomunare –, deve crescere il tempo dell’osservazione; perché le immagini, con la loro ricchezza e varietà e rilievo, regalano verità, e dunque regalano piacere, regalano emozioni.
6. «Non tener pur ad un loco la mente». Erano passati pochi anni da quando Filippo Villani perentoriamente affermava che per i pittori non ci sono praecepta scripturis demandata, e già Cennino Cennini, pittore, stendeva il suo Libro dell’arte, «per confortar tutti quelli ch’all’arte vogliono venire, di quello ch’a lui fu insegnato...»; e naturalmente anch’egli riconduceva a Giotto non solo la sua personale formazione (attraverso Agnolo e Taddeo Gaddi), ma specialmente l’aver
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«rimutato l’arte del dipingere di grecho in latino, e ridotto al moderno»114. Per la prima volta, la parola «moderno», che già si era contrapposta ad «antico» nel linguaggio della teologia e della devozione, viene applicata all’arte contemporanea, con esplicita contrapposizione a quella «di prima»; e, poiché «grecho» vale «bizantino», «rimutare» (cioè ri-tradurre) la pittura in latino vuol dire riportarla alla nobiltà e alla vivezza dell’arte classica. Il «moderno» è dunque l’antico linguaggio, ritrovato e perfetto: perciò l’arte di Giotto è, per Cennino, «compiuta»115; per come può, con mezzi linguistici poveri quando escono dal gergo di bottega, Cennino afferma che con Giotto la pittura è rinata. Perciò «con ragione merita metterla assedere in secondo grado alla scienza, e choronarla di poexia». Non cercheremo tuttavia nelle pagine di quel Libro dell’arte le norme non scritte del dipingere che l’Alberti chiamerà, facendo del pittore un retore, compositio. Il Cennini ha trascritto e riunito ricette e indicazioni strettamente tecniche per fabbricare colori e preparare tavole e disegnare con penna; nessuno – e aveva dunque ragione Filippo Villani – avrebbe pensato di affidare allo scritto, invece, come disporre le figure perché l’historia avesse effetto. Da un passo del Purgatorio di Dante sappiamo, almeno, come una sequenza di historiae poteva esser letta. Giunto al primo girone (dei superbi), Dante viene attratto dai rilievi («intagli») scolpiti tutt’intorno alla ripa: e sono, come una lunga descrizione indica puntualmente (X, vv. 28 sgg.), l’Annunciazione di Gabriele a Maria, Davide e l’Arca del Patto, la Clemenza di Traiano. Per «leggere» ciascuna historia, Dante prima di tutto si avvicina («e fe’ mi presso, | acciò che fosse a li occhi miei disposta»), e la osserva attentamente. La vivezza dell’arte (richiamata attraverso il topos della somiglianza al vero: «la natura lí avrebbe scorno», X
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33) costringe il poeta-spettatore non solo a guardare gli «atti» delle figure rappresentate, ma a immaginare il loro colloquio. L’angelo dinanzi a noi pareva sí verace, quivi intagliato in un atto soave, che non pareva immagine che tace. Giurato si saria ch’el dicesse «Ave!»; perché iv’era imaginata quella ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave; e avea in atto impressa esta favella «Ecce ancilla Dei»… (vv. 37-44).
«Naturalmente», per forza d’impressione sul pellegrino del Purgatorio, si dispiegano dalle bocche di Gabriele e di Maria i due sacri fumetti, tolti – naturalmente – dal Vangelo: ché l’immagine, se non parla, fa parlare la memoria di chi la guarda. È l’atto, la disposizione della figura e il gestire, che suggerisce la «favella» («in atto impressa», appunto: il tipo iconografico include il significato; se riconosciamo un «angelo annunciante», sappiamo anche esattamente quello che «dice»). Non solo, le figure «parlano» in quanto fra di esse c’è un sistema di relazioni: Gabriele dice «Ave» perché è di fronte alla Madonna (v . 41) – Il senso della vista entra in conflitto col senso dell’udito, che quelle parole rifiuta di sentire (cosí piú oltre, v. 60), mentre tuttavia echeggiano nella memoria. Ma a «leggere» le ordinate historiae, occorre metodo, o una guida. Troppo si sta soffermando Dante su questa Annunciazione; e Virgilio, buon maestro, lo indirizza altrimenti: «Non tener pur ad un loco la mente» (v . 46). Ubbidiente, Dante volge lo sguardo agli altri «intagli», con le storie di Davide e
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di Traiano; ma l’esortazione di Virgilio non era, come altre volte, ad affrettarsi, bensí proprio a guardare attentamente, in ordine, «tenendo la mente» sulle immagini, le historiae disposte lí intorno: non su una sola. Solo dopo averle partitamente osservate tutte e tre, Dante potrà capire il loro vero significato, il nesso che le lega: sono «l’imagini di tante umilitadi» (v. 98), exempla di umiltà per uso dei superbi, penitenti. Spostare lo sguardo, e la mente, dall’uno all’altro «intaglio», è necessario per leggere, dietro le storie singole, il senso complessivo di un «programma iconografico», il cui «fabbro» è Dio stesso. Ma è Dante che le ha immaginate e descritte, e si è presentato come ingenuo, inesperto osservatore, per lasciare a Virgilio – come tanti «maestri» nelle chiese avran fatto – la parte di chi insegna a guardare le figure. Scegliendo per se stesso il ruolo dello spettatore, egli descrive al tempo stesso l’effetto di quegli exempla sulle anime purganti; proponendo una purificazione dal peccato attraverso la meditazione sulle immagini, afferma la loro profonda efficacia didattica, legandola alla «veracità» dello stile e alla capacità di lettura – che è saper volgere la mente dall’una all’altra historia, per coglierne i nessi; infine, per descrivere l’impatto delle immagini sull’osservatore, la cui mente è costretta a ricordare le parole che le figure sembrano pronunciare, fa appello ai sensi. La corporeità delle figure scolpite, la voce che da loro quasi promana, incatenano dunque i sensi e l’attenzione non solo del carnalis populus, ma anche delle anime spogliate del corpo. Ordinare le historiae vuol dire dunque non solo sceglierle e disporle in sequenza secondo significato, ma anche curarne l’effetto organizzando le reciproche relazioni. Le accuratissime geometrie di Giotto agli Scrovegni (c. 1303-305) sono molto piú che «un esempio». La discrepanza fra la parete sud (aperta da cinque finestre) e la nord, che finestre non ne ha, è risolta con l’in-
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Schema 10 e 11. Padova, Cappella degli Scrovegni. La sequenza delle Storie della Vita di Gesù nella parete Sud e nella parete, Nord.
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venzione di un agile sistema decorativo, che parte proprio dalle finestre come indicazione modulare, e fa una finestra uguale a due riquadri, determinando cosí dimensioni e numero delle scene nei due registri principali. Dove mancano le finestre, i riquadri sono divisi l’uno dall’altro da lunghe fasce, diverse da un registro all’altro, che si aprono al centro in oblò quadrilobati con scenette dipinte; e nel registro inferiore, a ogni riquadro ne corrispondono due, che fingono marmi variegati, ma soprattutto dichiarano il principio della partizione delle superfici per quadrati, e dunque secondo un progetto che implica la subordinazione delle parti al tutto. Né i bordi-cornice di ciascun riquadro (interrotti da rombi), né le fasce coi loro figurati quadrifogli isolano le historiae l’una dall’altra; piuttosto, organizzando lo spazio disponibile secondo principî rigorosi, indicano senza equivoci l’accuratezza nella distribuzione delle parti (figurate e no) in un programma significante come tale. E mentre ancora è d’uso accompagnare i cicli pittorici con tituli dipinti, versificati o no, per spiegare i soggetti116, Giotto affida una funzione didascalica tendenzialmente analoga alla costruita scansione delle pareti: usandola a indicare non i singoli temi, ma il nesso che li unisce. Dentro i riquadri, le architetture117: dalla tettoia che copre la Natività e accoglie l’arrivo dei Magi agli archi e colonne antichizzanti del Tempio da cui Gesú scaccia i mercanti, agli aperti loggiati dove si svolgono le Nozze di Cana e l’Ultima Cena, e la Lavanda dei piedi, e la Pentecoste. Dove le architetture mancano, la scena è definita da quinte montuose, collocate sui due lati (come nel Battesimo), o altrove; solo nel Bacio di Giuda, nella Crocifissione e nell’Ascensione i personaggi s’affollano tanto da impedire ogni caratterizzazione dell’ambiente. Queste «scenografie» non sono mera cornice alle figure; circoscrivendo lo spazio dell’azione, fondano la narrazio-
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ne su un’unità e coerenza di tempo e di luogo che definisce, insieme, le coordinate della memoria. Quando l’architettura copre solo una parte del riquadro, è disposta in modo da rendere evidente la distinzione fra i protagonisti della scena e gli spettatori (come nella Natività); quando lo copre tutto, è strettamente funzionale alla distribuzione delle figure (come Gesú fra i Dottori). La successione storica degli eventi determina il percorso dell’osservatore. La vita di Cristo è divisa in due registri, il primo dalla Natività alla Cacciata dei mercanti dal Tempio, il secondo dall’Ultima Cena alla Pentecoste: e cosí la Passione (secondo registro) ha peso uguale a tutta la restante biografia di Gesú. Dividendo in due «capitoli» la vicenda che i Vangeli raccontano, e disponendoli su due distinti registri, ne risulta, nella rigorosa partizione geometrica, un accoppiamento verticale, ogni volta, di un episodio della Vita prima della Passione con un episodio della Passione. Queste coppie sono legate non solo dalla «necessità» delle incorniciature, ma
Schema 12. Padova, Cappella degli Scrovegni. La sequenza delle Storie della Vita di Gesú nell'arco dell'iconostasi.
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soprattutto da nessi ora tematici, ora visuali, ora tematici e visuali insieme118. Per esempio: sulla parete nord, i primi quattro riquadri (due in alto e due in basso) sono legati orizzontalmente dalla ripetizione della stessa architettura (due volte la tettoia, due volte il loggiato della Cena), che evidenzia la stretta continuità delle scene, l’unità di luogo. Ma in piú, sia nella Natività che nella Cena Gesú è collocato al margine sinistro del riquadro; verso di lui si volge teneramente una volta la Madonna, una volta san Giovanni. La ripetizione del gesto di tenerezza, al principio della Vita e al principio della Passione, sottolinea, proprio nel contrasto fra le due età di Gesú, il suo destino – dal principio – di Redentore mediante il dolore e la morte: il nesso visuale stabilisce dunque anche un nesso tematico. I riquadri della coppia successiva sono organizzati visivamente intorno a due genuflessioni: in alto, il primo dei Magi s’inginocchia, offerente e devoto, a baciare il Bambino avvolto in fasce; in basso, un Gesú adulto si china a lavare i piedi di Pietro e degli Apostoli. La continuità delle due «storie» con le due precedenti (in senso orizzontale), indicata dal ripetersi delle architetture, ne sottolinea l’interno contrasto (in senso verticale): e ne esce accentuata ed esaltata la Lavanda dei piedi: fino a tal punto umilia se stesso colui che i re della terra hanno riconosciuto e adorato in fasce. Qui, e sempre altrove, l’accento cade dunque sulla scena del registro inferiore (che è al tempo stesso il meglio visibile): poiché tutta la vita del Cristo tende alla Passione, le vicende anteriori sono presentate, per analogia o per contrasto, come prefigurazione, e organizzate intorno al ruolo soteriologico del divino protagonista. Il percorso del visitatore, che si suppone debba seguire le scene nel loro ordine cronologico, camminando in su e in giú per la cappella, non è dunque la sola preoccupazione del pittore: sapendo che, quando si fa presso,
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l’occhio inevitabilmente vaga dal riquadro che sta osservando a quelli vicini, Giotto ha stabilito delle relazioni addizionali in senso verticale. Lo schema di riferimento è, ancora, la «tipologia», che accordava intorno alla Salvezza il Vecchio Testamento al Nuovo, ma le nuove concordanze sono tutte dentro la vita del Messia; la Cappella Peruzzi offrirà anche un’altra concordanza, fra la vita dei due san Giovanni, il Battista e l’Evangelista119. Nell’ultima coppia di riquadri della parete nord, la Strage degli Innocenti sovrasta un Cristo flagellato e deriso: l’Innocente che i soldati di Erode non hanno trovato comincia qui, anch’egli, a spargere il suo sangue. La densissima scena della Strage è dominata dalla figura centrale dello spietato carnefice, che par sorgere dai corpi accatastati dei bimbi già uccisi, e sta per configgere la sua spada nel corpo di un altro, che la madre invano trattiene. Dall’alto di un balcone, che pare il pulpito angolare d’una cattedrale, s’affaccia un Erode coronato, la mano tesa a ordinare l’eccidio; dal lato opposto, il folto gruppo delle madri piangenti è collocato contro un edifizio ottagonale che ripete la tipologia dei battisteri: il battesimo dell’acqua è cosí equiparato al battesimo di sangue. «Quinte» alla tragica scena, le due architetture oppongono, insieme, il potere terreno di un re alla forza salvatrice del martirio e della grazia; intorno a loro, s’addensano due gruppi che al centro vengono a trovarsi sovrapposti: dietro al «principale» carnefice ce n’è un altro, che regge per il braccio un bambino e lo uccide; ma l’essenziale della scena in secondo piano è nascosto, e l’effetto resta «a metà». Ripetendo, la scena ad Assisi, Giotto (?) e i suoi seguaci hanno «fatto slittare lateralmente» i due gruppi, in modo che, dei due soldati, «quello che tiene il bambino sospeso in aria per il braccio, già seminascosto, si vede ora completamente. Inoltre, le due figure si scambiano l’abbigliamento (il caratteristico cappuccio) e il modo d’impugnare la
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spada»120. I frescanti di Assisi circondano Erode di dignitari sul balcone, gli contrappongono, anziché un «battistero», una svelta antologia di case-torri, aggiungono immobili armati, a piedi e a cavallo; ai due angoli, si moltiplicano le Pietà, e una madre ripete dal san Giovanni della Deposizione padovana il gesto di estrema disperazione che i sarcofagi romani avevano insegnato. L’uso che Giotto e/o i suoi successori hanno fatto ad Assisi del riquadro degli Scrovegni, assunto a modello, svela la sua costruzione per quinte sovrapposte, calcolate a partire dalle architetture. Si rende cosí evidente che la profondità spaziale, suggerita da un calibrato impianto di volumi, era letta, e poteva esser dispiegata in tutte le sue potenzialità. A questa costruzione, che mediante il volume suggerisce non solo rilievo dal fondo, ma sovrapposizione di piani, conviene il largo uso che Giotto fa, a Padova e altrove, delle figure presentate di spalle121. La tavoletta della Pentecoste ora a Londra riprende dall’esperienza padovana l’aperto loggiato sotto cui gli Apostoli ricevono le fiammelle dello Spirito; ma una balaustra a intarsi marmorei, sbarrata da una bassa porta chiodata, isola e reclude i protagonisti della sacra scena: e chiuse sono, ugualmente, le tre finestrelle della parete di fondo. L’architettura delimita, con un evidente gioco di inclusione ed esclusione, i livelli di presenza dei personaggi nel dipinto: fuori, stanno tre spettatori, due simmetricamente chinati verso il centro, a guardarsi l’un l’altro, sfiorando con le teste il bordo della balaustra; il terzo, solennemente panneggiato, osserva, accostando il volto a quelli aureolati degli Apostoli, e si sovrappone al pilastrino che li incornicia. Obbedendo alla tradizione iconografica122, sono qui compendiariamente rappresentate le gentes che (Atti degli Apostoli 2.7-13) si meravigliano all’udire gli Apostoli parlare d’improvviso in ogni lingua. Ma, voltando le spalle all’osservatore, le
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due figure ai lati della porta chiusa lo costringono non solo a «spostare» ancor piú verso il fondo la casa in cui lo Spirito sta scendendo; proprio per la loro anonimità, che la disposizione simmetrica rende ancor maggiore (uno stesso «cartone» sembra esser stato riusato, sulle sue due facce), i due «gentili» che osservano la Pentecoste da dentro il quadro sono in qualche modo simili al fedele che guarda la tavoletta su un altare. Al sacro evento assistono da fuori: ma il loro misurato stupore è solo il primo gradino verso una piú profonda partecipazione e comprensione; il solenne, muto testimone che estrae la destra da un ricchissimo ammanto per portarla al mento nel gesto della meditazione suggerisce, accanto allo stupore, la riflessione sulla Pentecoste. La figura di spalle, proprio perché da dentro il quadro assiste agli eventi rappresentati, in qualche misura «esce» dal dipinto, o invita l’osservatore a entrarvi; getta un ponte fra i santi protagonisti e la moltitudine senza nome dei fedeli. Il Giudizio Universale che occupa la facciata interna della Cappella degli Scrovegni ripropone, in una nuova impaginazione, gli stessi elementi costitutivi degli analoghi programmi di Sant’Angelo in Formis e di Ferrara, ripetendo del resto un modello che appare giá essenzialmente compiuto nel ciclo carolingio di Müstair (Grigioni)123. È specialmente nel registro piú in basso (il piú visibile), che il programma si complica e si popola di nuove presenze: l’Inferno assomma e varia pene e dannati, e in bell’evidenza un Giuda impiccato; accanto alla Croce sorretta dagli angeli, Enrico Scrovegni in ginocchio esibisce e consegna alla Madonna la cappella che ha voluto dedicarle. Di fronte, nell’arco dell’iconostasi, al di sotto di un’Annunciazione divisa in due riquadri, s’inseriscono, legandosi alla scansione dei registri laterali, la Visitazione e – con singolarissimo rilievo iconografico, che non ha paralleli altrove – la scena in cui
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Giuda è assoldato dai sacerdoti per tradire Gesú (il colloquio immaginato è quello di Matteo 26.15: «Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? At illi constituerunt ei triginta argenteos»). Questo Giuda mercator pessimus, che vende il Maestro per avidità di denaro è dunque posto esattamente di fronte alla scena in cui Giuda s’impicca per il rimorso; e il diavolo, che nei cicli delle pareti laterali non c’è mai (mancano anche le Tentazioni di Gesú), compare solo accanto a Giuda con in mano la borsa del denaro: «intravit autem Satanas in Iudam» (Luca 22.3). In mezzo ai diavoli che popolano l’inferno, alcuni dannati stringono, egualmente, borse rigonfie: e insomma l’avarizia (e la sua punizione) ha nel programma iconografico della cappella un suo posto privilegiato. Anche nell’Inferno di Dante gli usurai non si staccano dalla loro borsa, contrassegnata anzi dagli stemmi di ciascuno: fra gli altri, la «scrofa azzurra e grossa» in campo bianco designa Rinaldo Scrovegni, famoso usuraio (Inferno, XVII, vv. 64-75), padre di Enrico. La ricca cappella offerta da Enrico Scrovegni alla Madonna si può dunque interpretare anche come espiazione dell’usura largamente esercitata nella sua famiglia 124: stimolo alla dedica e suggerimento per alcune figure, si capisce, non chiave per intendere l’intero programma iconografico. Presentandosi, nelle dimensioni non di un dannato ma di un angelo, e in attitudine devota, nella centralissima posizione sopra la porta d’ingresso, Enrico Scrovegni prende le distanze dall’avarizia e dall’usura, vizi di famiglia da cui vuol proclamarsi immune; anche se è con quei danari che la cappella (e Giotto) è stata pagata. Ma il gesto di devozione si traduce di fatto in autoglorificazione iconografica: il committente non solo viola il quadro teologico collocando se stesso nel bel mezzo d’un Giudizio Finale, ma, facendosi dipingere alla destra del Giudice divino, e contrapponendosi agli
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avari puniti dagli orrori infernali, esprime molto piú che la speranza della propria individuale salvezza. Né quest’orgogliosa epifania del committente poteva passare inosservata: già il 9 gennaio 1305 i frati del vicino convento degli Eremitani protestano violentemente contro la fondazione di Enrico Scrovegni e i suoi dipinti, che, dicono, sono fonte di «grave scandalum, damnum, preiudicium et iniuria». Il committente infatti, valicando i limiti delle concessioni avute dal vescovo, ha voluto trasformare una cappella in vera e propria chiesa, aprendola al pubblico, «et alia multa quae ibi facta sunt potius ad pompam, et ad vanam gloriam et quaestum quam ad Dei laudem, gloriam et honorem»125. Quaestus vale propriamente «profitto, guadagno»: trasformando una cappella privata in pubblica esibizione di devota generosità, Enrico Scrovegni fa di un dono alla Madonna uno strumento di propaganda personale e familiare, che si aggiunge alla sua accorta politica di alleanze matrimoniali e amicizie ecclesiastiche, contendendo ai Carraresi un primato che vuol mutarsi in signoria. Dunque una lettura «totale» della cappella che Giotto affrescò dovrebbe condursi su piú piani, senza che uno di questi finisca per prevalere sugli altri al punto di offrirne, da solo, la spiegazione. Gli attori che si muovono sulla scena padovana sono il nobilis et potens Miles D. Henricus Scrovignus Magnificus civis Paduae – che però il contemporaneo Giovanni Da Nono chiama ipocrita e truffatore126 –, i vescovi Ottobono dei Raggi (fino al 31 marzo 1302) e poi Pagano Della Torre, gli Eremitani del convento sito presso all’Arena, e un pittore chiamato da fuori, Giotto. Il pubblico è la città. Lo Scrovegni ha comprato una vasta area da Manfredo Dalesmanini (è conservato il contratto, del 3 febbraio 1300), e riadatta le costruzioni che già ci sono trasformandole in un sontuoso palazzo: abitazione familiare certo, ma anche esibi-
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zione di ricchezza, dichiarazione e facciata significante di uno status sociale e delle sue potenzialità e aspirazioni politiche. A esso vuole annettere «unam parvam ecclesiam in modum quasi cujusdam oratorii, pro se, uxore, matre et familia tantum». I frati del vicino convento degli Eremitani non si oppongono al progetto, rassicurati dal carattere tutto privato dell’oratorium, dove non vi sarà, assicura la concessione del vescovo, concursus populi. L’architettura della cappella è modesta, come il patto e la prudenza volevano; ma a decorare l’interno vengono chiamati due artisti di fuori, e assai ben scelti: Giovanni Pisano e Giotto. In fondo all’abside, viene almeno previsto, in asse con la porta d’ingresso e l’altar maggiore, il sepolcro del fondatore e committente. Sul filo di un culto mariano ovvio e corrente, la cappella vien dedicata alla Madonna della Carità e/o all’Annunziata; il primo titolo certamente allude, per contrasto, all’usura esercitata dal padre: «pro eripienda patris anima a poenis purgationis et illius expianda peccata»127. Enrico Scrovegni sembra aver davvero abbandonato, fra il 1297 e il 1300, l’esercizio dell’usura128, e la salvezza dell’anima del padre deve stargli a cuore almeno quanto la propria immagine pubblica di ricco «cavaliere»: perciò la cappella dovrà essere non solo ex voto, ma manifesto. Poiché la decorazione interna deve, a gran contrasto col semplice esterno, essere ricchissima, gli affreschi ricopriranno le pareti; il tema scelto, un ciclo cristologico accompagnato da un ciclo mariologico, è in sé ovvio; meno ovvio è il programma iconografico, che sceglie e inserisce ogni scena in una complessa trama di interrelazioni, il cui significato, su un piano propriamente teologico, comprenderà solo chi ne indicherà il parallelo o il bandolo (non: «la fonte») nei testi, per esempio, di un predicatore contemporaneo. Il favore o i servigi di un ecclesiastico devono in questa fase aver accompagnato (non necessariamente, e certo non solo: «guidato») le
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scelte del pittore. In questa larga rete che s’annoda sulle pareti da un riquadro all’altro, è certo il committente che vuole inseriti i riferimenti familiari e personali: i due Giuda che si fronteggiano, e denunciano il vizio che Enrico ha abbandonato; e l’immagine del committente, che fronteggia il luogo destinato al suo sepolcro, e a questo nuovo Scrovegni dà nuova dignità e prestigio. Quando gli affreschi sono pronti, e smaglianti, l’oratorium, violando il patto col vescovo, viene aperto al pubblico, e subito si presenta non come privato luogo di pietà, ma come cappella di palazzo; e il concursus populi è sollecitato, al suono delle campane (perché la cappella ha anche un campanile). Protestano gli Eremitani, ma invano: è già pronta una bolla di Benedetto XI, un papa trevigiano che chiama Enrico Scrovegni familiarius noster, che dispensa indulgenze a chi visiti la cappella129; e mentre gli Eremitani cercano invano di farla chiudere, lo Scrovegni ottiene in prestito dal Maggior Consiglio di Venezia (16 marzo 1305) stoffe e tappeti della chiesa di San Marco (che è cappella del palazzo dogale) per rendere ancor piú solenne (ancor piú ricca) la cerimonia di consacrazione. Devozione alla Madonna e alla Passione del Cristo, espiazione di colpe familiari e personali, ostentazione di generosità, esibizione di una costruita immagine pubblica s’intrecciano dunque non «intorno», ma dentro gli affreschi di Giotto. Se avesse fondamento (e non è certo) l’attribuzione a Giotto di una canzone contro la povertà, potremmo con le stesse parole del pittore sottolineare il valore positivo della ricchezza, purché si eviti l’avarizia, e trascrivere una dura condanna della povertà130, che ognuno elogia, mentre però «studia e face | come da quella si possa partire», con un’«ipocresia» che «guasta il mondo». Scritti o no da Giotto, questi versi testimoniano una morale scopertamente mercantile, che Giotto può benissimo aver condiviso: e non solo perché eser-
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citò spesso l’usura131, ma specialmente per l’uso che seppe fare della propria arte, versandola in un’organizzazione di bottega che, mediante uno staff di collaboratori accuratamente scelti, potesse diffondere il «marchio» di Giotto molto al di là di quanto a un sol uomo non sia possibile132. Ma fondar bottega (che è: distribuzione e organizzazione del lavoro) è naturalmente anche fondar scuola (che è: diffusione di moduli compositivi, di scelte stilistiche); ed è poi la scuola che custodisce e fa progredire l’immediata fama di un pittore, facendolo indiscusso maestro. Ma il pittore di Enrico Scrovegni non è diverso dal pittore di Assisi. Il committente ha preteso per sé un ruolo da sempre riservato a vescovi, abati, sovrani. L’irruzione della borghesia mercantile sulla scena della devozione è compiuta; e nonostante un programma iconografico rigorosamente ortodosso e la sanzione di una bolla papale, il salto dalla committenza privata (non di un dipinto, ma d’una chiesa intera!) alla destinazione pubblica dà ancora grave scandalum. Il pittore di Padova è il pittore di Assisi. E non era stato san Francesco un mercante? Nella biografia del Poverello si specchia, in limpido esempio, il rapporto fra la crescita del ceto mercantile e la fortuna degli ordini mendicanti: opposti, ma complementari come le due facce di una stessa moneta. L’ascesa dei mercanti ha scompaginato il quadro degli ordines, che da semplice divisione (e descrizione) della società si era andato via via sacralizzando, e assumendo i tratti di un piano divino, nel quale la distinzione fra i vari ordines fosse, com’era per gli uomini, importante quanto la definizione dei rapporti gerarchici che li legavano in un sistema compatto. Per questo, anche il cavaliere viene «ordinato». Il mercante, no: «libero da legami di dipendenza personale e dalle «servitú» del feudo, manipola il denaro senza lavorare; [...] sconcerta il conformismo di una morale insensibile alla
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nuova economia di mercato, e non si costituisce mai in ordo»133. Nell’antitesi fra ricchezza e povertà, il problema centrale è sempre lo stesso: e dunque ormai nella gerarchia dei peccati la superbia cede il posto all’avarizia134. Nella serie di didascaliche immagini di contrapposti Vizi e Virtú che ornano lo zoccolo della Cappella degli Scrovegni, Avaritia tuttavia non c’è, e a Karitas si oppone, invece, Invidia, che entra cosí per la prima volta in un ciclo dipinto di Vizi e Virtú. Ma l’iconografia di questo vizio, che pure l’iscrizione sovrastante designa esplicitamente come Invidia, è costruita assommando attributi tolti quasi tutti dall’iconografia di Avaritia (come la borsa stretta in mano, le lunghe orecchie, le corna di bue... )135. È, dunque scomparso dal ciclo piú il nome che il Vizio, e nella figura di Invidia si addensa – con un importante mutamento di significato – anche quella dell’avaro: nella cappella del figlio dell’usuraio, fattosi generoso donatore alla Vergine e alla Città, lo slittamento da Avaritia a Invidia suggerisce di caratterizzare questa figura piuttosto come «invidia della ricchezza». E dunque anche le personificazioni dello zoccolo, che lo stesso trattamento in grisaille (a gran contrasto col vivido colore delle soprastanti scene evangeliche, tutte narrate) colloca in una dimensione piú astrattamente e staticamente didascalica, pure si legano a quelle con immediati rimandi: a Giuda impiccato corrisponde, impiccata, Desperatio. Nella figura di Invidia, nella disperata sorte di Giuda non l’accumulo delle ricchezze è condannato, ma la dannosa avidità che non sa mai saziarsi: proprio come nella canzone «di Giotto». Che il ricchissimo Enrico Scrovegni, non piú usuraio, abbia donato generosamente del suo, senza avarizia e senza invidia, la sua cappella lo mostra ancora. Se può entrare in un Giudizio Universale, salvo ante litteram, un mercante, irrompe dunque l’attualità nella pittura; si confondono e si scavalcano i confini del sacro
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e del profano. Nei dipinti che sembrano, ora, «uscire dalle pareti», piú facilmente entrano i vivi. Franco Sacchetti, non solo novellista (1332-1400), ponendo il problema delle Dipinture de’ Beati in una lettera al perugino Jacopo del Conte136, protesta contro la moltitudine di «questi santi novellini», che naturalmente «faceano perdere la fede de’ vecchi». E ognuno s’inventa il suo santo: «e’ Predicatori hanno beata Villana, che fu mia vicina, e fu giovane fiorentina; pur andava vestita come l’altre, e fannone già festa». Si è perduta, noi diremmo, l’«aura» della santità. La fede se ne va, domina l’interesse: già si venera come beato Urbano V, che nessuno ha mai beatificato; eppure già c’è un quadro che lo rappresenta nel Battistero di Firenze: ma deve dunque averlo fatto fare qualcuno «per benefizio ricevuto da lui». Urbano V è il papa del quale scrisse il Petrarca (Senili XIII 13 ) che «per piacere agli uomini, dispiacque a Cristo, a Pietro e a tutti i buoni». Intorno a lui si addensarono, quando tornò a Roma, le speranze di quanti volevano riportata in Italia la sede del papato; e le delusioni di tutti, quando lasciò di nuovo Roma per Avignone. Alle alterne fasi di questo suo «piacere agli uomini» si collega la sua alterna fama. La santità è temporalizzata; e aveva ragione il Sacchetti di deplorare il culto tributato a Urbano V137: il papa francese sarà beatificato solo da Pio IX, e nel 1870. Contro queste popolari devozioni che snaturano la «vecchia» pratica religiosa, portando l’attualità sugli altari, protesta il Sacchetti; ma anche l’antica devozione per il Volto santo gli appare superstiziosa e irragionevole: «se a costui sono appiccate immagini (cioè ex voto), credo sia per lo terribile aspetto»; e «chi vuol dire che sia la imagine del Nostro Signore?» Gesú non ebbe certo, come il crocifisso di Lucca, «li occhi travolti, né spaventati». Che strada deve prendere, dunque, la devozione?
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Nella Regola del governo di cura familiare che il beato Giovanni Dominici scrisse verso il 1400 a istanza di Bartolomea Obizi, moglie di Antonio Alberti (cugino di Leon Battista), la «prima regoluzza» per «nutricare i figliuoli a Dio» è d’avere dipinture in casa di santi fanciulli o vergini giovanette, nelle quali il tuo figliuolo, ancor nelle fascie, si diletti come simile dal simile rapito, con atti e segni grati alla infanzia. E come dico di pinture, cosí dico di scolture. Bene sta la Vergine Maria col fanciullo in braccio, e l’uccellino o la melagrana in pugno. Sarà buona figura Iesu che poppa, Iesu che dorme in grembo della Madre; Iesu le sta cortese innanzi, Iesu profila ed essa Madre tal profilo cuce. Cosí si specchi nel Battista santo, vestito di pelle di cammello, fanciullino che entra nel diserto, scherza cogli uccelli, succhia le foglie melate, dorme in sulla terra. Non nocerebbe se vedessi dipinti Iesu e il Battista, Iesu e il Vangelista piccinini insieme coniunti; gl’innocenti uccisi, acciò gli venisse paura d’arme ed armati138.
Si moltiplicano le immagini. Le «regoluzze» di questo minimo trattato d’iconografia per bambini possiamo proiettarle sull’esperienza degli adulti. Non basta un quadretto devoto, ma si può «di tante dipinture fare quasi tempio in casa». Appropriandosi dell’iconografia sacra per trasportarla fra le mura domestiche, i committenti laici eludono, fra sé e il pittore, ogni filtro ecclesiastico. Ma le norme che il beato Dominici piú esplicitamente enumera per i fanciulli trasportiamole dunque nelle case, nelle stanze di tutti: e dalle dipinture delle chiese troveremo adottati non solo il repertorio dei temi, ma specialmente la generale attitudine. Ad excitandum devotions affectum il fedele (l’adulto e i suoi figliuoli) deve specchiarsi nelle pitture che osserva, «come simile dal simile rapito», e trarne coordinate di
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comportamento. Ma perché il quadro sia «simile» all’osservatore, occorre che le figure siano costruite con «atti e segni» (cioè gesti e attributi) che riescano «grati», che dilettino, che favoriscano l’impressione di «simiglianza». L’exemplum si è fatto specchio: fondandosi sull’appello ai sensi, l’evocazione degli eventi e dei sentimenti mediante le immagini ha trovato il suo cardine nell’identificazione emotiva dell’osservatore; ed è in funzione di questa che il pittore deve saper comporre le figure sul quadro, i loro «atti e segni».
7. «Come pintor che con essemplo pinga». In un’arte senza praecepta affidati alle scritture, qual è dunque la parte del maestro? Come spesso accade, il modo piú semplice di rispondere a questa domanda è, in un certo senso, capovolgerla, riformulandola dalla parte del discepolo: che cosa (e da chi) deve imparare un pittore? Il Libro del Cennini, e altri simili a questo, impartivano una moltitudine d’insegnamenti tecnici, che certamente dovevano far parte di ogni apprendistato. Ma ridurre la formazione del pittore a questo sarebbe come insistere, nel descrivere una scuola medievale, solo sul come appuntare la penna, intingerla nell’inchiostro, guidarla sulla carta o sulla pergamena. Mantenendo per un momento questo parallelo per molti versi improprio, il lavoro del pittore ha certamente uno spessore «tecnico» (nel senso usato sopra) enormemente piú grande di quello dello scrittore; e tuttavia certamente non si ferma qui. Non solo impasti di colori impara il nuovo dipintore; ma anche (e naturalmente insieme) «come si fa» questa e quella figura, questa e quella scena, che corrispondano a richieste di mercato abituali e correnti. «L’artista al pari dello scrittore ha bisogno di un vocabolario prima di accingersi a copiare la realtà»139. Talvolta un poeta, per
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descrivere un tramonto o un guerriero, trova piú semplice (o piú efficace) trascrivere per intero (o riadattare) una formula già usata da altri, prendendo a prestito non «le parole», ma proprio l’ordine e il metro in cui sono disposte; talvolta il pittore traduce nella sua pittura (nel suo stile) le formule iconografiche che già altri hanno usato; sempre ha bisogno di «parole», cioè di unità iconografiche minime con le quali ripetere o comporre tipi, schemi, formule. L’abitudine di trasportare da un modello piú o meno larghe formule compositive, che naturalmente non è cessata neppure oggi, poteva passare relativamente inosservata quando ciascun dipinto era strettamente legato a un solo luogo, e il confronto fra l’uno e l’altro praticamente impossibile, a meno che non si avesse la pazienza di ricopiare su un taccuino uno dei due. Il visitatore comune non faceva mai niente di simile; e l’artista, che viceversa probabilmente girava e disegnava, lo faceva proprio per usare poi questi disegni nel suo lavoro di bottega. La ripetizione di un numero limitato di tipi iconografici, con poche varianti (per esempio la Madonna col Bambino, la Crocifissione, il Giudizio), è esperienza comune del piú distratto visitatore di chiese e di musei. La tradizione iconografica, che spiega questa continuità, al tempo stesso garantisce la continuità dei significati che a ciascun tipo (o schema) iconografico sono strettamente legati. Come nel linguaggio, possiamo essere ragionevolmente sicuri che una parola significa la stessa cosa nel Duecento e nel Settecento (e oggi), semplicemente perché ha continuato a essere usata e compresa. Lo stesso si può dire di una pittura, che non è solo un insieme di immagini, ma piuttosto media, attraverso le immagini, un rapporto sociale fra persone che vuol tradursi in messaggio. Tuttavia, la parola è di tutti, la pittura no; la parola è soprattutto parlata, e perciò la scrittura è (e piú ancora è stata) un filtro di esclusione e sele-
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zione sociale in certa misura distinto e dal suono e dal significato delle parole scritte; mentre le figure dipinte non solo filtrano, ma sono il linguaggio. Ut pictura poësis, non ut pictura verbum: e poiché la realtà che tanto la parola quanto la figura si sforzano di riprodurre è la stessa, nella figura si addensano le due dimensioni (scritta e parlata) che il linguaggio verbale permette di distinguere. Perciò le élites culturali e sociali hanno sempre avuto un dominio assai piú pieno sulla comunicazione per immagini che su quella per parole; per converso, un sistema di comunicazione mediante immagini ha un’area di intelligibilità assai maggiore di ogni linguaggio di parole, e ciò sia per il suo rapporto meno mediato con la realtà sensibile (per esempio, rispetto a una donna reale, un’immagine di donna o le varie parole per dire «donna»), sia perché il numero relativamente assai basso di produttori di immagini (artisti e committenti) frena il formarsi di varianti epicoriche (una valle isolata tendenzialmente «produce» un dialetto, ma tendenzialmente chiama da fuori pittori e scultori). Il paradosso del linguaggio iconografico è che, partendo da un numero relativamente assai ridotto di destinatori, raggiunge un pubblico relativamente assai numeroso. Imparar l’arte della pittura è dunque anche impararne il linguaggio, perché ogni richiesta del committente dev’essere attraverso quel linguaggio tradotta e articolata. Imparare anche le «storie» da dipingere: perché, e già lo impone Vitruvio agli architetti, «si deve sempre saper spiegare la ragione per cui si sono rappresentate delle figure, se qualcuno lo chiede» (De architectura I 1.5). Rappresentare la trama di quelle storie attraverso immagini (tipi e schemi) che – come le parole – non sono inventate lí per lí, ma tratte dai sedimenti della memoria o da un album di modelli (e solo in quanto appartengono a un linguaggio possono esser comprese). Scegliere e comporre le figure che l’album o la memoria sug-
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gerisce secondo relazioni reciproche, «tagliandole» sul filo della storia da narrare, sulla misura della parete da affrescare; impaginandole secondo schemi consacrati, o tentando di introdurne di nuovi. La tradizione iconografica somiglia dunque (ma rilevare le somiglianze senza le differenze è fuorviante esercizio) alla tradizione manoscritta; e non però tanto di un testo classico e intoccabile, come Omero, dove il miglior copista è il piú diligente – non aggiunge né toglie; ma di testi «popolari», come il Romanzo di Alessandro o il Physiologus, o ancora certe vite di santi, che i piú dotti e/o fantasiosi copisti on sapevano trascrivere senza arricchirle di nuove storie, senza cambiare l’ordine delle parti, senza colorirle di una loro patina nuova. E perciò l’edizione critica diviene compito irraggiungibile, gli apparati si gonfiano; e i filologi sono obbligati a dividere la tradizione manoscritta non in «rami», ma in tante recensioni diverse; ma con tanta libertà «redazionale» di copiare mutando, ogni manoscritto tendenzialmente (o potenzialmente) è una recensione. Plagio? Certo no. Solo nel 1791, e naturalmente a Parigi, si è cominciato a parlare di diritto d’autore, per le opere letterarie; ma ancora oggi fra un’opera letteraria e un dipinto l’uso consacra una differenza fondamentale: di un romanzo non si può copiare la trama (anche usando parole diverse per narrarla) senza violare il diritto d’autore, di un quadro è lecito riprodurre l’aspetto generale (la disposizione, le interrelazioni delle figure), purché non se ne copi lo stile. Picasso può copiare Van Gogh, purché il suo quadro sia riconoscibile come Picasso; se invece avesse tutto e solo l’aspetto di un Van Gogh, sarebbe un falso. Nella tradizione iconografica la ripetizione di un tipo, o di uno schema, non è dunque copia (poiché quelle del Volto santo sono copie devozionali); ma configura quel linguaggio delle immagini di cui non lessici né precetti
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scritti potevano trovare gli artisti; e affidato invece – diremo dunque con Filippo Villani – alla loro tenax memoria, una memoria che dev’essere condivisa dal loro pubblico: se no, a chi parlerebbero le figure dipinte? Comune all’artista, al committente e al pubblico, il sistema di relazioni fra immagini e significati è, dunque, un codice che dev’essere, in principio, da tutti inteso. Solo su una trama sorretta dalla memoria, solo contro uno sfondo di immagini che ripetono tipi e schemi consacrati dall’uso, è possibile (per esempio: a Giotto) condurre un piú libero gioco d’invenzioni, che nuovamente articoli gesti e composizioni, parlando lo stesso linguaggio, e però facendolo piú mobile e ricco; rinnovandolo sí, ma dall’interno. Prendendo a prestito dalla filologia testuale criteri e metodi, possiamo riconoscere «linee di tradizione», sceverare derivazioni e varianti. Dal ciclo di pitture (oggi conservato solo in copie seicentesche) che raccontavano la vita degli apostoli Pietro e Paolo nel portico dell’antica Basilica di San Pietro a Roma discende tutta una filiazione d’iconografie: poiché la stessa fama e autorità del luogo dov’erano poste le additava a modello agli altri pittori. Nel riquadro con la Crocifissione di san Pietro, il dipinto vaticano mostrava la croce capovolta col santo al centro, fra due gruppi di figure, ciascuno dei quali raccolto intorno a un monumento della Roma imperiale: a destra, una sorta di obelisco, che dev’essere il cosiddetto Terebinthum, e tre figure con aureola, una delle quali s’appoggia a uno scudo; a sinistra, una specie di piramide, probabilmente la Meta Romuli, dietro la quale spuntano due spettatori, mentre un altro gruppetto è collocato lí davanti. In un affresco di San Piero a Grado presso Pisa e in un manoscritto italiano ora ad Amburgo ritroviamo la stessa scena, con notevoli varianti (specialmente nella pagina del manoscritto, dov’è mescolata con altre): ma possiamo riconoscere il
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sicuro modello romano soprattutto perché, come in quello, ritornano le due figurine che fanno capolino dietro la Meta Romuli140. La comunanza di una lectio difficilior indica il possibile archetipo e individua una linea tradizionale. Per ricordare cosí bene, non bastava al pittore la sola memoria, per quanto tenace. Fra i consigli pratici dispensati da Cennino Cennini a chi volesse apprender l’arte, c’è la raccomandazione di andarsene «per le chiese, o per chapelle», avendo cura di portarsi dietro «una tascha fatta di fogli inchollati, o pur di legniame leggiera [...] buona per tenervi i tuo’ disegni, ed eziandio per potervi tenere su il foglio da disegniare». È meglio girare «sempre soletto, o con compagnia atta affare quel chettu, e non sia atta a darti impaccio», cioè con altri pittori; scegliere accuratamente la storia o la figura da copiare, e adoperare ogni diligenza, cancellando e ricominciando se occorre, finché «si conchordi la tua fighura coll’essempro» (capp. xxix-xxx). Cennino non propone qui una sua norma, ma semplicemente descrive una pratica universale; l’apprendistato del pittore include la preparazione e la raccolta di un repertorio di modelli, tratti dall’arte piú antica: «fogli d’album» che sono insieme esercizio stilistico e archivio «lessicale» di formule e tipi iconografici; «fighure» e «storie». Isolati o raccolti in libri, questi disegni dovevano far parte della dotazione di ogni pittore, passando naturalmente, se occorreva, di mano in mano: e però restando sempre oggetti d’uso, non d’arte, taccuini strettamente professionali. Perciò ne restano, prima del Quattrocento, cosí pochi esempi141. Venendoci da un’età in cui era sconosciuto ogni altro metodo di riproduzione d’immagini, questi disegni sono per noi una sorta di filo rosso della tradizione medievale142. Naturalmente, solo assai di rado si copiavano interi cicli di pitture: eccezionale è il rotulo di perga-
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mena dove, nella prima metà del Duecento, furono diligentemente trascritte le pitture del soffitto di Sant’Eusebio a Vercelli, che erano piú antiche di almeno cent’anni: poiché, come due coppie di distici spiegano al principio e alla fine, la longa vetustas le ha rovinate, i disegni del rotulo serviranno da guida per rifarle (ut rettovet novitas)143. Un po’ piú frequente doveva essere il disegno di un’intera «storia», secondo le indicazioni del Cennini: per assimilare una composizione che si giudicasse esemplare, o si volesse prendere a dichiarato modello. Un caso di questo genere è il disegno del Louvre che ripete, dalla Cappella Baroncelli in Santa Croce, la Presentazione al Tempio dipinta da Taddeo Gaddi, e con notevole fedeltà: non «disegno preparatorio» del pittore stesso, ma, proprio per la sua puntuale diligenza, senza pentimenti né deviazioni, copia di un pittore che possiamo bene immaginare al lavoro, davanti all’affresco, tenendo il foglio sulla sua «tascha di legniame». Il desiderio di assimilare e ripetere la difficile prospettiva architettonica, che raggiunge per quel tempo «a maximum of obliquity and complication»144 basta a giustificare l’accuratezza del copista; la collocazione e lo scaglionarsi delle figure, nonché i loro rapporti proporzionali, sono fondati proprio sull’architettura, che dunque determina l’iconografia ed è, insieme, la novità che fa dell’affresco del Gaddi una sfida e un modello. Questo disegno può essere perciò benissimo l’intermediario fra la Presentazione gaddiana e quella che si ritrova, sempre in Santa Croce, nella Cappella Rinuccini: rispetto al modello (che non si aveva, ovviamente, nessuno scrupolo di ripetere a pochi metri di distanza), la nuova redazione deve adattarsi a un formato piú verticale, e perciò slancia l’architettura, facendola piú «gotica», e soprattutto affolla piú figure, complicando alquanto la loro disposizione simmetrica col comporle in gruppi laterali. Muovendosi nella stessa chie-
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sa, il pittore della Cappella Rinuccini ha probabilmente prima ricopiato alla lettera da Taddeo Gaddi la scena che era chiamato a rappresentare, e l’ha poi riprodotta nel suo affresco con varianti iconografiche, e naturalmente nel suo proprio stile. Ma nella maggior parte dei casi nei taccuini dei pittori «mancano per lo piú composizioni di scene intere. L’artista non copiava scene complete, ma una figura o un gruppo di persone; e questo si può accertare tutte le volte che ci è possibile risalire al suo modello. [...]. Cosí le figure dei taccuini abitano una specie di terra di nessuno fra un’opera d’arte e un’altra: l’artista vuole disporre di un certo numero di entità che, a seconda di ciò che richiede l’opera che sta facendo, potrà mettere insieme in una composizione, con un processo combinatorio che può attuarsi sulla parete o sulla tavola. Cosí la figura (o una sua parte: busti, gambe, braccia, gesti [...]) costituisce un’entità che possiamo chiamare la piú piccola unità artistica usata dall’artista medievale»145.
Per esempio, un foglio del discusso taccuino degli Uffizi (c. 1400)146 raccoglie, mescolandoli senz’ordine, non meno di dodici disegni diversi, e senza relazioni necessarie fra loro: da una completa Resurrezione a un solitario contadino con la vanga in spalla, da Santa Caterina d’Alessandria a un Cristo flagellato rimasto senza i suoi carnefici e senza la colonna. «Registrato», però, e «pronto per l’uso» (per essere inserito, su un muro o su un quadro, in una completa Flagellazione). In questo «taccuino di viaggio», un artista ha appuntato – per riusarli – schemi e temi che incontrava sulla sua strada. «Essempro» è dunque il disegno che il pittore, vagando per chiese e per cappelle, cava dai muri affrescati, dai
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quadri per versarlo poi, dalla «tascha», nel suo proprio serbatoio d’idee e di modelli. Alla fine del Purgatorio (canto XXXII), Dante racconta che non ha potuto ascoltare il canto dei ventiquattro seniori presso la «pianta dispogliata» del Paradiso terrestre, perché sopraffatto dalla sua dolcezza; né – aggiunge – può raccontare come si è addormentato: e chi potrebbe farlo? S’io potessi ritrar come assonnaro li occhi spietati [di Argo] udendo di Siringa, li occhi a cui pur vegghiar costò sí caro, come pintor che con essemplo pinga disegnerei com’io m’addormentai; ma qual vuol sia, che l’assonnar ben finga. (vv. 64-69).
Poiché il divino melius scitur nesciendo, il poeta può narrare la sua esperienza (per l’appunto: ineffabile) solo ricorrendo ripetutamente all’artifizio retorico dell’aposiopesi (o reticentia). «Disegnare» come si è addormentato sarebbe meglio che raccontarlo con parole: ma, se anche fosse pittore, avrebbe pur bisogno, e non l’ha, di un «essemplo» adeguato. Per dipingere il sogno di Dante è necessario un modello, un dipinto col sonno di Argo; e la mancanza di «essemplo» delimita lo spazio del pittore. Di piú: è ai temi mitologici, all’arte classica che si chiedono ormai «essempli», dove a prodigiosi eventi, a straordinarie passioni, il proprio linguaggio non basta piú. Naturalmente non sappiamo quando, «considerando la bontà di quell’opere e piacendogli fortemente»147, gli artisti vaganti cominciarono a inserire nei loro taccuini anche disegni di sculture antiche. Già Nicola Pisano deve averlo fatto, se ha usato a «essemplo» i sarcofagi di Pisa; ma il piú antico esempio conservato è il famoso taccuino dell’Ambrosiana, passato forse dalla botte-
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ga di Gentile da Fabriano a quella del Pisanello: i disegni tratti dai sarcofagi si alternano, sugli stessi fogli, ad angeli, madonne, apostoli, copie da Giotto, da Altichiero, da Donatello148. Dal serbatoio dell’antichità l’artista attinge, come dalle pitture dei maestri, materiali per il suo prontuario d’«essempli». Negli stessi anni, Donatello non solo studia i sarcofagi, ma ne discorre con amici e colleghi, e se ne fa entusiastico «propagandista». Secondo il Vasari, verso il 1407 «nel passar da Cortona entrò in Pieve e vide un pilo antico bellissimo», di tale «perfezzione e bontà del magisterio», che raccontandolo poco dopo al Brunelleschi lo accese sí di una ardente volontà di vederlo, che cosí com’egli era, in mantello et in cappuccio et in zoccoli, senza dir dove andasse si partí da loro a piedi, e si lasciò portare a Cortona dalla volontà et amore ch’e’ portava all’arte. E veduto e piaciutogli il pilo, lo ritrasse con la penna in disegno149.
All’indugiato racconto vasariano fanno eco e supporto le secche parole di due lettere di un aiuto di Donatello, Nanni di Miniato, a Matteo Strozzi, datate 1428 e 1430: avvisovi che gli è 2 sippolture pichole tra Pisa e Lucha, che l’una è a San Frediano presso a Lucha, èvi entro la storia di Bacho, l’alltra èvi preso al monte a S. Giuliano a una chiesa si chiama Vichopelagho [...] e vi sono ispiritegli [...]. Per udita di Donato sono chose vantagiate Donato [...] l’a lodate per chose buone150.
I modelli antichi si cercano, con ardente volontà; sarcofagi che a noi possono apparire scialbe opere di serie, come quello di Cortona, destano un fresco entusiasmo:
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perché il movimento delle figure, la loro nudità, il gestire largo e «iperbolico» che sembra riflettere un mondo di primordiali tensioni e passioni fa apparire quei mutili rilievi animati da vivi «ispiritegli». E si compone cosí, per somma d’«essempli» che tutti cavano da chiese e cappelle, e piú tardi anche da sarcofagi antichi, e che i maggiori artisti accrescono e rinnovano, il lessico della pittura. Non possiamo aspettarci di trovarlo mai trascritto in un rigido codice, che elenchi le formule per ogni storia, le storie per ogni formula. Non è mai esistito nell’arte occidentale un «libro di pittura» come quello del monte Athos151: perché sul raggelato linguaggio che parlavano i «modelli» da affreschi e quadri sempre alitava l’acuta tensione verso la verità di natura, mediata dal piú mosso, «libero» atteggiarsi delle sculture degli antichi. Ma di fronte al tema che un committente gli ha indicato, come lo affronterà il pittore? La crescita del ceto mercantile allarga in modo imprevedibile la domanda d’immagini che di solito ripetono pochi soggetti «centrali», come la Madonna col Bambino o l’Annunciazione. Il moltiplicarsi delle domande di immagini dello stesso tipo provoca naturalmente la «gara» fra gli artisti, che corrisponde, insieme, a un loro intenzionale scaglionarsi su diversi livelli di retribuzione. Ma la gara fra gli artisti si muove attraverso l’assidua ricerca di invenzioni (che solo assai astrattamente potremmo distinguere in stilistiche e iconografiche) che modifichino, portandole a maggior verità, le formule correnti. Questa ricerca si muove in tre direzioni: a) variazioni dentro il tipo, per addizione o sottrazione di attributi, di personaggi di contorno... ; per scomposizione e ricomposizione dell’impaginato (diversa collocazione delle stesse figure); per accrescimento o diminuzione della carica emozionale... ; b) creazione di nuovi tipi, che rispondano al medesimo soggetto mediante la sostituzione di schemi equi-
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valenti; c) introduzione o reintroduzione di temi interamente nuovi o desueti o rari, che sono narrati adattando formule correnti, o stimolano l’invenzione di formule nuove. La correzione, anche parziale, di una formula può essere in principio un passo verso la «verità»; di fatto, crea – se adottata, se ripetuta – una nuova formula. Il moltiplicarsi della domanda conduce cosí a una larga differenziazione dell’iconografia religiosa. Di fronte al tema che un committente gli ha indicato, il pittore deve aver disponibile (nella «tascha», nella bottega) piú d’una soluzione fra cui scegliere. Per questo, nel taccuino degli Uffizi sono annotate sei diverse Madonne col Bambino, e inoltre tre Annunziate e tre Angeli annunzianti (solo una volta, due fogli adiacenti compongono un’Annunciazione completa). Per questo, in un foglio isolato del Louvre, che è stato attribuito a Tommaso da Modena, si affollano – con altre figure – ben tre diverse Annunciazioni: nella prima, Gabriele s’inginocchia leggermente, levando il braccio destro e volgendo in alto la testa verso una Madonna sedente, che incrocia le braccia al seno in un gesto d’accettazione e d’umiltà che dev’essere proprio canonico, se tutt’e tre le varianti lo ripetono tale e quale. Ma nella seconda l’Angelo è in piedi, Maria inginocchiata davanti a un leggio su cui giace un libro aperto; nella terza, entrambi sono inginocchiati, l’Angelo regge nella sinistra un esile giglio araldico, e dall’inginocchiatoio della Madonna sono cresciuti un trono con baldacchino e un traforato banco di lettura: disposti, si capisce, in prospettiva152. Da un sermone di un infiammato predicatore quattrocentesco, fra Roberto Caracciolo da Lecce, possiamo trarre una sorta di «campionario» delle reazioni emotive di Maria all’annuncio dell’Incarnazione: «conturbatio, cogitatio, interrogatio, humiliatio, meritatio»; per ciascuna di esse, è facile trovare un corrispettivo nella pittura contemporanea153. E da prediche, novelle, lette-
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re, poemi potremmo distillare, su questa linea, tutto un implicito «libro di pittura»: che i praecepta non demandati allo scritto in appositi manuali li componga traendoli invece dalla testimonianza di uomini di religione e di laici. E sarebbe utile repertorio, ma tanto piú artificioso quanto piú si volesse ridurlo a fittizia unità. Sedimenta certo, per l’esperienza delle immagini e i discorsi su di esse, tutta una «coscienza iconografica» che si traduce a volte (come nelle parole di fra Roberto da Lecce) in dispiegata classificazione, e tuttavia senza mai diventare «sistema». Cosí l’iconografia, e le sue innovazioni, si muove in equilibrio fra l’assoluta unicità (in principio) dell’indirizzo generale e la pluralità delle varianti dentro di esso, che può spingere a inventarne di nuove: ma il limite che non dev’essere varcato è quello dell’ortodossia e del decoro, che la tradizione stessa stabilisce e disegna. Poco dopo il 1340, per incarico di un committente che non possiamo identificare con certezza, Ambrogio Lorenzetti e i suoi aiuti cominciarono a dipingere, nell’oratorio di San Galgano a Montesiepi, un piccolo ciclo di affreschi, che comprendeva, ai due lati della finestrella sopra l’altare, un’Annunciazione154. Grazie a un accurato strappo e restauro, possiamo leggere questo dipinto in quattro stati successivi: il primo è la sinopia, che mostra in larghi, vigorosi tratti la figura di Gabriele inginocchiato, che porge verso la Madonna un ramo di palma, mentre un’altra figura, in piedi, s’arresta sulla soglia di una porta retrostante. Dall’altra parte, Maria sopraffatta dall’Annunzio s’accascia al suolo in vesti scompigliate, e s’aggrappa a una colonna volgendo appena verso l’Angelo un volto teso e impaurito. Sovrapponendo al testo evangelico una leggenda viva in Terra Santa (la Borsook ha potuto citare il racconto di un pellegrino toscano del 1346-50, fra Niccolò da Poggibonsi), è rappresentato qui, per la prima e la sola volta nel-
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l’arte italiana, lo sgomento che colse la Vergine alla vista di Gabriele; ai pellegrini di Terra Santa si additava «la colonna che abbracciò Santa Maria per la paura, quando l’angelo l’annunciò». Questa «paura» sfugge alla classificazione di fra Roberto da Lecce; e del resto la contemporanea pittura senese conosce, al massimo, la conturbatio della Vergine (di cui si contano famosi esempi): quello di Montesiepi è, dunque, un esperimento. Quando su questa splendida sinopia furono stesi i colori dell’affresco, le linee generali della composizione furono rispettate; solo la singolare figura dello spettatore dietro l’angelo fu cancellata, e la porta rappresentata come chiusa (II stato). Tuttavia, non molto tempo dopo, l’impaurita Maria fu accuratamente eliminata, e sostituita (forse da Pietro Lorenzetti) dall’immagine canonica della Madonna che umilmente accetta il suo destino di madre del Verbo, incrociando le mani sul petto, con un volto ormai non piú che assorto (III stato). Piú tardi, dietro l’angelo annunciante fu aggiunta – a secco – la figura del committente inginocchiato, assai probabilmente un ecclesiastico (IV stato). Quest’affresco racconta dunque intera la sua storia, dall’audacia del pittore che trasporta la figura di Maria dalle aure dell’humilitas a un terreno, umano sgomento, fino all’intervento «normalizzatore» di un committente, che volle riportata a piena ortodossia la figura dell’Annunziata. E non che Ambrogio Lorenzetti fosse poi eterodosso: la sua invenzione si appoggia saldamente su una leggenda radicata nei pii racconti dei pellegrini tornati di Palestina; ma senza precedenti nel lessico strettamente iconografico. Dei tre mutamenti intervenuti rispetto alla sinopia, possiamo imputare l’ultimo sicuramente al committente, e forse meglio a un secondo committente, se non vogliamo pensare il primo cosí imprevidente da non indicare sin dall’inizio al pittore il suo desiderio di vedere dietro l’Angelo la
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propria immagine di devoto. Al primo committente andrà assegnata la scomparsa dello spettatore sulla soglia, che si registra dalla sinopia all’affresco; mentre è chiaro che, in questa fase, la «Maria impaurita» era stata accettata dal committente, e fu infatti affrescata. Perciò questo mutamento, che è il piú radicale, si può attribuire con buona probabilità al passaggio da un primo a un secondo committente; è naturale pensare a un cambiamento di abate nel monastero cistercense di San Galgano. Quella di Ambrogio Lorenzetti è dunque un’invenzione iconografica che non è mai diventata formula (e perciò continua ad apparirci prodigiosa, superbamente isolata): ma proprio per questo è testimonianza altissima di una ricerca di nuovi schemi iconografici che può, incidendo sul già corrente linguaggio, arricchirlo o mutarlo profondamente. Nel lessico dell’iconografia cristiana lo svenimento di Maria ai piedi della croce è accettato (anche se calandolo un po’ di tono rispetto all’iperbole sperimentata da Nicola Pisano); la sua paura davanti all’angelo annunziante, no. La formula ha vinto contro l’esperimento: perché lo spaventato ritrarsi della Vergine, che forza e spinge fino all’iperbole la turbatio di cui parla l’evangelista Luca (1. 29; cfr. 1-30: «ne timeas, Maria»), avrebbe contraddetto tutta una mariologia centrata sulla perfezione della grazia nella persona della Madre del Verbo incarnato155. Un manoscritto trecentesco delle Meditationes Vitae Christi (in volgare) mostra in due successive miniature il turbamento della Madonna e la sua accettazione; le istruzioni scritte per il miniatore prima che i disegni fossero eseguiti dànno il significato delle due iconografie: nella prima, l’arrivo improvviso dell’«angelo che dà l’ambasciata», nella seconda «come Maria accepta», con le mani incrociate sul petto156. La norma del decoro (nell’accezione di misura nell’espressione delle passioni) può dunque intervenire ad
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abbassare la soglia di queste figurate iperboli. Nel trattato sulla pittura, Leonardo descriverà un angelo, che pareva nel suo annuntiare che volessi cacciare la Nostra Donna della sua camera, con movimenti, che dimostravano tanta d’ingiuria, quanto far si potessi a un vilissimo nimico, e la Nostra Donna pareva che si vollesse, come disperata, gittarsi giú d’una finestra157.
Ma la misura che Leonardo raccomanda ai pittori non è condivisa da tutti; l’esempio che egli con tanta vivezza ricorda e disapprova è un dipinto dei suoi stessi tempi, che potrebbe essere benissimo un’Annunciazione come quella (ora al Louvre) dipinta verso la fine del Quattrocento dal milanese Carlo Braccesco, dove l’Angelo piomba di sghembo su una doratissima Madonna ammantata di nero, che è appena balzata su dall’inginocchiatoio e s’aggrappa alla colonna, mostrando uno spavento un po’ cerimoniale e pieno di studiate eleganze158. Cinquant’anni dopo, nella prima edizione delle Vite (1550), il Vasari sembra capovolgere il giudizio di Leonardo: se loda «particolarmente» un’Annunciazione di Giotto alla Badia Fiorentina, è proprio «perché in essa espresse vivamente la paura e lo spavento che nel salutarla Gabriello mise in Maria Vergine, la qual pare che tutta piena di grandissimo timore voglia quasi mettersi in fuga»159. I poveri resti di questa scena, staccati e restaurati di recente160 suggeriscono che il Vasari, nel descrivere l’attitudine delle figure, deve aver calcato la mano, esagerandone l’«espressività»: al contrario di Leonardo, la vivacità del movimento, che comunica l’impressione che la Madonna stia per scappare, è per Vasari un grande pregio artistico. Alla ricerca di nuove formule viene dunque corrispondendo un dibattito fra i pittori (e i loro committenti) su ciò che è ammesso e ciò che non lo è; sull’individuazione dei «movimenti appro-
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priati alli accidenti mentali» (Leonardo)161; sulla costituzione insomma – e sui limiti – del linguaggio pittorico, dal gesto delle singole figure alla compositio dell’insieme. Il mutamento iconografico (e stilistico) è dunque fondato sull’interazione fra esperimento e formula: i nuovi tipi e schemi vanno a innestarsi su un lessico costituito, che necessariamente persiste e assicura la continuità della tradizione; l’introduzione di un certo numero di nuovi tipi e schemi è in parte bilanciata dal graduale abbandono di un certo numero di formule, che «escono» cosí dal linguaggio corrente. L’innesto di nuovi tipi e schemi, ogni volta che viene tentato, può riuscire o no; perciò possiamo distinguere chiaramente fra gli esperimenti che sono stati «rigettati» (come lo spavento dell’Annunciata) e quelli che sono stati invece assorbiti nel lessico d’uso (come lo svenimento della Mater dolorosa). Il grande albero dell’iconografia ha i suoi rami secchi, e non (o non sempre) per manco di vigore «artistico». Con ancor piú drammatici accenti aveva insistito sul dolore della Vergine alla morte del Figlio la grande mistica tedesca: perché soprattutto in Maria – donna, madre – si specchiano le passioni di tutti; e dagli occhi al cuore dei fedeli la sua conturbatio, la sua lamentatio fanno vibrare d’intima emozione, e inducono a una riflessione – che diventa pio esercizio, preghiera – sull’Incarnazione del Verbo e la sua Passione. Già poco dopo l’inizio del secolo xiv, si compie a rapidi passi tutta un’evoluzione che dalle scene di Deposizione dalla Croce isola e stacca il Compianto di Maria sul Figlio defunto, e poi trasporta l’inerte corpo di Gesú sulle ginocchia della Madre, componendo quel gruppo d’intensa, dolente drammaticità che avrebbe poi assunto il nome italiano di Pietà. È a nord delle Alpi che vengono create e diffuse le piú antiche sculture della Pietà: dove, allungandosi sul grembo di Maria, il rigido corpo senza vita del
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Cristo esibisce, piú fonde che sulla Croce, le sue ferite. Dietro questo nuovo schema iconografico, intravvediamo, in controluce la piú diffusa immagine dell’arte cristiana, la Madonna col Bambino: perciò la Pietà (ma dovremmo chiamarla, in tedesco, Vesperbild: perché nel Breviario l’ora dei Vespri corrisponde alla discesa dalla Croce) contiene un parallelo – implicito, inevitabile – fra Infanzia e Passione; accosta e fonde il tema della maternità a quello della morte; nel dolore, nel grembo della madre scava e propone, cornice e modulo, lo specchio piú efficace per rivivere, imitare la passione di Gesú. A questo tema gli scultori italiani non sapevano dare soluzioni adeguate: e tuttavia la nuova devozione, diffondendosi piú rapidamente dell’iconografia corrispondente, già lo richiedeva. È per questo che, fra il 1370-80 e la metà del secolo seguente, si diffondono a decine in Italia le Pietà di scultori tedeschi; che nelle stesse chiese mescolano alla nuova tensione verso la classicità ritrovata – che e anche equilibrio delle parti la loro immediata, «anticlassica» espressività162. Gli ordini mendicanti (e specialmente i domenicani) sembrano aver giocato il ruolo piú importante nella diffusione di queste sculture in Italia: dove il tema verrà gradualmente assimilato e riproposto dagli artisti locali, secondo una linea di sviluppo di cui il solo richiamo alla Pietà giovanile di Michelangelo indica, nel modo piú chiaro, la direzione. Il corpo di Gesú non è piú rinsecchito e teso, quasi crocifisso di legno staccato dalla sua croce, e allungato tal quale in grembo alla Madonna; perdendo il rigor mortis, ricade dolcemente, inerte e nudo, e fatto piú agile e molle meglio si compone con la panneggiatissima figura della madre. Il vigoroso, «primitivo» espressionismo dei modelli tedeschi è stato assorbito entro una formula che subordina il pathos all’equilibrio delle parti, senza tuttavia svuotarlo né calarlo di tono. Un soggetto che manca nel Vangelo e nel culto ufficiale della Chie-
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sa ha trovato cosí il suo posto nel sistema iconografico; la sua versione italiana corrisponde a un’evoluzione dal meno al piú «equilibrato», dal meno al piú «naturale». Con tratti in qualche modo opposti si presenta, nel corso dei secoli xiii e xiv, il trapasso da una formula all’altra nell’iconografia della Resurrezione. Lo schema piú antico, dedotto alla lettera dal testo dei Vangeli, rappresentava questo tema solo indirettamente, mostrando il sepolcro vuoto al momento della visita delle Pie Donne, e seduto su di esso l’Angelo che disse alle Marie «Non temete, è risorto»; spesso si aggiungevano i soldati tramortiti dal terrore (Matteo 28.1-6). È specialmente fra Due e Trecento che quest’iconografia cede gradualmente il passo alla nuova, prepotentemente dominata dalla figura stessa del Risorto, che ora emerge dal sepolcro poggiando un piede sul bordo e brandendo un crociato stendardo (come nell’affresco di Piero della Francesca a Borgo San Sepolcro), e piú tardi invece sempre piú spesso s’innalza a mezz’aria, volteggiando senza peso sul sarcofago scoperchiato. Sia l’una che l’altra innovazione sono nate da processi di contaminatio iconografica con scene analoghe. La rappresentazione diretta della Resurrezione di Gesú, naturale per un’arte che volesse «far presenti» gli eventi sacri, era suggerita da altri temi presenti nel repertorio iconografico, la resurrezione di Lazzaro e soprattutto quella dei morti nei cicli dell’Ultimo Giudizio; tanto piú che la sorte di Lazzaro, testimoniando il potere di Cristo sulla vita e sulla morte, prefigura il suo stesso destino; e la Resurrezione del Cristo è poi vista come garanzia ultima e piena della resurrezione finale di tutti. Nell’iconografia, al contrario, è dall’immagine della resurrezione di tutti che Gesú sembra aver tratto la propria. Con simile sviluppo (e partendo da scene come quelle sopra descritte), la contaminatio con altri prodigi, la Trasfigurazione e l’Ascensione, porta – ed è iconogra-
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fia specialmente italiana – il Risorto a mezz’aria, allineando in serie compatta, con tre violazioni della legge di gravità, tre momenti in cui la sua natura divina si è manifestata con piú eclatante evidenza. Una miniatura fiorentina del Trecento mostra la doppia iconografia: al di sotto del Cristo librato in volo, s’apre il vuoto sepolcro su cui è seduto un bianco angelo, che parla alle Marie stupefatte. Ai piedi del sarcofago, tre soldati dormienti: come spesso, il sacro terrore dei custodi sgominati dalla sola apparizione dell’angelo (secondo il racconto di san Matteo) si è trasformato in una specie di bonaria siesta; nel Settecento, Juan de Ayala protesterà contro quest’immagine, che – dice – offende la disciplina dell’esercito romano163. Ma nella miniatura fiorentina nessuno (nemmeno l’angelo, nemmeno le Marie) sembrano accorgersi che Gesú è proprio lí sopra: i due schemi iconografici – il vecchio e il nuovo – sono stati giustapposti, non fusi, e ciascun personaggio ha conservato i suoi gesti; lo schema vecchio, senza Gesú risorto, resiste ancora, ma a prezzo di contaminarsi col nuovo: e sta, dunque, per essere abbandonato per sempre. Portando visibilmente il Risorto non solo fuori, ma sopra il sepolcro, la tradizione italiana denuncia uno sviluppo dal piú «naturale» al meno, privilegiando sul verosimile l’«effetto». La scena della Pietà è stata tutta assorbita entro una dimensione di tesa, quotidiana umanità; la Resurrezione è sospinta in un’aura soltanto divina, dominata dall’unicità e terribilità del prodigio: visione che i Vangeli non descrivono, addita con trionfale solennità il potere di colui che può infrangere le porte della morte e dell’inferno. L’umano e il divino si staccano, si allontanano l’uno dall’altro: il salto dall’esperienza del quotidiano (per esempio la morte e il dolore) alla speranza del divino tende ad accrescere la distanza fra i due poli che la duplice natura del Cristo aveva voluto fare uno solo.
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Dal gran serbatoio di un’antichità conclusa che si voleva ora non tanto destare a nuova vita, quanto continuare in bella gara d’effetti, venivano non solo gesti drammatici e fluttuanti panneggi; ma anche l’idea, esaltante, della perfezione nell’arte. Cosí, ogni tentativo di rappresentare Zeus è sorpassato, una volta per tutte, dalla grande statua che Fidia pose nel tempio di Olimpia: dopo un raggiungimento cosí perfetto, l’immagine del dio si può ripetere o variare, non migliorare. Alla fine del i secolo d. C., Dione Crisostomo esprime questo pensiero nel modo piú chiaro, ponendo in bocca allo stesso Fidia, in un discorso pronunciato a Olimpia, le ragioni profonde della sua opera (perché lo Zeus fu fatto cosí); e naturalmente deve negare il topos secondo cui Fidia s’era lasciato ispirare da Omero; piuttosto, egli lo ha effigiato «come era possibile effigiare, con un atto d’intelligenza, a un mortale che ragioni, una natura divina e incoercibile entro limiti materiali [...], cercando di far discendere nella figura umana tutte le attribuzioni divine che gli uomini le dànno»164. Il tema cerca la sua forma perfetta; in Fidia, Zeus l’ha trovata. Il problema dell’adeguamento ai celesti prototipi, dibattutissimo nelle controversie dell’età iconoclastica, corre poi sempre «sotto» l’evoluzione dell’arte cristiana, e si traduce, al minimo livello, in giudizio d’ortodossia sulle immagini, che vale: adeguamento maggiore o minore ai testi sacri e all’insegnamento della Chiesa. Ma proprio per questo, si travasa intera nell’iconografia cristiana la tensione potenziale di ogni tema verso la sua forma perfetta, quella che meglio d’ogni altra racconti la «storia» e/o esprima il significato teologico di un’immagine. Dunque versare nei taccuini degli artisti formule e schemi degli antichi era sí arricchire di colpo il loro scarno bagaglio lessicale; ma spingeva a comprimere quelle formule entro i temi cristiani, scardinando le regole del gioco, e costringendo ogni soggetto a misurarsi con un
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piú ampio ventaglio d’iconografie potenziali. A una piú larga domanda d’immagini sacre corrisponde una piú ampia offerta di formule iconografiche. Il moltiplicarsi dei topoi figurativi, che s’addensano nei taccuini, nella memoria dei pittori, conduce a una larga differenziazione dell’iconografia religiosa. Cresce lo spazio per gli esperimenti; e perentoriamente insiste e preme la spinta verso temi profani (come gli stessi miti antichi), che dai sarcofagi traggano non piú solo il gesto, ma il soggetto. Ma gli stessi topoi circolano dal tema cristiano a quello mitico, costituendo dunque un vocabolario non piú tagliato sulla sola arte cristiana, ma tendenzialmente aperto e adattabile a ogni umana esperienza o discorso. Il tema cerca la sua forma perfetta: per Leonardo, l’Annunciazione l’ha trovata nell’humiliatio di Maria, e dunque, naturalmente, nelle Annunciazioni di Leonardo. Ma la tensione verso la forma perfetta è tendenzialmente suicida: perché oltre la perfezione non c’è sviluppo. Nell’elegantissimo discorso di chiusura del XX Congresso di storia dell’arte (New York 1961)165, sir Kenneth Clark ha proposto una sua linea d’interpretazione: «l’invenzione di un’immagine memorabile, unita a una soddisfacente combinazione di forme, è un evento non comune, quasi miracoloso», che condensa e fissa un «motivo», e cioè un «punto di fusione di forma e soggetto, che include un tema o modello ricorrente, e per lo piú anche la nozione che questo tema ricorrente esprime un’idea». Ma quando questo perfetto punto di fusione è raggiunto, lo sviluppo s’arresta; il «motivo» non interessa piú agli artisti creativi, e per conseguenza anche il soggetto come tale muore. Con la Madonna del granduca, per esempio, Raffaello ha attinto la somma perfezione possibile del tema «la Madonna col Bambino», e dunque «ha chiuso per sempre la porta di questo soggetto». Il termine «motivo», che il Clark introduce, include tre livelli di lettura: nella Madonna di Raffaello, il soggetto
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primario (una donna con un bambino), il soggetto secondario (la Madonna col Bambino), l’equilibrio formale delle figure; ma se questi tre elementi sono in realtà indivisibili, è perché «sin da quando l’immagine si è formata nella mente del pittore, essi sono stati uniti e controllati da un qualche antico modello ricorrente, che è giunto a esprimere perfettamente un’idea» (p. 192). Alla miracolosa crasi degli elementi, corrisponde dunque la perfezione del «motivo» rispetto all’«idea»; a questa, la fatale morte del tema. Per K. Clark come per W. Pater, l’arte figurativa «aspira alla condizione della musica», che è concepita come una condizione di rapporto tendenzialmente indeterminato fra forma e senso; nella grande tessitura sinfonica dell’arte occidentale, «motivo» vale perciò, come il Clark espressamente dice, come un leitmotiv wagneriano; mentre l’«antico modello ricorrente», o l’«idea» a cui il motivo tende ad adeguarsi per raggiungere la sua forma perfetta altro non è che un archetipo in senso dichiaratamente junghiano (pp. 204 sg.), che eredita in pieno la tensione platonica verso un mondo d’idee soprasensibili. Non sull’emergere d’innati archetipi fioriscono le iconografie; non per essersi adeguato finalmente a quell’archetipo decade un tema, e muore. È la memoria storica (per sua natura variabile) che funziona come un filtro, e addita talvolta una formula iconografica particolarmente elaborata classificandola (provvisoriamente) come «perfetta». Perché dagli antichi abbiamo imparato che l’arte raggiunge un culmine, e decade: la stessa idea della perfezione è un topos. Intorno a esso potremmo raccogliere non solo le ispirate meditazioni di K. Clark, ma una vasta messe di testi e riflessioni di artisti e di critici, e «opinioni comuni» di tutti; perché è vero che nella nostra memoria storica giacciono, splendide e perpetue, iconografie «perfette». Non c’è che un solo Discobolo, quello di Mirone; l’Ultima Cena l’hanno dipinta in tanti,
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ma nessuno come Leonardo. Non che dopo Leonardo il tema muoia; ma chiunque, se pensa all’Ultima Cena, pensa prima di tutto e soprattutto a quella, figlia perfetta non di un mondo di archetipi, ma di una memoria storica condizionata dalla fama di Leonardo, dalle discussioni, dagli aneddoti sull’opera, dagli ardui problemi di conservazione, dalla moltitudine delle copie, delle imitazioni, delle riproduzioni, che fanno il suo Cenacolo unico, irripetibile, modello perpetuo. Perciò Luis Buñuel, volendo parodiare l’Ultima Cena nel convito dei mendicanti di Viridiana (1961) ha disposto i suoi personaggi come quelli di Leonardo (suscitando scontate e insulse accuse di sacrilegio); lo stesso ha fatto qualche anno dopo Robert Altman in Mash in una beffarda cena di commilitoni intorno a un falso suicida; e solo piú tardi lo schema iconografico è «tornato», nel cinema, al suo tema, Cristo e gli Apostoli, in Jesus Christ Superstar di Norman Jewison. In tutti e tre i film, i personaggi vengono gradualmente assumendo, a un certo punto, i gesti che Leonardo ha consacrato e reso «definitivi» (cioè che nella nostra memoria, attraverso il dipinto di Milano, identificano l’Ultima Cena in quanto scena «reale»); poi si fermano un istante, per consentire al pubblico di riconoscere il rimando al modello leonardesco: l’uso di un riferimento iconografico in funzione di un preciso significato costringe il cinema a rinunciare, per un attimo, al suo maggior vantaggio sulla pittura, il movimento. Questo caso di tradizione iconografica dalla pittura al cinema insegna molte cose: primo, che lo schema iconografico – comunque elaborato – può farsi norma cogente; secondo, che sono i gesti, non gli abiti, a «fare» lo schema; terzo, che la parodia in quanto tale (in quanto possibile, in quanto riconoscibile) individua e segna a dito con certezza uno schema che si suppone a tutti noto (per cosí dire, lo designa esplicitamente come schema). Piú volgarmente, Jesus Christ Superstar siede coi
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suoi discepoli su un prato, ripetendo (eliminato il tavolo) i gesti di Leonardo; l’iconografia di quel Cenacolo è diventata norma, Vangelo: ripeterne tali e quali i gesti vuol dire assicurare il pubblico che quella è proprio l’Ultima Cena, quella «vera». Per una tradizione che non è morta, il lessico della pittura (per opposizione alla comunicazione verbale, parlata o scritta) pretende di essere «universale»; e dovendo narrare mediante i gesti – come nel linguaggio dei muti – aspira a una «perfezione» che è: di ciascuna «storia» offrire la forma piú efficace. Ai committenti della Porta del Ghiberti (che sarà detta del Paradiso), che gli avevano affidato l’invenzione del programma iconografico, e cioè la scelta, di venti storie del Vecchio Testamento, Leonardo Bruni scrisse che le «storie» vogliono avere due cose principalmente: l’una che siano illustri, l’altra che siano significanti. Illustri chiamo quelle che possono ben pascere l’occhio con varietà di disegno, significanti chiamo quelle che abbino importanza degna di memoria [...] Bisognerà che colui, che l’ha a disegnare, sia ben instrutto di ciascuna historia, si che possa ben mettere le persone e gli atti occorrenti [...]. Ma bene vorrei essergli presso per fargli prendere ogni significato, che la storia importa (1424)166.
È dunque la «storia» stessa che comporta-impone sia la composizione sia i gesti «occorrenti» se vuole essere «illustre e significante», e inserirsi nell’invenzione programmatica con «ogni significato, che importa». Lo spazio in cui deve cadere l’immagine è dunque determinato da due poli opposti: i sensi e la memoria. Dentro l’ambito designato dai committenti (il Vecchio Testamento), il Bruni delimita chiaramente il proprio spazio e quello dell’artista: per se stesso riserba la scelta dei tempi e l’«instruttione» all’artista su «ogni significato» di ciascuna storia, mentre al Ghiberti spet-
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ta tradurre quel significato in figure convenientemente atteggiate. Il bagaglio di chi fa l’invenzione dev’essere biblico e teologico; l’artista deve portarsi dietro il suo lessico di gesti. E il Bruni che vuole essere presso al Ghiberti per suggerire e controllare il significato si dispone sulla stessa linea di Ceraunia, moglie di Namazio vescovo di Clermont (secolo v), che – lo racconta Gregorio di Tours – se ne stava seduta nella chiesa costruita dal marito, «legens historias antiquas actionis, pictoribus indicans, quae in parietibus fingere deberent»167. Ma se a Giotto nessuno negava il merito d’aver principiato a riportare l’arte alla natura, era proprio perché non s’era contentato del lessico appreso dai suoi maestri. Federico II, ansioso di conoscere le origini del linguaggio, aveva fatto allevare – racconta Salimbene de Adam – dei bambini da nutrici mute, su un’isola deserta; Leonardo pretende che Giotto «nato in monti solitari, cominciò a disegnare su per i sassi gli atti delle capre, delle quali era guardatore». E sarà dunque l’osservazione diretta della verità di natura la nuova grande sfida agli artisti, che deve aprir loro le magiche porte dietro cui le convenzioni dell’arte hanno celato sinora l’infinita varietà del mondo. Perciò nella «tascha» raccomandata dal Cennini devono trovar posto altri disegni; il precetto di Leonardo è d’esser vago spesse volte nel tuo andarti a spasso di vedere e considerare i siti et li atti delli homini in nel parlare, in nel contendere, o ridere, o azzuffarsi insieme, che atti fieno in loro, et che atti faccino i circostanti, ispartitori o veditori d’esse cose; e quelli notare con brevi segni in questa forma
su un tuo piccolo libretto, il quale tu debbi sempre portar con teco; [...] e queste non sono cose da esser scancellate, anzi
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con grande diligenzia risserbate, perché gli è tante le infinite forme et atti delle cose, che la memoria non è capace a ritenerle; onde queste risserberai come tuoi adiutori e maestri168.
Cosí Giotto, pittore senza maestri, aveva (secondo Leonardo) preso a ingenuo modello «gli atti delle capre», una natura senza cultura; ripudiando il filtro del linguaggio iconografico costituito, il pittore (Leonardo) deve ora trarre solo dal vivo «gli atti» degli uomini.
leonardo da vinci, Das Buch von der Malerei [Trattato della pittura], a cura di H. Ludwig, I, Wien 1882, p. 32, par. 19. 2 Cfr. le parole del patriarca di Costantinopoli Germano I (principio del sec. viii), in migne, Patrologia Graeca XCVIII 164 sgg. 3 Cfr. t. buddensieg, Gregory the Great, the Destroyer of Pagan Idols, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», xxviii, 1965, pp. 44 sgg. 4 Iconoclasm. Papers given at the Ninth Spring Symposium of Byzantine Studies (University of Birmingham, 1975), ed. a cura di A. Bryer e J. Herrin, Birmingham 1977. Cfr. p. miquel, in Dictionnaire de Spiritualité, VII (1971), cc. 1503 sgg. 5 c. mango, Antique Statuary and Byzantine Beholder, in «Dumbarton Oaks Papers», xvii, 1963, pp. 55 sgg. 6 a. esch, in «Archiv für Kulturgeschichte», li, 1969, pp. 33 sg. 7 Libri Carolini (Monumenta Germaniae Historica Legum sectio III: Concilia, tomo II, supplemento, a cura di H. Bastgen, Hannover-Leipzig 1924), p. 140, linea 34. 8 mango, in Iconoclasm cit., p. 4, cita l’episodio senza interpretazione. 9 e. kitzinger, The Cult of Images before Iconoclasm, in «Dumbarton Oaks Papers», viii, 1954 pp. 83-150, specialmente 112 sgg. 10 Traggo il resto dalla versione latina in mansi, Concilia, XIII, p. 672. 11 Per l’attitudine «occidentale» davanti alla questione delle immagini, specialmente s. gero, The Libri Carolini and the Image Controversy, in «Greek Orthodox Theological Review», xviii, 1973, pp. 7-34. 12 a. grabar, Christian Iconography. A Study of its Origins, Princeton 1968. 13 erasmo, Epistolae, a cura di P. S. Allen, I, Oxford 1906, p. 1391. 14 r. brilliant, Gesture and Rank in Roman Art, New Haven (Conn.) 1963. 1
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Salvatore Settis Iconografia dell’arte italiana 1110-1500: una linea migne, Patrologia Graeca XXXV 605c. l. w. barnard, The Graeco-Roman and Oriental Background of the Iconoclastic Controversy, Leiden 1974, p. 68. 17 Per esempio nel II Concilio di Nicea: mansi, Concilia, XII, p. 1068; XIII, pp. 57 sg. 18 r. w. lee, Ut Pictura Poësis, New York 1967 [trad. it. Ut Pictura Poësis, Firenze 1974]. 19 Cfr. j. kollwitz, Bild und Bildertheologie im Mittelalter, in Das Gottesbild im Abendland, ed. G. Howe, Berlin 1957, pp. 109-38, specialmente p. 109. 20 migne, Patrologia Graeca XCIV 1284c. 21 scriptores historiae augustae, Maximini duo XII 10-11. Nello stesso senso può testimoniare una lettera di Lucio Vero, fratello di Marco Aurelio, al precettore Frontone (frontone, Epistole II 3a 436). 22 Institutio Oratoria VI 1.32. 23 mansi, Concilia, XIII, pp. 720-22. 24 g. schreiber, Die Sakrallandschft des Abendlandes, Düsseldorf 1937; b. de gaiffier, Pélérinages et culte des Saints, in Études critiques d’hagiographie et d’icono1ogie, Bruxelles 1967, pp. 31 sgg. 25 Per quel che segue, f. a. yates, L’arte della memoria, Torino 1972. 26 j. sauer, Symbolik des Kirchengebäudes und seiner Ausstattung in der Auffassung des Mittelalters, 2a ed. Freiburg im Breisgau 1924, pp. 209 sgg. Coccodrilli nelle chiese, oggi: a Santa Maria delle Grazie (Mantova), ad Ardesio (Bergamo), a Oiron (Deux-Sèvres). 27 a. esch, Spolien. Zur Wiederverwendung antiker Baustücke und Skulpturen in mittelalterlichen Italien, in «Archiv für Kulturgeschichte», li, 1969, pp. 1-64. 28 Rationale divinorum officiorum I 3.42-43. Cito dall’edizione di Venezia del 1581, p. 12v. 29 Libri Carolini cit., p. 3. 30 Ibid., p. 29. 31 é. mâle, L’art religieux du XIIIe siècle en France, 9a ed. Paris 1958, ha dato indicazioni sulla grande influenza di questo passo sulla cultura francese, e in particolare su Viollet-le-Duc. 32 a. puerari, Il Duomo di Cremona, Milano 1971, p. 102. 33 migne, Patrologia Latina CCXIII Cfr. p. g. ficker, Der Mitralis des Sicardus nach seiner Bedeutung für die Ikonographie des Mittelalters, Leipzig 1889. 34 Cfr. i testi citati da f. x. kraus, Geschichte der christlichen Kunst, II, i, Freiburg im Breisgau 1897, p. 366. 35 a. boeckler, Die Bronzetüren des Bonannus von Pisa und des Barisanus von Trani, Berlin 1953. 36 Serm. CXX i (migne, Patrologia Latina XXXVII 1984). Per que15 16
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Salvatore Settis Iconografia dell’arte italiana 1110-1500: una linea sto tema ricchissimo, cfr. e. guldan, Eva und Maria. Eine Antithese als Bildmotiv, Graz-Köln 1966. 37 p. bacci, La Pieve di S. Giovanni a Campiglia Marittina, in «L’Arte», vii, 1910, p. 7 estr.: «la fronte marmorea di un sarcofago pagano adoprata per epistilio». 38 ficker, Der Mitralis cit., pp. 59 sg. 39 é. mâle, L’art religieux du XIIe siècle en France, 2a ed. Paris 1924, p. 378. 40 Cfr. ficker, Der Mitralis cit., p. 45. 41 m. sepet, Les prophètes du Christ. Etude sur les origines du théâtre au Moyen-Âge, in «Bibliothèque de l’Ecole des Chartes», xxviii, 1867, pp. 1 sgg. (con quattro puntate successive). Il merito di aver spiegato con questo sermone i cartigli dei profeti di Ferrara, di Cremona e di altre chiese italiane spetta interamente a j. durand, Monuments figurés du Moyen-Âge exécutés d’après des textes liturgiques, in «Bulletin Monumental», liv, 1888, pp. 521 sgg. 42 sepet, Les prophètes du Christ cit., in «Bibliothèque de l’Ecole des Chartes», xxxviii, 1877, p. 410. 43 o. brendel, Origin and Meaning of the Mandorla, in «Gazette des Beaux-Arts», VI s., XXV, 1944, pp. 5-24. 44 o. morisani, Gli affreschi di Sant’Angelo in Formis, Napoli 1962; a. moppert-schmidt, Die Fresken von Sant’Angelo in Formis, Zürich 1967. Per la cronologia, cfr. la discussione di w. paeseler, in Actes du XXIIe Congrès International d’Histoire de l’Art, Budapest 1972, pp. 259 sgg. 45 mâle, L’art religieux du XIIe siècle cit., p. 408. 46 Quaestio in Exodum 73. 47 g. matthiae, Gli affreschi medievali di Santa Croce in Gerusalemme, Roma 1968, p. 3; cfr. a. grabar, L’imago clipeata chrétienne, in L’Art de la fin de l’antiquité et du Moyen Âge, I, Paris 1968, pp. 607 sgg.; s. settis, in «Athenaeum», l, 1972, pp. 237 sgg. e h. lavagne, in Présence de Virgile, Paris 1978, pp. 142-46. 48 sepet, Les prophètes du Christ cit., in «Bibliothèque de l’École des Chartes», xxxix, 1868, pp. 108 e passim. 49 e. kitzinger, I mosaici di Monreale, Palermo 1960. 50 e. h. gombrich, La maschera e la faccia: la percezione della fisionomia nella vita e nell’arte, in e. h. gombrich, j. hochberg e m. black, Arte, percezione e realtà, Torino 1978, pp. 3 sgg. 51 g. de francovich, Benedetto Antelami architetto e scultore e l’arte del suo tempo, Milano 1952, pp. 151 sgg. 52 Cfr. j. m. steadman, Adam’s Tunica Rubea. Vestiary Symbolism in the Anglo-Norman Adam, in «Modern Language Notes», lxii, 1957, pp. 497-99; l. r. muir, Liturgy and Drama in the Anglo-Norman Adam, Oxford 1973, spec. pp. 34 sgg. e 47 sgg.
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Salvatore Settis Iconografia dell’arte italiana 1110-1500: una linea mâle, L’art religieux du XIIe siècle cit., pp. 135 sgg.; de francovich, Benedetto Antelami cit., p. 67. 54 migne, Patrologia Latina CLXXXIII 284d; cfr. de francovich, Benedetto Antelami cit. 55 amato, Storia dei Normanni, Roma 1935, III, 52. 56 sauer, Symbolik des Kirchengebäudes cit., p. 299. Per il divieto del Digesto, e. müntz, Etudes iconographiques et archéologiques sur le Moyen-Âge, Paris 1887, p. 47. 57 c. settis-frugoni Per una lettura del mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», lxxx, 1968, pp. 213-56; ibid, lxxxii, 1970, pp. 243-70 e in Storiografia e storia. Studi in onore di E. Dupré Theseider, Roma 1974, II, pp. 651-59; w. haug, Das Mosaik von Otranto, Wiesbaden 1977. 58 r. lejeune e j. stiennon, La légende de Roland dans l’art du Moyen-Âge, Bruxelles 1966, vol. I, pp. 97-102. 59 m. butor, Les mots dans la peinture, Genève 1969. 60 m. avery, The Exultet Rolls ot South Italy, Princeton 1936; g. cavallo, Rotuli di Exultet dell’Italia Meridionale, Bari 1973. 61 g. trenta, I musaici del Duomo di Pisa e i loro autori, Firenze 1896. 62 Cfr. c. capizzi, Pantokrator (Saggio d’esegesi letterario-iconografica), Roma 1964, specialmente pp. 191 sgg. Cfr. la recensione a questo libro di k. wessel, in «Byzantinische Zeitschrift», lviii, 1965, pp. 141-47. 63 Per esempio e. sandberg-vavalà, La Croce dipinta italiana, Verona 1929, p. 144, fig. 105 e p. 544, fig. 366. Cfr. in generale r. berger, Die Darstellung des thronenden Christus in der romanischen Kunst, Reutlingen 1926, pp. 126-59. 64 gero, The Libri Carolini cit., pp. 16 sgg. 65 p. thoby, Le Crucifix des origines au Concile de Trente, Paris 1959, pp. 18 sgg. 66 p. a. underwood, The Evidence of Restoration in the Sanctuary Mosaics of the Church of the Dormition in Nicaea, in «Dumbarton Oaks Papers», xiii, 1959, pp. 135-43. 67 Fondamentale l’opera di sandrerg-vavalà, La Croce dipinta cit. 68 g. durand, Rationale Divinorum Officiorum, I, i, § 41; cito dall’edizione di Venezia del 1581, pp. 6 sg. 69 Per questa iconografia, sandberg-vavalà, La Croce dipinta cit., p. 135. 70 c. brandi, Il Crocifisso di Giunta Pisano in San Domenico a Bologna, in «L’Arte», xxxix, 1936, pp. 71-91. 71 IV 3 (1923, p. 33). Cfr. l’indice tematico in t. desbonnets e d. vorreux, St-François d’Assise, Paris 1968, pp. 1508 e 1531, s. v. Croix. 72 é. delaruelle, La piété populaire au Moyen-Âge, Torino 1975, pp. 53
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Salvatore Settis Iconografia dell’arte italiana 1110-1500: una linea 229 sgg.; cfr. pp. 27 sgg., sul crocifisso nella pietà popolare fino al secolo xi. 73 Ibid, p. 269. 74 san bonaventura, Legenda maior cit., XIV, i, p. 148. 75 sandberg-vavalà, La Croce dipinta cit., pp. 823 sgg.; si veda lo schema analitico delle pp. 880 sg., ultima colonna. 76 La figura è tratta da l. de chérancé, Saint François d’Assise, Paris 1885, p. 152. 77 b. kleinschmidt, Die Basilika S. Francesco in Assisi, Berlin 1925, vol. I, pp. 14 sg., nota. 78 r. b. brooke, Early Franciscan Government. Elias to Bonaventure, Cambridge (Mass.) 1959; g. barone, Frate Elia, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», lxxxv, 1974-75 (ma 1978), pp. 89-144. 79 l. wadding, Annales Ordinis Minorum, II, Romae 1723, p. 397. 80 Cfr. m. baxandall, Giotto and the Orators, Oxford 1971, p. 43. 81 Cfr. specialmente, per ciò che segue, g. schnürer e j. m. ritz, St. Kümmernis und Volto Santo, Düsseldorf 1934. 82 Il termine «aura» è tolto da w. benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Torino 1966. 83 All’amplissima. documentazione già raccolta da Schnürer e Ritz vanno aggiunti contributi posteriori; quelli fino al 1969 sono riassunti da r. van doren, in Bibliotheca Sanctorum, XII (1969), cc. 1094-99, s. v. Vilgefortis. 84 Apol., cap. xii (ed. J. Leclercq e H. Rochiis, Roma 1963, nel III volume delle Opere di san Bernardo; trad. inglese con commento di M. Casey e prefazione di J. Leclercq, Spencer [Mass.] 1970). Cfr. p. michel, Formosa deformitas. Bewältigungsformen des Hässlichen in mittelalterlicher Literatur, Bonn 1976, specialmente pp. 156 sgg.; m. schapiro, Romanesque Art, New York 1977 pp. 6 sgg. Da san Bernardo deriva certamente un testo anonimo, di contenuto analogo (secolo xiii), che tenta però anche di suggerire di quali temi una chiesa andrebbe ornata: cfr. l. delisle, Mélanges de paléographie et de bibliographie, Paris 1880, pp. 205-7. Cfr. inoltre sauer, Symbolik cit., p. 280, per l’opposizione fra curiositas e devotio in un contesto simile, ma assai piú tardi (Rumpler abate di Formbach, principio del secolo xvi). 85 f. klingender, Animals in Art and Thought to the End of the Middle Ages, London 1971, pp. 334 sg. 86 a.-m. armand, St-Bernard et le renouveau de l’iconographie au XIIe siècle, Paris 1944, p. 25. 87 Mitralis, cap. xii, in migne, Patrologia Latina CCXIII 44b. Mi pare necessaria all’intelligenza del testo la correzione di ipsarum in ipsorum alla fine della citazione.
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Salvatore Settis Iconografia dell’arte italiana 1110-1500: una linea Means and Ends. Reflections on the History of the Fresco Painting, London 1976, p. 34. 89 sauer, Symbolik cit, p. 279. 90 sepet, Les prophètes du Christ cit., pp. 211 sgg. 91 g. kaftal, Iconography of the Saints in Tuscan Painting, Firenze 1952, pp. 385 sgg. Per l’incorniciatura a scene biografiche e la sua storia, b. schweitzer, in «Jahrbuch des deutschen archäologischen Instituts», xlvi, 1931, pp. 228-46; cfr. e. b. garrison, Italian Romanesque Panel Painting. An Illustrated Index, Firenze 1949, specialmente pp. 149 e 153. 92 h. hager, Die Anfänge des italienischen Altarbildes, München 1962. 93 h. thode, Franz von Assisi und die Anfänge der Kunst der Renaissance in Italien, Wien 1934, p. 585. 94 hager, Die Anfänge cit., p. 163. 95 hager, Die Anfänge cit., pp. 18 sg. 96 Ibid, specialmente pp. 146 sgg. 97 Cfr. a. preiser, Die Entstehung und die Entwicklung der Predella in der Italienischen Malerei, Hildesheim - New York 1973, specialmente pp. 72 sgg. 98 r. jaques, Die Ikonographie der Madonna in trono in der Malerei des Dugento, in «Mitteilungen des kunsthistorischen Instituts in Florenz», v, 1937-40, specialmente pp. 45 sgg. 99 l. gillet, Histoire artistique des ordres mendiants, Paris 1912, p. 120. Notizie sull’autore e lo stato della ricerca in m. j. stallings, Meditaciones de passione Christi, Washington (D.C.) 1965; di qui le citazioni che seguiranno, col numero della pagina. 100 Cfr. i. ragusa e r. b. green, Meditations on the Life of Christ, Princeton 1961, p. xxii (in questo volume, sono pubblicate le preziose illustrazioni del Ms. Paris. ital. 115, che contiene la traduzione in volgare delle Meditationes, di cui purtroppo è data però solo una traduzione inglese). 101 mâle, L’art religieux du XIIIe siècle cit., 6a ed. Paris 1925, p. 276. 102 butor, Les mots dans la peinture cit., p. 51. 103 Per questa triplice origine degli attributi, cfr. specialmente h. delehaye, Cinq leçons sur la méthode hagiographique, Bruxelles 1934, p. 130. 104 j. poeschke, Die Sieneser Domkanzel des Nicola Pisanus, Berlin New York 1973, specialmente pp. 67-72. 105 L’art dans l’Italie méridionale, Paris 1904, vol. II, pp. 787 sgg.; cfr. f. bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli, 1266-1414, Roma 1969, pp. 34 sgg. 106 Per ciò che segue, m. seidel, Studien zur Antikenrezeption Nicola Pisanos, in «Mitteilungen des kunsthistorischen Instituts in Florenz», xix, 1975, pp. 307-92. 88
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Salvatore Settis Iconografia dell’arte italiana 1110-1500: una linea Cfr. m. lisner, Holzkruzifixe in Florenz und in der Toskana, München 1970, pp. 16 sg. 108 g. previtali, Giotto e la sua bottega, 2a ed. Milano 1974, p. 65. 109 m. barasch, Gestures of Despair in Medieval and Early Renaissance Art, New York 1976, pp. 69 sgg. 110 Di Pathosformeln ha parlato per primo Aby Warburg: cfr, per tutti e. h. gombrich, Aby Warburg. An Intellectual Biography, London 1970. 111 m. baxandall, Giotto and the Orators. Humanist Observers of Painting in Italy and the Discovery of Pictorial Composition, 1350-1450, Oxford 1971, pp. 146 sg. (testo) e 70 sg. (traduzione e commento). 112 r. w. lee, Ut Pictura Poësis cit. 113 Fondamentale baxandall, Giotto cit, specialmente pp. 130 sgg. 114 Ed. D. V. Thompson jr, New Haven 1932, p. 2. 115 e. panofsky, Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale, Milano 1971, fornisce un eccellente quadro di riferimento e d’interpretazione (per «moderno», pp. 50 sgg.). Ma per l’introduzione e l’uso del termine «moderno» mi sembra inevitabile, piuttosto, il richiamo al quadro teologico: cfr. e. gössmann, Antiqui und Moderni im Mittelalter, Paderborn 1974; basti qui il solo richiamo a Geert Groote e alla devotio moderna. 116 j. von schlosser, La letteratura artistica, 3a ed. Firenze 1977. pp. 35-40. 117 w. euler, Die Architekturdarstellung in der Arena-Kapelle, Bern 1967. 118 m. alpatov, The Parallelism of Giotto’s Paduan Frescoes, in «Art Bulletin», xxix, 1947, pp. 149-54. Cfr. anche m. von nagy, Die Wandbilder der Scrovegni-KapeIle za Padua: Giottos Verhältnis zu seinen Quellen, Basel 1962; j. h. stubblebine, Giotto. The Arena Chapel Frescoes, London 1969; sui medaglioni quadrilobi, a. bertini, in Giotto e il suo tempo, Roma 1971, pp. 143-147; sulle cornici, r. meoli toulmin, ibid., pp. 177-89, e cfr. prosdocimi, ibid., pp. 135-42. Inoltre, b. cole, Giotto and Florentine Painting, 1280-1375, New York 1976, pp. 63-95. 119 f. bologna, Novità su Giotto, Torino 1969, specialmente pp. 51 sgg. 120 previtali, Giotto cit., p. 99. 121 m. koch, Die Rückenfigur im Bild. Von der Antike bis zu Giotto, Recklinghausen 1965. 122 s. seeliger, Pfingsten. Die Ausgiessung des Heiligen Geistes am fünfzigsten Tage nach Ostern, Düsseldorf 1959, specialmente p. 12 e tav. iv. 123 b. brenk, Tradition und Neuerung in der christlichen Kunst des erstens Jahrtausends. Studien zur Geschichte des Weltgerichtsbildes, Wien 1966, pp. 118 e 136 sgg. 124 Cfr. specialmente u. schlegel, On the Picture Program of the Arena Chapel, in stubblebine, Giotto cit., pp. 182-202. 107
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Salvatore Settis Iconografia dell’arte italiana 1110-1500: una linea o. ronchi, Un documento inedito del 9 gennaio 1305 intorno alla Cappella degli Scrovegni, in «Atti e Memorie dell’Accademia Patavina», n. s., lii, 2, 1936, pp. 205-11. 126 j. k. hyde, Padua in the Age of Dante, New York 1966, pp. 101 sg. In questo libro, le informazioni sulle attività e le ambizioni politiche di Enrico Scrovegni. 127 scardeone, De antiquitate urbis Patavii, Basileae 1560, p. 322. 128 hyde, Padua cit., pp. 188 sg.; per il suo accesso al rango di cavaliere, p. 101. 129 c. grandjean, Le Registre de Benoît XI, Paris 1905, n. 435; cfr. n. 126. 130 previtali, Giotto cit., pp. 144 sg. (ivi anche il testo della canzone). 131 f. antal, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, 2a ed. Torino 1960, pp. 231 sg. 132 previtali, Giotto cit., specialmente p. 73. 133 m.-d. chenu, La Théologie au douzième siècle, 2a ed. Paris 1966, p. 241. 134 l. k. little, Pride goes before Avarice: Social Change and the Vices in Latin Christendom, in «American Historical Review», lxxvi, 1971, pp. 16-49; per l’iconografia, le osservazioni di c. settis frugoni, Historia Alexandri elevati per griphos ad aerem. Origine, iconografia e fortuna di un tema, Roma 1973, pp. 332 sgg.; e ancora l. k. little, Religious Poverty and the Profit Economy in Medieval Europe, London 1978. 135 s. pfeiffenberger, The Iconology of Giotto’s Virtues and Vices at Padua, tesi di laurea, Bryn Mawr (Pa.), 1966, specialmente cap. v, pp. 45 sgg. 136 In f. sacchetti, Opere, vol. II, Bari 1938, pp. 99 sgg. Cfr. kaftal, Iconography of the Saints in Tuscan Painting cit., pp. xxx sg. 137 Cfr. n. del re e c. moccheggiani carpano, s. v. Urbano V, in Bibliotheca Sanctorum, XII, Roma 1969, cc. 844-47. Esistono alcune rappresentazioni di Urbano V come beato, del secolo xiv e del seguente: cfr. anche kaftal, Iconography cit., cc. 993 sg.; id., Iconography of the Saints in Central and South Italian Schools Painting, Firenze 1965, c. 1108; id., Iconography of the Saints in the Painting of North East Italy, Firenze 1978, cc. 1005-1009. 138 Firenze 1860, p. 131. 139 e. h. gombrich, Arte e illusione, 2a ed. Torino 1965, p. 106. 140 j. t. wollesen, Die Fresken von San Piero a Grado bei Pisa, Bad Oeynhausen 1977, specialmente pp. 60 sgg. 141 r. w. scheller, A Survey of Medieval Model Books, Haarlem 1963. 142 j. schlosser, Zur Kenntnis der künstlerischen Überlieferung des späten Mittelalters, in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen in Wien», xxiii, 1903, pp. 279-338. 125
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Salvatore Settis Iconografia dell’arte italiana 1110-1500: una linea c. cipolla, La pergamena rappresentante le antiche pitture della basilica di Sant’Eusebio in Vercelli, in «Miscellanea di storia italiana della Deputazione di Storia Patria per la Lombardia», serie III, vi, Torino 1899. 144 panofsky, Rinascimento e rinascenze cit., p. 165; cfr. anche p. 187 (per il rapporto, successivo, con i Limbourg). 145 scheller, A Survey cit., pp. 14 sg. 146 u. jenni, Das Skizzenbuch der internationalen Gotik in den Uffizien. Der Übergang vom Musterbuch zum Skizzenbuch, Wien 1976, specialmente pp. 28 sgg. e 41 sg. 147 g. vasari, Le Vite, vol. II: Vita di Nicola Pisano, a cura di P. Barocchi Firenze 1967, p. 60. 148 b. degenhart e a. schmitt, Gentile da Fabriano in Rom und die Anfänge des Antikenstudiums, in «Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst», iii, 1960, pp. 59-151. 149 Le Vite cit., III, Firenze 1971, p. 151. Per il sarcofago, a. minto, in «Rivista d’arte», xxvi 1950, pp. 1 sgg. 150 La citazione fonde passi delle due lettere, senza naturalmente alterarne il senso. Le lettere sono state pubblicate da c. von fabriczy, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xxvii, 1906, pp. 74 sgg. Probabilmente, i sarcofagi rimasero dov’erano; solo di quello bacchico è stata tentata un’identificazione (cfr. f. matz, Die Dionysischen Sarkophage, II, Berlin 1968, n. 90). 151 Cfr. p. hetherington, The «Painter’s Manual» of Dionysius of Fourna, London 1974. 152 jenni, Das Skizzenbuch cit., fig. 113. 153 m. baxandall, Painting and Experience in Fifteenth Century Italy, Oxford 1972, pp. 49 sgg. 154 e. borsook, Gli affreschi di Montesiepi, Firenze 1969, specialmente pp. 27-32; m. meiss, Frescoes from Florence, London 1969, pp. 60-65. Per l’iconografia dell’Annunciazione, da ultima d. denny, The Annunciation from the Right from Early Christian Times to the Sixteenth Century, New York - London 1977, con bibliografia precedente. 155 m. e. gössmann, Die Verkündigung an Maria im dogmatischen Verständnis des Mittelalters, München 1957: qui per i testi sulla paura di Maria all’annunzio, specialmente Origene (p. 13), Nicola di Lyra (secolo xiv, p. 241), le Meditationes Vitae Christi (p. 223); cfr. ancora pp. 243 e 253. 156 i. ragusa e r. b. green, Meditations on the Life of Christ. An illustrated Manuscript of the Fourteenth Century, Princeton 1961, pp. 17 sg. 157 Das Buch von der Malerei [Trattato della pittura], a cura di H. Ludwig, Wien 1882, I, pp. 112 sg, par. 58. Cfr. c. pedretti, Leonardo da Vinci on Painting. A Lost Book (Libro A), Berkeley - Los Angeles 1964, p. 115. 158 Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, Milano 1958, p. 120 e tavola a colori. 143
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Salvatore Settis Iconografia dell’arte italiana 1110-1500: una linea Ed. P. Barocchi, II, p. 98. Il testo della 2a edizione è solo leggermente diverso. 160 u. procacci, in Omaggio a Giotto, Firenze 1967, pp. 12-14. Non è certo che l’affresco sia davvero di Giotto; ma non per questo cambia la valutazione che si può dare del testo vasariano. 161 Trattato cit., I, p. 34, par. 20. 162 w. körte, Deutsche Vesperbild in Italien, in «Kunstgeschichtliches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana», i, 1937, pp. 1-138. 163 l. réau, Iconographie de l’art chrétien, II, 2, Paris 1957, p. 548. Per le iconografie della Resurrezione, cfr. specialmente l’ampio studio di h. schrade, Die Auferstehung Christi, Berlin 1932. 164 s. ferri, Il discorso di Fidia in Dione Crisostomo, in Opuscula, Firenze 1962, pp. 165-91, specialmente p. 169. 165 Motives, in Studies in Western Art. Acts of the XX International Congress of the History of Art, IV, Princeton 1963, pp. 189-205. 166 r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti, II, 2a ed. Princeton (N.J.) 1970, p. 372, doc. 52 167 Historia Francorum II 17. 168 Trattato cit., I, pp. 210 sg, par. 173. 159
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